mercoledì 29 luglio 2009

Carlo beltramino: Perché non ho aderito al pd

da internet
PERCHE’ NON HO ADERITO AL PD

[…] Davvero si può dire, andando più indietro nel tempo, pensando ai riformisti alla Turati, ai socialisti liberali alla Rosselli, alla breve vicenda del Partito d'Azione che sono esempi di chi “ ha avuto ragione ma non ha fatto la storia”.

Pensiamo al Partito d’Azione. Un partito che nasce nel pieno della guerra, che in un tempo già dominato dalle ideologie contrapposte e dall’affermarsi dei partiti “chiesa” si contraddistingue per il fatto di unire al suo interno diverse culture riformiste: il socialismo liberale di Rosselli, il liberal socialismo di Calogero e Capitini, le posizioni liberal democratiche di Parri e La Malfa. Un partito che cessa di vivere nel 1947, dopo aver preso alle elezioni per l’Assemblea Costituente una percentuale irrisoria di voti, e che pure aveva tra le sue file uomini che nei decenni a venire avrebbero continuato a incidere nelle vicende e nella cultura di questo Paese, come “un fiume carsico” periodicamente destinato a riemergere. Viene da domandarsi se non sia stata, questa, una delle occasioni perse nella storia del riformismo italiano.[…] (dal discorso che Walter Veltroni ha pronunciato a fine marzo all’Università Luiss di Roma).

In questa analisi, messa in rapporto con l’attuale vicenda del Partito Democratico, stanno molte delle ragioni che mi hanno indotto a non aderire ad un partito che dimostra uno scarso grado di parentela, politica e culturale, con la straordinaria esperienza anticipatrice di cui Veltroni si dimostra sincero ammiratore.

Il Partito d’Azione, che tra gli altri ci ha lasciato in eredità Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Carlo Azeglio Ciampi. Il partito di chi aveva ragione, come la storia ha dimostrato, e non ha potuto scrivere la storia perché schiacciato dai due grandi ghiacciai, il PCI e la DC. Che hanno governato l’Italia, pur da posizioni diverse, ingessandola e impedendo lo sviluppo della democrazia dell’alternanza.

Entrambi i partiti di massa hanno peraltro dimostrato per molti decenni scarsa simpatia per gli azionisti, bollandoli spesso come elitari, salottieri, radical schic o, nell’accezione dispregiativa, massoni.

All’opposto del Partito d’Azione che trovò la propria identità nelle radici risorgimentali, sia sul versante democratico e liberale sia su quello socialista, connotandosi quindi come forza politica “italiana”, PCI e DC, portatori di messaggi universalistici che avevano il loro centro propulsore in paesi stranieri, Unione Sovietica e Vaticano, rallentarono lo sviluppo della identità nazionale.

Vent’anni fa, con la caduta del muro di Berlino e la conseguente svolta della Bolognina, sembrò aprirsi u nuovo scenario: storicizzazione del passato e possibilità di costruire un sistema politico all’altezza delle grandi democrazie occidentali.

Referendum Segni, sistema maggioritario, Alleanza Democratica (primo vero tentativo dopo quello del Partito d’Azione di portare a sintesi le culture riformiste del nostro Paese) fecero riemergere il fiume carsico degli azionisti. Tutti impegnati, repubblicani in testa, nella costruzione di una sinistra plurale che contendesse alla destra, su un programma chiaro e definito, il governo del Paese.

E di nuovo una battuta di arresto. Gli azionisti, per i quali il partito è semplice strumento per realizzare un progetto, decisi ad accelerare la costruzione di un nuovo soggetto politico. Gli eredi di PCI (soprattutto) e DC, per i quali il partito è una sorta di totem attorno al quale ritrovarsi unanimemente, a rallentare.

E gran parte degli attuali paladini del PD fermi a guardare, spesso con la supponenza dei numeri, un impegno forse velleitario per i tempi ma lucido e generoso.

Poi l’esperienza dell’Ulivo. Positiva perché ha sviluppato su ampia dimensione il senso della macro-appartenenza, propedeutico alla costruzione della tanto agognata casa comune dei riformisti.

E Romano Prodi, due volte vincitore su Berlusconi e due volte sconfitto dai suoi. Unico statista della seconda repubblica, come Blair, Aznar, Schroeder dopo l’esperienza di governo ha deciso di occuparsi d’altro.

Oggi il congresso del PD. Un partito nato dall’accordo tra le burocrazie formatesi nei due grandi partiti “chiesa”. Con una forte preponderanza di post comunisti come risulta chiaramente scorrendo i nomi degli organigrammi locali o nazionali o semplicemente visitando qualche festival del PD.

Un partito che vorrebbe darsi una identità liberaldemocratica e liberalsocialista e di fatto occupare uno spazio politico culturale che storicamente appartiene ad altri. Si può capire e regolare l’economia di mercato quando si è cresciuti sognando l’economia collettivistica? O ammirare Obama e gli USA quando per anni si è calpestata la bandiera a stelle e strisce? O difendere le ragioni di Israele quando si è amato Arafat? O essere europeisti quando si è stati scettici con il Mercato Comune Europeo? O commuoversi alle note dell’inno di Mameli e allo sventolio del tricolore quando per anni si sono trattenute a stento le lacrime al suono dell’Internazionale in un tripudio di bandiere sovietiche? O citare Gramsci ad ogni piè sospinto salvo poi, cambiata l’epoca, cancellarlo totalmente del lessico lasciando alle università americane e giapponesi lo studio del grande intellettuale sardo?

Penso di no. Forse stiamo assistendo alla più grande operazione di trasformismo politico dell’Europa moderna. E proprio perché non credo che centinaia di migliaia di militanti possano all’improvviso cambiare coordinate mentali, quasi fossero tutti novelli Paolo di Tarso, proponendosi come profeti del nuovo, rimango a guardare.

Del resto la classe dirigente che guida il presunto cambiamento non è credibile, come dimostrano i quattro milioni di voti evaporati alle ultime elezioni. Il popolo sovrano ha emesso la sua sentenza.

Più che della celebrazione di un congresso con la inevitabile conta dei pacchi di tessere ci sarebbe la necessità di aprire una fase ri- costituente della sinistra italiana, con un confronto serrato sulle idee e non sui numeri.

In tal caso il fiume carsico potrebbe riemergere e mettere a disposizione del progetto il suo patrimonio politico culturale.

Carlo Beltramino

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