sabato 4 luglio 2009

Michela Nacci: La socialdemocrazia in Europa

da l'Occidentale, 14 Giugno 2009
La socialdemocrazia in Europa
di Michela Nacci
Scriveva Giuseppe Berta prima di questa tornata elettorale: "In Europa, la
sinistra - o il centrosinistra, se si preferisce - è al suo minimo storico.
Priva di appeal come non è quasi mai stata. Dove è rimasta a lungo al
governo, come nel Regno Unito, sembra sul punto di passare da una
prospettiva di secca sconfitta a un'altra di débacle vera e propria." I
risultati di una settimana fa sembrano confermare in pieno le sue
considerazioni. In questo libretto che raccoglie una serie di articoli
scritti per la rivista "il Mulino", Berta descrive in modo impietoso la
crisi nella quale si trova la sinistra in tutta Europa, collega questa crisi
alla "eclisse della socialdemocrazia" alla quale il suo pamphlet si
intitola, identifica nell'America di Obama una speranza e un modello da
seguire.
E' molto efficace la descrizione che questo storico dell'epoca contemporanea
da sempre molto attento all'economia compie della traiettoria seguita dalla
sinistra nel Vecchio Mondo: un passaggio dal "capitalismo laburista" di cui
parlava Joseph Schumpeter nel secondo dopoguerra alla "socialdemocrazia
capitalista" di oggi. Che cosa indicano queste espressioni? Schumpeter
indicava con "capitalismo laburista", deprecandola, la scomparsa dal
capitalismo del laissez-faire, dell'individualismo, dell'imprenditorialità
aggressiva e perfino selvaggia che lo aveva caratterizzato agli inizi: il
capitalismo si era arreso alle esigenze del pubblico, della regolazione
statale, ed era divenuto "una grande macchina burocratica e spersonalizzata"
. Una situazione che Berta descrive così: "Il nuovo assetto capitalistico,
che s'era configurato dopo la seconda guerra mondiale, era perciò un ibrido:
sulle fondamenta della più potente ed efficiente organizzazione economica
che la società avesse mai messo a punto era cresciuta una superfetazione
istituzionale che pretendeva di asservire la fabbrica della ricchezza a fini
di equilibrio sociale che in fondo le erano avversi." Nel giudizio di
Schumpeter, il socialismo non mirava a distruggere il capitalismo, ma a
smussarne gli angoli e così a snaturarlo, "a sterilizzare ciò che restava
dei suoi impulsi antiegualitari e magari anche antidemocratici": si
realizzava in questo modo, soprattutto nell'Inghilterra laburista, l'unione
del capitalismo come sistema di produzione con il livellamento dei redditi e
quindi con la diminuzione delle differenze di classe, con una maggiore
uguaglianza nella società.
Oggi invece - sostiene ancora Berta - abbiamo da una parte un capitalismo
che non assomiglia affatto a quello descritto da Schumpeter, un capitalismo
che non è per niente livellatore delle differenze, e dall'altra un
"laburismo impregnato di umori capitalistici, tanto da avere, esso sì,
smarrito l'etica sociale che l'aveva distinto un tempo", ovvero una
"socialdemocrazia capitalistica": "nell'epoca della globalizzazione, la
socialdemocrazia al governo ha scoperto di dover aderire quasi plasticamente
ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di
trasformarli." In effetti, nella Gran Bretagna dei governi laburisti degli
ultimi anni, "la questione consiste nell'adattare la società al sistema
economico, giudicato immodificabile". Se dalla Gran Bretagna, che Berta
sceglie come osservatorio privilegiato su quel che accade a sinistra, si
passa all'Italia o ad altri paesi europei, la situazione si ripete con poche
varianti.
Ciò che è scomparso all'interno della sinistra secondo Berta è il modello
socialdemocratico: lamenta che oggi il capitalismo venga accettato così com'
è senza neppure il tentativo di modificarne gli aspetti più palesemente
sperequativi e generatori di differenze, così come viene accettata
completamente la globalizzazione con tutti i suoi disastri. Semplicemente,
nota l'autore, ci si arrovella sul modo in cui è possibile restare a galla,
essere sempre più produttivi e di successo in un'economia la cui
configurazione presente è considerata lo sfondo naturale, ovvio, dato una
volta per sempre, dell'azione politica da svolgere. In Gran Bretagna il New
Labour ha messo in soffitta "il collettivismo e il comunitarismo d'antan
delle Unions", si rivolge al singolo elettore considerato un atomo isolato
dal resto della società, promette garanzie sociali che però non si collegano
più in alcun modo al socialismo, si batte per l'accesso all'istruzione (vera
frontiera sulla quale avvengono le lotte e le rivendicazioni della sinistra
di oggi), chiede maggiore sicurezza, difesa dalla criminalità, stabilità
sociale, in modo non molto diverso dalle forze politiche che si collocano in
un'area di centrodestra. Nel frattempo "il messaggio politico è divenuto
(...) compiutamente individualistico, al punto che organizzazioni collettive
come i sindacati lasciano il compito della formazione (nella quale sembra
tradursi oggi l'ideale dell'emancipazione) al governo." Dal lessico del New
Labour britannico è scomparso ogni riferimento al socialismo: anche gli
scarsi richiami della SPD tedesca a quella ideologia risultano solo verbali.
Allo stesso modo, un governo socialista come quello spagnolo di Zapatero si
differenzia da quello precedente di Aznar non per la politica economica o
sociale, ma esclusivamente per il richiamo ai diritti civili e a una diversa
politica estera. Anche nel centro-sinistra italiano, del resto, ogni
riferimento al socialismo è scomparso ormai da tempo.
La descrizione di Berta è crudele e al tempo stesso efficace: mostra bene il
passaggio avvenuto nella sinistra riformista da ideali di cambiamento della
società all'accettazione dello status quo, dal piano della trasformazione al
piano della conservazione di quel che esiste, dalla lotta al capitalismo
alla difesa di esso in tutto e per tutto, salvo qualche miglioria che ne
attenui gli effetti peggiori. Se la descrizione è acuta, non altrettanto
convincente risulta la ricerca delle cause di questo passaggio; la proposta
di una ripresa del modello socialdemocratico da parte della sinistra solleva
poi alcuni dubbi.
Quali sono infatti le cause di questa situazione della sinistra? Berta parla
di eclisse: della perdita da parte della sinistra di una ideologia, un
modello di società, una prospettiva di mutamento dell'economia sulla quale
si basa la società europea. Nelle sue pagine si trova la sensazione che la
sinistra moderata europea si sia arresa all'esistente, abbia riconosciuto l'
impossibilità di fuoriuscire dal capitalismo, e che in questa resa abbia
lasciato cadere anche obiettivi limitati (e intermedi rispetto al
socialismo) quali la democrazia o la diminuzione delle disuguaglianze
sociali. Il modello socialdemocratico del quale si parla in queste pagine si
era tradotto concretamente in Welfare state, e questo a sua volta ha subito
i contraccolpi delle politiche di deregulation degli ultimi anni, insieme
agli effetti della crisi economica. A leggere Berta, non si comprende se
questo atteggiamento della sinistra dipende da una caduta delle sue
convinzioni ideali sull'obiettivo finale da raggiungere (il socialismo), da
una strategia di occultamento dell'obiettivo finale per raccogliere consensi
anche presso quell'elettorato al quale la parola socialismo fa paura, ovvero
da un ripensamento sugli eventi capitali occorsi nella storia a noi più
prossima. Vivere in un'età che è stata definita già molti anni or sono
postideologica non può essere indifferente, soprattutto a sinistra. Ma un
peso lo ha esercitato probabilmente anche la globalizzazione: assistere in
un torno velocissimo di tempo al diffondersi su scala mondiale del
capitalismo deve aver colpito anche coloro che della globalizzazione
criticano modalità di realizzazione ed effetti negativi. E infine, l'idea
che l'unico modo di produzione possibile sia il capitalismo non dipenderà
anche dalla scomparsa dell'URSS, dove si era incarnato non l'unico
socialismo possibile, ma certo l'unico realizzato su vasta scala in seguito
a una rivoluzione?
Vi è nelle riflessioni di Berta un punto che resta oscuro: non è chiaro
perché egli consideri il social liberalism, insieme alla "democrazia
sociale" che ne discende, una eredità del passato, "dell'età in cui il
laburismo era ancora una costola del liberalismo". Non era proprio in quel
social liberalism, in quella democrazia sociale, che si traduceva l'ideale
politico a cui l'autore fa riferimento e che consiste nell'unire il
mantenimento del sistema produttivo occidentale e della libertà politica con
obiettivi di giustizia sociale, eguaglianza, livellamento dei redditi? Berta
rimprovera ai nuovi socialisti del XXI secolo di aver rinunciato alle parole
d'ordine e agli ideali del socialismo, ma allo stesso modo si potrebbe
rimproverare a lui di non riconoscere al progetto che propone alla sinistra
riformista i progenitori che gli spettano: quell'ibrido fra liberalismo e
socialismo che nasce tra Ottocento e Novecento e che assume varie
denominazioni nel corso della storia (socialismo liberale,
liberalsocialismo, social liberalism). Esso gli pare vecchio e defunto,
ottocentesco, così legato al liberalismo da apparire come una sua variante,
tutt'altra cosa rispetto alla socialdemocrazia. Invece, la traduzione
politica di quel modello economico che possiamo indicare come
socialdemocrazia o Welfare state è precisamente quell'ibrido ideologico
propugnato da John Stuart Mill nella seconda fase della sua riflessione, e
poi sostenuto da autori che vanno da Hobhouse a Renouvier, da Carlo Rosselli
a Bertrand Russell, da Thomas Green a John Dewey.
La proposta di Berta è del tutto assimilabile con altre analoghe che hanno
avuto corso nei secoli XIX e XX e che hanno mirato a proporre e riproporre
il socialismo liberale (o liberalsocialismo) sotto varie denominazioni e
varie forme. Il socialismo liberale si rifà proprio al laburismo del quale
il nostro autore lamenta la scomparsa, e vede nell'unionismo, ovvero nel
sindacalismo britannico, un modello da seguire nell'azione politica.
Riprende dalla tradizione inglese il gradualismo, l'antimarxismo, una via
riformista e non rivoluzionaria al mutamento sociale, l'idea che il
capitalismo vada conservato eliminandone però gli effetti più macroscopici
di disuguaglianza, il principio di una più equa distribuzione della
ricchezza, la centralità del lavoro, l'idea che le forti disuguaglianze in
una società siano negative per la tenuta di quella società perché portatrici
di sofferenze e quindi di spinte distruttive. Esprime insomma quella sintesi
fra liberalismo e socialismo che traduce in formula politica e ideologica il
progetto socialdemocratico riproposto da Berta.
Ciò di cui l'autore lamenta la scomparsa, infatti, è "un ibrido
disinteressato a distinguere fra liberalismo e socialismo, per dirla ancora
con le categorie del secolo scorso". Il Novecento avrebbe distinto tra
liberalismo e socialismo, mentre oggi è necessario che una sinistra
riformista non faccia differenze tra l'uno e l'altro. Berta afferma: "Il
futuro, se un futuro vi è per un centrosinistra che possegga autentico
spirito europeo, spinge ad abbattere le surrettizie distinzioni ideologiche
del passato, che non tengono conto delle urgenze del presente." Dimentica
però che è proprio il passato ad aver intrapreso la strada che egli indica
al futuro, ed esattamente quando ha espresso ideologie politiche che vanno
sotto il nome di socialismo liberale, di liberalsocialismo, di liberalismo
sociale: il tentativo di correggere il capitalismo (che veniva accettato) in
direzione di una maggiore equità sociale, l'unione della libertà liberale
con una attenzione per la giustizia sociale, la salvaguardia della libertà
in economia (contro la nazionalizzazione propugnata da una parte del
socialismo) insieme al desiderio di far scomparire (o almeno diminuire) le
disuguaglianze presenti all'interno della società, è infatti ciò che
caratterizza quelle correnti.
Infine, veniamo alla crisi economica attuale e all'effetto Obama. Berta
invita a vedere nella crisi economica che oggi ci tocca l'occasione per
invertire la rotta rispetto allo Stato minimo, alla centralità del mercato,
all'individualismo. In questo modo, ridiventerebbe attuale la ricetta
fornita da Keynes nella crisi del '29. Ma non è affatto certo che dalla
crisi si esca con un maggior peso dello Stato nell'economia, né è detto che
un maggior peso dello Stato nell'economia (qualora si verifichi) coincida
con una ripresa della socialdemocrazia. Quanto agli Stati Uniti, è difficile
prevedere fin da ora, nel gioco delle vicinanze e lontananze che hanno
sempre contraddistinto i rapporti fra Vecchio e Nuovo Mondo, quale potrà
essere l'effetto sull'Europa e su un centrosinistra alla ricerca di una
leadership e una linea politica coerente di un'amministrazione come quella
certamente molto dinamica e innovativa di Obama.
G. BERTA, Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 135,
euro 10.

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