mercoledì 29 luglio 2009

Alberto Benzoni, Socialismo e statalismo

>>>> saggi e dibattiti
Tamburrano, nel numero di maggio di Mondoperaio, parla
di “Risorgimento socialista”. E alla vigilia delle elezioni
europee. Ma, attenzione, la sua è un’esortazione; o, se
vogliamo, un ammonimento. E non certo una previsione elettorale.
Al contrario. Se, infatti avesse scritto il suo articolo
all’indomani del 7 giugno, avrebbe cambiato semplicemente
il titolo. Diciamo: “Un’occasione perduta. Le ragioni di una
sconfitta”. Mantenendo, invece, le argomentazioni usate in
precedenza. In sintesi: è entrata in crisi la globalizzazione
liberista, senza regole e tutele; e sono tornati, di conseguenza,
all’ordine del giorno i temi del ruolo dello Stato e cioè del
governo dell’economia e cioè della democrazia sociale. Ma i
partiti socialisti non erano, comunque, in grado di rappresentarli
in modo credibile, essendo stati, a partire da Blair, cantori
e praticanti delle virtù del mercato. Si è dunque creato un
vuoto; riempito dalla vera vincitrice delle elezioni europee, la
destra populista ed identitaria.
Un’analisi che non fa una grinza. Tanto da essere stata fatta
propria dalla generalità dei commentatori ( in questo caso,
con il senno del poi). A completare il quadro va però ricordato
che i socialisti non sono stati penalizzati perché troppo
“moderati”. Se così fosse stato a beneficiare della loro flessione
avrebbe dovuto essere la sinistra radicale e anticapitalista:
mentre quest’ultima ha conservato a fatica le sue, molto
insoddisfacenti, posizioni del 2004. Un argomento importante
per la nostra discussione; un segnale del fatto che la gente
ha espresso la sua protesta ( votando ma, per lo più, astenendosi
) non tanto nei confronti di capitalisti e banchieri, quanto
piuttosto verso la “globalizzazione in sé”; tema, sarebbe
bene ricordarlo da subito, che appartiene alle destre “nazionali”
più che alla sinistra.
Ma, allora, siamo alla fine del socialismo? La tesi non meriterebbe
particolare attenzione (anche perché ci è stata
ammannita, ad intervalli vari, da più di un secolo). Se non per
due motivi. Il primo è che è stata fatta propria, tra gli altri, dal
nostro PD. Il secondo è che identifica le sorti del socialismo
con quelle dello statalismo. Sul PD, poco da dire: l’aspirare al
non essere niente per poter rappresentare tutto è, da sempre,
un suo marchio di fabbrica. Singolare, e istruttivo è però che
si dichiari morta e sepolta, in Italia, una appartenenza che si
intende, invece, fare propria a livello europeo: socialisti al di
là delle Alpi, “superatori”dei medesimi da Bolzano a Trapani.
E, ancora più istruttivo il fatto che gli esponenti dell’ineffabile
PSE si siano prestati al giuoco, in una logica, per dirla volgarmente,
che non riguarda la politica ma la ripartizione degli
incarichi.
Quanto poi all’identificazione socialismo-statalismo, è tutta
da verificare. Sino a prova contraria, infatti, l’idea socialista
si è identificata, sin dall’inizio, con l’emancipazione dei lavoratori
e cioè con la capacità delle persone di essere “padrone
del proprio destino”, individuale e/o collettivo; prospettiva di
cui l’uso del potere pubblico era soltanto uno strumento. Il
passaggio è importante; e non per aprire nuove dispute sui
massimi sistemi ( non siamo all’altezza), ma per cogliere la
tela di fondo del processo di revisione affermatosi nel movimento
socialista negli ultimi decenni del secolo scorso. Così,
i suoi dirigenti- e non solo il famigerato Blair, ma anche
Schroeder e D’Alema, Zapatero e Jospin- sposano la causa
della globalizzazione non per chissà quale annebbiamento
ideologico ma perché si tratta di un “orizzonte necessario”,
rispetto al quale le vecchie ricette e i vecchi strumenti sono,
in linea di fatto, sempre meno praticabili.
La loro scommessa, sia detto per inciso, è quella tradizionale
della socialdemocrazia. Accettare, anzi promuovere, lo sviluppo
del sistema, in cambio di maggiori benefici per i lavoratori
e i cittadini. Ed è una scommessa che, per lunghi anni,
appare vincente. Perché il boom economico mondiale coincide-
e non a caso- con l’avvento al potere, in Europa, in America
latina e altrove, di governi di sicura caratura democratica
e con significativi disegni redistributivi ( governi, tra l’altro,
ancora saldamente in sella e, guarda caso, proprio nei paesi,
come India e Brasile, che stanno già uscendo dalla crisi).
Così è stato in passato- più sviluppo, più socialdemocraziacosì
è stato ora. Ma vale anche l’inverso: e cioè più crisi più
Socialismo e statalismo
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destra. Così è stato ultimamente; così erano andate le cose
all’indomani della grande depressione del 1929; ne erano
emersi il New Deal e la socialdemocrazia svedese; ma anche
l’affermazione della destra nazista e fascistoide in gran parte
dell’Europa continentale. A riprova del fatto che l’esaltazione
del ruolo dello Stato, anche in economia, non è di per sé un
discrimine tra i due schieramenti. Allora non rimane che
attendere fiduciosi la futura ripresa ( affidata alle buone cure
di altri)? Forse le cose non sono così semplici, ed anche la
situazione di oggi è assai meno drammatica di quella di ottant’anni
fa.
Agli inizi degli anni trenta ad essere sotto scacco era la stessa
democrazia liberale, e però la sinistra, socialista e comunista,
aveva conservato la stragrande maggioranza del voto operaio.
Oggi il sistema non è in discussione; e però la sinistra
vede un po’ dappertutto in crisi il rapporto con il suo “popolo”.
Ora, questo stato di cose non è scontato e nemmeno “normale”.
E’, piuttosto, in larga misura, per usare una metafora
religiosa, frutto dei nostri peccati Peccati di omissione ( o,
fuor di metafora, di “ritardo”) in primo luogo. Qui scontiamo
non il “troppo” ma il “troppo poco”. E cioè un internazionalismo
del tutto insufficiente perché nient’affatto concreto.
Così, esaltiamo l’”Europa della pace e dei diritti”; ma non siamo
affatto promotori di progetti degni di questo nome per il
suo concreto futuro. Così invochiamo una globalizzazione
governata; ma non ci curiamo del come e del dove. Così,
viviamo in modo del tutto formale e burocratico i rapporti con
gli organismi internazionali- istituzionali o di partitoanch’essi,
e soprattutto questi ultimi, abituati da tempo a
muoversi nel nulla.
Ai “ritardi”- o peccati di omissione- si può naturalmente
rimediare. Nel tempo. Più preoccupanti, invece, i peccati di
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“pensiero”. Quelli, per intenderci, che hanno reso la sinistra
incapace non solo di difendere adeguatamente il suo popolo
ma anche, e soprattutto, di parlarci e di ascoltarlo. Ascoltare
era necessario. E per ragioni terribilmente concrete. Perché il
mondo del lavoro “tradizionale”è quello che subisce in pieno
l’impatto della globalizzazione: dalla stagnazione dei salari
reali alla erosione delle tutele; dall’emigrazione dei posti di
lavoro all’immigrazione delle persone, per tacere della sicurezza.
Ascoltare, per parlare; spiegare e trovare rimedi. I vecchi
( socialdemocratici e comunisti) avevano, in materia, un
istinto sicuro. E i loro epigoni?
Il quadro non è certo positivo ( in Italia; ma non solo). Silenzio
assordante sulla questione salariale (soprattutto nel privato,
dove non scattano automatismi corporativi) e, più in generale
su quella della (re) distribuzione dei redditi. E, sul tema
centrale del rapporto immigrazione-sicurezza, totale incapacità
di iniziativa politica autonoma; così da oscillare periodicamente,
e penosamente, tra rincorse concrete a destra (
all’insegna dello slogan:” non lasciare alla destra i temi della
sicurezza”) e soprassalti di moralismo buonista ( che portano
ad esibizioni di retorica antirazzista fatte dalle persone sbagliate,
nei luoghi sbagliati e nei confronti di persone per nulla
colpevoli di questo reato).
E, allora, quell’istinto si è perso. Su questo punto, Tamburrano
ha ragione: c’è stata una sorta di mutazione genetica. Di
cui occorre però capire la natura.
L’ipotesi più scontata è quella del “cambiamento di campo”.
Qui la perdita di sensibilità di classe, insomma l’incapacità di
rapportarsi con la propria gente deriverebbe dall’accettazione,
tacita quanto acritica, dei principi e delle regole del capitalismo
globalizzatore. E’ la versione moderna, e più sofisticata,
della antica teoria del “tradimento”. Allora, i dirigenti
passavano al nemico, lucidamente e in cerca di un tornaconto
personale. Oggi si scivola tutti assieme magari con le migliori
intenzioni e senza rendersene conto. Ma forse le cose non
stanno proprio così.Forse non ci siamo trasferiti nel campo
avverso; ma altrove. Non nel campo capitalista; ma in quello,
a noi amico, della borghesia liberale, riflessiva, sensibile, dei
valori.
Stiamo parlando ( e molto sinteticamente) di un fenomeno
che non riguarda soltanto l’Italia ma l’insieme dei paesi latini
e molti paesi dell’Est europeo; realtà diverse ma accomunate
dal fatto di avere avuto una sinistra fortemente connotata
dal punto di vista ideologico. Qui il matrimonio tra sinistra
e “borghesia dei valori” è stato, in primo luogo, un matrimonio
d’interesse; per diventare però ben presto un matrimonio
d’amore. Chiave di volta del mutamento, la caduta del muro
di Berlino. Evento che, in sintesi, ha liberato la sinistra dal
suo secolare passato ideologico e la borghesia dalle sue altrettanto
secolari paure; portando, di conseguenza, alla loro unione
sul terreno non già dei progetti ma delle comuni sensibilità,
della sostituzione della politica con il moralismo; insomma,
per dirla con il gergo di oggi, del “buonismo”.
A segnarne le vie la borghesia liberale e post-moderna; quella
della cultura e delle professioni, del respiro internazionalista
e della sensibilità morale e istituzionale, della buona
volontà e del rimorso, del terzomondismo e della aspirazione
alla pace. Una classe dirigente con tantissime qualità. Ma
anche con “limiti di visuale” abbastanza evidenti. A partire
dalla sua pressoché totale incapacità di misurarsi con il mondo
reale; e quindi con il male e con il conflitto. Il suo approccio
alle cose non ha nulla a che vedere con quello del vecchio
popolo di sinistra. L’una e l’altro parlano lingue diverse e
vedono cose diverse. E non sono perciò in grado di comunicare.
Allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui l’Europa
non è in grado di comunicare con i suoi popoli.
Conclusioni? Nessuna. Salvo a dire che non è e non può essere
all’ordine del giorno per la sinistra né un cambiamento di
campo né un ritorno al passato. C’è, semmai, un approccio da
arricchire e una posizione da ricalibrare. E rendersi conto del
problema sarebbe, allo stato, un buon passo avanti.

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