Sinistra e Libertà. Dalle identità culturali a una cultura politica
di Gianni Zagato
Dom, 28/06/2009 - 22:22
Se Sinistra e Libertà finirà per restare un cartello elettorale composto da soggetti tra loro distinti, allora il merito del discorso diviene il contenitore, cioè la costruzione organizzativa capace di regolare l’unità nella diversità. Il contenitore politico ha un suo specifico lessico che lo definisce. Cessione di sovranità, federazione tra soggetti, dirigenza plurale, doppio tesseramento, costituente, per finire inevitabilmente con la parola che decide gli equilibri del contenitore stesso, la parola leadership. Se invece Sinistra e Libertà dovrà essere un partito politico – il partito della nuova sinistra italiana – allora bisognerà aprire prima o poi il complesso capitolo delle sue culture politiche di riferimento. Cioè quel nucleo di idee fondamentali – o fondanti - che in un soggetto politico chiamato “partito” finiscono per orientare per un lungo periodo la sua concezione di società e del modo attraverso cui rappresentarla, governarla, trasformarla.
Il lessico che definisce un partito in relazione alle sue culture politiche è alquanto diverso dal lessico che definisce il contenitore. Capitalismo, economia politica, bene pubblico, equità sociale, qualità del lavoro, sviluppo sostenibile, politica della differenza sono alcune delle voci del complesso vocabolario indispensabile per poter giungere a definire la parola che ci interessa. Cioè la parola partito, partito politico della sinistra.
Il nostro comune difetto nell’arco di questi lunghi anni segnati dalla crisi della sinistra – dico nostro nel senso dei differenti segmenti e frammenti attraverso cui la sinistra stessa si è scomposta dagli anni Ottanta in poi – è stato proprio quello di non aver mai davvero affrontato alla radice la sostanza e il merito del suo declino, spostandone sempre l’analisi sul livello della sola ricostruzione organizzativa. Sottoponendo poi l’efficacia delle soluzioni di volta in volta sperimentate alla sola verifica possibile (dato il terreno prescelto) e cioè quella elettorale, come se per quell’unica via si ritenesse recuperabile la forza perduta della sinistra. Un difetto di politicismo, più da ceto politico che da classi dirigenti. Perché è indubbio che le classi dirigenti, quando sono il prodotto di una selezione democratica della vita politica, dispiegano un disegno organico, una visione complessiva, suscitano un moto partecipato; mentre il ceto politico, privo com’è di selezione capace di produrre ricambio, autoalimenta sé stesso e considerando la produzione di cultura politica ininfluente al proprio esercizio quotidiano finisce per occuparsi dell’unica ragione che lo può legittimare, la conservazione di una qualsiasi forma di potere.
Non sta anche qui, nel fatto cioè di produrre ceto politico anziché classi dirigenti, uno dei limiti di fondo della sinistra di oggi? Bisognerà allora riandare nel terreno vero dove quella forza della sinistra si è perduta, aprendo la strada alla sua crescente subalternità politica e sociale. Certo la dimensione di questo problema riguarda ogni famiglia della sinistra in Europa, nessuna esclusa. E non vi era bisogno dell’ultima tornata elettorale per accorgersene. Ma riguarda più di altre sinistre proprio quella italiana poiché se da noi la sinistra politica, sindacale e sociale è stata storicamente forte e radicata, popolare – in una parola, egemonica – ciò è dipeso appunto dalla forza delle culture politiche che ha saputo esprimere. Culture politiche che hanno prodotto pensiero politico, lo hanno saputo trasformare in senso comune intellettuale di massa, innervando i partiti politici della sinistra e le stesse organizzazioni sindacali di una visione capace di contenere e sviluppare un vero e proprio progetto di società.
Pensiamo all’idea di “bene comune pubblico” e di come essa abbia prodotto per almeno due decenni del secondo Novecento lotte e conquiste sociali diffuse nei campi della sanità e dell’istruzione, della concezione del territorio. Oggi quanta sinistra ha finito per rinchiudersi nell’angolo stretto delle liberalizzazioni come risposta subalterna ai ritorni del protezionismo capitalistico? Oppure pensiamo alla produzione teorica, attraverso il pensiero della differenza, del femminismo italiano che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, sia pure incompiuta, dei modelli relazionali tra donna e uomo e del concetto stesso di persona.
Porsi dunque il tema di produrre nuova cultura politica, come condizione primaria affinché la sinistra ritrovi la sua forza perduta nella società. La sinistra che oggi siamo manca di questa dimensione. Certo essa ha identità culturali, ma stanno tutte dentro un ininterrotto processo di frammentazione che mai giunge a una visione progettuale di società. Esprimono una condivisibile critica al capitalismo attuale, tanto più dopo l’implosione interna che lo disarticola. Ma non riescono ad andare molto più in là, quando ci sarebbe viceversa bisogno di lavorare - se non ora, quando? - sulla ricerca culturale e politica di una struttura sociale alternativa a questo sistema.
Apriamo subito dunque questo tema, quello della costruzione di un partito politico a partire non dal suo contenitore organizzativo ma dalla produzione di cultura politica. Cultura politica, senso comune, iniziativa politica. Un gruppo minoritario può trascurare questo capitolo e ugualmente sopravvivere dentro il mercato della politica così com’è. Un partito politico che sia tale, che voglia farsi tale, non può non concepire sé stesso che a partire da una cultura politica critica come avvio del suo cammino, come costruzione vera della sua nuova forza dentro la società.
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