venerdì 24 luglio 2009

Peppe Giudice: Note e riflessioni su socialismo, comunismo e capitalismo

Note e riflessioni su socialismo, comunismo e capitalismo
Post n°244 pubblicato il 24 Luglio 2009 da socialismoesinistra







Quando crollò il muro di Berlino si disse che il capitalismo aveva vinto il suo duello storico con il comunismo realizzato; di più, si disse che ciò comportava la fine di ogni progetto socialista possibile. La “sinistra” del nuovo millennio pertanto non poteva non essere liberaldemocratica, occorreva abbandonare ogni critica di fondo al capitalismo. Vennero rivalutati e glorificati i critici liberali e liberisti di Marx come Popper ed Hayek.
Oggi con la grave crisi del capitalismo liberista in atto, questi pensatori liberal-liberisti vengono riseppelliti, si cercano di rivalutare quegli elementi critici e non ideologici del pensiero di Marx che hanno attualità nell’esaminare elementi importanti della crisi in atto.
Insomma per un ventennio si è fatta opera di mistificazione ideologica a scopi apologetici ed a sostegno del pensiero unico liberal-liberista.
Il mio scritto non vuole rappresentare una trattazione sistematica di idee che ha bisogno di ben altro spazio. Vuole essere piuttosto essere una critica politica ad un ideologismo che ha avuto ricadute deleterie nel conformismo di pensiero che esso ha provocato.
In realtà se la reazione restauratrice del liberismo ha avuto successo è anche perché il socialismo reale (o comunismo storico) ha operato una enorme distorsione del concetto di socialismo.
Nel marxismo della III Internazionale (o se vogliamo marxismo-leninismo) il socialismo da progetto di emancipazione umana e sociale viene ridotto ad un modo di produzione transitorio tra il capitalismo ed il comunismo.
In tale ottica il socialismo è una necessità storica derivante dalla tendenza ineluttabile del capitalismo a precipitare in un crisi generale che inibisce lo sviluppo delle forze produttive. E’ proprio la funzione originaria del capitalismo stesso (l’incremento delle forze produttive) che entra drammaticamente in crisi: la contraddizione, tipica del capitalismo, tra il carattere sociale della produzione e l’appropriazione privata del plusvalore, diventa sempre più stringente ed irrisolvibile nell’epoca dell’imperialismo.
In tale quadro il socialismo come modo di produzione instaurato dalla “dittatura del proletariato” mediante la statalizzazione integrale dei mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata dell’economia ha la funzione di riportare in armonia rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive con l’obbiettivo finale di realizzare la società comunista in cui vengono ad essere superati i vincoli di scarsità (“a ciascuno secondo i propri bisogni”) e si rende possibile la estinzione dello stato politico: o meglio il passaggio dello stato politico a puro apparato di gestione amministrativa (“dal governo degli uomini all’amministrazione delle cose”).
Nel pensiero di Marx è presente tale interpretazione del processo rivoluzionario. Ma nel leninismo esso viene ricondotto ad un vero e proprio atto di fede.
Soffermiamoci su questo aspetto del pensiero di Marx. Cornelius Castoriadis, uno dei più brillanti filosofi della politica della II metà del 900, ha avviato un acritica del marxismo molto lontana da quella dei pensatori liberali. La sua è una critica a Marx che è condotta all’interno di un punto di vista rigorosamente socialista e che utilizza gli stessi strumenti della critica marxista all’ideologia. Una sorta di “critica marxista al maxismo” , la definì Riccardo Lombardi. Castoriadis fu dei promotori della rivista francese “Socialisme ou Barbarie” che fu la prima ad avviare una dura critica socialista al comunismo realizzato.
Castoriadis non rinnega affatto Marx. Egli coglie piuttosto i limiti e le contraddizioni interne al suo pensiero. Tra la critica all’economia politica da un lato e la visione deterministica della storia ereditata da Hegel. Egli, insieme ad altri pensatori post-marxisti, attribuisce proprio alla influenza di Hegel i limiti del marxismo stesso ed il confluire del suo pensiero in una visione “funzionalista” della società (che contrasta con il grande potenziale emancipatorio della critica marxiana).
E’ opportuno citare alcuni passi di uno studio su Castoriadis “Il paradigma funzionalista parte dalla fissità dei bisogni umani e spiega le più diverse organizzazioni culturali e sociali come l’insieme delle funzioni volte a soddisfarli. In tal modo il funzionalismo chiude gli occhi sul fatto essenziale che tutto ciò che è avvertito come mancanza o bisogno è istituzione sociale, creazione dell’immaginario sociale, anonimo e collettivo, al quale solo si deve l’incarnazione entro i singoli individui sociali delle sue produzioni/istituzioni/creazioni.” ….. “Ciò che Marx ha disconosciuto, in ragione della sua adesione al funzionalismo, è proprio il ruolo dell’immaginario sociale, che egli ha ridotto a elemento ‘non economico’ nella catena ‘economica’. Questo deriva dal fatto che Marx pensava di poterlo ridurre a una deficienza provvisoria della storia, deficienza di tipo economico, connessa alla non-maturità tecnica dell’umanità”
Il comunismo della III Internazionale ha enfatizzato proprio gli aspetti più criticabili del pensiero di Marx ed in stridente contraddizione con la logica emancipatoria del movimento socialista. La riduzione economicistica del socialismo a modo di produzione, ha portato ad identificare esso con il collettivismo burocratico, con un modello sociale che si fonda sulla stessa struttura immaginaria del capitalismo: lo sviluppo illimitato delle forze produttive e perde di vista l’elemento essenziale di alternatività del socialismo al capitalismo stesso: l’essere cioè un progetto di società che mette l’uomo e non le cose al proprio centro. Un uomo che non può essere ridotto economicisticamente a produttore. Il carattere funzionalista e conservatore di tale idea è evidente. Il fine del socialismo è lo stesso del capitalismo: lo sviluppo illimitato delle forze produttive. Solo che il socialismo è più efficiente ed efficace nel raggiungere tale scopo in quanto non soffre (grazie alla pianificazione centralizzata) dell’alternanza dei cicli economici.
Esso potrà quindi permettere in un futuro lontano di raggiungere lo stadio del comunismo in cui tutti i bisogni emergenti possano essere soddisfatti. Ed in virtù di ciò si avrà una società omogenea e pacificata.
E’ evidente che questa utopia non è stata in grado di incrociare l’evoluzione storica. Lo sviluppo illimitato delle forze produttive cozza contro la limitatezza delle risorse naturali (e questo vale per il capitalismo e le sue derivazioni consapevoli o no). I bisogni non sono un dato antropologico invariabile (come presuppongono le varie tesi funzionaliste) ma sono condizionati dall’evoluzione storica (il Marx critico e non determinista dei Grundrisse lo sottolinea). Ma il Marx funzionalista e determinista della “Critica al Programma di Gotha” intende fondare una economia sui bisogni non rendendosi conto della finitezza delle risorse (ma nel 1875 era veramente difficile avere tale consapevolezza) e dell’impossibilità di distribuire il prodotto sociale sul criterio di bisogni assunti come dati e non come realtà in perenne trasformazione.
La storia ci dice che il socialismo reale come competitore del capitalismo è fallito totalmente. Il capitalismo è certo riuscito a far sviluppare produzioni e consumi in modo più efficace ed efficiente anche perché è riuscito a regolare i cicli tramite le politiche keynesiane. Il socialismo reale è in realtà stato un sistema efficace solo nello sviluppare l’industria pesante al servizio dell’apparato militare, ma non è assolutamente stato in grado di far fronte alla domanda di beni di consumo per la popolazione. Le lotte operaie e l’organizzazione politica dei lavoratori sono riusciti in Europa Occidentale a modificare il capitalismo, in alcuni casi anche profondamente. Il socialismo reale eliminando ogni forma di autonomia politica dei lavoratori ha prodotto livelli di sfruttamento paragonabili a quello delle prime fasi del capitalismo occidentale.
La classe operaia nel “socialismo reale” è divenuta un feticcio ideologico da omaggiare nei conviti ufficiali e da sfruttare brutalmente nella pratica. Lo “stacanovismo” l’uso sistematico delle deportazioni di massa quale mezzo economico per utilizzare forza lavoro non pagata (regressione dal lavoro salariato a forme di schiavismo) la dice lunga sul carattere profondamente antisocialista del “comunismo” sovietico, cinese e cubano.
La dice lunga sul fatto che le rivoluzioni comuniste in realtà non hanno abolito il capitalismo (se fosse poi possibile eliminare un sistema sociale per decreto). Esse sono avvenute in società (Russia, Cina) dove c’era un capitalismo allo stadio embrionale e dove i rapporti economici e sociali erano, in larga parte, semifeudali. Il comunismo, nella sua esperienza storica del 900, non è quindi stato un progetto (al di là delle intenzioni) di emancipazione e trasformazione sociale, ma un modo per imporre dall’alto la modernizzazione industriale dove il capitalismo privato era incapace di attuarla. Un capitalismo di stato e pianificato si sostituisce al capitale privato ed al mercato a tale scopo.
Una modernizzazione accelerata ed imposta dall’alto implica l’eliminazione di ogni forma di autonomia della società civile: implica uno stato onnivoro volto al controllo totalizzante della società. Quello che è il dispotismo di fabbrica viene esteso al tutta la società. L’eliminazione di ogni forma autonoma politica e sindacale di organizzazione dei lavoratori e dei cittadini è funzionale a tale disegno.
Non è un caso che le maggiori rivolte operaie della seconda metà del 900 siano avvenute proprio contro il comunismo al potere: Berlino est, Varsavia, Budapest, Danzica. Sono avvenute in quei paesi in cui il comunismo è stato imposto dalla vittoria sovietica nella II Guerra mondiale. Dove preesisteva una società civile autonoma ed organizzata (a differenza della Russia). Gramsci su questo punto intuì benissimo la differenza nel rapporto tra società civile e stato tra Europa orientale ed occidentale.
La nostra riflessione dovrà concentrasi ora sulla distorsione del concetto di socialismo fin qui operato e sulle conseguenze negative che esso ha avuto sulla cultura politica successiva al 1989.
Intanto capitalismo e socialismo non sono due realtà confrontabili. Non possono essere considerati come sistemi chiusi ed in competizione fra loro nella miglior gestione possibile della società industriale.
Nel definire il capitalismo Castoriadis utilizza tali espressioni: “Se si dà una specie di scorsa sintetica alla storia, il tratto caratteristico del capitalismo fra tutte le
forme di vita storico-sociale è evidentemente la posizione dell’economia (della produzione e del consumo, ma anche, soprattutto, dei «criteri» economici) come luogo centrale e valore supremo della vita sociale. Un suo corollario è la costituzione del «prodotto» sociale specifico del capitalismo. In poche parole, tutte le attività umane e tutti i loro effetti finiscono più o meno per essere considerati come attività e prodotti economici, o per lo meno come caratterizzati e valorizzati essenzialmente dalla loro dimensione economica. Inutile aggiungere che tale valorizzazione è operata unicamente in termini monetari”………
“Si sa, per lo meno a partire da Marx, che il tratto specifico del capitalismo non è la semplice accumulazione delle ricchezze. La tesaurizzazione è praticata in molte società storiche e sono noti anche tentativi di valorizzazione della terra su grande scala con il lavoro servile a opera dei proprietari latifondisti (specialmente, vicino a noi, nella Roma imperiale). Ma la semplice massimizzazione (della ricchezza, della produzione) non è, come tale, sufficiente per caratterizzare il capitalismo. Marx aveva colto il nocciolo essenziale della questione, quando poneva come determinanti del capitalismo l’accumulazione delle forze produttive combinata con la trasformazione sistematica dei processi di produzione e di lavoro e ciò che ha definito «l’applicazione ragionata della scienza nel processo di produzione» [7]. L’elemento decisivo non è l’accumulazione in quanto tale, ma la trasformazione continua del processo di produzione in vista dell’accrescimento del prodotto combinato con una riduzione dei costi.”
Sulla base di quanto detto il capitalismo può essere definito come la forma sociale che pone l’economia, il mercato e tutte le forme di razionalizzazione economica al centro della società; favorito dalla sintesi tra l’accumulazione delle forze produttive e la trasformazione dei processi di produzione e lavoro mediante l’applicazione sistematica della scienza nel processo di produzione. Ma esso non si ferma qui. La razionalizzazione dei processi produttivi, implica che la razionalità economica capitalistica sia estesa il più possibile all’intera società.
Ancora Castoriadis : “L’elemento decisivo non è l’accumulazione in quanto tale, ma la trasformazione continua del processo di produzione in vista dell’accrescimento del prodotto combinato con una riduzione dei costi. Questo contiene l’essenziale di ciò che Weber chiamerà in seguito la «razionalizzazione» e di cui dirà, correttamente, che sotto il capitalismo essa tende a impadronirsi di tutte le sfere della vita sociale, in particolare come estensione del dominio della calcolabilità. György Lukács aggiungerà alle opinioni di Marx e di Weber importanti analisi sulla reificazione dell’insieme della vita sociale a opera del capitalismo.
Perché la «razionalizzazione»? Come tutte le creazioni storiche, il predominio della tendenza verso questa «razionalizzazione» è, alla base, «arbitrario»; non possiamo dedurlo né produrlo a partire da qualcos’altro. Ma possiamo caratterizzarlo meglio collegandolo a qualcosa di più noto, di più familiare, ed espresso sotto altre forme in altri tipi di organizzazione sociale: la tendenza verso il dominio. Questo ci permette in particolare di operare un collegamento con uno dei tratti più profondi della psiche singola: l’aspirazione all’onnipotenza.”…. “Questa tendenza, questa spinta verso il dominio, non è, a sua volta, esclusivamente specifica del capitalismo; per esempio, la manifestano anche le organizzazioni sociali orientate verso la conquista. Ma possiamo avvicinarci alla specificità del capitalismo considerando due sue caratteristiche essenziali. La prima, è che questa spinta verso il dominio non è semplicemente orientata verso la conquista «esterna», ma prende di mira altrettanto, e ancor più, la totalità della società. Non deve realizzarsi soltanto nella produzione, ma anche nel consumo, e non solo nell’economia, ma nell’educazione, nel diritto, nella vita politica, eccetera. Sarebbe un errore (l’errore marxista) vedere queste estensioni come «secondarie» o strumentali rispetto al dominio della produzione e dell’economia, che costituirebbe l’essenziale. È lo stesso significato immaginario sociale che via via s’impadronisce delle sfere sociali. Che «cominci» con la produzione non è certo un caso: è nella produzione che i cambiamenti della tecnica permettono all’inizio una razionalizzazione dominatrice.”
Pertanto il capitalismo tende a caratterizzarsi come un sistema totalizzante che tende ad imporre la sua specifica “razionalità” parziale (perché è una razionalità strumentale) all’intera vita sociale.
Il socialismo nasce e si sviluppa con il movimento operaio proprio per contestare il dominio di tale razionalità totalizzante, in nome dell’autonomia e dell’autoderminazione dei lavoratori ridotti a semplici ingranaggi dell’attività produttiva. Che cos’è la lotta di classe se non la resistenza del lavoro a non essere ridotto a pura merce e strumento della produzione? E dal processo di produzione si estende a creare spazi autonomi rispetto alla razionalizzazione capitalistica dell’intera società. La lotta per il Welfare, la democrazia economica e quelle più recenti per la difesa dei consumatori si inquadrano in tale prospettiva.
Pertanto il socialismo può essere definito come un progetto emancipatorio del lavoro rispetto al capitale che implica il riequilibrio tra economia e società (che non può essere considerata come una variabile dipendente dei processi economici ma come soggetto –essa stessa – che si autodetermina).
Il primo movimento socialista (Fourier, Proudhon, Owen) aveva una profonda ispirazione umanistica. Il suo limite era quello di limitarsi a incoraggiare forme di autorganizzazione operaia (cooperative, mutue, leghe sindacali) e non porsi il problema della rappresentanza politica del movimento operaio, del suo divenire partito. Uno dei grandi meriti di Marx ed Engels fu quello di spingere il movimento a darsi una forma partitica.
Sappiamo che il socialismo marxista si divise inesorabilmente tra socialdemocrazia e comunismo. Del secondo abbiamo già estesamente discusso. La prima non esente da limiti e contraddizioni (compreso il ripiegare essa stessa spesso su una visione puramente economica del socialismo), ma manifestò nel suo seno anche una forte componente umanistica e libertaria che vide nel socialismo tutt’altro che un semplice modo di produzione ma uno stadio più avanzato di civiltà in cui l’economia sarebbe stata al servizio della società.
Inoltre il socialismo democratico ritenne che solo nella democrazia politica avrebbe potuto svilupparsi la crescita del movimento operaio e la stessa battaglia per il socialismo, di cui l’intervento pubblico in economia avrebbe rappresentato uno strumento ma non il fine. La socialdemocrazia in tal modo favorì lo sviluppo del movimento sindacale e cooperativo. Dove fu più forte ed organizzato riuscì ad imporre un modello molto avanzato di welfare e democrazia economica, nonché forme di programmazione che hanno prodotto riforme significative del capitalismo.
Insomma la socialdemocrazia ha costruito all’interno del capitalismo delle vaste nicchie protette dalla razionalizzazione capitalistica ma non ha superato il capitalismo stesso. Vale a dire la centralità dell’economia nella società.
Questa sua carenza non ha potuto impedire il radicale processo di restaurazione capitalistica che si è avviato a metà degli anni 80, ed ha raggiunto il suo apice alla fine dei 90. Un processo, come molti sanno, che ha visto il dispiegarsi di un capitalismo dominato dalla finanziarizzazione (la finanza non come elemento accessorio della produzione, ma quale motore dello stesso sviluppo dell’economia reale), nel quadro di una internazionalizzazione che ha visto la politica degli stati nazionali soccombere, che ha minato fortemente la forza dei sindacati, grazie alla frammentazione dei luoghi della produzione. La globalizzazione capitalista ha prodotto l’insorgere di gravissime disuguaglianze tra stati ed all’interno degli stati e delle aree regionali, ha svalorizzato e rimercificato il lavoro. Come abbiamo visto la razionalizzazione capitalistica non si ferma alla sfera puramente economica. Il capitalismo liberista ha sequestrato l’immaginario collettivo, ha cercato di dimostrare che il capitalismo è un fatto naturale e non storico (quindi eterno). A questo proposito mi piace ricitare Castoriadis sul sostanziale nullismo della critica liberale al socialismo “In un’altra forma, queste idee sono riemerse negli scritti di Friedrich von Hayek. La società capitalista avrebbe provato la propria eccellenza, la propria superiorità, attraverso una selezione darwiniana. Essa si sarebbe rivelata come la sola capace di sopravvivere nella lotta con le altre forme di società. A parte l’assurdità dell’applicazione dello schema darwiniano alle forme sociali nella storia e la ripetizione di un artificio classico (la sopravvivenza dei più adatti è la sopravvivenza dei più adatti a sopravvivere; il dominio del capitalismo mostra semplicemente che è il più forte, al limite nel senso più semplice e brutale del termine, e non che sia il migliore o il più «razionale»: l’«antimetafisico» Hayek si dimostra in questo caso un hegeliano della specie più volgare)” o ancora “Pur essendo cosciente degli errori di Marx, sono convinto che di Marx si discuterà ancora quando a mala pena si riuscirà a trovare in qualche enciclopedia dei riferimenti a Von Hayek e Milton Friedman”.
Così come il processo di “reificazione”– insomma di mercificazione di beni e valori – è andata avanti in modo inarrestabile, convolgendo cultura, intrattenimento, attività legate alla vita quotidiana di ogni individuo. Con la conseguente regressione culturale e morale. Insomma la vita di un uomo o di una donna è solo uno strumento della razionalità economica; un consumatore di merci e non una persona o un cittadino.
Di fonte a tali radicali cambiamenti, il socialismo democratico (che è poi la grande maggioranza della sinistra che è rimasta) è sbandata, non è riuscita a costruire un progetto che prospettasse una alternativa di società a quella fornita dalla restaurazione capitalista. Si è limitata ridurre il danno (e comunque in Europa abbiamo ancora il sistema di Welfare più avanzato) e talvolta con Blair ed altri (D’Alema) ha cavalcato la modernizzazione liberista.
Oggi che questo capitalismo è entrato (come molti avevano previsto) in una crisi profonda e sistemica, il socialismo si trova in assenza di una adeguata elaborazione collettiva. Né le forze della sinistra pseudoradicale sanno far meglio, limitandosi alla testimonianza ed alla protesta senza progetto.
Eppure questa crisi del capitalismo fa tornare di grandissima attualità il progetto socialista. Di un socialismo del XXI secolo.
Dice Ruffolo che siamo alla crisi del processo di accumulazione che è l’anima del capitalismo così come lo abbiamo vissuto fino ad oggi. C’è la crisi perché vi sono due ostacoli insormontabili: la finitezza delle risorse naturali; l’impossibilità di sviluppare il consumo individuale oltre certi limiti.
Insomma è proprio il concetto della centralità dell’economia nella società che entra in crisi. L’idea di capitalismo cioè.
Un economista liberale eretico come Keynes aveva previsto che raggiunto un certo limite la crescita quantitativa dell’economia avrebbe dovuto arrestarsi per entrare in uno “stato stazionario”, in cui cambia la qualità e la composizione del prodotto, ma il rapporto tra risorse e consumi sia in equilibrio.
Il progetto socialista di oggi parte dalla consapevolezza che la giustizia sociale, la dignità del lavoro si può sviluppare solo in una società che si orienti verso un modello di produzione e consumi alternativo all’attuale. Come diceva Riccardo Lombardi “i socialisti vogliono una società più ricca, perché diversamente ricca”.
La fine del capitalismo non è dietro l’angolo, ma i socialisti devono proporre una radicale riforma del capitalismo consapevoli dell’orizzonte storico del suo superamento.


Giuseppe Giudice

Sinistra e Libertà

7 commenti:

Sergio Ferrari ha detto...

Vorrei riprendere il discorso di Giudice perché penso che sia lungo quei ragionamenti che sia possibile declinare un progetto socialista e forse , risultato non marginale, fare uscire questo paese dal limbo della civiltà. .E questo sia detto senza nessun atteggiamento snobistico verso gli impegni “organizzativi” senza i quali non andremo, comunque, da nessuna parte.

Rispetto alle tante osservazioni avanzate da Giudice che si inseriscono positivamente in una ripresa del dibattito politico a sinistra, vorrei riprendere alcun battute che non mi convincono anche perché queste mi sembra si possano ritrovare, anche se espresse in vari modi, in altri interventi : c’è la crisi capitalistica perché ci sono due ostacoli insormontabili: la finitezza delle risorse naturali e l’impossibilità di sviluppare il consumo individuale oltre certi limiti.

Si tratta di due aspetti in qualche misura fisici ma che nulla hanno a che vedere con la critica socialista al capitalismo che, nell’essenza, riguarda la natura alienante del lavoro, la distribuzione ineguale dei ruoli sociali. Movimenti sociali in nome di consumi eccessivi non ne ricordo e per quanto riguarda l’espansione dei consumi individuali mi sembra che si stiano incontrando, almeno a livello internazionale, più i limiti della domanda che dell’offerta. Non emetto giudizi di valore ma solo cerco di rappresentarmi la realtà per quella che è e non per quello che vorrei che fosse.

Ma, si dirà, la crisi ambientale esiste e sta sollevando preoccupazioni importanti e crescenti a livello diffuso e presso i governi. Lo stesso Obama ha dichiarato le sfida della rivoluzione verde cioè della sostituzione dei combustibili fossili con le fonti energetiche rinnovabili.

Questa rivoluzione viene alle volte rappresentata come il socialismo e, francamente faccio fatica a capire perché. A parte i problemi reali di cui non si parla – come quelli relativi agli equilibri mediorientali – sarebbe interessante capire perché una società è capitalistica se produce turbine, scambiatori di calore, impianti di raffinazione del petrolio, ecc., mentre diventa socialista se produce le stesse turbine, gli stessi scambiatori di calore, le celle fotovoltaiche o simili . Per la verità società capitalistiche un pò più avvedute della nostra stanno già pensando ad occupare queste nuove capacità produttive. Solo il nostro capitalismo arretrato pensa a come comprare piuttosto che produrre questi prodotti.

Ma poi questo cambiamento di sistemi energetici nasce dalla crisi ambientale o dall’esaurimento dei combustibili fossili?. O da tutte e due le cause come se, fortunatamente, l’una coincida con l’altra?. Mi permetto di ritenere che sia almeno preminente la preoccupazione ambientale che quindi avrebbe poco a che fare con l’esaurimento delle risorse naturali. Ma questa questione dell’esaurimento delle risorse naturali ha, come noto, una lunga storia se solo si vuol risalire a Malthus passando per il Rapporto sui limiti dello sviluppo. Attualmente va sotto il nome della teoria della decrescita. Avendo avuto occasione di criticare la ragionevolezza e la qualità politica di tale teoria, non mi dilungo (V. S. Ferrari L’oscuro oggetto della bioeconomia - Scienza e Società, 5/6 2008).

Su una questione mi sembra allora, necessario avanzare una riflessione: la questione dell’esaurimento delle risorse naturali ha due aspetti :lo sviluppo della domanda e le tecnologie utilizzate per soddisfare questa domanda. Sugli aspetti della domanda rinvio a Riccardo Lombardi che già qualche decenni fa aveva parlato di questa questione. Invece di tante chiacchiere sarebbe bene riprendere il discorso da dove lo ha lascito una persona come, appunto, Riccardo Lombardi che certo non amava le chiacchiere. . Sulla questione delle tecnologie i vari profeti sembrano incorrere incredibilmente sempre nello stesso errore di Malthus: ragionare a bocce ferme, come se la scienza e l’innovazione tecnologica non esistessero Errore che non farebbe certamente Lombardi e non fece nemmeno Keynes.

segue

sergio ferrari ha detto...

segue

Che queste posizioni abbiano in se delle possibili letture certamente non socialiste ma che hanno riferimenti neoclassici è evidente Ma, tanto per richiamare una questione significativa e centrale, la fame nel mondo non deriva dall’esaurimento delle risorse naturali; le attuali tecnologie agroalimentari sono tali da poter produrre cibo per tutti e per altri ancora . Chiamare in causa i limiti dello sviluppo è un’ottima copertura per politiche reazionarie. E in linea generale invocare un cambiamento nella produzione perché ci sono limiti nelle disponibilità delle risorse o nei danni ambientali, non ha nulla di socialista dal momento che non si vede perché questi problemi non dovrebbe interessare ed essere affrontati anche da un sistema capitalistico che come tale non ama il suicidio e che come dice Ruffolo, ha i secoli contati. E naturalmente ben venga questa capacità del capitalismo Ma cambiare la qualità della domanda –come indicava Lombardi – non può essere scambiato come una necessita materiale, come un dato fisico. Forse è necessario verificare se si esprime una critica al sistema capitalistico e quale è questa critica, altrimenti i forse non saremmo in grado di parlare un linguaggio omogeneo: riprendo la sintesi formulata da un liberalsocialista come Sylos Labini: “ Il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.” Siamo d’accordo?.

Sergio Ferrari

Peppe Giudice ha detto...

Innanzi tutto ringrazio Sergio Ferrari per il giudizio che dà sul mio saggio. E' il frutto di riflessioni che vengono da lontano e l'ho scritto perchè credo che la sinistra debba iniziare ad interrogarsi su temi essenziali per la sua sopravvivenza.
Riguardo alle sue osservazioni voglio precisare che la mia posizione non ha nulla a che vedere con i teorici (un pò radical-chic) della "decrescita" . Non credo che il socialismo possa identificarsi con la proposizione di stili di vita "premoderni".
Mi sono invece rifatto alle riflessioni di Lombardi che già nei primi anni 70 poneva il tema dell'impossibilità di mantenere i ritmi di crescita del ventennio precedente e quindi di un utilizzo più razionale (dal punto di vista sociale) delle risorse. Il Lombardi che legava il discorso della programmazione a quello di un modello alternativo di sviluppo e di un nuovo modo di produrre e consumare. Sono anche io convinto (come Ferrari) che il socialismo sia un progetto di emancipazione del lavoro e di redistribuzione delle risorse. Ma oggi tale progetto si lega strettamente all'immaginare una diversa qualità della produzione e dei consumi. "i socialisti vogliono una società più ricca perchè diversamente ricca". Sulla crisi del capitalismo di oggi come crisi dell'accumulazione mi sono rifatto ad una osservazione di Giorgio Ruffolo. Così come sulla critica di Ruffolo all'ipotesi di una inesauribilità dei bisogni che pone dei limiti al sviluppo illimitato del consumo individuale. Certo negli anni 50 e 60 il movimento socialista ha lottato (e giustamente) per l'accesso delle masse popolari ai consumi di massa - allora fatto emancipatorio. Oggi è diverso. In società che hanno raggiunto e superato da tempo la soglia dell'opulenza ha senso continuare nella crescita ipertrofica del consuno privato? Si pone piuttosto il tema di fare accedere a consuni importanti per uno stantard elevato di vita civile chi oggi ne è escluso (e quindi un problema di redistribuzione), ma occorre contestare un meccanismo che fa della massimizzazione del consumo privato (con all'interno forti diseguaglianze) la propria bussola ed il considerare gli uomini e le donne conme semplici consumatori di merci.

Peppe Giudice

Sergio Ferrari ha detto...

Non intendevo sviluppare nessun accostamento tra Peppe Giudice e i sostenitori della decrescita. Intendevo invece segnalare come a sinistra ci sia anche questa "invenzione" della fine del capitalismo con motivazioni inderogabili analoghe a quelle fallite precedentemente e, in questo caso, per difetto delle risorse naturali, cioe senza nessuna azione politica. E' uno dei vari segnali di una crisi della sinistra orfana della vecchia fede.
Ma intendevo anche ricordare come nel 1930 Keynes avesse previsto che tra cento anni - e ci stiamo arrivando - avremmo raggiunto l'obiettivo di produrre il necessario lavorando tre giorni alla settimana grazie alla crescita della produttività del lavoro e avendo quindi gli altri quattro giorni da dedicare a consumi "elevati", cioè avviando quella diversa qualità dei consumi che auspica Giudice e, penso, tutti i socialisti.
Forse non siamo ancor al punto di aver raggiunto una opulenza diffusa ma certo siamo al punto di poter riprendere la riflessione di Keynes e il massaggio di Lombardi intanto avviando una battaglia per una diversa distribuzione delle risorse. La situazione in materia mi sembra scandalosa e qualificare Sinistra e Libertà su questi obiettivi mi sembrerebbe doveroso ma anche opportuno. Una battaglia in tale direzione potrebbe già coinvolgere anche una valutazione della diversa qualità della produzione e dei consumi. Cioè aprire a sinistra la stagione del nuovo progetto politico.
Sergio Ferrari

Peppe Giudice ha detto...

concordo con il compagno Ferrari. Una eccessiva enfasi sulle cause "oggettive" della fine del capitalismo può andare a scapito di una battaglia politica per modificare profondamente la società attuale. E concordo sul fatto che occorre tenere legate insieme la battaglia per la redistribuzione del reddito e quella per una diversa qualità del modo di produrre e consumare.

peppe giudice ha detto...

Felice, il tema che tu poni è profondamente serio. Perchè per noi è solo con il pieno dispiegarsi della pratica democratica che si possono produrre i necessari cambiamenti. Un ritorno alle origini nel modo di far politica è stimolante come idea: unire la battaglia politica con quella necessaria azione pedagogica che può elevare il livello culturale di masse e farle uscire dalla passività. Per un nuovo partito della sinistra è un compito essenziale.

Peppe Giudice

sergio ferrari ha detto...

A Felice e a Peppe.
Possiamo dire che nella nuova qualità della domanda (e dell'offerta) occorre inserire anche la domanda di informazione e di capacità critica?. Due riforme (di struttura?): l'Informazine e la Scuola. ?.
Sergio Ferrari