da La Stampa
17/7/2009
Una nuova questione meridionale
GIUSEPPE BERTA
Fra le immagini stereotipate della società italiana a cui dobbiamo rinunciare vi è quella di un Sud con meno risorse delle altre aree del Paese, ma dotato di una popolazione più giovane e numerosa.
I dati dell’ultimo rapporto elaborato dalla Svimez - un’autentica istituzione della cultura meridionalistica, presieduta da Nino Novacco - ci dicono che non è più questa la realtà demografica del Mezzogiorno d’Italia. Oggi nel nostro Sud vivono 20,8 milioni di abitanti che, se non avverrà un’inversione di tendenza, saranno calati a 19,3 milioni tra vent’anni. Saranno allora le classi d’età più anziane a prevalere: andando avanti di questo passo, una persona su tre avrà più di 65 anni; una su dieci supererà gli 80.
Il Sud, ancora più dell’Italia, non è una terra per i giovani. Questi se ne stanno andando, infatti, in numero elevato. Sono circa 300 mila le persone che ogni anno abbandonano il territorio meridionale «per cercare di realizzare le loro aspettative professionali nel resto del Paese», come scrive il Rapporto Svimez. Per circa 120 mila di essi non si tratta della ricerca di un’opportunità momentanea, ma di una scelta definitiva. Sono giovani che non faranno mai più ritorno ai luoghi in cui sono nati; li contraddistingue un’alta scolarizzazione e un desiderio di miglioramento della loro condizione che li spinge al Nord.
Dunque, il nostro Paese non conosce soltanto i flussi migratori di cui riferiscono quotidianamente le cronache, con i risvolti dei problemi di sicurezza che tengono banco nel dibattito politico. È ripreso anche il movimento della popolazione che più di ogni altro ha segnato la storia del secolo scorso, quello che sposta le persone lungo l’asse Sud-Nord. Soltanto che è molto diverso da quello di cui conserviamo ancora una solida memoria collettiva. Le migrazioni odierne non hanno proprio nulla di simile a quelle codificate nell’immagine pubblica, quando - nei decenni Cinquanta e Sessanta - molti lavoratori meridionali affluivano alle città settentrionali e alle loro fabbriche. Ciò che avviene oggi coinvolge i giovani più istruiti del Sud, quelli che vogliono per se stessi gli studi migliori, che hanno voglia di misurarsi con la realtà più avanzata con cui possono entrare in contatto.
Se è lecito accostare l’osservazione personale alle cifre, devo dire che i numeri della Svimez non stupiscono chi, come me, li ha letti al termine di una giornata d’esami trascorsa in un’università milanese, la Bocconi, che è una delle mete preferite dai ragazzi meridionali. Sono tanti quelli che giungono - proprio come annota la Svimez - dalla Puglia, dalla Campania, dalla Sicilia, attratti dalla capacità di richiamo di una grande area metropolitana e dalle sue istituzioni formative. Sono studenti mossi quasi sempre dalla volontà di utilizzare gli strumenti d’analisi di cui si impadroniscono per comprendere il territorio dal quale provengono. Propongono, spesso in modo appassionato, tesi e lavori di approfondimento sui luoghi in cui sono nati, animati da un interesse molto forte e vivace per i problemi locali. Ma sanno bene che non applicheranno i risultati dei loro studi alle loro terre. Esse non concedono loro spazio per affermarsi, per far valere le loro conoscenze, per promuovere il loro talento. Del resto, come potrebbero rassegnarsi a tornare in posti che lasciano loro ben poche speranze? Nel Sud il Pil pro capite è pari al 59% di quello del Centro-Nord: circa 18 mila euro contro oltre 30 mila. Meglio allora, molto meglio, scommettere su se stessi e tentare altrove la propria sorte.
Nulla più di questa perdita del «capitale umano», rappresentato dall’intelligenza e dalle competenze di migliaia e migliaia di giovani, testimonia del declino del Mezzogiorno, che assiste all’allontanamento progressivo delle sue energie più vitali. La crisi del Sud si riflette, ancor prima che nel peggioramento degli indicatori economici, nel venir meno di una visione dello sviluppo. Sulle prospettive di crescita della società meridionale è calata da anni una cortina di silenzio.
Ciò dipende anche dal fatto che la «questione settentrionale» ha soppiantato da tempo, nell’agenda politica italiana, la «questione meridionale», una volta uno dei cardini del discorso politico del nostro Paese. C’è da chiedersi, tuttavia, quanto a lungo potrà reggere un rapporto così squilibrato con una parte d’Italia che sta scontando la consunzione e lo spreco delle sue fondamentali risorse sociali.
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