venerdì 28 febbraio 2014

Per una moderna politica industriale | Keynes blog

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Cosa rimane delle politiche keynesiane nel mondo globalizzato? | Keynes blog

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Renzi sul lavoro non cambia verso? | Keynes blog

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Il nero futuro dell’Italia senza industria | Keynes blog

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La coerenza di Padoan: da Marx a Renzi, ma sempre contro Keynes | Keynes blog

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spazio lib-lab » Al via, col placet di Berlusconi, il governo Renzi.

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mercoledì 26 febbraio 2014

L’economia politica del Renzismo / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

L’economia politica del Renzismo / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

Dove va il capitalismo?

Dove va il capitalismo?

The labour movement should drop any illusions it has about Venezuelan socialism | Left Foot Forward

The labour movement should drop any illusions it has about Venezuelan socialism | Left Foot Forward

E se ricominciassimo a parlare di lotta alle diseguaglianze e di equa distribuzione delle ricchezze? | EsseBlog

E se ricominciassimo a parlare di lotta alle diseguaglianze e di equa distribuzione delle ricchezze? | EsseBlog

Emiliano Brancaccio » Una nota sul mio ex-professore: Pier Carlo Padoan

Emiliano Brancaccio » Una nota sul mio ex-professore: Pier Carlo Padoan

RENZI SI RICORDI DI COSIMO DE MEDICI | Franco D'Alfonso | ArcipelagoMilano

RENZI SI RICORDI DI COSIMO DE MEDICI | Franco D'Alfonso | ArcipelagoMilano

lunedì 24 febbraio 2014

The Economics Of Social Democracy - Social Europe Journal

The Economics Of Social Democracy - Social Europe Journal

Renewal | Katrine Kielos | Sweden is better than this

Renewal | Katrine Kielos | Sweden is better than this

Ucraina, Prodi sul New York Times due giorni fa: trattare con Putin, evitare che l’estrema destra di Svoboda prenda il sopravvento ← Brogi.info ← Pagina 2014

Ucraina, Prodi sul New York Times due giorni fa: trattare con Putin, evitare che l’estrema destra di Svoboda prenda il sopravvento ← Brogi.info ← Pagina 2014

Elio Veltri: Manuale Cencelli a 360°

Manuale Cencelli a 360 gradi Che dire del governo Renzi? Età media molto bassa, capo del governo e ministre con la battuta pronta, il sorriso accattivante in una mano e il veleno per i competitori nell'altra come ha sperimentato Enrico Letta e , anche Civati, al quale hanno scippato la sindaca Maria Carmela Lanzetta, diventata ministro a sua insaputa. Diciamoci la verità: i metodi che ha usato Renzi per arrivare a palazzo Chigi ricordano tanto quelli delle signorie rinascimentali nelle quali la menzogna e l'omicidio dei familiari era all'ordine del giorno. L'uso del manuale Cencelli a 360 gradi tra i partiti, all'interno del PD e fra le correnti e persino fra le associazioni imprenditoriali come le cooperative rosse e la confindustria, uno a me( Poletti) e una a te( Guidi), fa impallidire le spartizioni della prima repubblica. Il risultato è davvero un governo modesto. Inadeguato alla gravità della situazione. Si potrebbe parlare di un governicchio ma non lo facciamo per non scoraggiare i giovani ministri che hanno tanto bisogno di incoraggiamento e di imparare. Parafrasando la battuta fulminante di Giancarlo Paietta sul compagno Berlinguer il quale “si è iscritto alla direzione del partito”, possiamo dire con altrettanta ironia, fatte le dovute distinzioni tra un gigante e gli altri, che alcuni ministri si sono iscritti direttamente alla segreteria del PD e al governo. Eppure in televisione imperversano e risultano anche simpatici. D'altronde, ci sarà pure una ragione se Alessandro Baricco, Oscar Farinetti, Andrea Guerra, frequentatori della Leopolda, all'offerta di ministeri importanti hanno risposto:” no grazie”e se altrettanto hanno fatto Guido Tabellini, Lucrezia Reichlin, Luca di Montezemolo, Romano Prodi, Fabrizio Barca, e lo stesso Enrico Letta. Il giudizio generale degli organi di informazione è molto critico e improntato a riserva: aspettiamo e speriamo bene! In poche righe il più impietoso l'ha scritto il direttore di Sole 24 Ore con un titolo che si commenta da solo:” Da De Gasperi a Beautiful, la speranza di essere clamorosamente smentiti”. Anche noi coltiviamo la stessa speranza nell'interesse del paese. A chi spera che Renzi salvi qualche briciola di socialismo del PD aderendo al PSE diciamo che anche quello è un gioco di prestigio. Renzi non ha nemmeno tentato di farsi dare i voti da Vendola e dai dissidenti di Grillo. Il tandem con Alfano e Berlusconi funziona a meraviglia. Perchè dovrebbe complicarsi la vita? Tanto il paese è pieno di grulli che abboccano, anche se va a rotoli. Elio Veltri __________________________________

domenica 23 febbraio 2014

Socialisti europei: la 'buona società' di liberi e uguali | La Prima Pietra

Socialisti europei: la 'buona società' di liberi e uguali | La Prima Pietra

Patrizia Turchi: L'abolizione delle elezioni

L\'ABOLIZIONE DELLE ELEZIONI di Patrizia Turchi Con gli ultimi provvedimenti in materia di enti amministrativi (scomparsa delle Circoscrizioni cittadine e delle Province), ma soprattutto con le vicende di governo, pare si vada senza remore verso l\'idea che le elezioni siano inutili e che producano step superflui all\'azione esecutiva. Già le elezioni comunali, con le modifiche imposte dalla legge 81, hanno prodotto una sostanziale imbavagliamento delle assemblee elettive che, senza contare il ridotto ruolo assegnato al Consiglio comunale, sono superate dalla figura del sindaco -scelto direttamente dalla cittadinanza, con un sopravanzamento inusitato della personalizzazione della politica a discapito del ruolo ormai asfittico dei partiti- a cui fanno riferimento gli assessori (licenziabili al pari di uno staff di una qualunque azienda), che non appartenendo più al Consiglio (almeno per i Comuni di una certa consistenza) perdono il collegamento con la compagine politica che forma la maggioranza di governo. A livello nazionale siamo stati vittime di una legge elettorale incostituzionale che ha prodotto non solo sconquassi ma anche una distorta percezione della realtà . Tale da far dire -senza essere smentito- a Berlusconi d\'essere l\'ultimo Presidente del Consiglio eletto dal popolo. Oggi assistiamo ad un capovolgimento assoluto del concetto di parlamentarismo, e persino dell\'idea che le elezioni servano a produrre rappresentanza, e conseguentemente ipotesi e proposte di governo. La vicenda del PD, uno degli attori più importanti nella trasformazione della politica in spettacolo, si era avviata già malamente con l\'investitura inefficace di Bersani come possibile capo della coalizione. Ma si è inserita, indisturbata, in un contesto del tutto anomalo ma reso apparentemente normale, fluido, logico. Va ricordato che Berlusconi ed il suo governo, mai sfiduciato dal Parlamento, fu sostituito -per iniziativa del presidente Napolitano- da un senatore nominato poche ore prima: Monti. Il quale, mai sfiduciato, lasciò -dopo un governo di centro-destra/centro-sinistra, il campo alle elezioni del 2013. Elezioni che per effetto paradossale della legge elettorale di Calderoli (il famigerato Porcellum) e l\'avvento del M5S, non seppero produrre scelte univoche nel campo ormai tripolare, e il Capo dello Stato tenne così a battesimo il suo secondo governo presidenziale: quello di Letta, anche questo di â?olarghe inteseâ?, dopo la inverificata inefficacia di Bersani. Dopo neppure un anno, assistiamo ad un cambio di governo, del tutto incompreso dalla stragrande maggioranza del Paese. Questo per effetto di una consultazione tutta interna ad un partito, il PD, che chiamò nel dicembre 2013 alle â?opseudo-urneâ? delle Primarie 2.800.000 persone (Renzi raccolse 2 milioni di voti) e a cui del tutto follemente poterono partecipare alla scelta del segretario anche persone non iscritte. Primarie che furono spettacolarizzate in modo estremo, grazie ad un investimento massmediatico di proporzioni abnormi. Una consultazione che -ripetiamo- riguardava un solo partito dove ovviamente la scelta poteva cadere solo su un esponente di quel partito, che ha avuto come effetto di sostituirsi del tutto completamente alle elezioni vere: il votato segretario Renzi diviene -del tutto naturalmente- il Presidente del Consiglio. Un governo rinovellato non nella sua composizione politica (è identico a quello dell\'ultima fase del governo Letta, e questo è ancora più evidente dalla concreta conferma dei nomi dei principali ministri non PD) ma nella guida, con un Renzi che lancia un programma che ha evidenti tratti di maniacalità , che si attornia di â?ofedelissimiâ? (â?ole amazzoni di Matteoâ?, titola un quotidiano nazionale presentando alcune ministre, facendo così tabula rasa dell\'eventuale idea di modernità concettuale derivante dalla presenza femminile nell\'esecutivo), che più o meno esplicitamente ci fa sapere che il Parlamento è una perdita di tempo. Dunque: possiamo affermare -senza timore di smentita- che le primarie di un solo partito, cioè del PD (che hanno coinvolto il 5% dell\'elettorato italiano) hanno del tutto sostituito -senza contraltare- la valenza delle elezioni politiche. A prescindere persino dalla legge elettorale (questione che si rende ancora più compiutamente evidente dalla parte del NCD, che è frutto di una scissione dal PDL e che ad oggi non ha mai superato alcuna prova elettorale e dunque non può contare su nessun voto tangibile) che viene sostituita dalle regole per le Primarie. Siamo di fronte ad un esercizio del diritto di voto assolutamente inedito, una sorta di suffragio anomalo, con un peso politico inusitato, esercitato da e all\'interno di una sola compagine politica. Non è rassomigliabile neppure ad una consultazione popolare di tipo referendario, che almeno prevede la possibilità di un controcanto. Il distacco della politica dall\'elettorato reale, che si evidenzia anche dall\'elevatissimo astensionismo, confermato dalle recenti elezioni sarde, si autoalimenta senza sosta. Persino il godibilissimo show di Grillo e della sua delegazione durante la consultazione con l\'incaricato Renzi, blinda la politica al di là della vetrina dello spettacolo/evento. Una vetrina che pur esponendo merce per lo più sentita come degenerata almeno nella percezione popolare, non consente -di fatto- la partecipazione. Gli anti Renzi, infatti, avranno certamente colto nel monologo di Grillo elementi di identificazione, ma questi non sono funzionali al concetto di rappresentanza e condivisione collettiva ma viene relegata ad una mera sollecitazione d\'opinione. E\' in atto, ormai da tempo, una profonda trasformazione del concetto di politica, almeno per come l\'abbiamo conosciuto dal dopoguerra ad oggi, senza che apparentemente nessuno sollevi obiezioni o almeno produca analisi degne di questo nome. Se da parte di qualche sparuto commentatore giornalistico comincia a farsi strada l\'idea che siamo di fronte â?oall\'uomo solo al comandoâ? e di â?oregimeâ? senza però azzardare scenari che possano risvegliare un residuo senso di democrazia, dall\'altra sembra non esservi in nessun modo risposta adeguata in termini politici. Forse dobbiamo sperare (categoria concettuale astrusa e incoerente con l\'ambito politico vero ma più attinente alla \"fede\"), aspettando passivamente che si chiuda la fase, e che i â?ocicli e ricicli storiciâ? vengano in soccorso? Magari scoprendo a posteriori, come fu dopo il ventennio fascista, i tanti sedicenti democratici silenti.

Renzi: "Innovazione e uguaglianza, la mia idea di destra e sinistra nell'Europa della crisi" - Repubblica.it

Renzi: "Innovazione e uguaglianza, la mia idea di destra e sinistra nell'Europa della crisi" - Repubblica.it

sabato 22 febbraio 2014

spazio lib-lab » Una strana crisi.

spazio lib-lab » Una strana crisi.

Franco Astengo: Novant'anni dalle elezioni del 1924

NOVANT’ANNI DALLE ELEZIONI DEL 1924: DALLA CRITICA AL PROPORZIONALE, ALLA LEGGE ACERBO, ALLA LEGALIZZAZIONE DEL FASCISMO AL POTERE di Franco Astengo Novant’anni fa, nel 1924, le elezioni legislative svoltesi sulla base della cosiddetta “Legge Acerbo” (proporzionale con premio di maggioranza) portarono alla legalizzazione del fascismo al potere, legittimando la Marcia su Roma svoltasi due anni prima. In questa occasione non si ricostruirà la vicenda dell’ascesa del fascismo al potere in Italia, la storia delle sopraffazioni, degli incendi alle sedi politiche e sindacali, dell’assoldamento delle squadracce da parte degli agrari e degli industriali, la debolezza colpevole della monarchia, gli errori delle sinistre. Ci si limiterà ad analizzare il percorso istituzionale attraverso il quale, appunto, il fascismo ha sempre potuto affermare di essere stato consolidato al potere da un risultato elettorale: quanto libero e democratico sappiamo tutti com’è andata in effetti. Adesso però è il caso di vedere come si sviluppò, in quell’epoca, il dibattito politico – istituzionale. Le elezioni legislative del 1919 e del 1921 si erano svolte con un sistema proporzionale che aveva dato luogo a una rappresentanza parlamentare di tipo multipartitico. Subito dopo le elezioni del 1919 si ritornò a parlare di modica della legge elettorale, anche se le prime proposte di variazione riguardarono soltanto elementi di natura tecnica. Il primo intervento di rilievo fu, da un certo punto di vista paradossalmente, formulato dai socialisti, attraverso un articolo di Giacomo Matteotti, apparso sulla “Critica Sociale” nel 1920, nel quale riteneva il ”proporzionale integrale” inadatto per determinare i livelli di rappresentanza negli Enti Locali. La motivazione addotta andava contro la logica con cui i riformisti si erano battuti per l'introduzione del sistema proporzionale per le elezioni politiche. Matteotti, infatti, sollevò il problema per quei casi in cui nel Comune o nella Provincia, vi fossero più partiti dalla forza equivalente e non in grado di formare un’alleanza di governo: appariva così necessario introdurre un meccanismo di sovrappresentazione della maggioranza relativa. Il risultato poteva essere ottenuto, sempre secondo Matteotti, attraverso l'attribuzione alla maggioranza dei 2/3 dei seggi, al di fuori da qualsiasi tipo di calcolo di tipo proporzionale. I socialisti apparvero così muoversi sul delicato terreno del sistema elettorale, secondo una pericolosa logica di “compartimenti stagni”. Ancora una volta i termini del rapporto sistema politico – sistema rappresentativo, che sembrava fossero stati lucidamente delineati nel corso del dibattito parlamentare del '19, tornarono a confondersi con la presunzione (del resto perpetuatasi nel tempo) che i partiti potessero nascere forti, in presenza dell'applicazione di un sistema elettorale piuttosto che di un altro. Invece, pensare che un partito diventasse forte per l'innaturale lievitazione prodotta da un sistema elettorale e che questa lievitazione rafforzasse il sistema politico significava, invece, avallare l'insediamento di sistemi che non potevano altro che avviarsi sulla strada dell'autoritarismo. In questo quadro, il fascismo, arrivato in modo più o meno legale, al potere pose all'ordine del giorno la riforma della legge elettorale. Dopo neppure un mese dall'assunzione al Governo, nel corso della seduta del Consiglio dei Ministri dell'11 novembre 1922, Mussolini presentò un ordine del giorno sulla riforma elettorale, in cui si affermava, da un lato, l'impossibilità di un ritorno all'uninominale, dall'altro la necessità di rivedere il sistema rigidamente proporzionale in vigore, affinché fosse garantita, assieme alla rappresentanza di tutti i partiti, anche la “formazione di un governo di maggioranza parlamentare”. Il 29 Novembre, nel corso di un incontro tra Mussolini, il Presidente della Camera De Nicola e il presidente della Commissione Interni Casertano, si delineò un nuovo sistema elettorale i cui fondamentali elementi erano costituiti da un premio di maggioranza dei 2/3, da assegnarsi alla lista che avesse raggiunto il maggior numero dei voti e il resto 1/3 dei seggi, divisi proporzionalmente fra tutte le liste in competizione; e una suddivisione di carattere prevalentemente “regionale” delle circoscrizioni. Su queste basi si aprì un intenso dibattito tra le forze politiche, all'interno del quale però la vera questione da affrontare risedeva nell'individuare la finalità perseguita dal progetto di riforma elettorale. Il rafforzamento dell'esecutivo, a scapito della frammentazione parlamentare, costituì indubbiamente la cartina di tornasole per verificare la realizzazione di un coagulo tra il fascismo e l'antipartitismo liberale, vecchia maniera. Dietro a questo disegno si poteva già intravvedere lo statalismo che poi avrebbe caratterizzato il fascismo: s’intrecciavano, a questo punto, diversi problemi che andavano dall'unificazione dei fascismi, all'emarginazione delle altre forze politiche, nessuna esclusa. Il Gran Consiglio del Fascismo, all'inizio dell'Aprile 1923, fu in grado di approvare un ordine del giorno, redatto da un’apposita Commissione, attraverso il quale si motivava la necessità di passare a un sistema dicotomico che applicava il maggioritario plurinominale secco per il partito di maggioranza relativa e il proporzionale per i partiti minori, perseguendo così il fine esplicito di veder totalmente eletta tutta la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti. La redazione del progetto definitivo fu affidata da Mussolini a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che lo presentò all'inizio del Giugno 1923. Adempiuta la formalità dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il 9 giugno 1923, fu presentato alla Camera il progetto di riforma elettorale. Furono due i punti attorno ai quali si sollevò più intensamente la discussione, in quanto segnavano una rottura netta con il principio rappresentativo che aveva retto l'Italia liberale: 1) Il passaggio al maggioritario “secco” per definire la lista di maggioranza, legalizzando così il dominio di una minoranza potenzialmente isolata, senza ricorso a coalizioni con forze politiche vicine Il diverso criterio di formazione della cifra elettorale e conseguentemente di selezione della rappresentanza tra maggioranza e minoranza. Per il computo dei voti del partito di maggioranza si sarebbe fatto ricorso, infatti, al “Collegio Unico Nazionale”. Per i partiti di minoranza si sarebbero mantenuti, invece, i collegi territoriali, a impianto regionale o interprovinciale. La scelta anomala del Collegio Unico Nazionale, se aveva una giustificazione interna al Fascismo, nel volere cioè legittimare il condizionamento del Fascismo centrale sui fascismi locali nella scelta della rappresentanza, funzionò anche come calmiere nella definizione del quorum. Tuttavia l'istituzione del Collegio Unico Nazionale non aveva precedenti e questo fatto portò al profilarsi di notevoli perplessità: ma il Fascismo non poteva transigere, la centralizzazione del Partito e la sua identificazione con lo Stato rappresentavano un passaggio obbligato per accelerare il cambiamento. Per contro le minoranze sarebbero arrivate a Montecitorio polverizzate e rese incapaci da questa frammentazione di contrastare il partito dominante, attraverso una seria e costruttiva opposizione. Appariva, insomma, più che evidente che ciò che era stato posto in discussione, attraverso la legge elettorale, risultava essere in definitiva l'indiretta formalizzazione della concessione dei pieni poteri sine die al fascismo. In una Camera che sembrava presa d'assedio, il 10 luglio 1923, previo assenso del Presidente del Consiglio, prese avvio la discussione generale. Il dibattito si misurò sul punto di fondo della legge: si trattava di motivare la necessità di passare da una Monarchia Costituzionale parlamentare che aveva avuto al centro, fino a quel momento, la Camera elettiva quale organo di direzione politica del sistema, a una forma rivisitata di Monarchia Costituzionale “pura” in cui il partito di governo sarebbe uscito non solo definito dal risultato elettorale, ma precostituendo già i parametri di maggioranza e stabilendo a priori l'estensione del proprio consenso. Il problema dello sviluppo del dibattito parlamentare era quello di come supportare, da un punto di vista teorico, questo impianto in presenza di una classe politica liberale, che avrebbe dovuto far da argine ai tentativi di manipolazione autoritaria del sistema. Il 15 luglio 1923 si passò alla discussione generale e all'esame dei singoli articoli: il vero nodo gordiano da sciogliere si rivelò posto attorno, da un lato, al premio di maggioranza e dall'altro al livello di consenso da raggiungere per farlo scattare. Popolari e repubblicani presentarono emendamenti, tesi a quantificare con un certo equilibrio il rapporto tra premio di maggioranza e quorum da raggiungere: 2/5 dei voti e 3/5 dei seggi fu la proposta presentata da Gronchi e Chiesa, appoggiata anche da Amendola. La presidenza del Consiglio, per bocca di Acerbo, si dichiarò disposta a discutere il quorum, ma rifiutò qualsiasi patteggiamento sul livello del premio che doveva restare fissato ai 2/3 dei seggi. La proposta dei repubblicani fu bocciata con 178 voti contro 157. L'usurpazione fascista del potere passò, così, alla Camera con soli 21 voti di scarto (la votazione sull'intero articolato diede, poi, 235 voti a favore contro 139). Il passaggio al Senato avvenne, in una sola giornata, il 14 novembre 1923: parteciparono al voto 206 senatori, 165 a favore, 41 contrari. Alla legge Acerbo, definita da Filippo Turati “la marcia su Roma in Parlamento” si deve la costruzione della prima deputazione nazionale a maggioranza fascista. Il successo fascista, in queste circostanze, appariva scontato e le elezioni politiche del 6 aprile 1924 diedero al Governo la facile vittoria del suo listone di 356 membri comprendente due terzi di fascisti e un terzo di personalità di altra provenienza politica, ormai conquistate al regime. La ripartizione proporzionale dei seggi residui alla Camera dei Deputati tra le liste di opposizione sconfitte vide i popolari scendere a 39 seggi dei 108 del 1921, i socialisti a 46 da 123, e soltanto i comunisti salire da 15 a 19. Il perdurare dell'illegalità e delle violenze, l'abbattersi di una rigida censura sulla stampa di opposizione e indipendente, le intimidazioni e le minacce a danno degli antifascisti rivelarono abbastanza chiaramente che il Governo non si sarebbe accontentato della vittoria elettorale e che non avrebbe mai più acconsentito al mantenimento nel Paese e in Parlamento di una qualsiasi dialettica politica. Infatti l'uccisione di Giacomo Matteotti da parte degli squadristi fascisti dopo la veemente denuncia fatta in Parlamento dal deputato di Rovigo del clima d’intimidazione e di violenza che aveva caratterizzato lo svolgimento delle elezioni, l'abbandono delle Camere da parte di numerosi deputati dell'opposizione (il cosiddetto “Aventino”) nella speranza di sollevare quella “questione morale” che avrebbe dovuto decidere il Re a rompere con il Governo, restaurando un clima di normalità democratica nel Paese, l'incertezza politica che segnò profondamente quella fase, costituirono l'epilogo del dramma. A questo epilogo seguì, con il fallimento dell'Aventino, l'inerzia del Re e la decisione di Mussolini di assumersi tutta la responsabilità politica e morale dell'assassinio Matteotti sopprimendo le ultime guarentigie liberali, la caduta del sipario sul sistema instaurato nel 1848, con lo Statuto Albertino. La legge Acerbo, di là dal suo carattere eccessivamente maggioritario e, quindi, vessatorio per le minoranze nella ripartizione dei seggi di deputato, non aveva significato da sola la rottura del sistema e la fine della legalità statutaria. Infatti, il carattere rappresentativo del regime, anche se forzato dalla legge elettorale iniqua per le opposizioni, non era ancora contestato, né, peraltro, la legalità statutaria poteva dirsi infranta per l'abbandono della proporzionale, dato che la costituzione vigente non prevedeva (come adesso) un determinato sistema elettorale per la formazione della Camera dei Deputati, ma lasciava alla legge la regolamentazione e la determinazione della delicata materia. Se sul piano politico, perciò, appare piuttosto evidente come il regime parlamentare fosse già entrato in crisi al momento dell'intervento nella prima guerra mondiale, avesse chiuso i battenti con le dimissioni di Facta e la successiva formazione del Ministero Mussolini dopo la marcia su Roma, , su quello più squisitamente costituzionale il discorso diventa più sfumato non essendovi la possibilità di determinare con eguale precisione il verificarsi di un fatto che abbia segnato il trapasso in un certo momento da quel regime alla dittatura autoritaria. La tesi fascista di una continuità nell'ordinamento statuale, infranta dalla marcia su Roma instauratrice di una nuova legalità, o quella opposta, di parte antifascista, del colpo di stato ai danni del sistema costituzionale vigente compiuto, appunto, in quel momento, pur cogliendo qualche elemento della realtà politica destinata a incidere sulla struttura statuale di lì a breve, non sembrano esatte in quanto l'alterazione del sistema si compì solo successivamente. E', infatti, soltanto dopo la svolta determinata dal discorso di Mussolini del 3 Gennaio 1925 che si può intravedere l'alterazione del sistema, in senso autoritario e dittatoriale. Ma questa svolta non si realizzò solo per la fine di molte guarentigie liberali e per il persistente allontanamento dei deputati aventiniani dai lavori parlamentari. Anzi ,questi fatti potevano trovare ancora una qualche giustificazione, sia pure molto forzata, da parte degli apologeti del nuovo ordine, capaci di spiegare come il restringimento dei diritti di libertà potesse ricollegarsi alla prassi in materia seguita dai governi liberali per motivi di emergenza, quali la situazione dell'ordine pubblico o lo stato di guerra, e come l'assenza di qualche deputato dell'opposizione non impedisse il regolare svolgimento dei lavori della Camera, essendovi sempre un numero sufficiente di presenza a garanzia della loro legalità. Invece le leggi costituzionalmente rilevanti poste in essere nello stesso periodo erano destinate ad apparire nella forma e nella sostanza come le basi fondamentali di un nuovo sistema, come le cornici, nella quali doveva svolgersi la vita dello Stato, divenuto così autoritario e dittatoriale. Nonostante il risultato raggiunto, la legge Acerbo restò in vigore per le sole elezioni del 1924; già nel 1925, conclusa la crisi seguita al delitto Matteotti cui abbiamo già accennato poco sopra, il fascismo cambiò la legge elettorale, attraverso l'introduzione (inedita per l'Italia) del sistema maggioritario secco “all'inglese”, demandando così ai Fasci territoriali la formazione della Camera. Questa legge, comunque, non fu mai utilizzata. Infatti il processo di centralizzazione che il fascismo registrò al suo interno, a partire dalla modifica dello Statuto del Partito, approvata nel 1926, e l'avvio del progetto di riforma dello Stato voluto dal governo portarono nel 1928 a un nuovo cambiamento della legge elettorale, che si realizzò attraverso la legge del 17 maggio 1928 che introdusse il plebiscito. In base a questa legge, il Gran Consiglio del Fascismo, che all'uopo era stato istituzionalizzatosi (diventando quindi, a tutti gli effetti, gli organi dello Stato) aveva il compito di redigere, tenendo conto dei suggerimenti proposti dalle Corporazioni, una lista di 400 nomi che doveva essere approvata o rigettata in blocco dal corpo elettorale. Gli italiani di sesso maschile furono chiamati due volte al voto per il plebiscito: nella prima occasione, il 24 Marzo 1929, la percentuale dei votanti fu pari all'89,6% (un percentuale non altissima, date le condizioni di agibilità democratica pressoché inesistenti). Su 8.663.412 votanti, i sì furono 8.519.559, i no 135.761 (quasi tutti concentrati nel triangolo industriale del Nord- Ovest, più quelli raccolti attorno a fabbriche di grande dimensione in Veneto, Emilia e Toscana), con 8.092 schede nulle o contestate. Ancora diversi i risultati del secondo plebiscito, tenutosi nel 1934, con 10.060.426 votanti e solo 15.215 contrari (0,15%) e lo 0,01% di voti nulli. Tuttavia la commissione parlamentare, che aveva studiato la riforma del 1928, aveva colpito nel segno affermando che la legge elettorale in discussione in quel momento non doveva altro che rappresentare il ponte verso la vera forma -stato del fascismo: quella corporativa. L'istituzione delle corporazioni nel 1934 aprì, infatti, la strada a un'ulteriore revisione della rappresentanza, ma il problema non era più incentrato, sul terreno teorico/concettuale, attorno al significato da attribuire al termine, bensì sul come impostare le basi tecniche per impiantare la nuova “Camera corporativa”. Nel frattempo in Germania il nazismo era già arrivato al potere, anch’esso attraverso elezioni più o meno “libere”. Le nere nubi della tragedia si addensavano sui cieli d’Europa e del mondo. Ci sono occasioni in cui si scrive per non dimenticare, ma altre perché si pensa che la storia debba evitare di ripetersi: forse questa è una di quelle occasioni, almeno per quel che riguarda i rischi veri e seri di involuzione autoritaria che ci pare di scorgere pericolosamente all’orizzonte. .

giovedì 20 febbraio 2014

Felice Besostri: L'SPD e l'Europa

.LA Spd e l’Europa di Felice Besostri Conoscere gli orientamenti della SPD sulla politica europea è molto importante. La SPD è il più forte partito del PSE e è un suo dirigente, il compagno Martin Schulz, che sarà il candidato socialista alla Presidenza della Commissione Europea La ragione principale è che la SPD è un partito al Governo della Germania, un paese che per il suo peso economico e politico, ha deciso gli orientamenti dell’Europa per uscire dalla crisi: controllo dei paesi non virtuosi, le cicale d’Europa, riduzione del deficit pubblico e austerità, indipendentemente dai costi umani e sociali di quelle politiche compresi i tagli al welfare state. Nessuna riflessione sull’idoneità di quelle politiche a risolvere i problemi congiunturali e strutturali del diseguale sviluppo economico e delle bilance dei pagamenti dei paesi membri. “DARE UNA DIREZIONE ALL’EUROPA” è il titolo del documento di orientamento della SPD adottato Il 20 gennaio scorso “ L’Europa è il più grande progetto di civiltà del XX° Secolo. La sua idea è legata alle idee dell’illuminismo e dell’emancipazione. L’Europa aveva e ha l’obiettivo di garantire la convivenza pacifica e democratica degli uomini sul nostro continente, mentre si costruisce sulle idee di libertà, uguaglianza e solidarietà”. Questo è l’incipit del documento assolutamente condivisibile, ma l’Europa si trova in una difficile congiuntura politica ed economica per cui non basta ritrovare lo slancio ideale che ha dato l’avvio al progetto, se non si indicano progetti e programmi concreti e realistici per uscire dalla crisi: una crisi che restringe gli spazi democratici sacrificando libertà, eguaglianza e solidarietà. Infatti subito dopo la SPD avverte che “Però questa idea minaccia di diventare irriconoscibile. Pertanto qualcosa deve cambiare in Europa!” “ Per impedire che “si perda fiducia nel progetto europeo. Sempre più uomini dubitano del suo valore e della sua utilità e delle istituzioni politiche europee”. Bisogna ridare fiducia nell’idea di Europa, anche se è semplice, ma anche pericoloso allontanarsi dal progetto europeo e parlarne male. “ Di contro è faticoso capire l’Unione Europea e combattere le sue mancanze ed errori- ma ne vale la pena! L’Europa può e deve essere altro. Può essere la nostra Europa.”: l’Europa di coloro che si battono con energia e forza per la pace e i diritti umani e che senza se e senza ma sono per una crescita sana e pulita, per un buon lavoro e forti diritti sociali. Coloro che con indignazione si pronunciano contro il dominio dei mercati finanziarie che vogliono partecipare alle decisioni e far valere i loro voti. Quelli che di fronte alle terrificanti immagini televisive di profughi disperati ai confini dell’Europa non chiudono gli occhi quelli che vedono nel lavoro comun europeo l’unica possibilità realistica di realizzare tutto questo. Eccesiva enfasi? Non soltanto quando si individuano i nemici nelle” banche irresponsabili, nell’evasione fiscale in grande stile, nelle decisioni prese a porte chiuse, nel giocare i lavoratori uno contro l’altro o nello spingere i comuni a privatizzare i propri acquedotti o le casse di risparmio”. Per una diversa Europa che ritrovi lo slancio di una volta “ Dobbiamo chiarire che le cittadine e i cittadini e il Parlamento devono avere l’ultima parola e non i tecnocrati o persino gli interessi economici”. A questo punto era necessaria una riflessione critica sulle ragioni per le quali era invece successo quello che andava evitato: il deficit democratico delle istituzioni e la deriva tecnocratica con le decisioni che calavano dall’alto sono state le cause di un progressivo allontanamento dei cittadini dall’Europa e l’alimentazione dei populismi anti-europei. Le elezioni europee del 2014 sono, a fronte di queste sfide, di gran lunga le più importanti elezioni europee”. L’alternativa è se l’Europa sia capace di mantenersi unita e uscire dalla crisi in comune e sviluppare un buon futuro. Ovvero ricadere nei vecchi schemi “della concorrenza e dei risentimenti nazionali, che alla fine danneggiano tutti e pongono in questione la pace, il benessere e la democrazia nel nostro continente”. Una denuncia forte della sfida in corso e dei pericoli che corre la nostra civiltà o quantomeno il modello europeo, quello che le agenzie di rating ritengono inadatto a uscire dalla crisi perché la democrazia e la coesione sociale hanno un costo troppo elevato. “ Anche per questa ragione le elezioni europee hanno una qualità completamente nuova, poiché Le cittadine e i cittadini dovranno co-decidere su chi sarà il futuro Presidente della Commissione Europea. La Socialdemocrazia europea è stata la prima tra le famiglie partitiche a nominare un candidato comune per le elezioni europee e per il posto di Presidente della Commissione Europea” E’ normale chiedersi se il candidato fosse stato di un altro partito o nazionalità, sia pure della famiglia socialista, se la SPD esagerato l’importanza dell’evento come epocale e in grado di per sé solo di affrontare la grande sfida: la Commissione Europea non è un governo politicamente responsabile verso un Parlamento e fondato su una maggioranza politico-programmatica. Per ben che vada potrà al massimo essere come il Consiglio Federale svizzero, frutto di un delicato equilibrio politico ed etnico-linguistico, nel caso della UE di Stati nazionali. Fatta l’introduzione generale e politica nella quale è facile riconoscersi il documento si articola in 9 capitoli di cui l’ultimo e conclusivo è già dal titolo una sconfessione della Merkel dei governi Union-FDP: Una Germania europea e non un’Europa tedesca, lapidario, come deve essere un epitaffio. Anche gli altri capitoli hanno titoli attraenti 1) Un’Europa dei cittadini, non delle banche e degli speculatori 2) Un’Europa della diversità , non del centralismo 3) Un’Europa della democrazia, non della burocrazia 4) Un’ Europa della giustizia fiscale, non della mancanza di responsabilità 5) Un’Europa del buon lavoro, non della disoccupazione 6) Un’Europa della giustizia sociale, non dell’assenza di possibilità 7) Un’Europa del risveglio, non del ristagno. 8) Un’ Europa della pace e dell’apertura, con della contrapposizione e della separazione Nell’economia si questo contributo alla conoscenza della SPD mi limiterò all’analisi di alcuni dei capitoli. Questa scelta non sarà, forse, sufficiente a vincere le diffidenze, che in Italia scontano ancora una contrapposizione ereditata dal periodo tra le due guerre mondiali e della divisione dell’Europa in occidentale e orientale e dalla leggenda del tradimento socialdemocratico, esemplificata dal Programma di Bad Godesberg del 1959, con il passaggio da Partito di Classe a Partito di Popolo. Nel Capitolo 1 si trovano le affermazioni di principio più interessanti con la richiesta di un nuovo ordinamento dei mercati finanziari, che vanno ricondotti alla loro funzione servente della società e dell’economia reale. “ Dobbiamo ristabilire il primato della politica dei confronti dei mercati finanziari se vogliamo mantenere il modello europeo dell’economia sociale di mercato” Altro principio è che chi ha provocato la crisi per eccessi di speculazione e bramosia di guadagno deve far fronte ai suoi costi. Quindi in futuro sono le banche in prima linea che devono rispondere per i loro rischi e non i contribuenti. “ In caso di bancarotta deve essere efficacemente interrotto il cerchio diabolico tra i debiti delle banche e debiti degli Stati”: non si può più consentire che le banche e gli altri attori sui mercati finanziari possano trascinare nel gorgo tutta l’economia e gli Stati. Gli strumenti sono dettagliati nei paragrafi: Unione bancaria effettiva, Imposte contro la speculazione, regole migliori per banche e mercati finanziari e regole più stringenti per le Agenzie di rating. Gli ultimi due paragrafi sono molto interessanti perché prevedono la separazione tra banche di investimenti banche commerciali, il controllo degli hedge fund, l’esclusione di strumenti finanziari non quotati su mercati regolati e la preventiva autorizzazione per ogni prodotto finanziario, compresi i derivati. Le agenzie di rating devono essere controllate e rispondere dei propri giudizi e si dovrebbe istituire una agenzia europea di rating. Im tutti i capitoli e paragrafi dei capitoli c’è un visione dell’Europa alternativa a quella imposta in questi ultimi anni dall’accoppiata Merket –Sarkozy e dalla Troyka, CE-BCE-FMI e perciò rifiuto delle politiche di cooperazione interstatuale, quelle del fiscal compact per intenderci, in luogo del rafforzamento della democrazia comunitaria e della cooperazione fra parlamenti nazionali e Parlamento Europeo, come previsto dal Trattato di Lisbona. Nel documento SPD c’è un chiaro legame tra controllo dei bilanci e politica di crescita con un accentuati ruolo pubblico e un giudizio negativo di soli tagli, privatizzazioni e e liberalizzazioni in specie nei beni e servizi pubblici, come l’acqua, la salute e l’istruzione. Un marziano che dovesse giudicare solo dai documenti collocherebbe in Italia il documento della SPD spinto sulla sinistra dello spettro politico. La SPD è schizofrenica, pensano quelli che ritengono che la Grande Coalizione con la Merkel contraddica il documento sull’Europa, come se quest’ultimo fosse un fiore all’occhiello per catturare voti a sinistra. Hoi avuto la pazienza di leggere l’intero Capitolo 6° del Contratto di Coalizione, una decina di pagine fitte . Molte parti del documento SPD sono tratte di peso dal Contratto di Coalizione, ovviamente c’è un accentuazione delle priorità, cioè quando si dice che la responsabilità budgetaria statuale si deve accompagnare a politiche di crescita e di investimenti, in una visione conservatrice prima viene il risanamento finanziario e dopo la politica di investimenti per la crescita, per un socialdemocratico le due politiche devono essere contestuali, perché senza crescita non c’è risanamento. I democristiani tedeschi erano all’inizio contrerai a designare un candidato del PPE contrapposto a quello del PSE, ma di fronte ai crescenti consensi per la candidatura di Schulz hanno ripiegato sul lussemburghese Jean-Claude Juncker, già a capo dell’Euro Gruppo in posizione critica con la politica di austerità e per questo ha dovuto dimettersi nel gennaio 2013 per essere sostituiti da un più ortodosso Jeroen Dijsselbloem, un laburista olandese. Come si può vedere certe contrapposizioni sono trasversali agli schieramenti. La personalità del candidato fa ancora la differenza e Schulz con la sua attenzione alla democrazia nell’epoca digitale è sicuramente in anticipo sulla media dei politici europei. Il gioco combinato e incontrollato di raccolta di dati sui cittadini con motivazioni commerciali delle grandi imprese di internet, come Facebook e Google(“big data”) e della sorveglianza di massa n così come l’isterica sopravvalutazione della sicurezza dei servizi segreti(“big goverment”) minacciano in maniera crescente i fondamenti liberali della nostra società controllo( Schulz alla FAZ): “ Quando il cittadino è degradato ad oggetto economico e lo Stato lo pone sotto un sospetto generalizzato si arriva ad una pericolosa unione di ideologia neo-liberista e autoritaria”. L’auspicio che anche questi temi entrino nel di battito per le elezioni europee, vista la partenza è, probabilmente, un pio desiderio. .

mondiepolitiche: La Retorica Pericolosa Della Contrapposizione Popolo - Casta

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Obama, Abe, Roosevelt: ecco perché aumentare i salari combatte la recessione | Keynes blog

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Lavorare tutti, lavorare meno (come in Germania)  | Economia e Politica

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Dove va il capitalismo? | Economia e Politica

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Oltre il XX secolo. I compiti nuovi della Socialdemocrazia - Centro per la Riforma dello Stato

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Associazione LavoroWelfare » Un decalogo per il Jobs Act

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mercoledì 19 febbraio 2014

▶ Felice Besostri al Congresso PSI il 15-2-2014 Milano Hotel Concorde - YouTube

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Tasse e spesa pubblica, il coraggio di cambiare

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Troika, uno tsunami sociale | EuProgress

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Lista Tsipras, è polemica sulla parola “sinistra” - Eddyburg.it

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Gli autodafé dei democratici - Eddyburg.it

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"Renzi non si faccia illusioni. La situazione è tremenda" - Associazione "Nuova Economia Nuova Società"

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martedì 18 febbraio 2014

GL Savona: Lettera sul lavoro

LETTERA APERTA ALLE FORZE DI SINISTRA: LAVORO, DA CHE PARTE VOGLIAMO ANDARE? Traendo spunto dalle recenti affermazioni pubbliche di Matteo Renzi, ci appare quanto mai opportuno sollevare un dibattito a Sinistra, anche in sede scientifica, circa la direzione da intraprendere sul tema del lavoro. Sono o non sono le forze e i movimenti di Sinistra, marxisti e non, cresciuti col collante sociale del lavoro e della solidarietà sociale? Vogliamo, dunque, offrire il nostro apporto in questa fase di tremenda incertezza? Viceversa dovremmo ritenerci complici, per usare le parole di Norberto Bobbio, di quella “potente controffensiva capitalistica innescata dalla mondializzazione dei mercati e dalla rivoluzione delle tecnologie informatiche” che sta andando ben aldilà del liberalismo, verso un “fanatismo liberale”. Dice dunque il Segretario del Pd, che serve più “flessibilità in uscita”, ma una garanzia reddituale di almeno un biennio per chi esce dal lavoro e un serio pilastro dato dalla formazione professionale. Dietro le parole di Renzi due scenari: uno, teoricamente positivo, l’estensione degli ammortizzatori sociali anche ai non assicurati, l’altro, dalle tinte fosche, l’abrogazione o l’aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, già intaccato dalla Riforma Fornero, ma soprattutto lo svuotamento dello stato sociale. Si badi, e qui sgombriamo subito il campo da retoriche obsolete, la difesa dell’articolo 18 non è ideologica, bensì fattuale. Non soltanto perché insigni studiosi dimostrano il vacillare dell’ “assioma” flessibilità = occupazione, ma soprattutto perché l’articolo 18 è già stato eluso, di fatto, dalla capitalizzazione e dalla mercificazione del lavoro. Ancorché, come in un sogno, ritornasse lo schema tipico e rigido del lavoro a tempo indeterminato, il reintegro previsto dall’art. 18 ben poco potrà contro l’esodo di intere produzioni e le mille manovre elusive del mercato e delle parti sociali. Abolire o svilire l’art. 18 è come aiutare la corrente di un fiume in piena. Se non sappiamo ancora che strada prendere, ci sia chiaro, perlomeno, dove non dobbiamo andare. Sia stella polare, ancora una volta, la nostra Costituzione, che all’art. 41, tutelando l’iniziativa economica privata ne limita il raggio d’azione, vietando che essa entri in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Retorica? Non crediamo. Non esiste crisi o causa di forza maggiore che possa indurci ad accettare le nefandezze del mercato, la mercificazione del lavoro, lo svuotamento dello stato sociale e della concertazione. Oggi ciò che ci rende vulnerabili è proprio la mancanza di sicurezza sociale. Si deve cambiare, certamente, ma non lo si può fare senza gradualismo riformista e senza valori. Pare il caso di ricordare il motto Rosselliano “ Uomini, non servi; coscienze non numeri; produttori, non prodotti”. Sarà nostra intenzione, pur con i nostri limiti e quelli dettati da ragioni di brevità e divulgazione, ripercorrere le tappe fondamentali del recente giuslavorismo italiano, partendo da quel Pacchetto Treu del 1997, che ispirandosi al tema della flessibilità fu poi il grimaldello per quella Legge Biagi, o meglio Biagi-Maroni, che nel decennio successivo ha destabilizzato fortemente il sistema occupazionale, fino ai tentennamenti della Riforma Fornero. Lo faremo non per erudizione, ma per mostrare l’incerto flusso, l’approssimazione e talora l’ ipocrisia di un legislatore che tra garanzie e riforme è un vero elefante tra i cristalli. Proprio attraverso l’analisi del percorso, delle sue lacune più gravi, noi dobbiamo offrire un serio contributo pratico. Se così non fosse, non dobbiamo stupirci, se piazze violente e al servizio di poteri reazionari, sembreranno ai più l’unica via percorribile. DAL PACCHETTO TREU ALLA LEGGE BIAGI: DA UNA GIUSTA FLESSIBILITA’ IN ENTRATA AL PRECARIATO CRONICO Il rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, non poteva più essere il modello in un mondo del lavoro sempre più lontano dal mito della piena occupabilità, tuttavia le riforme che dalla fine degli anni Novanta ad oggi sono intervenute in tal senso hanno pigiato sull’acceleratore della flessibilità senza tener conto del contesto sociale di riferimento. A seguito di un iter che parte negli anni Ottanta, quando l’allora Ministro del Lavoro De Michelis mette in discussione il “posto fisso”, si giunge alla legge n°196/1997 nota come “Pacchetto Treu”. A Tiziano Treu va riconosciuto un merito: la sua legge va nel senso della concertazione tra le parti sociali, e fu, tutto sommato, un ragionevole compromesso fra le pretese di flessibilità degli imprenditori e le esigenze di garanzia di matrice sindacale. La flessibilità in entrata viene favorita da disposizioni riguardanti il contratto di lavoro a tempo determinato, il tirocinio, la formazione lavoro, la work experience. Questo era il punto forte della riforma. La possibilità di un ingresso aziendale in forma soft, senza un impegno troppo gravoso del datore di lavoro è senz’altro un lato positivo, se però finalizzata ad un futuro consolidarsi del rapporto. Qui, la prima proposta di revisione alle forme di precariato tuttora vigenti. Il percorso aziendale della risorsa andrebbe vigilato da terze parti, non attraverso meri registri di presenza, ma attraverso un quaderno di competenze che attesti i passi avanti del lavoratore nell’ottica di una possibile assunzione. Secondo noi tale registro, o forma equivalente di verifica, come le riunioni di tutoraggio, va redatto in senso conservativo e positivo, perché nei limiti del possibile deve indurre la persone al miglioramento e all’inclusione. Ricordiamoci che il lavoratore è contraente debole, di fatto e non per pregiudizio ideologico. Troppo spesso, specie nei lavori di concetto, vi è un turbinoso avvicendarsi di tirocinanti, trattati come vuoti a perdere, con scadimento delle competenze e della motivazione. I due punti deboli del Pacchetto Treu, invece, furono l’introduzione del lavoro interinale, storicamente vietato nel nostro sistema fin dalla Legge N° 1369/1960 e la creazione dei c.d. Co.co.co., quelle collaborazioni coordinate continuative, poi riviste da Biagi, che tuttora creano numerosi problemi di classificazione e mascherano, quasi sempre, la effettiva subordinazione, come vedremo più avanti. Il superamento, seppur parziale, del divieto di intermediazione tra domanda e offerta e di lavoro è stato un fatto di portata epocale e a nostro avviso tremendamente negativo in un contesto culturale come quello italiano. Il divieto previsto nella legge del 1960 era una forte garanzia per il lavoratore, poiché laddove non sussista un rapporto diretto e genuino col datore di lavoro, ma vi sia un intermediario privato, vengono meno garanzie essenziali. In un paese come l’Italia, con scarsa disciplina e coesione sociale, con riluttanti precedenti di caporalato e sfruttamento, il divieto di intermediazione andrebbe reintrodotto, o quantomeno esteso alla stragrande maggioranza dei casi. Come vedremo la Legge Biagi ha poi esacerbato il concetto passando dal lavoro interinale alla vera e propria somministrazione di lavoro. L’idea di defalcare il monopolio del collocamento pubblico, oggi “centro per l’impiego”, con funzioni frammentarie, nasceva dall’assunto, tutto da dimostrare che una moltitudine di soggetti potevano incrementare l’incontro tra domanda e offerta. Il risultato è invece una confusione di competenze e un aumento dei costi di gestione. Si dovrebbe reintrodurre il pubblico collocamento per una serie di ragioni così sintetizzabili: la prima, di gran lunga la più importante è che il lavoro si svolge nell’interesse della collettività, la seconda, a corollario, per ragioni di imparzialità, uguaglianza ed equità, che solo un ente pubblico può garantire, la terza, perché si può lucrare sulla manodopera, ma non sulle persone, la quarta, perché nessuno vieterebbe al pubblico collocamento di collaborare con soggetti privati, per finalità di incontro tra domanda ed offerta, purché il collocamento resti il capofila. Col Libro Bianco sul lavoro del 2001, arriva una nuova ondata riformatoria, ispirata al pensiero dell’economista Marco Biagi, che si pone su linee di flessibilità di matrice anglossassone. L’iter di adozione del D.lgs. 276/2003 fu faticoso, soprattutto perché, già allora, il testo originario conteneva una revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che fu poi stralciata. La legge Biagi, o meglio Biagi-Maroni, perché il leghista, allora ministro del lavoro, ne fu il primo firmatario dopo la tragica scomparsa di Biagi, segna un vero e proprio cambio di ritmo nell’impianto delle garanzie. Il primo profilo di rilievo, come già evidenziato, è l’introduzione del lavoro somministrato, abrogando contestualmente la Legge 1369/1960 che Treu aveva risparmiato. Con Biagi si realizza pienamente quell’affitto di manodopera, storicamente vietato, con la triangolazione tra lavoratore, utilizzatore e somministrante, che trova il solo limite, di difficilissima sanzionabilità dato dalla “somministrazione abusiva o irregolare”. Il secondo profilo di ulteriore confusione, è dato dalla creazione di una miriade di forme di contratto di lavoro atipiche, alcune assolutamente estranee al mondo del lavoro italiano. Il terzo profilo, a fronte di una forte flessibilità in entrata e uscita (fermo restando per fortuna l’articolo 18, che peraltro si applica alle unità produttive con più di 15 dipendenti), l’assenza di una riforma degli ammortizzatori sociali. Di qui la grande lacuna di aver puntato su un modello di flexicurity che non integra una rete di sicurezza sociale. CO.CO.PRO E L’UMILIAZIONE DEL VOUCHER Della moltitudine di forme contrattuali atipiche presenti nel D.lgs. 276/2003 (job on call, job sharing, lavoro accessorio, intermittente, staff leasing e si noti la denominazione anglofona di molti contratti), ci soffermiamo a titolo esemplificativo sul lavoro a progetto e su quello mediante buoni. Con il Pacchetto Treu, si introdusse l’ibrida figura delle c.d. collaborazioni coordinate continuative (Co.co.co), percui un soggetto prestava l’opera continuativamente, in maniera coordinata con il datore di lavoro, pur non rinvenendosi il vincolo di subordinazione, bensì quello misto di autonomia e subordinazione, detto di “parasubordinazione”. Biagi ha collegato queste prestazioni all’esistenza di uno specifico progetto, pena l’ illegittimità. Il regime elusivo di questi contratti di lavoro era nella norma stessa, che riconoscendone il peccato originale di mascherare molto spesso una vera e propria subordinazione al pari dei lavoratori “ordinari”, statuisce che la collaborazione, non collegata ad un progetto, si consideri rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla costituzione del rapporto stesso. In tal senso, Fornero, codificando banalmente la giurisprudenza consolidata, ha stabilito che l’assenza del progetto fa scattare una presunzione assoluta, vale a dire che non ammette prova contraria, circa l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Ma poiché il lavoratore, ricordiamolo è contraente debole, in quanti casi e con quali risultati si rivolgerà al giudice per evidenziare l’assenza di uno specifico progetto? Poiché il contratto a progetto non offre tutele al lavoratore e poiché esiste sia il lavoro autonomo sia quello subordinato a tempo determinato, ma per quale ragione il lavoro a progetto deve avere cittadinanza nel nostro ordinamento? Si consideri, inoltre, che molto spesso, il lavoratore a progetto non è neppure sottoposto a visite mediche di idoneità e non riceve formazione in materia di sicurezza sul lavoro. Crescente utilizzo ha avuto recentemente il lavoro occasionale accessorio, disciplinato da Biagi e oggi retribuito col sistema dei buoni o voucher. Il datore di lavoro che si avvale di prestazioni saltuarie da parte di collaboratori acquista i buoni prima della costituzione del rapporto di lavoro senza neppure dover stipulare un contratto. I buoni hanno un determinato valore nominale e possono essere venduti a carnet ritirabili anche dai tabaccai. L’idea di un lavoratore ricaricabile come una scheda telefonica è prassi umiliante, poiché incarna in pieno la mercificazione della persona, senza considerare che, il primario intento del legislatore di assicurare agli enti previdenziali lavoratori occasionali, è di fatto vanificato da forme di subordinazione mascherata, specie nel lavoro di concetto. L’IPOCRISIA DELLA RIFORMA FORNERO E L’AGGIRAMENTO DELL’ARTICOLO 18 La Legge n° 92 del 28/06/2012 nasce in un contesto annunciato come apocalittico, dove trombe squillanti minacciano l’uscita dell’Italia dall’Europa. Il necessario dibattito e la grande occasione di una revisione critica del mondo del lavoro viene dissipato in nome dell’emergenza e di una fede cieca nel libero mercato. Il risultato è un testo disorganico e di scarsa tecnica legislativa, che tuttavia apre una breccia ulteriore nel sistema di garanzie realizzato nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori. In sintesi vorremmo evidenziare tre punti: Il primo: la sostanziale liberalizzazione del contratto a tempo determinato, attraverso la sua “acausalità”, vale a dire che contratti a termine potranno essere stipulati senza alcuna ragione aziendale di carattere tecnico, produttivo od organizzativo. Un altro favore alla precarietà e alla mercificazione del lavoro. Il secondo: il grave ed ideologico aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La Riforma ha conservato le fattispecie classiche di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo ma ha ribaltato il sistema dei rimedi, escludendo il reintegro automatico e indicando dei limiti massimi di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore. In parole semplici il datore di lavoro può mettere a bilancio in via preventiva il costo di un licenziamento illegittimo. Il reintegro diventa ipotesi residuale, eludendo il principio del risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 del codice civile. Il giudice potrà sempre considerare il reintegro del lavoratore troppo oneroso per l’azienda. In sostanza, visti anche i tempi e i costi processuali, licenziare anche illegittimamente sarà conveniente al datore di lavoro. Il terzo punto attiene agli ammortizzatori sociali. Ferma restando la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, ci preme rimarcare che ogni proclama di istituire assicurazioni sociali universalistiche, cioè estese anche a inoccupati o precari, è andato disatteso. La c.d. ASPI (assicurazione sociale per l’impiego) ha gli stessi requisiti della preesistente indennità di disoccupazione: assicura contro la disoccupazione involontaria chi ha un contratto stabile o comunque si trova da tempo inserito nel mercato del lavoro. Si ribadisce il modello di welfare improntato su rapporti stabili che non esistono più. CONCLUSIONI: RENZI, l’ITALIA NON E’ LA DANIMARCA! Tirando le somme è tornando ai proclami di Matteo Renzi su un nuovo Codice del lavoro, vorremmo ricordare quelle che sono le tesi di base sul sistema del welfare, affinché qualunque revisione della materia non sia avulsa dal contesto. Citiamo la Danimarca, perché molto spesso, l’idolo della flessibilità a cui molti presunti riformatori si raccomandano è di marchio scandinavo. Il primo punto da tenere in mente, come ha ben sottolineato Bruno Amoroso, dell’Università di Roskilde, è che la combinazione di flessibilità sul mercato del lavoro con la sicurezza sociale dei lavoratori, in Danimarca come in altri modelli Nordeuropei, è data in principio da un fattore socio-culturale: efficiente organizzazione del sistema economico complessivo, capacità di innovazione economica e istituzionale, alti livelli di formazione professionale, forte concertazione delle parti sociali nell’individuazione di obiettivi sia settoriali che generali, coesione ed omogeneità sociale. Si noterà immediatamente che queste non sono caratteristiche italiane. Una importante riflessione va fatta sull’accezione del termine flessibilità. Se per flessibilità intendiamo facilità di liberarsi di un lavoratore, siamo sulla strada dello strapotere imprenditoriale e di un addebitamento della crisi alla parte debole; se, invece, la flessibilità che intendiamo creare è “numerica”, allora andiamo nel senso della dinamicità e mobilità nel mercato del lavoro. In tal senso è efficiente un sistema in cui se 100 persone perdono il lavoro, 80 lo ritroveranno in forma autonoma, dopo aver ricevuto un sussidio e solo 20 dovranno rivolgersi ai sistemi di sostegno e reinserimento lavorativo. In sostanza un sistema è altamente flessibile, non soltanto perché si licenzia facilmente, ma soprattutto perché c’è un alto livello di sicurezza sociale. Vale a dire mi muovo, perché se cado non c’è il vuoto, ma il parapetto dello stato sociale. Il tema del sostegno al reddito in caso di disoccupazione, deve seguire due linee di principio imprescindibili: deve essere universalistico, tutelando anche le attuali forme di precariato e inoccupazione, deve affiancarsi e non sostituirsi agli ammortizzatori sociali preesistenti, altrimenti fa capolino lo spettro dello Stato minimo di matrice neoliberista. Come ha ben scritto Giovanni Orlandini, dell’Università di Siena: “ Bisogna evitare che il reddito minimo garantito, da misura di inclusione sociale […] si traduca in una forma di redistribuzione a somma zero tra i lavoratori delle risorse oggi utilizzate per gli ammortizzatori esistenti”. Ci siamo già espressi, criticando in modo a nostro avviso costruttivo, le proposte sul “reddito minimo garantito” provenienti dall’area di S.E.L., nel senso di ammortizzatori sociali che siano ideati sulla base di una effettiva analisi del sistema italiano e non importando idee alla moda. Viceversa ci si muove continuamente tra gli strombazzamenti di un reddito di cittadinanza erogato a tutti indistintamente, quindi nella sua forma più pura e utopica, a forme di indennità che, al di là del nomen juris, replicano costantemente lo schema di tutele legate a chi ha già un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Non si dimentichi, inoltre, che la precarietà, non ha solo una componente contrattuale, ma anche soggettivo-territoriale, laddove anche lavoratori con contratti tipici e a tempo indeterminato possono vivere situazioni di sofferenza, se sono monoreddito, se hanno basse retribuzioni, se hanno figli o familiari a carico e i servizi sociali sono carenti, se sono ragazze madri, se l’ orario di lavoro è fortemente dilatato, ecc. Non dobbiamo trascurare la confusione che spesso si fa tra reddito minimo garantito e salario minimo imposto per legge. Il primo è una forma di sostegno al reddito di chi ha perso il lavoro o non lo trova, il secondo serve a garantire l’uniformità di trattamento economico tra i lavoratori per evitare il dumping all’interno del mercato nazionale, in parole povere per evitare la concorrenza tra lavoratori, la guerra tra i poveri gradita agli sfruttatori. Troppo spesso si legge l’art. 36 della Costituzione come se non fosse norma vincolante. La parcellizzazione contrattuale creata dalla Legge Biagi e la deregolamentazione dei contratti collettivi nazionali hanno creato zone franche dove imprenditori senza scrupolo possono volteggiare come aquile. Se confrontiamo la marcia dei 40.000 lavoratori Fiat negli anni Ottanta con il Referendum Mirafiori che ha interessato meno di 5000 lavoratori, ci rendiamo conto di quella drammatica rivoluzione culturale ormai evidentissima, percui i lavoratori sono ormai abbandonati alla contrattazione individuale senza alcuna possibilità di ricorrere alla negoziazione collettiva. Un ultimo rilievo sulla formazione professionale, indicata da Renzi come pilastro delle politiche attive del lavoro. Oggi la formazione professionale è gestita soprattutto a livello locale da Regioni e Province, che si appoggiano spesso ad intermediari privati finanziandoli. In molti casi la formazione torna più a favore dei formatori che dei formati, poiché manca quella concertazione tra Stato e imprese che invece si ritrova in altri modelli. Occorre una maggiore verifica sui formatori e un maggior raccordo tra le esigenze dell’impresa e quelle degli aspiranti lavoratori, al contrario la formazione rischia di diventare un business per chi la eroga. In questo quadro l’idea da seguire è secondo noi quella di un gradualismo riformista che superi col tempo la flessibilità non assicurata di Biagi, le derive neoliberiste europee seguite a sprazzi da Elsa Fornero e miri a una normalizzazione del sistema di welfare su basi culturali che dobbiamo coltivare internamente. I due nodi sono la creazione di ammortizzatori sociali universalistici ed il taglio del costo del lavoro. Sociologi ed economisti hanno da tempo indicato alcune vie, non resta che provare a seguirle. Un ammortizzatore sociale universalistico che copra anche i lavoratori atipici è la necessaria conseguenza della parcellizzazione creata da Biagi, in attesa che molte forme atipiche vengano riassorbite. Proprio a causa della situazione contingente sembra interessante la visione di Alain Supiot, giuslavorista francese, che immagina un sistema di garanzie “a cerchi concentrici”, percui realtà lavorative ontologicamente diverse (ad esempio un operaio di catena e un autonomo parasubordinato) andrebbero tutelate in modo combinato modulando tutele universali con protezioni a base individuale. Dove prendere i soldi? La prima direttiva da seguire è la separazione tra assistenza e previdenza, vale a dire tra fiscalità generale a carico di tutti e contributi sociali, che sono a carico di lavoratori e imprese (l’INPS per capirci). Partendo dalla giusta considerazione che un ammortizzatore sociale (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, ecc.) è uno strumento contro la disoccupazione involontaria, esso resta inevitabilmente collegato al lavoro e alla sua funzione sociale che fonda la nostra Reppubblica, pertanto possiamo valutare due percorsi: 1) Creare un ammortizzatore sociale universale che attinga di più alla fiscalità generale dello Stato, riducendo quindi i contributi sociali a carico delle imprese, in modo da ridurre il costo del lavoro e far ripartire le assunzioni. 2) Lasciare in vita i tradizionali ammortizzatori sociali e affiancarli con una forma reddituale universale come il reddito di cittadinanza, erogato a tutti dallo Stato, che prescinde dalla verifica dei mezzi individuali al fine di concedere maggior potere di scelta agli individui, tollerando qualche forma parassitaria. Delle due ipotesi ci appare più ragionevole,meno insidiosa e culturalmente più accettabile la prima, anche perché a ben guardare, in entrambi i casi è sempre la fiscalità generale dello Stato a dover intervenire, esercitando quella funzione di redistribuzione della ricchezza che le è propria e che in Italia e scarsamente attuata. Si badi che attualmente sono ancora i piccoli imprenditori (2083 c.c.) i più numerosi e nonostante tutto i più bisognosi di manodopera nel nostro paese. Gli artigiani, specie nel settore edile, a causa dell’alto costo contributivo rinunciano ad assumere oppure subappaltano ad altri lavoratori autonomi. Si crea una situazione di appalto non genuino, di concorrenza sleale verso le imprese che debbono invece pagarsi il proprio corredo di uomini e mezzi e l’elusione di molte tutele verso autonomi che in realtà sono subordinati dell’appaltatore. Abbiamo capito da tempo che il reperimento delle risorse in Italia è più un fatto di volontà politica che non di bilancio, in ogni caso per aumentare la spesa pubblica in favore di una riduzione del costo del lavoro, da tempo abbiamo già indicato la via dell’imposta patrimoniale ordinaria ad aliquota moderata, corroborati anche da autorevoli esponenti della dottrina tributaria come il Professor Gianni Marongiu, padre dello Statuto dei diritti del Contribuente. Si tratta di una imposta non ideologica, perché non colpisce solo i grossi patrimoni, ma tutti i patrimoni in modo progressivo ed equo, selezionando i beni per qualità e quantità, come del resto predicato dall’art. 53 della Costituzione. Come sempre non una idea nuova, ma la ripresa di una logica intuizione che fu già di Cesare Cosciani in sede di riforma dell’ordinamento tributario. In conclusione il fisco ha il compito precipuo di reperire le risorse per tutelare i cittadini, altrimenti vien meno la sua funzione. Riassumendo, vogliamo ribadire l’urgenza da parte dei partiti di Sinistra di ricostruire la civiltà del lavoro attraverso un contributo culturale e scientifico, di combattere le politiche neoliberiste che in ossequio a certe frange delle istituzioni europee e degli imprenditori cercano di demolire lo stato sociale e di mercificare i lavoratori, di garantire quella sicurezza sociale e quell’affrancamento dal bisogno che rendono le persone libere di muoversi nel mercato del lavoro e felici di immaginare il futuro nel nostro Paese. Il socialismo non è incompatibile col mercato, ma ne è il garante. Savona, 11 Gennaio 2014 Circolo Giustizia & Libertà Cristoforo Astengo

It’s Tıme For Social-Democracy To Exit The Twentieth Century

It’s Tıme For Social-Democracy To Exit The Twentieth Century

Il tallone d’Achille del Senato di Renzi | Marco Cucchini

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Karlsruhe: doppia sfida all'Europa | Pietro Manzini

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Città metropolitane? No, solo province indebolite | Roberto Camagni

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Le elezioni europee e i trattati da rifare - micromega-online - micromega

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Caro Fassina, il Pd del fiscal compact deve cambiare rotta - micromega-online - micromega

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Death and Taxes | Jacobin

Death and Taxes | Jacobin

Franco Astengo: L'illusione della democrazia diretta

L’ILLUSIONE DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA di Franco Astengo Il meccanismo della “democrazia diretta” sta subendo forti colpi, proprio nel momento in cui in Italia si pensa di risolvere la gravissima crisi politica e morale che attanaglia da decenni il Paese attraverso l’accentuazione del pericoloso meccanismo del “dialogo tra l’uomo solo al comando e il popolo”. Un meccanismo che il PD ha amplificato usando le primarie per l’elezione del segretario a mo’ di plebiscito, per poi far transitare il segretario eletto alla guida del governo senza il passaggio della legittimazione popolare. Un punto di premessa, comunque, a tutto il resto del discorso: il dato della partecipazione elettorale deve sempre essere considerato come il termometro della salute di una democrazia. Quei sistemi che prevedono un forte tasso di astensionismo elettorale risultano essere, alla fine, molto più squilibrati non solo sul piano sociale (con tassi di emarginazione e di esclusione molto alti) ma anche sul piano della rappresentatività politica, che rimane l’elemento fondamentale perché l’azione politica non si riduca a una competizione di tipo personalistico che ha per traguardo il mito della “governabilità” fin a se stessa. Il meccanismo della “democrazia diretta” appare dunque in crisi e sarà scusato il mettere assieme, in quest’occasione, elementi diversi fra di loro ma egualmente indicativi nel loro insieme. Ieri, domenica 16 Febbraio, la percentuale di partecipazione al voto nelle elezioni regionali della Sardegna si è assestata poco al di sopra del 50% con un calo del 18% rispetto alle elezioni precedenti, mentre i votanti alle primarie del PD per l’elezione dei segretari regionali hanno fatto registrare un brusco calo (le prime cifre parlano di un meno 20%) rispetto al plebiscito che, poco tempo fa, aveva incoronato Matteo Renzi. Da tener conto, comunque, che rispetto all’occasione “Renzi” si svilupparono polemiche sulle cifre “gonfiate” della partecipazione al voto segnalando la presenza, in diverse situazioni, di truppe “cammellate” più o meno regolari. Si discetterà sulla diversa importanza di questi appuntamenti, pur tuttavia un’indicazione generale può essere tratta: l’Italia, sul piano politico, è sicuramente un Paese estenuato e stanco. Il meccanismo dell’elezione diretta di un personaggio, sia questo a livello di istituzioni sia a livello di appartenenza partitica, mostra la corda di una difficoltà vera nel costruire meccanismi di rappresentanza adeguata. Si ricordi che, a partire dalla loro istituzione nel 2005, le “primarie” del PD hanno fatto registrare sempre un costante calo nella partecipazione al voto. iI tema della rappresentanza politica è stato trascurato (colpevolmente) quando questa strategia dell’elezione diretta (a partire dai Sindaci nel 1993)è stata adottata.. Si è pensato alla rappresentatività politica (anche a quella di tipo ideologico: come se diverse visioni del mondo e diversi riferimenti filosofici ormai fossero strumenti culturali inadeguati e obsoleti nel mondo moerno)come a un orpello ormai inutile (via.. via questa concezione si è allargata fino a considerare un “intralcio” i passaggi parlamentari e un “ritardo” le elezioni). Mostra la corda la credibilità complessiva di un decisionismo fondato sullo svolgimento di funzioni da parte di un organo monocratico al riguardo del quale l’eletto proviene direttamente da un “dialogo” con gli elettori non mediato dall’esistenza di corpi intermedi che sintetizzino i bisogni sociali alla luce delle proposizioni scelte in base all’interesse generale, ne facciano proposta politica e infine azione di concretamento reale. Si è pensato di sostituire questi passaggi, indispensabili al fine della qualità della democrazia, con la personalizzazione: il risultato è evidente, l’apparire conta assai più dell’essere (tanto per dirla con una frase scontata), l’indifferenziazione programmatica di stampo populista pare essere la cifra che tiene assieme l’intero sistema politico, l’alternanza si riduce (ancor di più che nel passato) in uno scambio di consegne tra apparati burocratici tenuti assieme dalla dimostrazione di fedeltà al leader e dalla ricerca del potere attraverso l’individualismo competitivo. Intanto milioni e milioni di cittadini si rifugiano nell’astensione che tutto significa, in questo caso, tranne l’indifferenza (come del resto stanno cominciando a valutare anche gli stessi analisti di scuola anglosassone che sono stati i veri promotori dell’instaurazione di questi meccanismi, dalla personalizzazione alle primarie: solo in Italia siamo in ritardo per un vero e proprio eccesso di provincialismo esercitato nella ricerca sul terreno politico). Il rischio è quello di una vera e propria elisione (e non di un semplice distacco come si è scritto in tante occasioni da molti anni) tra la società, la politica e l’azione istituzionale: il risultato potrebbe essere quello, mentre aumenta la disaffezione di un inasprimento dei meccanismi di decisione, di forzatura nell’idea di un sistema politico istituzionale “escludente” di per sé (al di là dei concetti di formazione delle maggioranze e di rappresentatività delle minoranze), di sostanziale restringimento nei margini di agibilità democratica, di personalismo autoritario.

Aldo Penna:Vere bugie, false verità

UN DRAPPELLO DI UOMINI E DONNE NUOVI NON PROSCIUGHERA' LA PALUDE CHE STA INGHIOTTENDO IL PAESE CON LE BUONE INTENZIONI E LE BELLE PAROLE, MA CON LA VERITA' Non riuscendo a imitare Walter che con caparbia convinzione, tanta faccia tosta e un'overdose di autolesionismo provocò la caduta di Prodi favorendo la seconda lunga ascensione al potere dell'incandidabile, Renzi ha deciso di divenire il Massimo. Ma se D'Alema incaricò altri di essere i killer di Prodi, Matteo esibisce la pistola fumante che ha decretato la fine di Letta il giovane. Per rintracciare un precedente di tale stile occorre teletrasportarsi al tempo della Prima Repubblica, Democrazia Cristiana egemone, con i suoi compositi e mutevoli equilibri. Con una congiura di Palazzo, sostenuta e protetta da, per ora, invisibili e potenti sponsor, il segretario del Pd ha dato il benservito a Letta. Tra pochi giorni, al minimo del gradimento personale e con notevoli dubbi sulla possibilità di essere davvero discontinuo rispetto al suo predecessore, diverrà Presidente del Consiglio, ma porterà con sé un gigantesco interrogativo: quanto vale la sua parola? Certo nella politica italiana la parola data non è mai stata un valore, ma assicurare con tweet, dichiarazioni, interviste e incontri personali che mai avrebbe tirato per i piedi il suo compagno di partito alla guida del governo per poi smentirsi platealmente la dice lunga su quello che ci aspetta. Il 12 gennaio dichiarava: "Io voglio dare una mano a Enrico. Mi sento legato a un vincolo di lealtà: diamo l'ultima chance alla politica di fare le cose. Le mie ambizioni personali sono meno importanti delle ambizioni del Paese: io sono in squadra". "Enrico non si fida di me, gliel'ho detto l'altro giorno. Ma sbaglia. Io le cose le dico in faccia. E sono le stesse che dico in pubblico: non uso due registri diversi. Impareremo a conoscerci. Quindi, sì, certo, il governo proseguirà per tutto il 2014". Frasi che si commentano da sole e rimarranno scolpite a ogni intervista che il nuovo Presidente rilascerà. Renzi ha detto che non sa che farsene del bilancio dei 100 giorni, che il segno del cambiamento dovrà divenire percepibile al massimo tra un mese. Ai sondaggi negativi ha risposto che la gente dimentica in fretta. Ha ragione, ma forse no. Invece di lasciare che la corrente della storia portasse via i detriti che hanno compromesso lo sviluppo italiano e corroso le istituzioni, ha concesso a chi ha sempre detto di avversare un posto in prima fila sulla riva del fiume. Il governo Letta non ha brillato in questi mesi, i problemi italiani sono rimasti eguali e il miglioramento dei conti pubblici non si è trasformato in migliori condizioni di vita per la gente. Un drappello di uomini e donne nuovi non prosciugherà la palude in cui è sprofondato il Paese con le buone intenzioni e le belle parole, ma con la verità. Potrà il re che finalmente impugnerà lo scettro gridarla forte dopo aver afferrato il potere con la bugia? Sta tutto qui il dramma italiano che ancora una volta si appresta ad andare in scena. Aldo Penna "Nel tempo dell'inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario". George Orwell

lunedì 17 febbraio 2014

spazio lib-lab » Discontinuità: cambio di timoniere o di rotta?

spazio lib-lab » Discontinuità: cambio di timoniere o di rotta?

Vittorio Melandri: la rianimazione della sinistra in Italia

LA RIANIMAZIONE DELLA SINISTRA IN ITALIA Mi convinco sempre di più che la “Sinistra” politica, quella descritta da Norberto Bobbio nel suo saggio “Destra e Sinistra”, e che si fonda sui valori di Libertà – Uguaglianza – Fraternità, ha tutt’ora piena ragion di vivere proprio perché siamo ancora molto, ma molto lontani da un pieno dispiegarsi dei valori richiamati, per altro per loro natura sempre destinati ad essere “riconquistati” anche una volta che fossero pienamente iscritti nella “legalità” del mondo. In Italia poi siamo lontani mille miglia da quella condizione che può essere di maggior favore ai valori suddetti, ovvero dalla “laicità” degli indispensabili apparati burocratici, e quindi dello Stato, che potrebbero, essendo davvero laici, anteporre la propria missione ai propri interessi particolari, senza per questo immolarsi e rinunciare a vivere. In ragione di quanto sopra, la “Sinistra” viene prima delle parti che la interpretano, viene prima dei Partiti che si sono detti di sinistra, figuriamoci dei “partitini”, e figuriamoci se non viene prima di quelli che invece affermano di esistere per superare il concetto stesso di sinistra, ed in questo, il M5s ed il PD si assomigliano molto di più di quanto gradiscano sentirsi dire. La lettera aperta di Riccardo Truffi a Pippo Civati che non esclude l’abbandono del PD, lettera che ho letto con attenzione, e che si conclude con questa affermazione: “Nulla ti impedisce di contribuire a migliorare le cose, continuando coerentemente a fare la tua battaglia nel PD.” …. mi suggerisce questa riflessione. Truffi evoca la malattia endemica della “sinistra” italiana, che “tanti lutti ha addotto a noi cittadini di sinistra” …. IL FRAZIONISMO. Nel mio piccolo piccolo, lo considero un male endemico sin da quando la “frazione comunista” del socialismo italiano, supportata da ben altri intelletti rispetto a quelli oggi in pista, lasciò la casa madre. Ma qui sta il punto di fondamentale differenza rispetto al passato, sia quello più remoto sia quello più recente…. ….lasciare il PD non significa dividere la sinistra italiana, ma finalmente rendersi conto che la nascita stessa del PD con il rafforzamento di una sinistra e basta, senza aggettivi e senza autocertificati gradi di purezza…… … NON HA PROPRIO NIENTE A CHE FARE ma semmai ha molto a che fare con un suo….. SOSTANZIALE INDEBOLIMENTO, O FORSE, PER I DECENNI A VENIRE, SEPPELLIMENTO. Se la degenerazione dell’idea originale di “Ulivo”, ovvero quella di una alleanza fra forze affini, un centro che guardava a sinistra ed una sinistra che sapeva allearsi con un centro democratico, è prima degenerata in una “Unione” contro natura che andava da Mastella a Turigliatto ….. …..poi è degenerata nel suo opposto. Ovvero nella illusione della validità della fusione a freddo di ex democristiani ed ex comunisti, (con l’ausilio di quelli considerati de facto “utili idioti” di complemento) nella illusoria convinzione appunto che la distinzione fra “Destra e Sinistra” fosse ormai un reperto fossile del passato. Illusione che consente di leggere la scelta delle “Larghe intese” in modo affatto diverso da quella lettura che le vuole “emergenziali” e che l’astro nascente ‘Matteo’, forte di una coerenza capace appunto di mutarsi al mutare delle circostanze sta cercando di sintetizzare in una fase di intera legislatura. In questa luce, l’abbandono del PD di una parte significativa di “compagni”, non si tradurrebbe nella ennesima operazione “frazionista”, ma nel nobile tentativo di rianimare una “sinistra” moribonda, gettando del lievito, o comunque un elemento catalizzatore, in una “materia” cui il PD ha sottratto forza vitale. Vittorio Melandri

domenica 16 febbraio 2014

Francesco Maria Mariotti: L'autosfiducia del PD. Analisi di un grave errore

Sgomberiamo il campo da moralismi: la partita per il potere è sempre cosa dura e poco raffinata. Un amico che è in politica - quando discutiamo di queste cose - cita l'eterno Rino Formica: "la politica è sangue e merda"; se non sopporti la vista del primo o l'odore della seconda è meglio che cambi mestiere. Giusto, o quasi. Comunque, dico questo solo per precisare che il problema che si è aperto in questi giorni con l'autosfiducia Pd (la chiamerei così, per far capire il paradosso cui sembriamo assistere; paragoni con tradizioni politiche di altri paesi mi sembrano fuori luogo) votata dalla Direzione nazionale non è un problema di "buone maniere", ma politico; certo,anche di stile; ma in questo caso lo stile non è un orpello inutile, ma più banalmente il modo in cui gestisci il rapporto con gli elettori, con i cittadini, e con le istituzioni (che non sono casa tua, anche se sei un partito glorioso). Sgomberiamo il campo anche da altri possibili fraintendimenti: a tutti noi può essere capitato di "tradire" un principio a cui si era legati, votati, verso cui si era giurata fedeltà; la carne è debole, diceva un Tizio abbastanza più saggio di molti di noi; ma soprattutto a volte la vita ti pone di fronte a dinamiche che non puoi controllare totalmente e a conflitti di valore, o a situazioni nelle quali sei comunque costretto a scegliere. Secondo molti si diventa "adulti" così, quando si sceglie intimamente - prima ancora che esternamente - cosa sia più importante per noi, di fronte a opzioni radicalmente alternative ed escludentesi; ci si trasforma proprio perché si "taglia" una parte di noi, la si tradisce appunto; si comprende che la realtà richiede un sacrificio, e lo si interiorizza. Quindi è giusto, a volte, "tradire" se stessi. Ma era questo il caso? E se sì (cosa di cui è lecito dubitare), è stato il comportamento del Pd - e dei suoi dirigenti, almeno della maggior parte (purtroppo in questa sede è inevitabile generalizzare) - consono a questa scelta che non è mai affatto semplice? Così non è parso: per velocità (direi fretta) e difficoltà di spiegare. Qui non è in questione il fatto che la scelta politica sia l'ennesima conferma dell'ambizione dell'attuale segretario del partito (per chi come me non l'ha quasi mai avuto in simpatia non sarebbe una novità; ma di per sé questo non sarebbe un problema); qui è in questione che una scelta politica non è stata portata davanti al Paese con l'adeguata attenzione - anche umana - che una decisione così lacerante avrebbe meritato. Tanto per citare un piccolo segno (non ho purtroppo avuto possibilità di verificare i particolari, prendetelo veramente come un segno "di costume", nulla di più), poco dopo la Direzione alcuni dirigenti avrebbero festeggiato le decisioni prese con un aperitivo, non proprio un comportamento da "scelta dura e dolorosa, ma necessaria". Qui preciso ancora: chi scrive non è un "democratico sempre e comunque"; credo che a volte nella gestione delle cose di Stato, colui che è chiamato a responsabilità di governo debba assumersi l'onere anche di mentire, se necessario per il bene della comunità. Ma una cosa è farlo per il bene della comunità, altro è farlo per il proprio tornaconto personale. E se per caso - ma è veramente questo il caso? - tornaconto personale e bene della comunità si avvicinano troppo (a volte può avvenire) non c'è da stare allegri; anche per il (preteso) leader è dunque il caso di aumentare l'autosorveglianza, non al contrario "sbracare" ed eccedere (a questa sorveglianza, teoricamente, servirebbero gli organismi dirigenti di una forza politica). Perché la politica in democrazia è bestia strana: è vero, occorre a volte furbizia, ma mai troppa; occorre anche spregiudicatezza, ma da dosare con equilibrio. Perché comunque in democrazia c'è un "sentimento pubblico" di cui devi tenere conto, c'è una "fiducia complessiva" che regge il sistema e che può essere "zittita", "messa in sordina", "messa in tensione", ma fino a un certo punto. Perché se poi - per qualche sfortunata combinazione di fattori (che temo si sia verificata, in questo caso) - si supera il limite invisibile e impalpabile che separa la "tragica ma necessaria menzogna di governo" dalla "recita (un po' ridicola) del politicante", la rottura della fiducia rischia di essere totale, ingenerosa, e diffusa; e forse irreparabile. Temo che sia questo il caso, anche al di là della volontà dei singoli dirigenti. Forse la troppa fretta, le poche spiegazioni, un combinato disposto di contraddizioni sia della maggioranza che dell'opposizione interne al partito; un approccio totalmente sbagliato nei confronti della persona di Enrico Letta; un approccio troppo visibilmente "eccitato" della persona del segretario del partito; una gestione approssimativa della partita delle riforme, che ora sembrano essere state accantonate (se si vuole durare fino al 2018), dopo aver promesso la velocità, la speditezza, la conclusione di tutto in pochi mesi. Tragica contraddizione o ridicola messa in scena? Ahinoi, sembra prevalere la seconda. Ora siamo costretti a "tifare" un governo, perché l'alternativa rischia di essere il disastro collettivo; ma proprio per evitare questi ricatti, esiste la politica; proprio per gestire queste dinamiche e "diminuire" l'azzardo - non esaltarlo - dovrebbero esistere le forze democratiche, i partiti. Ultime considerazioni riassuntive: 1. Il guaio principale di questa dinamica, per il Pd, è che la "colpa" del leader è stata condivisa dalla quasi totalità della Direzione nazionale. Anche qui la cosa è ben strana: anche solo per furbizia tattica, si sarebbe potuto far vedere che c'era una dialettica. Lo spettacolo di giovedì è stato come vedere un esercito che si muove tutto e troppo velocemente verso un obiettivo che è poco definito, quasi un miraggio. E vien da dire: chi cura le retrovie? una qualsiasi forza organizzata sa che deve "spargersi", non muoversi tutta verso l'indefinito. Sa che deve gestire lo strappo, non esaltarlo. Perché poi se le retrovie sono sguarnite, l'avversario ha spazio per circondarti. 2. Il problema ulteriore - e qui ritorno a qualcosa di già detto in altri ragionamenti - è che le promesse fatte prima probabilmente erano troppo audaci, ma sarebbe meglio dire quasi assurde: "saremo diversi", "serietà è dire ciò che si fa e fare ciò che si dice", "noi non siamo come loro", "i vecchi riti della politica non ci appartengono". E via così dicendo. Ma appunto è quello forse il vero errore, o una sua componente essenziale: fingere che la politica - che è sempre anche "tattica", "mezze bugie", "complotto di palazzo" - non esista, che il Grande Leader di turno possa neutralizzare le dinamiche che - mi verrebbe da dire "in natura" - esistono e che non puoi evitare. Se si fosse stati meno "nuovisti", forse la sensazione di delusione non sarebbe stata così forte. 3. La logica complessiva che segna l'itinerario dell'attuale segretario del Pd sembra seguire le tracce di Craxi, le stesse seguite da Berlusconi e anche un po' da D'Alema. "Questo paese è ingovernabile, e ci vuole una Grande Riforma"; il Grande Alibi che fu del leader socialista e che è diventato l'alibi di tutta una classe dirigente: non riusciamo a fare le cose perché non siamo "presidenzialisti", non siamo 'Stato forte', non siamo la Francia. La Francia intanto è in forte crisi, anche se lo "nasconde" bene. E la più "banale" Germania ha spiccato il volo con partiti 'classici' senza mutare il suo quadro costituzionale. L'Italia è un paese complesso. Forse sarebbe meglio imitare la Germania. Dobbiamo governare, non 'comandare' 4. Ecco, forse in questo "comandare" - verbo che indica il voler evitare la fatica di costruire un percorso, e la difficoltà di una condivisione - troviamo la tentazione ultima che è segno di questi tempi, e di questa politica. E' tragicamente vero che la velocità delle decisioni oggi è tale che a volte è necessario assumersi una responsabilità solitaria; ma è un attimo, un passo di troppo, una disattenzione - anche umana - che si fa strada; e la decisione diventa prepotente, troppo forte, incapace di essere sorretta. E il Paese non capisce, resiste. Frena. E non c'è "gaullismo all'amatriciana" che tenga. La politica anche più coraggiosa fallisce. E' inevitabile che avvengano gli scandali; e forse è bene che ci sia questo "scandalo"; perché in qualche modo la verità della politica poi torna a galla. Oggi i cittadini sofferenti non hanno bisogno di facili slogan, ma di verità. Anche magari condita da qualche forzatura, da qualche compromesso, da qualche bugia. Ma - proprio perché ci aspettano scelte difficili - la verità del percorso difficile e lungo di qualsiasi politica non può essere nascosta. Francesco Maria Mariotti

Renato Fioretti: Che famiglia!

Che famiglia! (di Renato Fioretti) Appartengo a una generazione che ha goduto della possibilità di leggere - quando era ancora “di sinistra” - un quotidiano (fondato da Antonio Gramsci) cui collaborava, con velenosissimi “corsivi”, un certo Mario Melloni, transfuga dall’allora Dc al Pci. “Fortebraccio” - questo lo pseudonimo con il quale il Melloni esercitava (quotidianamente) la nobile arte della satira - amava alludere a Gianni Agnelli come a quello con “la faccia da vacanziere” o, più prosaicamente - stante (forse) l’insolito “vezzo” dell’orologio da polso sul polsino della camicia, se non del pullover - definendolo “la fotocopia di un vero signore”! Non avrei, però, mai immaginato di dover essere anche testimone di ben altre “cadute di stile”! In particolare, da parte di quel Lapo Elkann, tanto irresponsabile da pretendere di assorbire, con fatua “nonchalance”, un micidiale cocktail (di oppio, eroina e cocaina) e, soprattutto, così esigente - stando alle cronache del tempo - da esercitare le sue “particolari” fantasie sessuali con - addirittura - quattro partner d’indefinito genere. Ciò nonostante, m’illudevo che il trascorrere degli anni e un sopraggiunto sussulto di sobrietà (mi verrebbe da dire: di “dignità”), contribuissero a rendere uno sbiadito ricordo le numerose “performance” di un giovane rampollo di casa Agnelli. Purtroppo, però, al peggio non c’è mai fine! Alludo al recente exploit di quello che, giustamente, Marco Palombi - attraverso le colonne de ”Il fatto quotidiano” - definisce: ”La fotocopia di un vero imprenditore”. L’altro Elkann (John), che - “determinato” ad accettare qualsiasi lavoro - non ebbe alcuna esitazione, come lui stesso ha la bontà di confermare, ad accettare l’offerta di “andare a lavorare” entrando a far parte, ad appena 21 anni, del CdA della Fiat! Un’evidentissima conferma di quella “disponibilità” al lavoro che - secondo quanto da lui sostenuto nel corso di un incontro con un gruppo di studenti delle scuole superori della provincia di Sondrio - manca ai giovani disoccupati italiani. Infatti, a parere di “Jaki”, “molti ragazzi non colgono le tante opportunità che ci sono perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione”! A questo punto - in nome e per conto di oltre un milione di giovani disoccupati - non resta che aggiornare la speciale classifica tra quelli che “Parlano, ma non sanno quel che dicono”. Tra “bamboccioni” di Padoa-Schioppa, “schizzinosi” di Elsa Fornero e “l’incapacità, di cogliere le offerte” - secondo il giudizio dell’ultimo arrivato - c’è ampia facoltà di scelta. Tra l’altro, è opportuno evidenziare che a esprimere tali insulse considerazioni non è solo un giovane (incidentalmente, per nascita) “baciato dalla fortuna”, ma, soprattutto, il rappresentante di un gruppo che - mentre ha più lavoratori in Cassa integrazione che non addetti alle linee di montaggio - continua a dedicare sempre più energie alle “delocalizzazioni”, spostando all’estero anche la Sede legale, che non alla ripresa delle attività produttive nel nostro Paese.

sabato 15 febbraio 2014

Caro Fassina, su Tsipras alle idee seguano i fatti

Caro Fassina, su Tsipras alle idee seguano i fatti

COMUNICATO della Rete Socialista-Socialismo Europeo su crisi di Governo | Felice Besostri

COMUNICATO della Rete Socialista-Socialismo Europeo su crisi di Governo | Felice Besostri

Rino Formica: La "Staffetta" a Palazzo Chigi con un lampo sulla storia italiana di 20 anni

Riti tribali e "cristalli" nazionali Lettera di Rino Formica a Critica sociale La "Staffetta" a Palazzo Chigi con un lampo sulla storia italiana di 20 anni Roma, 14 febbraio 2014 Carissimo Stefano, nel pomeriggio di ieri la Borsa Mercato-politico segnala il successo dell’OPA dei banchieri e del capitalismo nazionale in rovina sul sistema politico italiano. La prima repubblica nacque con De Gasperi, Nenni e Togliatti e traghettò l’Italia dal fascismo alla democrazia. La seconda repubblica nacque con Berlusconi, Bossi, Fini e Di Pietro e trasformò la democrazia in oligarchia rissosa e depravata. La terza repubblica nasce con i poteri falliti (banchieri senza soldi, imprenditori senza produzione, burocrazia senza Stato), per consegnare i residui dell’Italia, che lavora e che produce in libertà e democrazia, ai capricci di un mercato globale senza regole e ad una finanza mondiale molto spregiudicata e senza morale (nella foto: le "staffette" italiane) Tutto potrebbe filare liscio sino al giorno della rivolta. A cosa alludeva Letta quando chiedeva una soluzione della crisi che tenesse conto che si sta operando all’interno di una “cristalleria”? Vedeva avvicinarsi la notte dei “cristalli”? Per noi Renzi e Letta nel duello in corso non sono i diretti protagonisti dello scontro, ma sono i procuratori provinciali in una prova di forza tra potenze sovranazionali (USA e Germania, finanza e capitalismo produttivo di beni e servizi, mercato senza regole e coesione sociale?). Vedremo. Affettuosità Rino

Luciano Belli Paci: Ebo Lebo e il PD

Quelli che come me hanno superato la cinquantina ricorderanno quella vecchia pubblicità di un amaro che diceva "con Ebo Lebo digerisco anche mia suocera". Deve esserci in commercio un digestivo mille volte più potente di Ebo Lebo, che consente agli iscritti ed elettori del PD di digerire davvero qualunque cosa. Al già lungo catalogo di rospi, chiodi e altre sostanze innominabili che i sostenitori del PD hanno dovuto ingoiare da quando l'informe creatura ha preso vita fino ad oggi si è aggiunta in questi ultimi giorni questa vicenda ridicola - ha ragione l'Annunziata - della staffetta Letta-Renzi. Se fosse solo pacchiana, opaca, brutale e parecchio squallida, pazienza. Il fatto è che questa vicenda ci rivela con inopinata precipitazione come il giovin segretario del PD sia un epigono del cavaliere di Arcore non solo nell'arte del paraculo imbonitore (dolus bonus), ma anche nella dipendenza dalla bugia patologica. Non uno dei proponimenti sui quali il neosegretario aveva giurato e spergiurato in questi mesi era vero. Renzi mente continuamente, anche senza necessità, mente sapendo di mentire, si compiace delle proprie menzogne. E si circonda di una corte che, proprio come il carnascialesco sultanato di Arcore, ma con un surplus di seriosa ipocrisia, giustifica e imbelletta qualunque piroetta, nega le conversioni più repentine, trova geniali le panzane e celebra come prove supreme di abnegazione le frodi e le pugnalate alle spalle. "Adesso dovranno pur riconoscere che ha perso la faccia" (o che è fatta della stessa sostanza di quella del maestro), uno si illude. Invece no. L'evoluzione della specie ha permesso ai compagni del PD di acquisire la mandibola snodata dei pitoni: fanno un po' di fatica all'inizio, ma poi qualunque boccone entra intero e viene digerito. Sembra passato un secolo da quando fissavano confini invalicabili alla propria sopportazione: "se il partito va al governo con Berlusconi, io me ne vado". Ormai si sono disfatti di tutti gli ingombranti paletti ed ogni avventura è possibile. Luciano Belli Paci

giovedì 13 febbraio 2014

Antonio Caputo: In difesa del sistema parlamentare

“La Corte costituzionale, nella odierna Camera di consiglio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti-legge – degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, così rimuovendo le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime" Dura la reazione dei penalisti. «Quando per mancanza di coraggio si fanno scelte consapevolmente incostituzionali, quando si delega di fatto al giudice delle leggi quello che dovrebbe essere il compito del Parlamento, si capovolge il corso democratico della funzione legislativa», è il commento dell'Unione Camere Penali che ricorda come «anche in queste ore il Parlamento sta licenziando una norma che discrimina i condannati per alcuni reati (il Dl Cancellieri, ndr), escludendoli irragionevolmente dalla possibile applicazione di un beneficio, quello della liberazione anticipata, per timore che la pubblica opinione non comprenda e accusi la Politica di scarsa intransigenza nei confronti dei mafiosi, degli stupratori e chissà chi altro . La Corte Costituzionale "boccia" la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pensanti: nella norma di conversione furono inseriti emendamenti estranei all'oggetto e alle finalità del decreto. L'effetto concreto e' che con la decisione rivive la legge Iervolino-Vassalli come modificata da referendum del '93, che prevede pene più basse per le droghe leggere. La vicenda dimostra la gravita' della crisi del sistema parlamentare italiano e, a ben vedere, la decisione della Corte non concerne in quanto tale il merito (l'equiparazione delle droghe leggere a quelle pesanti): e' solo iun rilievo di tecnicalita', pur sostanziale e non solo formale, dell'iter di conversione di decreti legge la cui legge di conversione deve essere coerente all'oggetto e alle finalita' del decreto, secondo la Corte. Cio' che riguarda a ben vedere migliaia di decreti bellamente convertiti e stravolti e che, per quanto concerbne la Fini Giovanardi si e' "scoperto" ora, a distanza di ben 8 lunghi anni che tanta "pena" hanno arrecato agli "sfortunati" condannati. La giustizia e' cieca, come la fortuna? Mentre il sistema parlamentare fa acqua o meglio prende acqua. Antonio Caputo