mercoledì 29 ottobre 2008

Pier Paolo: la nuova cultura popolare

Ecco, tratto dal portale "libero.it", un sunto del messaggio lanciato ieri dal palcoscemico (e non è un errore di ortografia) della cosiddetta "Isola dei Famosi" da un certo Rossano, che per chi si appassiona a queste cose è noto (?) per essere il mantenuto della miliardaria americana Ivana Trump (peraltro miliardaria solo perché ex moglie lautamente liquidata dal Trump originale, un costruttore che pareva Re Mida negli anni '90, e che poi cadde in disgrazia).

In genere non mi interesso di gossip televisivo, ma visti i discorsi fatti ultimamente su quanto certa televisione abbia determinato il degrado della cultura popolare...

Per certa gente varrebbe forse la pena di rispolverare sistemi del secolo scorso (penso agli anni '70), o - chissà? - anche il manganello: attualissimo, italianissimo e certo apprezzatissimo da alcuni ministri di questo governo; manganello, che come è noto "rischiara ogni cervello".

Conclusione un po' più seriosa: siamo davvero convinti che il nostro impegno politico possa fare la differenza? che la situazione politica possa essere ribaltata senza qualche forzatura? Che un popolo cui vengono quotidianamente proposti "messaggi" di questo tipo possa ancora essere ricettivo rispetto ad una proposta politica "riformista"?

Ditemi, se potete, una parola di speranza... Perché con gli attuali chiari di luna, credo che alla poca gente per bene che è rimasta in questo paese sia aperta solo una strada: quella dell'emigrazione.


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..."Caduta di stile all'Isola dei famosi. Ieri sera la puntata ... si concentra invece su una lite di concetto avvenuta in settimana tra la contessona De Blanck e Rossano - detto Rossangeles - Rubicondi. Lui, che è un omino di classe, sostiene che la vita non regali niente a nessuno e che di conseguenza le cose bisogna guadagnarsele. E fino a qui niente di strano. Per ribadire il concetto e sottolineare che lui è un self made man, un uomo che si è fatto da sè e che non deve dire grazie a nessuno, aggiunge: «A me Ivana Trump non me l'ha portata nessuno» frase che la dice lunga... Ricorda i tempi in cui a Miami faceva quasi la fame («Potevo stare a casa con mammina che mi girava il risotto e mi buttava la pasta ma io non sono così») e spiega che lui aveva degli obiettivi nella vita e che li ha raggiunti solo perché s'è dato da fare: «Se io ora guadagno 30 mila euro al mese è solo perché me li sono meritati. Se stavo seduto ad aspettare a quest'ora la mia vita non era migliorata di niente. Io so quanto volevo poter spendere e ci sono arrivato. Tutto quel che mi avanza lo metto da parte, se non m'avanza niente pace, almeno mi sono divertito». La contessona cerca di ragionarlo e gli fa notare che non tutti possono permettersi di fare questo ragionamento, che il valore della vita non sono i soldi, che "migliorare la propria vita" non significa arricchirsi. Rossano non ci sta. Chi è povero e resta povero è perché se l'è meritato, altrimenti con un po' di fatica e molta forza di volontà chiunque può diventare migliore e quindi ricco. Interviene Belen: «Volere è potere. Guarda Briatore, raccoglieva le mele nei campi e ora...». Entusiasta Rossano: «Lui sì che è un uomo con le palle che fumano. Se stai a casa a fare il gratta e vinci, ain't gonna fuck». Mah!

A fine filmato la discussione si sposta in studio e in selva oscura, dove i naufraghi sono riuniti. Si cerca di far ragionare Rossano che prosegue sulla sua linea "se non sei ricco è perché non ti sbatti", Luxuria fa notare che questi discorsi fatti in Honduras fanno un po' ribrezzo visto che la popolazione del luogo non gode certo di benessere, ma pure la Ventura da studio interviene a sostegno di mister Trump: «La manna non t'arriva dal cielo». Peccato, davvero peccato trasmettere questi "valori" in tv. Davvero peccato che i miliardi di Flavio Briatore con babymoglie siano un modello.

domenica 26 ottobre 2008

rampini: economisti

Dal blog estremo occidente
venerdì 24 ottobre 2008, 21.50.18
Contro gli economisti accuse sospette
venerdì 24 ottobre 2008, 21.50.18 | rampini
Povero Mario Monti, povero Francesco Giavazzi. Chissà come hanno dovuto sentirsi i due economisti, da tanti anni commentatori del Corriere della Sera, quando sullo stesso quotidiano Giovanni Sartori ha bocciato senza appello la loro scienza e la categoria tutt’intera. Gli economisti, ha denunciato Sartori, sono stati incapaci di prevedere la crisi attuale. “Il grosso della loro disciplina non ha previsto la catastrofe in arrivo. Una scienza economica che non sa prevedere è una scienza da poco. Speravo in un loro mea culpa”. Parole pesanti ed efficaci, che in Italia sembrano riscuotere un vasto consenso. Se per caso fossero sfuggite a qualcuno, Sartori è ritornato sul tema: non uno, ma due editoriali in prima pagina per ripetere la stessa requisitoria. Completamente infondata. Per una volta, se c’è una categoria che ha visto giusto sono stati proprio gli economisti. Cassandre inascoltate, i cui appelli sono stati ignorati dai governi, dalle autorità di vigilanza, oltre che dai banchieri e da tutto l’establishment finanziario. Sartori è uno scienziato della politica e nessuno lo coglierebbe mai in fallo su temi come la legge elettorale. Ma le sue letture di economia devono essere rare. Giustamente, come la maggioranza dei cittadini, anche lui si ricorda che esiste questa disciplina solo quando le cose vanno male. Ma quando il resto del mondo si cullava nell’illusione di una crescita durevole, mentre le Borse veleggiavano serene, e i banchieri finanziavano l’inverosimile, gli economisti si sgolavano per dirci che eravamo sulla strada sbagliata. E soprattutto per dirlo all’America. E’ nella nazione-epicentro di questa crisi, non a caso, che si trova una schiera illustre di economisti preveggenti. I premi Nobel Paul Krugman e Joseph Sitglitz, il professore di Yale Robert Shiller, Nouriel Roubini, sono quattro esempi celebri (fra tanti altri). Il caso di Shiller è il più clamoroso. Già un’altra volta questo economista cercò di “bucare” una bolla finanziaria alimentata da una folle euforìa speculativa, quando alla fine degli anni Novanta coniò l’espressione “esuberanza irrazionale”. Quelle due paroline di Shiller furono citate brevemente nel dicembre 1996 da Alan Greenspan, allora presidente della Federal Reserve. Il quale però si affrettò a dimenticarle e continuò la politica di denaro facile che sarebbe sfociata nel crac della New Economy, lo sgonfiamento della bolla del Nasdaq nel marzo 2000. Lo stesso Shiller negli anni più recenti ha dedicato le sue energie a studiare la bolla del mercato immobiliare, mettendo a punto l’indicatore più accurato per misurare la pericolosità raggiunta dalle quotazioni delle case in America. La crisi dei mutui subprime è stata prevista da lui nei minimi dettagli, tant’è che il suo ultimo saggio dedicato al grande crollo è uscito nelle librerie americane praticamente in contemporanea con il crollo stesso. Roubini, Krugman e Stiglitz da parte loro avevano denunciato con lucidità i grandi squilibri macroeconomici che sono alla radice della crisi attuale, in particolare gli eccessi di indebitamento delle famiglie americane, la dissennata politica fiscale di Bush, gli errori di una politica monetaria lassista, l’allentarsi delle regole e dei controlli sui mercati, l’avvitarsi incontrollato del debito pubblico e dei deficit commerciali esterni: cioè tutte le cause fondamentali che stanno dietro alla finanza malata. Questi autori non esprimevano i loro allarmi in luoghi clandestini, né si limitavano a sensibilizzare gli ambienti accademici: Krugman e Stiglitz scrivono regolarmente sul New York Times e vengono tradotti nel mondo intero (su Repubblica per l’Italia, come anche Roubini). Insieme a loro un coro di altri economisti lanciò l’allarme all’ultimo World Economic Forum di Davos, nel gennaio di quest’anno. Al summit globale sulle montagne svizzere c’erano come sempre capi di governo, ministri del Tesoro, governatori di banche centrali, nonché tutto il Gotha dell’alta finanza. La classe dirigente era “informata dei fatti”: gli economisti non avevano lesinato previsioni apocalittiche. Certo, la maggioranza degli economisti non ha previsto la data esatta in cui l’indice Dow Jones avrebbe perso il 30% del suo valore (anche se Shiller ci è andato molto vicino). Gli si deve forse rimproverare di aver cominciato a fare gli uccelli di malaugurio troppo presto? Ma se esistessero dei geologi capaci di prevedere con uno o due anni di anticipo il prossimo Big One di San Francisco o di Tokyo, sarebbero considerati dei salvatori di vite umane: ci darebbero il tempo di verificare la solidità delle costruzioni antisismiche prima della grande scossa. Invece i moniti degli economisti sono rimasti inascoltati. E non perché fossero poco comprensibili o poco credibili. I banchieri avevano capito benissimo. A Davos nove mesi fa c’era chi parlava tranquillamente del fallimento della Ubs come di un’evenienza probabile. Ogni banchiere però pensava di essere più furbo del suo vicino. “Finché la musica va, si continua a ballare” fu l’espressione coniata dal numero uno di Citigroup proprio in quel vertice a gennaio. L’importante era non rimanere col cerino acceso in mano, arricchirsi fino all’ultimo secondo prima del cataclisma. Chi avrebbe dovuto bastonare subito i banchieri non fu da meglio. Le banche centrali abbozzavano. Le autorità di Borsa russavano. Un futuro ministro dell’Economia scriveva libri sulla prossima crisi, quella che doveva venire dalla Cina. Ora però come Sartori la pensano anche loro: è tutta colpa dei “tecnici”, inutili esperti incapaci di prevedere alcunché. Si celebra il fallimento della scienza economica, di fronte a una crisi che consente di riscoprire “la politique d’abord”. Il primato della politica, concetto che fu caro a Lenin come ai democristiani, ritorna di prepotenza. La bocciatura degli economisti è benvenuta, in una fase in cui bisogna sbarazzarsi dei “parametri”. Addio Maastricht e Patto di stabilità, è ora che le grandi scelte di politica economica siano governate dal feeling armonioso che si stabilisce tra i veri leader e i loro popoli. E’ lontana l’epoca in cui quei parametri furono salutati come una liberazione per il cittadino-contribuente, e una garanzia per le future generazioni: l’argine contro il ciclo di spesa elettorale, la barriera contro l’assistenzialismo e il dirigismo. Ora, a quanto sembra, non c’è problema che non si possa risolvere a furia di salvataggi pubblici, fondi di Stato, ri-nazionalizzazioni. Purché si mettano a tacere le obiezioni degli inutili economisti.

marx su marx

da larepubblica, 25 ottobre
GERMANIA: ARCIVESCOVO MONACO, KARL MARX AVEVA RAGIONE
Nella sua analisi del capitalismo Karl Marx aveva visto giusto. A sostenerlo in un'intervista al settimanale 'Der Spiegel' e' un suo omonimo, l'arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising, Reinhard Marx, 55 anni, elevato alla porpora lo scorso anno da Benedetto XVI. Il porporato manda a giorni in libreria un suo libro dal titolo "Il capitale - Una difesa dell'uomo", che contiene all'inizio una lettera indirizzata al fondatore del comunismo. Nell'intervista Reinhard Marx spiega che "bisogna prendere sul serio" il filosofo di Treviri, ed aggiunge che "e' un errore considerarlo morto, come pensano in molti. Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate". L'arcivescovo di Monaco dichiara che "poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perche' aveva ragione. Nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili". Alla domanda se bisogna chiedere scusa a Marx per averlo spedito nel dimenticatoio, il porporato risponde: "Gia' fatto, noi con l'etica sociale della Chiesa non abbiamo mai confuso l'opera filosofica di Marx con Stalin ed i Gulag. Non si puo' attribuire a Marx cio' che hanno fatto i suoi epigoni. Lui ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita". Quando gli viene chiesto se il comunismo sia definitivamente sparito dalla faccia della terra con il crollo dell'Urss, Reinhard Marx risponde: "Niente affatto, poiche' vediamo che Marx sta rivivendo adesso una rinascita (come conferma la triplicazione delle vendite in Germania del primo volume del 'Capitale', ndr). Una cosa e' chiara, con il tipo di capitalismo ereditato dalla Seconda Guerra Mondiale non andiamo lontano". Per sgombrare comunque il campo da possibili equivoci, Reinhard Marx precisa di non essere marxista, ma auspica una societa' con un'economia "basata su principi etici. Da questo punto di vista la dottrina sociale della Chiesa costituisce una critica del capitalismo. Un capitalismo senza un quadro etico e' nemico del genere umano".

sabato 25 ottobre 2008

paola: il signor cossiga

Per rispondere alle farneticanti affermazioni fasciste del signor Cossiga, ricordo un nome: Giorgiana Masi. Uccisa dalla sua polizia a 18 anni, nel 1977, durante una manifestazione pacifica.
Giorgiana era del 1958, come me. Oggi sarebbe una vecchia ragazza degli anni '70, come me, e si indignerebbe davanti a questa macelleria impunita delle parole, delle idee, dei sentimenti.
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'Se la rivoluzione d'ottobre fosse stata di maggio,

se tu vivessi ancora,

se io non fossi impotente davanti al tuo assassinio,

se la mia penna fosse un'arma vincente,

se la mia paura esplodesse nelle piazze,

coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola,

se l'averti conosciuta diventasse la nostra forza,

se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita

nella nostra morte diventassero ghirlande

della lotta di noi tutte, donne,

se...

non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita

ma la vita stessa, senza aggiungere altro.'

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Sostiene Kossiga:



''In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perche' pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito...''. ''Lasciar fare gli universitari - ha continuato - Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle universita', infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le citta'''. ''Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovra' sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri'', ha affermato Cossiga. ''Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pieta' e mandarli tutti in ospedale - ha continuato - Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in liberta', ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano''. ''Soprattutto i docenti - ha sottolineato - Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine si'.

QN 23.10.2008

melandri: 25 ottobre PD in piazza

Un amico favorevole al PD, o perlomeno non contrario, mi dice che “la unificazione dei riformisti” ai nostalgici del ‘900 non piace “perché sposta al centro dando più voce ai credenti e meno ai laici; perché taglia e lascia senza rappresentanza opinioni più radicalmente di sinistra”.

Per me non è questo che conta, per esprimere un giudizio negativo su quella presunta “unificazione dei riformisti” che si chiama PD.


Il mio giudizio negativo scaturisce dalla convinzione che i “riformisti” si possono a mio parere unificare solo su un piano, quello delle riforme concrete, quello delle riforme da “fare”, identificate di volta in volta, materia per materia.


Da sempre in Italia accade invece che si persegua l’unificazione dei riformisti senza riforme.

Altra cosa ancora poi, è la semplificazione dell’organizzazione delle forze politiche in partiti.

I fatti ci dicono che quello che si è fatto sin ora è una moltiplicazione delle forze politiche in campo, non una loro riduzione, sempre che non si consideri l’unico “campo” in cui si possono riconoscere forze politiche, quel Parlamento in cui oggi sono ammessi solo dei nominati e non degli eletti, che è anche questa una semplificazione, ma una semplificazione che puzza….. e tanto per essere chiari….. puzza di fascismo.


La divisione poi fra credenti e non credenti, spacciata implicitamente come divisione fra cattolici e non cattolici, quando non addirittura fra credenti e laici (ma nel caso del mio amico credo ad un suo lapsus), è di quelle che suonano false come monete taroccate male.


Innanzi tutto perché in Italia da sempre i cattolici sono divisi al loro interno fisiologicamente (cristianamente oserei dire senza intenti polemici) e la loro “unione” è invece un vero e proprio “sacrificio umano” con spargimento di sangue celebrato sotto la cupola di S. Pietro a colpi di dogmi e di denaro sonante, con cui si sono finanziati nei secoli quei “concilii” utili solo a conciliare l’esistenza di una corte sfarzosa e stupida….


......poi perché la fede vera, quella che è un dono ricevuto e non una piaga imposta, non è rivolta all’al di qua ma all’al di là, dove non è noto se le preferenze siano per il divorzio o l’indissolubilità del matrimonio, per Casini o i casini, per Verlusconi o Beltroni.....


...e poi ancora perché la divisione fra idee diverse è in partenza un dato solo positivo, di cui tener conto cercando di aggregarle nel modo più omogeneo fra loro.


In ogni parte del mondo le idee politiche da almeno un paio di secoli si raggruppano in due grandi aggregati, uno di destra e uno di sinistra, e il “centro” è occupato dall’elettorato che la destra e la sinistra si propongono di volta in volta di conquistare, senza cambiare loro la loro identità, ma cercando di convincere gli elettori al “centro” della loro attenzione che le loro idee (di destra o di sinistra) sono quelle più utili per loro, cittadini elettori e sovrani.


Questo schema in Italia non funziona per una ragione precisa, l’esistenza di un competitore politico anomalo, che senza essere partito senza essere “stato” senza essere elettore, occupa però da sempre il “centro” dell’agone politico italiano.


Questo competitore si chiama “Chiesa Cattolica Romana”.



Questo competitore andrebbe stanato, portato nell’agone politico come tutti gli altri, ma….. la predisposizione al servaggio delle classi dirigenti italiane tutte, non ha ancora permesso il compiersi di questo miracolo.


E dietro e sotto le sottane con il galero intesto, i dirigenti italiani di maggioranza, di tutte le maggioranze e di tutte le categorie merceologiche, da sempre consumano i patti per la loro eterna sopravvivenza, intanto che il popolo ......... “se gratta”.


Il PD è l’ennesima occasione perduta in questa direzione, e viene per giunta spacciata per nuova una operazione che in Italia più vecchia non potrebbe essere; per riformista, quando è solo l’ennesima armata brancaleone che è partita con la gran cassa delle riforme inalberata sul pennone di maestra, salvo poi come sempre, mostrare una cassa che non è gran e per giunta è vuota di riforme, come sempre!


Esemplare il fatto che giusto oggi si riempia una manifestazione annunciata da mesi senza contenuto, con il contenuto dell’ultima ora, quell’aggressione alla scuola pubblica che, è bene ricordare, proprio un ministro del centro sinistra fallimentare che abbiamo conosciuto, aveva anche formalmente cancellato in quanto pubblica, ed oggi non a caso, si ricorre ancora ad uno dei pochi “riformisti” italiani delle riforme (non uno dei tanti riformisti delle patacche), come Piero Calamandrei, per spiegare che lo svuotamento delle scuole pubbliche prima di essere un obiettivo della P2 è da sempre un obiettivo della Chiesa Cattolica Romana, la sola depositaria in Italia della scuola privata.


Qui mi fermo e mi riservo di continuare con una prossima puntata.



Vittorio Melandri

rusconi: l'alibi della società civile

da La Stampa


24/10/2008

L'alibi società civile





GIAN ENRICO RUSCONI

Mi auguro che la manifestazione annunciata e attesa per domani a Roma non adotti lo slogan di esprimere le «forze antiberlusconiane della società civile», come suggeriscono gli amici di MicroMega. Capisco perfettamente la logica contestativa dello slogan. Ma sarebbe ingannevole nella sostanza. Il berlusconismo infatti è anche espressione della società civile italiana. Il problema del nostro Paese è la scissione e il disorientamento proprio della società civile nel suo insieme. Da questa situazione una parte di società è tentata di uscire forzando lo strumento politico.

Smettiamo dunque di usare il concetto di «società civile» per indicare tutto il positivo della società italiana che viene rimosso, conculcato o nascosto dal berlusconismo o da altri fenomeni (mafia, corruzione politica, xenofobia o tentazioni autoritarie). Mettiamo in soffitta una volta per tutte questo nobile concetto che ha svolto una grande funzione chiarificatrice ed emancipativa, ma che oggi rischia di essere retorico e illusorio.

Lo so che sarà dura abbandonare questa espressione passe-par-tout, che si tira dietro altre coppie concettuali consolidate e apparentemente chiare (Paese reale contro Paese legale, palazzo contro società ecc.). Rischia però di essere tutto ciò che resta della costruzione ideologica della sinistra. Ma quando a Palazzo Chigi c’erano Prodi e D’Alema, quando a Montecitorio c’era Bertinotti e al Quirinale Ciampi, la società civile gestiva forse la politica? O vi influiva davvero? Naturalmente no, e non solo perché gli intransigenti evocatori della «società civile» erano sempre sul piede di guerra.

Non vorrei essere frainteso. Non sto polemizzando contro chi combatte energicamente il berlusconismo. Non si tratta neppure di dichiararsi pro o contro la ricerca di un ragionevole dialogo con la maggioranza o viceversa di considerare intrattabili le reciproche posizioni ideali e politiche. L’obiezione è assai più radicale. Si tratta di ammettere che il male è dentro la società civile, non fuori di essa. E quindi non ha senso evocarla come una soluzione.

Si può suggerire la scappatoia di definire il berlusconismo una patologia della società civile. Paradossalmente è già un passo in avanti nell’analisi. Vuol dire infatti riconoscere che la voglia di autoritarismo e di decisionismo comunque sia, le ventate antisolidali e di razzismo latente che percorrono il Paese, la strafottenza verso i perdenti e i deboli, l’opportunistica e ipocrita deferenza verso la Chiesa non vengono dal di fuori o per colpa di pochi malintenzionati, ma dal ventre profondo della società civile. E il berlusconismo, lungi dal correggere questi fenomeni, li interpreta e li legittima, verosimilmente al di là delle sue buone intenzioni.

Ma qual è la forma politica di questa situazione? Qui accade un altro fenomeno sorprendente nel nostro Paese logorroico e con un sistema mediatico-comunicativo ipertrofico: ci mancano le parole adeguate per definire la situazione reale. Da quindici anni si parla di «berlusconismo» o di «populismo». La prima espressione è tautologica, la seconda è troppo vaga e utilizzabile per molte altre circostanze e personalità politiche.

Ma non abbiamo di meglio e quindi dobbiamo passare attraverso la strettoia di queste due espressioni, resistendo alla tentazione di contrapporvi in positivo, appunto, la bella e buona società civile. Il populismo berlusconiano interpreta la voglia del popolo-elettore maggioritario per decisioni rapide, drastiche e visibili. E viene accontentato: la scomparsa della spazzatura napoletana, la soluzione - a qualunque costo - della questione Alitalia, l’interventismo pronta cassa a sostegno delle banche e dell’industria ecc.

Berlusconi interpreta questo ruolo portando di fatto il sistema politico verso un presidenzialismo informale strisciante. Non ha bisogno di ricorrere a impegnative riforme istituzionali. Gli basta apparire in tv ad enunciare decisioni che la sua maggioranza sosterrà zelantemente in Parlamento. Ma l’idea del leader vicino alla gente, non prigioniero nei giochi di palazzi, non era una richiesta sociale? La domanda di una semplificazione del sistema politico e la fine delle risse intrapartitiche non era forse emersa dal profondo della società civile? Eccola servita.

venerdì 24 ottobre 2008

melandri: adriano olivetti

Quando ancora la pagina numero tre dei quotidiani era la “terza pagina”, la “terza pagina” del quotidiano della mia città, Piacenza, Libertà di giovedì 20 marzo 1980, si apriva con un articolo firmato da Vittorio Agosti dal titolo: “Adriano Olivetti tra Maritain e Mounier”.

Era stato scritto per ricordare che erano passati vent’anni (27 febbraio 1960) dalla morte di Adriano, quell’imprenditore, per dirla con le parole di Agosti, che era.....

.... “un uomo ben piantato ed attivo nel suo tempo ..(che) ha avuto il merito di capirne a fondo i problemi e le inquietudini, tentando di alzarne il tono sociale e civile …cercando di mettere sempre l’uomo in anticipo sui suoi prodotti.”

Adriano aveva ereditato da suo padre Camillo il controllo di un’azienda fondata, a far data da oggi, giusto cento anni or sono; quando il 29 0ttobre 1908 in Ivrea, 12 soci, appunto sotto l’impulso di Camillo, costituirono la - Società in accomandita Olivetti -, la “Ing. C. Olivetti & c.”, azienda con 20 dipendenti, prima fabbrica italiana voluta per produrre macchine per scrivere, come si legge in un manifesto pubblicitario in cui campeggia un Alighieri che sembra dire agli italiani: con questa macchina potete scrivere anche voi.

Quando alla fine degli anni novanta Laura Curino e Gabriele Vacis hanno deciso di raccontare a teatro l’epopea Olivetti, non a caso hanno scolpito per il loro lavoro un titolo in cui spicca questo inciso: “alle radici di un sogno”.

Il sogno è svanito da tempo, e in un paese così poco civile come si rivela ogni giorno di più il nostro, quello di Camillo e Adriano Olivetti, forse non poteva essere altro che un sogno, a suggello della cui fine si possono fra i tanti citare due emblematici episodi.

La notizia apparsa a pagina diciannove del Corriere della Sera di martedì 29 luglio 2003, notizia con cui, nell’indifferenza generale si apponeva una sorta di burocratico timbro sull’addio alla Borsa di Milano del nome Ing. C. Olivetti & c. S.p.A., nome cui da tempo non corrispondeva più una realtà industriale del nostro paese, e, più recente, la notizia che il ministro della Cultura Sandro Bondi, con alto sprezzo del pudore, e senza provare la ben che minima vertigine per la vergogna, in un suo libro ha paragonato Silvio Berlusconi ad Adriano Olivetti.

Se il sogno degli Olivetti è finito in macerie (è di oggi 24 ottobre la notizia della chiusura ad Agliè nel canavese, di un ultimo residuo stabilimento legato a quella filiera), la stessa cosa non si può dire del loro ricordo, a cui va ascritta una pubblicistica davvero imponente e alla cui memoria appunto, si stanno approntando adeguati “festeggiamenti” per onorare il centenario della nascita della loro azienda.

Di Adriano Olivetti personalmente ho fatto appena in tempo ad avvertire gli ultimi “profumi” rimasti, essendo entrato in Olivetti nel 1970, dieci anni dopo la sua morte, ed avendo occupato posizioni di ultima fila, per tutti i quindici anni circa che vi ho trascorso.

Non ho però esitazioni o timidezze nell’affermare che quei “profumi” mi hanno segnato indelebilmente.

A fronte del trionfo odierno dei prodotti sull’uomo, anche di quelli sempre più brutti nella forma e scadenti nella sostanza, che oggi vengono sistematicamente premiati dal mercato, rimango fermo nella convinzione che la strada giusta sia ancora quella tentata da Adriano, quella di mettere sempre l’uomo in anticipo.

Anche quando nel tentare l’impresa si commettono errori.

E a proposito degli errori di Adriano, recentemente mi è capitato di ascoltare autorevolissime testimonianze in tema, portate da Nerio Nesi, che della Olivetti fu direttore finanziario voluto dallo stesso Adriano, e da Michele Pacifico, che partecipò all’avventura della divisione elettronica, che sempre Adriano decise di animare sin dalla prima metà degli anni cinquanta, quando a Pisa fondò un centro di ricerche elettroniche, alla cui direzione chiamò Mario Tchou, ingegnere di origini cinesi.

In occasione della presentazione a Milano presso la Casa della Cultura, del libro di Emilio Renzi “Comunità concreta – le opere e il pensiero di Adriano Olivetti”, Nesi ha affermato che il contemporaneo impegno finanziario sostenuto per acquistare la Underwood negli Stati Uniti e quello per lanciare l’Olivetti nell’elettronica, era superiore alle possibilità delle casse aziendali, una carenza struttural-finanziaria al cui miglioramento la famiglia, divisa al suo interno, non sopperì in alcun modo; Pacifico, sempre nella stessa occasione ha poi riaffermato la sua convinzione che in presenza del colosso IBM, allora leader incontrastato del mercato, la “missione elettronica” si rivelò per tutti, non solo per Olivetti, una missione impossibile, tentando la quale, l’azienda eporediese si scavò la fossa nella quale alla fine sprofondò.

Certo è che le morti, nel 1960 di Adriano, sul treno che lo conduceva a Losanna, e di Mario Tchou nel 1961, in un incidente automobilistico (che qualcuno definisce ancora misterioso), hanno fatto venir meno le volontà più determinate a percorrere anche in Italia e in tempo utile la “via elettronica”, e il figlio di Adriano, Roberto, da solo non si rivelò all’altezza di sbarrare la strada a quel “Gruppo di intervento” costituito da Fiat, Pirelli, IMI e Mediobanca, tanto forte economicamente quanto miope, sia sul piano culturale che imprenditoriale.

Una volta preso il comando, quel “gruppo” (che oggi chiameremmo “salotto buono della imprenditoria italiana”, per distinguerlo, almeno nominalmente, dal “salotto meno buono” di quelli che hanno fatto del falso in bilancio un motivo d’orgoglio) diede presto seguito alla raccomandazione di Valletta, estirpare il “neo” (l’elettronica) dalla Olivetti, e così fu e nel 1964 tutta la divisione elettronica venne ceduta in blocco alla General Electric.

Ancora una volta le radici italiane in un intero settore industriale venivano essiccate nonostante la linfa, le capacità, che le nutrivano.

A Piacenza dove vivo, la Ing. C. Olivetti & c. S.p.A. è stata presente, oltre che con le sue strutture commerciali, con uno dei tre poli di formazione in cui quello specifico settore aziendale era articolato, ad Ivrea/Burolo, a Firenze e appunto a Piacenza. Una presenza accompagnata dalla più serena indifferenza della città, durata trent’anni, dal 1967 alla fine degli novanta, quando qualche distratta cronaca giornalistica accompagnò una migrazione mesta, capace di lasciarsi dietro solo un riferimento toponomastico, quello all’ex palazzo Olivetti sul Pubblico Passeggio.

Vittorio Agosti nel 1980 concludeva il suo pezzo con un sentito omaggio all’utopia di Adriano, un’utopia “di quelle che onorano l’uomo”.

Oggi, che del “sogno” degli Olivetti sono state estirpate anche le seccate “radici”, a suo padre Camillo e all’ “imprenditore di idee” evocato da Franco Ferrarotti, alla “sorpresa italiana” illustrata da Giorgio Soavi, e alla “Comunità concreta” in cui Emilio Renzi riconosce “le opere e il pensiero di Adriano Olivetti”, possiamo solo rivolgere un pensiero carico di nostalgia, fargli festa come si conviene ai bene educati, e chiuderla qui, perchè visti i tempi, credo proprio di averla fatta troppo lunga.

Poffarre, abbiamo altro a cui pensare.

Vittorio Melandri

mercoledì 22 ottobre 2008

melandri: in margine all'assoluzione del sen. mannino

Un tempo non lontano la “mafia” non esisteva (Nonostante Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino l’avessero radiografata in un saggio, sin dalla fine dell’800). Non esisteva politicamente e non esisteva giuridicamente anche se le sue vittime venivano, come oggi continua ad accadere, in parte uccise e regolarmente inumate (nel cemento armato, in “foibe” di fortuna, e anche nell’acido); e in gran parte soggiogate in una condizione di sudditanza morale e materiale (schiavitù moderna) che rappresenta tutt’ora l’acqua di coltura nella quale i bacilli mafiosi prosperano e si moltiplicano senza soluzione di continuità.



Un salto di qualità per lo Stato di diritto, è consistito quindi nel riconoscerne, della mafia, l’esistenza, sia da un punto di vista sociale e poi politico ed infine giuridico.



Ma che fatica.



Basti ricordare che la prima proposta per istituire una commissione parlamentare che indagasse il fenomeno mafioso risale al 1948, ma per il varo della prima Commissione antimafia si è giunti al dicembre 1962, e solo nel 1965 fu varata la prima legge recante “Disposizioni contro la mafia”, la L. 31 maggio 1965, n. 575. Non bastò però l’assassinio di un suo promotore, perpetrato con la solita vigliaccheria il 30 aprile 1982, per arrivare all’approvazione della legge Rognoni-La Torre, la prima vera legge antimafia capace di riconoscere giuridicamente l’Associazione di tipo mafioso, in tutta la sua dimensione criminale.



Per l’approvazione della legge Rognoni-La Torre, fu infatti necessario attendere che la mafia massacrasse anche il Prefetto Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. Solo dopo di allora, il 19 settembre il Parlamento italiano si decise ad approvare la legge che ha introdotto l’art. 416-bis nel codice di procedura penale.



Da sempre l’associazione di tipo mafioso gode delle ingorde attenzioni “affettuose” della politica, ma solo con il riconoscimento giuridico di quella fattispecie di reato che si configura nel “concorso (sempre eventuale) esterno in associazione di tipo mafioso”, fattispecie delineata con il lavoro prima e il sacrificio della vita poi, dei giudici Giovanni Falcone e Antonio Borsellino, si è potuto sperare di mettere argine a…… per dirla con le precise parole della Suprema Corte di Cassazione:



«quella particolare forma di contiguità alla mafia comunemente definita come “patto di scambio politico-mafioso”».

Reato che rimane il più “osceno” (nel senso letterale del termine) fra i tanti che un politico italiano possa commettere.



La Suprema Corte di Cassazione nella sua “esemplare” Sentenza, la n. 33748 del 12 luglio 2005 - depositata il 20 settembre 2005, emessa dalle Sezioni Unite Penali, sotto il Presidente Nicola Marvulli, Relatore il giudice Giovanni Canzi (sentenza che ha riformato con rinvio ad altra Corte di Appello, la sentenza di colpevolezza riconosciuta in secondo grado a Calogero Mannino), di tale reato scrive:



“In merito allo statuto della causalità, sono ben note le difficoltà di accertamento (mediante la cruciale operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura o generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali, soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva e natura associativa.”



E qui siamo, ancora oggi, nell’anno di grazia 2008.

Riprendendo il linguaggio della prima sentenza di assoluzione a favore di Calogero Mannino:



“….non essendo espressione di un sistematico rapporto sinallagmatico* fra Mannino e Cosa nostra, non sarebbero configurabili gli elementi costitutivi del concorso esterno.”



*(sinallagmatico – dicesi di contratto a prestazioni corrispettive)





“Di talchè” (noi comuni mortali diremmo, cosicché) non avendo trovato traccia del contratto di lavoro sottoscritto dalle parti (l’amministratore delegato al personale della mafia, da un lato, e il consulente esterno Calogero Mannino, dall’altra) il Mannino deve considerarsi innocente della fattispecie criminosa attribuitagli.



E ancora citando la prima sentenza di assoluzione…… pur non essendo i comportamenti accertati del Mannino….



“…esenti da censurabili legami e rapporti non occasionali fin dalla seconda metà degli anni ’70 con esponenti delle famiglie mafiose agrigentina e palermitana di Cosa nostra, sarebbero interpretabili in chiave di “vicinanza” e “disponibilità”, secondo una casuale di tipo elettorale-clientelare o anche corruttiva, ma non quali contributi di favore destinati al consolidamento dell’organizzazione mafiosa, sì che in esse, non essendo espressione di un sistematico rapporto sinallagmatico fra Mannino e Cosa nostra, non sarebbero configurabili gli elementi costitutivi del concorso esterno.”



Da cui si evince che…..



L’asimmetria fra la “potenza” della mafia e l’incapacità dello Stato di diritto di difendersi, esaltando la propria natura di Stato di diritto, da queste parti si chiama “garantismo ad una direzione”, il solo tipo di garantismo che a tut’oggi viene esaltato, in questo sempre più disgraziato paese.





Vittorio Melandri

martedì 21 ottobre 2008

Melandri: crescente disparità

Ero ieri sera alla presentazione del libro di Emilio Renzi che stimola l’attenzione su “le opere e il pensiero” di Adriano Olivetti, come è scritto in modo esplicito nel sottotitolo. “Comunità concreta” è il titolo, con un altrettanto esplicito riferimento al movimento politico e all’impresa editoriale che l’industriale italiano animò. Emilio Renzi che fra l’altro ha anche lavorato alla Direzione Relazioni Culturali della Olivetti.



Prima considerazione:



sarebbe davvero interessante sapere quante sono oggi le aziende italiane che nei loro organigrammi annoverano una “Direzione Relazioni Culturali”



Seconda considerazione: nelle prime pagine del libro, che essendo di carattere biografico ha una scansione temporale, si legge di un viaggio negli Stati Uniti d’America che Adriano Olivetti fece a cavallo degli anni 1925 e ’26.



Da lì fra l’altro scrisse:



«Qui è il paese dei contrasti. Si vedono migliaia di auto (Ford ha venduto la 12 milionesima macchina) e si può incontrare un individuo che ti chiede 20 c. per mangiare quel giorno».



E proprio oggi si ha notizia che l’OCSE, l’organizzazione mondiale che annovera i 30 paesi che ricordo…



AUSTRALIA

AUSTRIA

BELGIO

CANADA

COREA

DANIMARCA

FINLANDIA

FRANCIA

GERMANIA

GIAPPONE

GRECIA

IRLANDA

ISLANDA

ITALIA

LUSSEMBURGO

MESSICO

NORVEGIA

NUOVA ZELANDA

OLANDA

POLONIA

PORTOGALLO

REGNO UNITO

REPUBBLICA CECA

REPUBBLICA SLOVACCA

SPAGNA

STATI UNITI

SVEZIA

SVIZZERA

TURCHIA

UNGHERIA



….ha prodotto un rapporto dal titolo significativo ‘Growing Unequal’ – che può anche essere tradotto non solo ‘Crescita Disuguale’ ma anche con un più significativo ed emblematico ‘Crescente Disparità’.



Secondo tale rapporto la crescita economica degli ultimi decenni ha favorito i ricchi e nel nostro Paese, in particolare, disuguaglianza e povertà sono cresciute rapidamente durante i primi anni Novanta.



Testuale dal rapporto:



“In Italia disuguaglianza e povertà sono cresciute rapidamente durante i primi anni novanta. Da livelli simili alla media OCSE si é passati a livelli vicini a quelli degli altri paesi dell’Europa del Sud. Da allora la disuguaglianza é rimasta ad un livello comparativamente elevato. Tra i 30 paesi OCSE oggi l’Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri.”



Alla faccia di quel “dire” che evidentemente non si muta mai in “fare” del secondo comma dell’Art. 3 della nostra Costituzione e che recita testuale (ripeterlo non è inutile)

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Ma anche alla faccia di chi considera la parola ‘socialismo’ alla stregua del nome di un cane morto, e lo fa (se mi si perdona l’irriverenza della rima) non con la “maschera di un Piero Ostellino ma con la faccia di un Piero Fassino”, fondando un sedicente “partito nuovo” che si rivela ogni giorno di più, nel migliore dei casi, l’ennesimo “nuovo partito”, e nel peggiore, il partito becchino della sinistra italiana.

E questo accade nel Paese dove, come ci ricorda il compagno Ceccoli, un’oasi di socialismo per trovarla bisogna cercarla in una mailing-list e dove serve più socialismo non meno, serve più sinistra, non meno, serve la capacità di far convivere le diversità, non la presunzione demenziale di essere i soli, i migliori, quelli che dialogano con i Berlusconi e non si alleano con i "sinistri radicali".

Vittorio Melandri

Paola Meneganti; un Giorgio Bocca del 2005

Mi è capitata in mano, oggi, una vecchia copia de l'Unità.
Esagerato? Chissà.
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"Non diciamo che questa nuova destra berlusconiana è fascista, è qualcosa di peggio, il fascismo attaccava lo Stato liberale per ricostruirlo più forte e autoritario, il berlusconismo lo disgrega per avere mano libera nel saccheggio e nell'uso delle istituzioni".
Giorgio Bocca, Unità 9 gennaio 2005 - Strisciarossa

paolo ceccoli: uguaglianza

Cari amici rosselliani,
vi scrivo per ringraziarvi del vostro lavoro, vera oasi di ragionevole
"socialismo" in questa marmellata di insulsaggini che inopportunamente
chiamano opinione pubblica italiana. Nel dichiarare, nonostante la mia
incapacità e impossibilità di dare un contributo fattivo, la ferma
volontà di rinnovare la mia tessera, vi segnalo che un gruppo di
attivisti, esperti e figure di riferimento nel campo dei diritti umani ha
pubblicato, nell'occasione del 60° della Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo, un manifesto per i diritti di di uguaglianza nel 21°
secolo che, qualunque cosa si pensi sull'argomento vale la pena di
leggere. Scorrendo i documenti che vi allego, si nota un impegno
filosofico giuridico e politico di rilievo che è stato sottoscritto da
personalità di tutto il mondo, ma, ça va sans dire, si nota anche la
mancanza della benchè minima personalità italiana. L'assenza di ogni
figura italiana che parli di eguaglianza in connessione ad un gruppo di
esperti mondiali che lo fa che significa? Forse che, come da più parti
emerge, (viva la mailing del Rosselli!), in Italia le parole socialismo,
uguaglianza, riduzione delle disuguaglianze, diritto all'equità e via
discorrendo sono andate perdute con la svolta del secolo? Perchè nel
resto del mondo no? Perchè da noi si persegue la "vocazione
maggioritaria"? and so on?
Paolo Ceccoli

macaluso: PD debole anche senza di pietro

21/10/2008

EDITORIALI
Pd debole anche senza Di Pietro
Di Pietro è lontano dalla cultura democratica», ha detto Walter Veltroni annunciando, nel corso della trasmissione Che tempo che fa, la fine dell’alleanza tra il suo partito e quell...
EMANUELE MACALUSO

socialisti americani

Next Left
Oggi 21 ottobre 2008, 11 ore fa

Obama not Socialist, say Socialists
Oggi 21 ottobre 2008, 11 ore fa | sunder.katwala@fabian-society.org.uk (Sunder Katwala)
The Chicago Tribune has worked hard to ferret out a few American socialists - mainly Marxists and communists as it happens - who are pretty clear that Obama is not one of theirs.

And, if an opinion from the Fabian Society - which did a good deal to invent the non-Marxist, democratic socialist tradition - is of any relevance: clearly Obama is not a socialist.

Rather, Obama is a moderately liberal, centrist Democrat.

While it draws on different strands of political ideas, the US liberal Democrat tradition of FDR, JFK and LBJ has shared a number of common features with social democracy in Europe, not least in saving capitalism from its own worst excesses.

That helped to give the market economy public legitimacy: the gains from growth in both the US and Europe benefitted wide swathes of society, and there was a social safety net in place (though not universal healthcare in the US).

The McCain campaign believes that Obama's wish to "spread the wealth" has let the socialist cat out of the bag. But this does not seem to be nearly as effective with voters as they think.

Obama's answer should be a simple one. US economic growth used to spread the wealth well - but it no longer does so. And much of that has been due to a political choice - to transfer the wealth to the top. Never before in US history have such a small number gained so much while the majority stand still.

As Paul Krugman put it in a 2006 essay for Rolling Stone on 'the great wealth transfer'



Rising inequality isn't new. The gap between rich and poor started growing before Ronald Reagan took office, and it continued to widen through the Clinton years. But what is happening under Bush is something entirely unprecedented: For the first time in our history, so much growth is being siphoned off to a small, wealthy minority that most Americans are failing to gain ground even during a time of economic growth -and they know it.



This stagnation for the majority during a time of plenty has also threatened the nation's ability to make economic gains: rising protectionist sentiment reflects the fact that the gains of global trade have left most Americans out.

So Obama's ads have been putting across his message of tax cuts for most Americans (he says 95%) with an increase only for those who earn more than $250,000 a year more effectively than anything McCain is saying.

He also won all of the viewer polls after the debates, mainly because he connected on the need for action to address the economy, while McCain always returned to the need for government to cut spending and do less.

And, as Darrell West, director of governance studies at the Brookings Institution, told the Chicago Tribune. "I think it's hard for McCain to call Obama a socialist when George Bush is nationalizing banks."

Did Barack "Spread the Wealth" Obama Just Blow the Election?, asks James Pethokoukis and several other over-excited right-wingers.

But this seems to me to fit the usual rule: if a headline asks a question, and the answer 'almost certainly not' seems to answer it, feel free to move on.

ciao vittorio

E' morto Vittorio Foa, aveva 98 anni

Foa � stato un politico e giornalista esponente della sinistra



La notizia diffusa da Walter Veltroni. Nato a Torino, era un simbolo della sinistra e fu anche imprigionato per le sue posizioni antifasciste
ROMA
� morto Vittorio Foa, uno dei grandi padri della sinistra italiana. Nato a Torino il 18 settembre del 1910, fu imprigionato per oltre otto anni per antifascismo. Dopo la Resistenza � stato deputato alla Costituente per il Partito d�azione. Dirigente della Cgil, � stato parlamentare socialista e poi senatore del Pds.

La notizia della morte di Vittorio Foa a Formia � stata data, d�intesa con la famiglia, dal segretario del Partito democratico Walter Veltroni. �� un immenso dolore per noi, per il popolo italiano, � un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libert�, per l�Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte pi� importante della sua vita�, ha dichiarato Veltroni in una nota. �� un dolore per me personalmente perch� Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale�, ha sottolineato ancora. �A Sesa, ai figli ci stringiamo con affetto. Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori�, ha concluso il segretario del Pd.

lunedì 20 ottobre 2008

la fabian society e la crisi

Katwala: Economic crisis shows we must share the risks and rewards
venerdì 17 ottobre 2008, 17.14.16 | Rachael Jolley
Speaking at a conference held by the Flemish SP.a party in Brusssels this weekend, Fabian general secretary Sunder Katwala challenges left-leaning European parties to make the argument for scrutiny and public interest during the financial crisis."We meet at an extraordinary time. Governments in Europe and internationally have responded to the financial crisis, to try to bring stability and contain the impact on the real economy. Nobody can accurately predict what the longer-term consequences of this moment will be. That is not just a question of how markets respond or even the broader economic impact. Much will depend on the political and public debates we now begin."

"No government could let the banking system fail, nor indeed other regulated markets in energy, transport or communications. That reality must be properly reflected in how we share the risks, responsibilities and rewards, in a new approach to regulation and taxation."

Read the full speech below.

Thank you for inviting me to take part in your conference. It is also a great honour to speak this morning in advance of Caroline Gennez. Caroline is among the leading voices of the emerging generation of political leaders across Europe. So we all invest much hope in her ability to bring both new ideas and new campaigning energy to the politics of social democracy.

"That is our common task: to create a ‘Next Left’, to renew again our social democratic politics so we show that we have the ideas to meet the challenges our societies face, and can win the public’s trust to earn the chance to try to make our vision for social change a reality.

This will not be easy. Look around Europe in 2008 and, almost everywhere, social democracy is politically in trouble. A decade ago, Social Democratics led European and national politics. Whether we call ourselves Social Democrats, or democratic Socialists in France, or Labour in Britain, today it is more difficult. In many places, our parties are out of office and in opposition. Where we remain in power, the challenges of renewal are often equally profound.

Yet open the newspaper any morning and it should be clear why our values and ideas are needed more than ever before. The issues of our times demand that this should be an age of a new social democracy. It is up to us to make it so.

I want to talk about two of the challenges we face:

* So I want to talk about how we show that social democrats have the right values to respond to the current financial crisis.

* Secondly, how do we make that part of our core mission for a fairer society – and find new ways to win the public argument for our politics?

We meet at an extraordinary time. Governments in Europe and internationally have responded to the financial crisis, to try to bring stability and contain the impact on the real economy. Nobody can accurately predict what the longer-term consequences of this moment will be. That is not just a question of how markets respond or even the broader economic impact. Much will depend on the political and public debates we now begin.

Will social democrats or the parties of the right win the trust to respond? It should be us. But we need to take these fast-moving and often confusing events to persuade people that the right response will be one rooted in our values of fairness and responsibility. If we fail, people may turn away from politics entirely at the very time it is needed most.

During a crisis, have you noticed that even more nonsense is talked in politics than is usual? One Eurosceptic commentator in Britain, Simon Heffer, has declared that government investment in the banking system heralds a “new age of Bolshevism”. That might surprise Gordon Brown, the co-founder of New Labour in Britain and his fellow European social democrats. Perhaps it could surprise Angela Merkel, Nicolas Sarkozy and Europe’s centre-right even more. But don’t forget that it is the US government - the Bush administration no less - which has undertaken the largest market interventions and nationalisations of any western government.

Because of the way our economies are linked, governments everywhere, who come from different political values and traditions, have had to act.

But what happened to the argument that government is always the problem, and that whoever governs least governs best? That market fundamentalist argument has been very prominent in western politics in the last 25 years. In this crisis, that view went missing in action, rejected even by its friends in the White House. The ideology of leaving everything to the ‘hidden hand’ of the market provided no more useful practical advice than the equally discredited Marxist fringe view that there is nothing to do but wait for the collapse of capitalism – whatever the pain caused – to see what new utopian possibilities might arise.

By contrast, Social Democrats, as the constructive left, know we must provide concrete, real world solutions to deal with the economic fallout and ensure we root these in our broader vision of the common good and a better future.

But the Finance Ministers and politicians on the right still don’t get it. They may have acted – but they want to stress how reluctant and how uncomfortable they found it. Listen and you can hear an argument which goes something like this: “We realised that our government had to act it. Let us tell you: we did not want to. We delayed. We hoped the Banks would fix it, or that the market would turn something up. But the consequences of not acting became too great. We still believe that markets are good and that government intervention is dangerous last resort. What we have done offends our core instincts and beliefs. But, pragmatically, we have had to do it. Our world seems to have become very complicated. We admit, we are confused. But we’ll try to get back to normal soon”

This is not good enough. The right still seems confused about what has been done. If it will not understand why action was necessary, it can not get the response right. Still less can it learn the lessons, or advance the changes which we need. So the right’s argument is that, after the crisis, and the emergency response, we need to get back to business as usual. Until the next crisis.

Social Democrats must reject that view. We must remind ourselves, our opponents and the public of some important social democratic truths.

Firstlly, there is no such thing as the free market. Markets can not operate without rules which governments must provide.

Social Democrats believe that markets should have an important place in a democratic and free society. Few of us could imagine our lives without the choices and opportunities which markets provide. But the power of markets is always both creative and destructive. And markets can not operate at all, still less effectively or fairly, unless we use politics and government to put the right rules in place.

Our argument with those who have shouted ‘markets good, governments bad’ for the last 25 years is not to say the opposite: ‘governments good, markets bad’. But we do know that we can only have markets when they are governed by rules. Indeed, we need rules to protect market competition itself: that is why governments act to prevent unfair monopoly power.

That markets can not exist without rules is never more clear than when they provide essential public goods and infrastructure. Of course, no government could let the banking system fail, nor indeed other regulated markets in energy, transport or communications. That reality must be properly reflected in how we share the risks, responsibilities and rewards, in a new approach to regulation and taxation.

Secondly, knowing that there is an important place for the market economy is not the same as accepting that markets determine the values of out society.

Some of the proudest historic achievements of social democracy have been to remove essential foundations of political and social citizenship from the sphere of the market: first, the right to a political voice and a vote; then the provision of education and healthcare.

That is how Social Democratic values helped to shape the social welfare settlement gave Europeans an era of peace and prosperity, underpinned by our shared social commitments to protect each other from the worst risks.

We turned those values into the common sense of most European societies. We need to adapt these models and policies when our societies change, in order to sustain the values and principles that underpin them. It did not require a financial crisis to remind us of that. A free market can not deal with climate change: we must now put in place the national and international governance which could make possible a future of prosperity, social justice and sustainability.

Thirdly, democratic societies also govern markets to maintain the public support on which their licence to operate depends.

The historic role of social democracy has never to abolish capitalism, but sometimes to tame it. Our politics has often been needed to save capitalism from both its worst excesses and its worst advocates – however quickly they forget it.

Indeed the current crisis has endangered public trust in both governments and markets alike. If governments had to act to prevent failure, that can not be combined with a licence to let the risks pile so high. There is rightly public anger at what looks too much like a one-way bet. A small group at the very top has poured scorn during the good times on any idea of social responsibility: celebrating excess, championing tax avoidance, acting for all the world as if they wish to be entirely separate from the rest of our society. But when, when trouble arrives, after years of telling government and society to mind their own business, the same people turn around and ask us all to act to rescue the system and sort out the mess. After that, it is very clear that the rules must change.

Social Democracy after the crisis

Governments of left and right agreed on the need to act in an emergency, because the right ducked the away from the logic of its own anti-government rhetoric. But we must make the differences clear so that Social Democratic values provide the principles for a new political and economic settlement,

1) Firstly, I think some differences have already been seen in the response to the crisis. Gordon Brown'’s Labour government in Britain, which has helped to inform European-wide responses, was very different to the initial plan proposed in the United States. That American plan was to spend hundreds of billions of taxpayers’ dollars to buy up the ‘toxic debts’, to bury it somewhere as if it were nuclear waste, with no return to the public, so that the bankers could get back to making their profits. That could be criticised as doing far too too little to protect the interests of citizens, savers and taxpayers while those at the top had the good fortune to be rescued from their own mistakes.

The important social democratic argument in Britain and across Europe has been that public funding and guarantees had to be combined with tests to ensure this would meet the public interest. How would both savers and taxpayers be protected? What system of public accountability would be in place? When public money and guarantees allow banks to return to profitability, how should we share in the gains, and not just the risks? What new responsibilities should be accepted by the private sector on return for public support? Having established the clear public interest in each of these issues, Social Democrats must now push, whether in government or opposition, for the scrutiny and accountability to ensure that the public interest is reflected and protected in the different national plans being adopted.

(2) Governments must now act again for the longer-term: to create the new international systems of regulation and fair rules that we need; and to ensure that the message of change and responsibility is acted upon. If markets need rules, a global economy needs global rules.

Our Eurosceptics who say ‘we only wanted a Europe of free trade’ always forget that you can’t have a continental single market without the rules to make it happen, as well as the social dimension on which support for the single market also depends. Those principles apply globally as well. We need global rules. And we have political choices about how we govern globalisation. The gains and the losses from global markets will fall very unevenly. We will not rebuild public support which enables us to realise the gains of global trade unless governments ensure the opportunities and the rewards are shared more widely across our societies than they have been so far.

We should make it part of the opportunity we have to rebuild the case for multi-lateral cooperation. Change is in the air internationally too. I believe that every Social Democrat will not just want the Democratic candidate Barack Obama to win the White House but to reinstate the tradition of the better America, which has been so important in Europe’s history, which used its power wisely to help reconstruct Europe and to put in place a multilateral system of rules. If that America has too often seemed to be in retreat over the last eight years, let us hope that we can begin a new era of cooperation when we enter the era of “The World After Bush” on Jaunary 20th next year.

(3) Bringing these arguments home to national politics means ensuring this is not a technical discussion about economic policy.

It will not be enough to have the right analysis if we do not win the political argument. We should be confident in making our argument for a fairer and more equal society in terms which the public can understand, and explaining why that depends on the political choices that governments make.

Equality can be a complex idea – it can be easily misunderstood, as a very abstract argument, or as levelling down and penalising success. We need to make a compelling public argument for fairness.

Go into a hospital ward, and find two babies born that day to mothers from different backgrounds, it is to easy to how they will do at school, what they will earn, even how long they are likely to live. Some people may beat the odds, but the odds should not be so steep. The mission of social democracy is to engage in a ‘fight against fate’ so that where we are born and the parents we are born to do less to determine our outcomes and opportunities in life. That is a positive vision of spreading freedom and opportunity, so we can all be the authors of our own life stories, not have these dictated by forces beyond our control.

This means a politics of fair chances, fair rewards and fair contributions.

Fairer chances means building again on social democratic progress in making life chances from the early years, education, skills and training major issues in politics. But it means we are concerned when income and wealth gaps become so wide that social mobility ends: when today’s unequal outcomes become so wide that they ensure unequal opportunities are inherited across generation. Concrete action to reduce the number of children and families in poverty must also be part of a commitment to a fair start in life for all.

Fair rewards because we should recognise that rewards can be earned, but challenge rewards which bear no relationship to effort or success but reward spectacular failure, and incentives irresponsible behaviour. When pay differences between the shop floor and the boardroom are not 20 to 1 but instead 200 to 1 then scrutiny – within boards, from shareholders and from the public - is required as to how these decisions are made. We need to address how government support for the financial sector, and government procurement more generally, can be used to challenge and change the ‘rewards for failure’ culture.

Fair contributions because we all have a stake in a shared society where all are subject to rights and responsibilities. This matters for social democrats because ours is a vision of a society where we share risks and accept responsibility for each other. If our political opponents are successful in persuading people that they have nothing in common – if our society becomes segregated into separate groups, whether that is by race, or faith, or age, or income and class, each looking out only for itself, then we will not be able to build the coalitions on which social democratic politics of fairness depends.

We can expect our political opponents will say they are for fairness too. The difference will be about whether they will do anything about it. We challenge them to will the means. Our argument must be that fairness does not happen by chance. We need more confidence in arguing that fairness depends on the political choices we make, and what governments do.

The problem with effective soundbites is that they can sometimes be too effective.
Take Bill Clinton’s argument that ‘the era of big government is over’.It was one of the defining moments of the New Democrats and the Third Way. Did it concede too much territory to the anti-government mood of the Reagan and Thatcher era.

Perhaps it did. But that perception is not based on the argument that Bill Clinton actually made. That was about reinventing government, rather than slashing it. The fuller argument which Clinton made was this.


Ever since the Reagan Revolution of 1980, the dominant Republican argument has shifted from 'less government is almost always better than more of it' to 'government is 'always the problem'.

Our administration and the new Democratic party take a different view. We say the era of big government is over, but we must not go back to an era of ‘every man for himself’

The truth is, Americans don’t want our government gutted. We know from experience that there are some things that government must or should do: protect us against enemies, foreign and domestic, come to our aid when disaster strikes, help fight crime, ensure the health and well-being of the weakest among us, restore and preserve the environment, ensure the safety of our food, provide for the needs of those who have defended our country in uniform, provide everyone with access to quality education. We don't want our government in our face, but we do want it on our side when we need it, and quickly.


So the argument was about both reinventing and relegitimising the case for government. But that argument got lost. We need to remind people of it again.

So let us remember that warnings that government can be too strong, too bureaucratic and not responsive enough as long as we recognise that government can fail to respond to citizens by being too weak too. When it comes to dealing with failed states, meeting the millennium development goals, enabling our economies to achieve low carbon growth and creating the global deal we need on climate change, ensuring integration and equal citizenship across our societies, we will need more and better government, not less.

That may well also require a stronger approach to democracy, transparency and accountability too. Our democracies benefit from pressure from the liberal-left, from civil society and from the media to check power and hold it to account. But libertarians go too far when they forget that their argument always depends on the basis of their own freedoms being so secure that they can take it for granted.

New politics

Our greatest challenge may be political.

Over the last decade, we have been better at government than at politics.

And this age of anti-politics presents a profound challenge for those who want to govern, who must build broad coalitions in the electorate, who must be responsible and make promises that they may have to keep, who know that poltiical progress is also made by trade-offs and compromises where we can not immediately get everything we want.

None of those constraints are faced by those engaged in oppositionist anti-politics, whether on the populist right or left, which does not need to offer any answers if it can authentically voice the anger and grievances of any specific group.

That is why we need to ensure we have a social democratic politics which does not just have policy answers but which offers an emotional appeal too, and which has the capacity to mobilise.

Few, if any, institutions have a prouder record of bringing change to our societies than our political parties. But it does not automatically follow that we will now feel like the most obvious or effective forces for social change to the new progressive movements of the future. Here I hope the rest of us can learn from your efforts to change the culture of party politics and political campaigning.

We need a social democratic future. Let us take confidence in our values and our ideas. We can never say that the future will be ours, or take anything for granted. There are no inevitable historical forces which will decide what happens: it is a shame it took the neo-conservatives did not find that out before doing quite so much damage.

And yet, if that were true, there would be no need for politics, or for our parties at all. There would be no need to turn up, to take part, to argue about what should happen next. Especially on a Sunday morning, we might all be able to think of other things in life to do instead. But we are all here because we know why politics matters.

We know that the need for social democracy is as great as ever. Now we must show that we can win the arguments to make it happen. "

bettiza: vuoto a sinistra

da la stampa

18/10/2008

Vuoto a sinistra





ENZO BETTIZA

Uno dei riflessi politici più interessanti, non solo sul piano pragmatico in questo momento di crisi, è la reviviscenza delle idee e dei metodi socialdemocratici in Germania, in Gran Bretagna e, parzialmente, anche nella Francia di Sarkozy che nella sua équipe di governo contiene diversi socialisti di stampo liberale. Più che mai invece, in Italia, si avverte l’assenza a sinistra di una grande formazione socialdemocratica, proprio nelle ore in cui le capitali del mondo avanzato stanno passando dalla teoria del libero mercato alla pratica dell’intervento pubblico.

La situazione italiana esibisce il paradosso che vede un ministro economico del centrodestra, il quasi colbertiano Giulio Tremonti, riempire quel vuoto appropriandosi di proposte e ricette che furono tipiche della socialdemocrazia classica e del keynesiano New Deal di Roosevelt. Sarà infatti Tremonti ad appoggiare in novembre, al vertice allargato del G8, una seconda Bretton Woods, quella che dal 1944 al 1971 stabilizzò un nuovo ordine monetario mondiale e accompagnò i «miracoli» dell’Europa distrutta dopo la fine della guerra; ed è sempre Tremonti il difensore impegnato da tempo nella difesa di un capitalismo etico.

Un capitalismo più vicino alla società e al mondo del lavoro, depurato delle giocate d’azzardo speculative e rovinose per le banche e per le Borse. Al tempo stesso, nel pieno della crisi che sconvolge l’Europa dopo l’America, vediamo salire quasi al 70% l’indice di gradimento del governo Berlusconi. Ma tutto questo non va attribuito unicamente ai meriti, alcuni autentici e altri esagerati, di una maggioranza che sarebbe più capace dell’opposizione nell’affrontare la bufera in corso. Va attribuito soprattutto al vuoto dietro le affastellate barricate dell’opposizione. In altre parole, alla paralisi, alla non credibilità di una sinistra monomaniaca la quale, oltre a polemizzare contro ogni misura dell’esecutivo, dal ridimensionamento dell’Alitalia al maestro unico nelle scuole, non sa proporre nulla di più concreto e più responsabile che possa dare al Paese il senso di una sua partecipazione costruttiva al contenimento dei tracolli. Sembrano più utili e tempestivi i fondi sovrani e ambigui di Gheddafi che le manifestazioni e le tirate di Rifondazione, di Italia dei valori e dei ministri ombra del Pd.

L’assenza, direi storica dopo le metamorfosi del 1989, di un vero e unico partito socialdemocratico italiano, collegato ai socialismi democratici europei, è stato il regalo più gratuito che la sinistra frastagliata, divisa, anacronistica, così spesso arrabbiata con se stessa, abbia potuto fare alla coalizione di destra. Mi collego qui agli ottimi articoli che sull’argomento hanno già scritto su queste colonne Emanuele Macaluso e Lucia Annunziata. Se ci fosse un’opposizione credibile, dice Macaluso, la destra potrebbe essere meglio ridimensionata dai fatti anziché dalle chiacchiere televisive.

E, criticando i rifondatori con falce e martello, giudicando lo stesso partito di Veltroni anomalo rispetto alla sinistra europea, conclude: «Fuori dai partiti socialisti europei non c’è altro, a sinistra, che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale». A Macaluso fa da sponda Annunziata: «Un corteo contro il governo (quello del 25 ottobre prossimo) è stato convocato proprio mentre la situazione di disastro è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiarla. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centrosinistra». Corollario: «Una sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?».

La domanda implicita è secondo me: la sinistra italiana sarà mai capace di divenire, fra le macerie e le minacce di tracolli bancari e imprenditoriali, una parte responsabile e attiva della socialdemocrazia europea? Si potrebbe raccomandare alle sinistre massimaliste e in particolare all’équipe di Veltroni di osservare con attenzione le manovre d’urto anticrisi del leader laburista Gordon Brown che, intervenendo con energia nel caos finanziario londinese, ha saputo togliersi di dosso l’immagine sbiadita dello sconfitto. Si potrebbe inoltre invitarle a leggere un’intervista appena rilasciata allo Spiegel dal ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. Il numero due del governo Merkel, candidato del partito socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, addirittura vede nel crollo dei mercati finanziari il più traumatico evento politico dopo la caduta del Muro berlinese.

Dall’autunno nero 2008, dice, il mondo non sarà più quello di prima. Il dominio di Wall Street sui mercati e del dollaro come valuta di riferimento verrà relativizzato mentre diverranno sempre più importanti i centri finanziari di Dubai, Singapore, Shanghai, Pechino. Assistiamo alla fine di un’epoca, quella del thatcherismo e della reaganomics, in cui la rapidità e l’accumulo delle rendite avevano la massima priorità, e da allora l’economia finanziaria ha dispiegato arbitrî e saccheggi rispetto all’economia reale. Non s’era mai vista dal 1990, incalza Steinmeier, affiorare «tanta socialdemocrazia» dai dibattiti al Bundestag. Perfino i liberali e i conservatori si sono messi a suonare la stessa musica di Lasalle, sostenitore fin dall’800 dell’intervento statale in economia. I tempi, così critici per i mercati, lo sono assai meno per i socialdemocratici che vedono rinascere le loro idee in Germania e si preparano a farle trionfare nelle elezioni del 2009. Essi si sono sempre battuti per assicurare alla Germania un’industria forte, una mano d’opera professionale, un ceto medio garantito. Devono al tempo stesso riconoscere che mai, come ora, si rendono conto di fare finalmente parte di una Grande Coalizione, che apre, nell’emergenza, tanti spazi di manovra per soluzioni rapide ed efficienti.

Si dirà che per Steinmeier è facile parlare così poiché è il deuteragonista dell’esecutivo di coalizione guidato con cautela da Angela Merkel. Ma non si potrà evitare di riconoscere che, a prescindere dall’alto incarico governativo, non trapeli dalle sue parole la tradizione culturale della socialdemocrazia tedesca che già nel 1959, a Bad Godesberg, «mise in soffitta» Karl Marx. È proprio quello che in fondo non hanno mai fatto con chiarezza in Italia i comunisti di Togliatti e nemmeno i postcomunisti da Occhetto in poi, confluiti nell’odierno partito democratico di cui la metà postdemocristiana detesta apertamente di essere confusa con i socialisti o la socialdemocrazia. L’altra metà, postcomunista, non lo dice ma lo pensa.

Tutti i movimenti politici e le culture della sinistra italiana, a parte il minore e non decisivo partito di Saragat, hanno sempre ostentato la loro ostilità nei confronti dei socialdemocratici che un tempo venivano bollati come «socialtraditori». Lo stesso Giorgio Amendola che, criticato dai suoi compagni, auspicava l’avvento di un «partito unico» della sinistra, non ha mai osato varcare con passo fermo la scissione di Livorno per dire che quel «partito unico» poteva essere soltanto un partito socialdemocratico. Ancora nel 1989, come ricorda Ugo Finetti nel recente libro Togliatti & Amendola (ed. Ares), il veterocomunista Tortorella lo ricordava così: «Appena eletto Luigi Longo segretario, Amendola gli mise davanti, in un articolo che fece scalpore, la proposta del superamento dell’esperienza socialdemocratica e di quella comunista in una formazione politica unificata». Si badi: superare i socialdemocratici, non raggiungerli, in una formazione unitaria. Era già il progetto del futuro partito democratico, soltanto democratico, ed erano parole che lo stesso Veltroni continua forse a pensare ancora oggi.

sabato 18 ottobre 2008

Pecchiari: dopo Galliate

Alcuni spunti di riflessione oggi più attuali che mai, da un articolo di Napoleone Colajanni per la "Rivista del Manifesto".
Un migliorista vero, che finì - vista la pochezza della sinistra italiana - per scrivere i suoi ultimi pezzi per "Il Sole 24 Ore", dove teneva una rubrica fissa settimanale.

So già che mi etichetterete come "vetero", ma ho le spalle forti (poi non dite che non vi avevo avvertito...), perciò "si apra il dibattito"!

Mi piace far notare, assai malignamente e con soddisfazione neanche tanto nascosta, che l'articolo è del 2002.

Buona lettura,

Pierpaolo



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numero 32 ottobre 2002 Sommario

I miti del neoliberismo

LA CRITICA DI UN ‘MIGLIORISTA’
Napoleone Colajanni


1.Ragionare sulla crisi della sinistra europea, evidente per le sconfitte elettorali che si sono susseguite, è certamente assai importante, ma rischia di rimanere un impegno circoscritto a una parte minoritaria della stessa sinistra. Pesa sulla produzione culturale della sinistra, di tutta la sinistra, l’abbandono del concetto di struttura che per un secolo e mezzo è stato il suo punto di forza per l’analisi della realtà. Anche se una elaborazione esplicita è mancata, si è ritenuto che il concetto di rapporti di produzione significasse proprietà dei mezzi di produzione, come è stato per un certo periodo del capitalismo. Quando sono intervenuti i profondi cambiamenti della società contemporanea, che hanno esteso enormemente il controllo sociale sulla produzione, si è pensato che capitale e lavoro diventassero concetti astratti, mentre l’unica cosa concreta diventava il mercato. Come se il mercato non comportasse una struttura che è andata cambiando nel tempo e il mercato dei banchieri fiorentini avesse regole di funzionamento comparabili a quelle del mercato globale di oggi. E come se la proprietà dei mezzi di produzione, qualitativamente trasformata dall’estendersi del capitale finanziario, non avesse più alcuna importanza per lo sviluppo delle forze produttive. E come se la composizione della produzione, il tasso degli investimenti, la qualità degli investimenti, la composizione della forza lavoro, non dipendessero dai rapporti di produzione, ma fossero determinati dal caso o da forze oscure.
Di fatto, anche se non lo si ammette, da questo mutamento intellettuale la sinistra ufficiale ha tratto la conseguenza che il capitalismo, fatto coincidere con l’economia di mercato, non solo è l’unico sistema efficiente, ma è destinato a durare in eterno e perciò l’unica cosa che si può fare è cercare di correggerne gli squilibri.
Sono certo di essere abbastanza isolato se dico che anche nella sinistra non ufficiale si accetta il punto di vista che non è prevedibile il superamento del capitalismo in tempi ragionevoli, e si trascura l’impatto del capitalismo contemporaneo sullo sviluppo delle forze produttive ponendo l’accento sulle ingiustizie, sulle emarginazioni, o su un concetto assai difficile da definire, come i diritti dei lavoratori, che variano storicamente, e rifarsi a quelli vecchi non serve a niente.
2. Non credo sia il caso di riaprire una vecchia diatriba sul superamento del capitalismo, ma credo debba porsi il problema se ci si debba accontentare di correggere il capitalismo, in pratica di migliorarlo, ponendo in primo piano non la ripresa dello sviluppo delle forze produttive, ma la redistribuzione del prodotto a favore degli emarginati, dell’ambiente, o di quant’altro la sinistra, tutta la sinistra, vuole, oppure se si debba cercare di comprendere quali siano le contraddizioni reali del capitalismo com’è oggi per partire da queste. Una parte della sinistra non ufficiale sta cercando di lavorare su questa seconda linea, ma senza una coerenza intellettuale, con atteggiamenti che richiamano quelli del luddismo agli albori del capitalismo. In passato una piccola parte del Pci cercò di fare delle riforme mirate allo sviluppo delle forze produttive il punto centrale di un programma politico. Fu definita con l’appellativo ritenuto infamante di ‘migliorista’. Mi sarà concesso di costatare che tale appellativo oggi può essere facilmente applicato non solo ai Ds ma anche a buona parte della sinistra non ufficiale, che fa della ripartizione del reddito prodotto, e non delle modificazioni della struttura, il punto centrale di un impegno politico.
Quel che mi pare evidente è che nell’analisi della realtà economica l’abbandono del concetto di struttura porta a risultati devastanti. Non si può comprendere nulla dei fatti di oggi se non se ne cercano le radici nei fatti precedenti e non si colgono le differenze tra momenti diversi, appunto nella struttura. E la cosa non ha soltanto un significato attuale, ma ha anche risvolti squisitamente politici. Per fare un esempio: se non si capisce che l’avvento dello Stato sociale è stato reso possibile da una determinata fase dello sviluppo del capitalismo, nelle trenta o meglio venti gloriose annate antecedenti al 1971, e che, passate quella fase e quella determinata struttura delle forze produttive, dello Stato sociale bisogna rimeditare la natura, ci si trova oggi in un vicolo cieco. Le condizioni in cui crescevano insieme salari e profitti, produttività e occupazione, e si creava un surplus sociale che rese possibile il Welfare State, non torneranno più almeno per chissà quanto tempo, e una popolazione che cresce e invecchia (fatto strutturale) pone problemi che non si possono risolvere alla vecchia maniera.
Non mi sembra che nessuno sia stato in grado di dire perché proprio allora si ebbe uno sviluppo senza precedenti nei paesi capitalistici avanzati, sviluppo che nemmeno i fastigi della New Economy è riuscita a raggiungere. La crescita eccezionale di quel periodo è dovuta al fatto che allora la domanda, una volta assicurato un adeguato approvvigionamento alimentare, si andava spostando verso i beni di consumo durevole, e la produzione di questi richiedeva uno sviluppo dell’industria dell’energia, elettrica e petrolifera, di acciaio, di prodotti chimici, tutti settori in cui esiste un forte effetto di scala. Con l’aumento della produzione diminuivano i costi unitari e si creavano quindi i circoli virtuosi che hanno permesso i miracoli economici e l’avvento del Welfare State.
I guai sono cominciati quando per questi beni ci si è avvicinati alla saturazione della domanda. Per capire cosa questo significhi basta tener presente che nel 1955 in Italia c’era un auto ogni 70 persone e nel 1973 una ogni 6. La domanda si è andata spostando verso beni di natura diversa, più sofisticati e verso i servizi, sanità, svago e tempo libero, viaggi, mentre per i beni di consumo durevole è rimasta la domanda di sostituzione. La crescita della popolazione è andata rallentando e gli investimenti nell’industria sono andati diminuendo, e dato che gli investimenti nei servizi sono assai bassi in confronto a quelli dell’industria, gli utili delle imprese hanno preso la via della finanza.
Il processo di cambiamento non è stato semplice ed è passato attraverso la stagflazione degli anni settanta e la oscillante ripresa degli anni ottanta. Ma il processo in atto in quegli anni gettava le basi per la struttura economica di oggi. La ricerca di profitti maggiori di quelli che l’industria poteva offrire spingeva all’innovazione e agli investimenti finanziari, lo sviluppo del capitale finanziario portava alla globalizzazione, il cui carattere finanziario è tuttora, checché ne dicano tanti suoi sprovveduti critici o apologeti assolutamente, prevalente. Il risparmio delle famiglie veniva sempre più socializzato dalle partecipazioni delle banche nelle imprese, dai fondi di investimento e dai fondi pensione nel mondo anglosassone, o rastrellato dallo Stato attraverso l’indebitamento, per finanziare lo Stato sociale. In termini veteromarxisti si è andato accelerando un processo di socializzazione e una produzione di surplus in misura sempre crescente a livello sociale e non a livello d’impresa, come era nel capitalismo di due secoli fa. Solo che l’appropriazione del surplus si verifica anch’essa a livello sociale, attraverso la funzione dello Stato e lo strumento della democrazia parlamentare. Alla contesa per l’appropriazione partecipano i gruppi sociali più diversi, compresi quelli che sono espressione degli interessi corporativi dei lavoratori, cosa che la sinistra si guarda bene dal combattere.
3. I caratteri più rilevanti del capitalismo contemporaneo sono la società dei servizi e la preponderanza del capitale finanziario. All’espansione dei servizi si è arrivati, come si è detto prima, attraverso i mutamenti nella struttura della domanda. Le conseguenze sono che, dato che la produttività dei servizi è sensibilmente inferiore a quella dell’industria, la crescita della produttività complessiva si è ridotta, e quindi, a parità di occupazione, il reddito da ripartire è diminuito rispetto alle società a struttura industriale, e questa è una delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Gli Stati Uniti hanno contrastato questo processo alimentando la crescita attraverso un’occupazione a bassi salari ma di grande volume, alimentata dall’immigrazione, con forme di flessibilità particolarmente spinte. È per questa ragione che il reddito ha continuato a crescere. In Europa questo non è stato possibile, non solo per la presenza di un movimento operaio che non accettava bassi salari, ma anche per le resistenze all’immigrazione.
Il rafforzamento del capitale finanziario ha portato alla riduzione degli investimenti industriali, dato che i profitti che si realizzano nella finanza sono particolarmente elevati, non tanto grazie ai dividendi corrisposti dalle società, quanto attraverso la crescita di quello che si è convenuto di chiamare il valore d’impresa, cioè la capitalizzazione nel mercato finanziario. Si è avuto un processo di deindustrializzazione che ha riguardato gran parte dell’industria tradizionale, e ha risparmiato soltanto i settori di elevata tecnologia, lo svago e il tempo libero, i pubblici servizi, per esempio le telecomunicazioni.
Per gli Stati Uniti la deindustrializzazione ha avuto una conseguenza assai pesante: il disavanzo della bilancia commerciale ha fatto degli Stati Uniti il maggior, e di gran lunga, debitore del mondo poiché la domanda di beni di consumo non veniva meno nella società dei servizi mentre la produzione si spostava verso altre parti del mondo. Insieme alla formazione del mercato finanziario mondiale è questa la caratteristica principale della globalizzazione. Secondo la teoria classica del commercio estero dovremmo avere un dollaro in continua svalutazione. Se questo non avviene è per due motivi: uno politico, lo strapotere degli Stati Uniti nel mondo, e uno economico: il continuo flusso di investimenti finanziari dall’Europa e dal Giappone, alimentato dal mercato finanziario in continua crescita. L’Europa continua ad essere esportatrice, ma i suoi tassi di crescita e di occupazione sono nettamente inferiori.
Si è insistito sul fatto che la New Economy potesse essere un modello permanente e che esso potesse essere esportato in Europa. I teorici della ‘terza via’ sostennero appunto questa tesi. In realtà non solo il modello non è esportabile, ma si è dissolto all’interno degli stessi Stati Uniti. La New Economy era sostenuta da due forze motrici: gli investimenti in informatica e la Borsa in crescita ininterrotta, che finanziava la domanda di una certa parte di consumatori. I primi si sono saturati mentre, a Wall Street, la bolla inevitabilmente si sgonfiava. Tutte le imprese che avevano fatto del valore d’impresa l’obiettivo principale si sono trovate in difficoltà e alcune hanno fatto ricorso agli imbrogli. Ma è stupido ritenere che punita la disonestà di alcuni il sistema possa riprendere ai livelli precedenti.
La stagnazione dell’Europa ha un’origine diversa. Il tasso di accumulazione è sceso sensibilmente, l’innovazione è in ritardo, i numeri magici imposti da Maastricht, dalla Banca Centrale Europea e dall’Unione bloccano in pratica ogni possibilità di politica economica e affidano tutto a una imprenditorialità che per il momento è latitante. La deindustrializzazione è meno accentuata che negli Stati Uniti, e quindi le condizioni della bilancia dei pagamenti sono migliori. Resta il fatto che il mantenimento dello stato sociale è reso problematico da una insufficiente formazione di risorse.
4. Le contraddizioni del capitalismo quindi esistono e sono rilevanti. La globalizzazione reca dentro di sé l’instabilità e aumenta la possibilità di crisi che cominciano con un carattere finanziario per invadere successivamente il campo dell’economia reale, come sta accadendo nell’America Latina.
Il modo di affrontare queste contraddizione è naturalmente diverso per l’Europa e per gli Stati Uniti. Per questi ultimi la possibilità di mantenere un tasso di crescita sufficiente – sostenendo la domanda attraverso l’immigrazione e l’elevata occupazione e usando la potenza militare per sostenere il disavanzo – è senz’altro reale. Naturalmente, occorre dimenticare i tassi della seconda metà degli anni novanta, e accettare quella che a molti può sembrare una stagnazione. Ciò comporterà inevitabilmente un ritorno del disavanzo pubblico – come accadde con Reagan – e quindi un pericolo di inflazione. Gli strumenti per combatterla però ci sono. I pericoli reali per gli Stati Uniti possono venire da una profonda crisi finanziaria mondiale o dal collasso di un numero rilevante di grandi imprese. Nel 1929 la crisi della Borsa colpì direttamente le banche e attraverso queste l’economia reale; oggi la sofisticazione del sistema finanziario offre maggiore protezione.
L’Europa, poiché il mercato unico ha già dato tutto quello che poteva, ha necessità di aumentare il tasso di crescita e quindi di inserirsi in misura sempre più rilevante nell’economia globale. Non credo che il punto di partenza possa essere un rilancio della domanda interna, dato che se a questo non fa riscontro una diminuzione della propensione alla liquidità e una crescita degli investimenti, si arriva soltanto a un deterioramento della bilancia dei pagamenti. L’Europa ha tutto l’interesse a sfruttare pienamente il processo di globalizzazione aiutando a rendere effettiva la potenziale domanda globale e aumentando il proprio ruolo nella finanza mondiale. Se si proverà a sottrarsi all’egemonia del dollaro, allora le scelte politiche diventeranno prevalenti. Il punto chiave è, in ogni caso, la propensione a investire. Il dato, strutturale, è l’indebolimento della capacità imprenditoriale, che ha la sua manifestazione più evidente nel ritardo dell’innovazione. I liberisti vecchi e nuovi, anche nella sinistra ufficiale, pensano evidentemente che il mercato susciti di per sé le nuove forze imprenditoriali, il che non è vero. Era vero in altri periodi storici, non oggi. Piaccia o no, quella che torna in discussione è la funzione dello Stato in rapporto allo sviluppo delle forze produttive.
Questo mi sembra essere oggi il punto nodale per la sinistra, ufficiale e no. Non vedo che sugo ci sarebbe a discutere in astratto di tecniche di intervento e di politiche specifiche se non si fa una scelta preliminare in questo campo. Una elencazione non presenterebbe molte difficoltà: dall’abbandono del liberismo per i movimenti di capitale, alla politica monetaria che non può essere avulsa dalla politica economica, alla politica per l’innovazione, alle infrastrutture alla possibilità di intervento diretto in servizi come le telecomunicazioni, dove il liberismo sta portando al fallimento le imprese.
Questo mi sembra un terreno reale di iniziativa per la sinistra, terreno tradizionale quanto si vuole, ma che da un’analisi del capitalismo contemporaneo non corriva ai luoghi comuni riceve nuova vitalità.

venerdì 17 ottobre 2008

il documento costitutivo di democrazia e socialismo

“Democrazia e Socialismo”

Associazione politica e culturale



Unire i riformisti per cambiare l’Italia



Roma, 18 ottobre 2008 ore 9.30

Sala della Conferenze di

Piazza Montecitorio 123



1.

La tempesta economica e finanziaria che ha colpito le piazze economiche mondiali ha assunto connotati eccezionali ed è destinata a produrre i suoi effetti per lungo tempo. E’ sempre più chiaro che la crisi partita dagli Stati Uniti d’America sta avendo conseguenze gravi in tutta Europa e anche in Italia, sia per quanto riguarda il contesto economico generale sia per il suo impatto di breve e medio termine sull’economia reale. Il tema non è quello della sopravvivenza del capitalismo e nemmeno è in discussione la funzione decisiva del mercato, perché essi hanno assunto nel corso della storia forme e connotati diversi, ma semmai di questa loro versione “virtuale” che da molti era stata indicata come una loro inevitabile evoluzione alla quale occorreva prontamente rassegnarsi. Le positive trasformazioni del capitalismo in senso redistributivo nel corso del secolo scorso sono state determinate dalla grande vicenda del socialismo democratico, dal movimento dei lavoratori e da scelte di politica economica a partire dal New Deal rooseveltiano. Esperienze preziose e irrinunciabili per poter effettuare una analisi rigorosa a cui far seguire delle scelte efficaci. Le sfide che stanno di fronte alla sinistra socialista, democratica e riformista sono quindi squisitamente politiche: tra esse hanno assunto particolare rilievo le regole che dovrebbero governare il mercato, i caratteri, i contenuti, le forme dell’intervento dello Stato nell’economia e ancora le politiche pubbliche di sostegno alla domanda e le politiche fiscali redistributive. Ma la crisi in atto è destinata a produrre i suoi effetti anche in uno storico cambiamento degli equilibri politici mondiali a vantaggio di paesi come la Cina, l’India, la Russia e il Brasile.

Il capitalismo finanziario e le economie dei paesi più avanzati usciranno trasformati da questa crisi. Nelle grandi democrazie occidentali la rottura dell’alleanza storica tra capitalismo globalizzato, capitalismo nazionale e Stato Sociale a vantaggio di una finanziarizzazione diffusa e di un liberismo selvaggio teorizzato prima dal reaganismo e dal thatcherismo poi dall’amministrazione Bush, hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe. Il liberismo di fine secolo e quello del terzo millennio non hanno affatto mantenuto le loro promesse. Le economie sono cresciute, ma le disuguaglianze sono aumentate. L’economia di carta ha sopraffatto l’economia reale e il lavoro. La Democrazia si è diffusa ma le libertà sono state spesso limitate e compresse. In questo drammatico contesto il pensiero e le culture socialiste e democratiche insieme a quelle liberali e democratiche si riappropriano del loro valore, come fonte inesauribile di giustizia, di crescita, di benessere. Il socialismo democratico e liberale come pensiero politico e culturale non può essere espunto da un qualsiasi progetto che abbia ora l’ambizione di superare queste grandi contraddizioni e questo lascito di rovine, non solo economiche e finanziarie, che ereditiamo dalla destra conservatrice che negli Usa e in Europa ha egemonizzato culturalmente la guida dei governi.



2.

Anche per le ragioni appena esposte e per le conseguenze economiche e sociali che da esse scaturiscono c’è in noi la piena consapevolezza dell’immane compito cui sono chiamate oggi in Italia le forze democratiche e di sinistra.

Il centrosinistra ha subito una sconfitta storica, nessuna forza di sinistra è in Parlamento e il Pd ha perso la sua sfida con il Pdl. Il centrodestra è maggioranza in Parlamento e nel Paese. L’Italia attraversa una crisi economica e sociale tra le più gravi della sua storia. Il carattere congiunturale della crisi si intreccia però con carenze strutturali con un sempre più accentuato divario economico e sociale tra nord e sud del paese che rischia di sospingere l’Italia verso una recessione reale, tra alta inflazione e crescita zero. In un paese percorso da tensioni e paure per il futuro la sua coesione sociale è sul punto di sgretolarsi. Intolleranza, violenza, xenofobia e razzismo si diffondono in modo crescente. L’allarme sollevato da una parte importante della Chiesa italiana è, a questo proposito, di grande significato. I valori fondanti della Repubblica e della nostra Costituzione sono messi a rischio. Una destra aggressiva e senza ritegno porta l’Italia verso una regressione politica, ideale, morale, che mina le fondamenta e gli equilibri della nostra democrazia e della convivenza civile. Ci sono valori come l’unità del nostro paese, la sua coesione sociale, la sua aspirazione alla giustizia, il suo insopprimibile diritto di libertà, senza distinzione alcuna, che non sono né trattabili né discutibili. Così come ci sono principi come quello della laicità dello Stato che costituiscono una barriera insormontabile a tutela della effettiva pienezza della nostra democrazia.

Nel governo del Paese, e nella sua costituzione materiale, si affermano forme abnormi di presidenzialismo nell’essenza del potere, se non di autoritarismo, che, senza contrappesi e senza controllo, svuotano le funzioni degli organi di garanzia a cominciare da quella del Parlamento. Siamo in presenza di una alterazione crescente degli equilibri democratici su cui si regge l’ordinamento della Repubblica. Non è in discussione la legittimità del governo e la facoltà di attuare il suo programma. Parliamo della necessità di preservare beni comuni: la nostra democrazia, la nostra libertà, la nostra società. Noi avvertiamo il rischio che in una situazione tanto difficile, l’opposizione al governo Berlusconi appaia impotente, evanescente e divisa. Sentiamo di correre il pericolo che un’Italia che è “contro”, stenti a trovare voce, che perda fiducia in se stessa e in ciò in cui crede, che possa aumentare quella sorta di frustrazione civile che già esiste, e infine temiamo che una grande parte del paese non riesca a esprimere ciò che sente. Qui c’è il compito nuovo della politica. Un compito non solo nostro.



3.

Noi avvertiamo la necessità di una riforma profonda della politica: il rinnovamento dei suoi contenuti, delle sue forme organizzative e partecipative, dei suoi fini, della sua capacità di ascolto delle sue motivazioni di fondo. E’ su queste basi che le culture politiche riformiste che si riconoscono nel centrosinistra dovranno impegnarsi per offrire agli italiani un progetto nuovo per la crescita non solo economica, ma sociale, civile, culturale del nostro Paese. Non sconfiggeremo né il governo né il Pdl con furbizie tattiche, manovre contingenti o mosse politiche di corto respiro. Possiamo imprimere contenuto ideale alle nostre politiche, dare ad esse un respiro innovativo e riformatore, possiamo avere l’ambizione di offrire a questo nostro Paese un’alternativa seria, credibile e giusta rispetto alle disastrose scelte del governo. Ma ciò dipende in buona misura da noi. E’ sulla base di questa considerazione che pensiamo si debba lavorare per costruire un nuovo centrosinistra riformista. Il Pd ne è la forza principale. Noi ci sentiamo parte significativa di quelle forze, democratiche e socialiste, di centro e di sinistra, laiche, cattoliche, ambientaliste che in questi anni hanno affrontato le difficili sfide prima contro il governo di centrodestra e poi nel governo del Paese guidato da Prodi. La nascita del Pd non ha risolto la crisi politica in cui a lungo si è dibattuto nel centrosinistra, lacerato da insanabili contraddizioni. Era necessario a nostro giudizio un chiaro confronto e un’aperta battaglia politica che le forze riformiste avrebbero dovuto condurre contro ogni forma di radicalismo, di settarismo, di ideologismo che ha lacerato il nostro campo politico e che è stato la causa del venir meno del rapporto di fiducia con larghi strati di cittadinanza. Non solo dopo la crisi del governo Prodi ma anche prima è stato un errore pensare di poter fare a meno di quelle forze che ai valori e alle idee del socialismo democratico europeo hanno sempre fatto riferimento.



4.

Vogliamo guardare al futuro. C’è in noi il convincimento profondo che il pensiero e la cultura socialista costituiscano il più importante e decisivo fattore di innovazione, di partecipazione, di giustizia e di libertà delle moderne democrazie e delle società contemporanee. A quei valori non solo non rinunciamo ma intendiamo riaffermarli in un impegno politico e in una battaglia ideale di cui vogliamo essere protagonisti. Noi abbiamo profuso le nostre energie – e in essa abbiamo profondamente creduto – nel sostegno e nell’avvio della Costituente socialista. Essa aveva come fine la costruzione di un partito nuovo, socialista, di sinistra, europeo, riformista e di governo, che fosse aperto ad altre culture politiche e che potesse finalmente avviare in Italia la costruzione di un partito che per insediamento sociale, forza organizzata, consensi elettorali, e quindi capacità rappresentativa, fosse paragonabile ad altri partiti europei. Era un progetto certamente ambizioso e sicuramente difficile da realizzare. Ma non impossibile. Questo nostro impegno e questo nostro sforzo è stato vanificato da errori e limiti soggettivi, ma anche da ragioni oggettive. In tutta la sinistra italiana ha infatti prevalso, sia durante il biennio del governo Prodi, che successivamente, quando la sua caduta ha portato allo scioglimento del Parlamento, un riflesso identitario autorefernziale. Ciascuna delle componenti di sinistra è stata risucchiata dal vortice delle dichiarazioni quotidiane; ciò ha fatto smarrire alla sinistra, sia radicale sia riformista, il senso della sua missione e della sua funzione politica. La Costituente socialista così come era stata pensata si è esaurita. E’ stata un’occasione perduta. Lo stesso risultato elettorale, per la sinistra e per i socialisti, ne è stata la prova. Quel voto ha segnato anche la disfatta della sinistra radicale e la sconfitta del disegno politico del Pd. Il governo del Paese, infatti, è andato al Pdl. Nessuna forza politica del centrosinistra ha fatto una seria analisi degli errori, delle ragioni e delle caratteristiche, aggiungerei anche, di quella sconfitta politica. Anche da qui derivano le difficoltà e lo smarrimento di oggi. A noi pare chiara una cosa. Le autosufficienze identitarie dei diversi partiti del centrosinistra, così tenacemente difese dalle diverse nomenclature, sono un ostacolo se non addirittura un danno, al ritorno di una politica di lungo respiro capace di creare quelle condizioni indispensabili al cambiamento e al rinnovamento di cui ha bisogno l’Italia. Lo stesso Pd, così com’è, non basta. C’è un divario tra la sua ambizione ad essere una forza politica a vocazione maggioritaria e la forza e i consensi che raccoglie.

E forse è proprio per il suo modo di essere che non riesce ad espandere sufficientemente i suoi consensi.

Ma dal Pd non si può prescindere. Questo ci dice la rapida trasformazione del sistema politico italiano. Una trasformazione sempre più bipolare. Come abbiamo detto, il Pd è quel che è, ma è quel che c’è.



5.

Il sistema politico italiano, per una serie di diversi fattori è radicalmente cambiato. Si è affermato un bipolarismo a maglie strette che è destinato ad accentuarsi ulteriormente fino ad arrivare ad un sostanziale bipartitismo. Questo impressionante e rapido mutamento produrrà i suoi effetti sui partiti politici, sulle istituzioni, sul Parlamento, sui suoi regolamenti, e sull’intero ordinamento costituzionale. Nel centrosinistra dunque la funzione politica del Pd diventa fondamentale. Ma non sarà affatto insignificante la funzione che altre culture politiche democratiche e di sinistra che oggi non si riconoscono nel Pd possono svolgere. Noi avvertiamo la urgente necessità di una svolta. In un anno è cambiato tutto. Misurarsi con questi mutamenti vuol dire anzitutto prendere atto di essi e affrontarli in modi nuovi e diversi dal passato, affinché quelle idee e quei valori che costituiscono il nucleo essenziale della storia, della cultura e del pensiero socialista, laico e democratico, non siano dispersi vanificati e affidati alla memoria storica. Noi pensiamo che in forme diverse dal passato e con una progettualità fortemente innovativa ci si debba porre l’obiettivo di raccogliere un insieme di forze, e di culture politiche diverse che possano riconoscersi in un nuovo centrosinistra riformista e condividere un progetto di rinnovamento della società italiana e dello Stato. Noi vediamo i limiti e le criticità del modo di essere del Pd. Restano per noi irrisolte questioni non secondarie come la piena e chiara affermazione del principio di laicità, la collocazione internazionale, la definizione della forma partito. Ma in una forza politica in cui convivono diverse culture ed esperienze la definizione di queste questioni è affidata al dibattito aperto, al confronto schietto e infine alle decisioni del partito stesso. Sarebbe tuttavia insensato non valutare come essenziali le forze, le persone e il ruolo che nella società italiana e nelle istituzioni repubblicane ha il PD e non aprire con esso un dialogo e cercare di assumere impegni comuni.

D’altra parte le sfide della competizione globale e le crisi che su scala mondiale stanno così marcatamente segnando la società contemporanea, - parliamo dei rischi di ritorno alla guerra fredda, della non sopita minaccia del terrorismo fondamentalista, dei cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento del pianeta, e dal diffondersi delle condizioni di miseria e di fame in cui vivono oltre un miliardo di esseri umani - devono indurre ad una riflessione nuova sul ruolo dell’Italia nella crisi internazionale.

I riflessi possibili in Europa e in Italia del crollo dei santuari della finanza mondiale negli Usa e delle drammatiche conseguenze su milioni di cittadini e di famiglie stanno portando a riflettere sulla precarietà e sui pericoli cui espone quel liberismo sfrenato che ha costituito per anni il credo della destra conservatrice non solo in America.

Il fallimento del cd. ‘Washington Consensus’ pone l’urgenza di ridisegnare le regole che presiedono al trasparente funzionamento dei mercati e dei prodotti a livello globale, e un ruolo chiave dovrà essere assolto da una ben più coordinata e convincente politica europea che ancora stenta ad affermarsi. Occorre dunque riflettere attentamente su questa dimensione.



6.

L’area politica che noi rappresentiamo si compone di personalità che hanno alle spalle percorsi politici diversi ma che sono unite nel convincimento profondo che una sinistra riformista, socialista, laica europea possa dare un contributo importante nella battaglia ideale, culturale e politica oggi in Italia.

Per queste ragioni è nostro intendimento riaprire con il PD un dialogo e un confronto che si erano spezzati, sapendo che il riformismo italiano nelle sue componenti essenziali socialiste democratiche, cattolico popolari, laiche, ambientaliste, costituiscono un bene prezioso della democrazia italiana. Mettere a frutto questo grande patrimonio di energie, di volontà, di pensieri, è compito di tutti noi. Perché questa è la grande responsabilità che grava sulle nostre spalle. Unirle in un progetto comune è un compito molto difficile. Ma è il solo, oggi, praticabile. In un momento così carico di incertezze per il futuro dell’Italia noi siamo persuasi che valori di libertà e di giustizia, principi di laicità e di rispetto, vadano riaffermati come fondamento della nostra costituzione e della nostra democrazia. E siamo fermamente convinti che una forza politica democratica e di sinistra possa assolvere alla sua funzione e alla sua missione se è capace di dare al suo agire una dimensione europea e un orizzonte globale. In questo senso rimane per noi decisivo non solo il rapporto ma l’appartenenza al campo delle forze socialiste, democratiche e progressiste europee, uniche ed essenziali, per noi, in grado di affrontare le sfide cui siamo chiamati per costruire un nuovo modello di sviluppo che riconosca la dignità della persona umana, l’affermazione delle sue esperienze, l’espansione delle sue capacità, il valore delle sue competenze e del suo lavoro.

E’ dunque a noi del tutto chiaro che oggi si inizia un percorso che noi auspichiamo di compiere con quanti hanno creduto e credono che le idealità socialiste non siano affatto morte e pensano al contrario che quei valori e quel pensiero in rapporto con altre culture politiche, possano costituire il nerbo del più avanzato riformismo italiano da mettere a disposizione per un nuovo impegno e una nuova battaglia politica al fine di rafforzare la democrazia italiana, per rendere più giusta e più sicura la nostra società e per restituire agli italiani una rinnovata fiducia nel proprio futuro.



Gavino Angius, Antonio Foccillo, Alberto Nigra, Franco Grillini, Accursio Montalbano, Fabio Baratella,