venerdì 30 dicembre 2016

Fondazione Critica Liberale - il cantiere delle ragioni: Dieci orti da coltivare

Fondazione Critica Liberale - il cantiere delle ragioni: Dieci orti da coltivare

Franco Astengo: Lavoro

UN CLIMA PESSIMO PER LAVORATRICI E LAVORATORI di Franco Astengo Proprio nel giorno della sanzione riguardante i 1.600 licenziamenti di Almaviva , dalla Corte di Cassazione arriva la conferma del clima pessimo che, in Italia, si sta respirando versoi diritti e la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori sempre più esposti al vento dello sfruttamento e della ricerca indiscriminata del profitto da parte di coloro che debbono essere ancora chiamati “padroni” senza tema di apparire legati a schemi antichi. Schemi antichi ma purtroppo ancora e sempre validi. “Si può licenziare per fare più profitti”: un verdetto della Cassazione legittima la disdetta del rapporto di lavoro, anche se l’azienda non è in crisi. La sezione lavoro della Cassazione ha così sposato la tesi della prevalenza, dal punto di vista Costituzionale, dell’articolo 41 che sancisce la libertà d’impresa proprio di questo concetto considerando evidentemente superati i commi 2 e 3 dello stesso articolo 41, laddove si dispone che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla libertà, sicurezza e dignità umana (cosa può accadere di peggio per la dignità umana se non perdere il lavoro per far posto alla crescita indiscriminata del profitto?) e – al comma 3 – si prevede che il legislatore debba fissare i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere utilizzata e coordinata a fini sociali. Il legislatore, al contrario ha invece legiferato, attraverso il Job Act, per l’intensificazione dello sfruttamento, la precarietà, la disponibilità della forza lavoro a esigenze indiscriminate di profitto e di soggezione ai valori dell’impresa capitalistica. Questa sentenza della Cassazione appare proprio in linea con questo tipo di pessimi principi e dimostra come ci si intenda muovere, dal punto di vista del potere, in pieno dispregio del dettato costituzionale e quindi della stessa opinione della maggioranza del corpo elettorale così come espresso il 4 Dicembre scorso. E’ necessario ricordare, ancora un volta, che il 4 Dicembre con il voto referendario al di là degli articoli specifici posti in discussione sono stati, soprattutto, riaffermati l’articolo 1, quello che recita della Repubblica fondata sul lavoro, e l’articolo 3 laddove c’è scritto di eguaglianza di tutti davanti alla legge. Da notizie di stampa si apprende che dovrebbe essere in atto, nel seno della Corte Costituzionale, uno scontro al riguardo dell’ammissibilità del referendum abrogativo proprio al riguardo della legge sul Job Act, quella dei voucher e dei licenziamenti indiscriminati. Esiste un solo modo per rispondere a questo insieme di indiscriminati attacchi tendenti a rendere la condizione lavorativa risulti più esposta indiscriminatamente alle logiche dello sfruttamento e del profitto. La sola risposta possibile è quella della riorganizzazione di un conflitto di fondo proprio sul tema del lavoro, in modo da porre in discussione un vero e proprio spostamento dalla prevalente centralità dell’impresa alla centralità delle lavoratrici e dei lavoratori. In un Paese che deve reagire all’impoverimento e alla paura del precariato la crescita delle ragioni del conflitto sociale appare come l’impegno di gran lunga prioritario per le forze sindacali e politiche più coerenti e in linea con la storia e l’identità della classe lavoratrice.

lunedì 26 dicembre 2016

Franco Astengo: Prima Repubblica

UN (INASPETTATO?) ELOGIO DELLA PRIMA REPUBBLICA di Franco Astengo Uso molto malvolentieri il termine “Prima Repubblica”, del tutto inappropriato rispetto al concreto delle vicende politiche italiane dell’ultimo ventennio, ma sono costretto a farlo al solo scopo di citare l’articolo di Pier Luigi Battista “ Elogio della Prima Repubblica” comparso sul numero del 24 Dicembre della “Lettura”, inserto del Corriere della Sera. Un articolo il cui senso può ben essere riassunto attraverso la citazione dell’occhiello : “ Era dominata dai partiti e non conosceva alternanza, ma modernizzò il Paese senza minare i diritti di libertà. Anche se i governi mutavano, la situazione rimaneva stabile. E le grandi opere si facevano”. Naturalmente non era tutto rose e fiori, basterà ricordare come il “senza minare i diritti di libertà” si ottenne grazie al grande sacrificio della classe operaia e dei contadini poveri poi costretti ad una violenta urbanizzazione scesi più volte in campo per difendere quei diritti durante il drammatico periodo della ristrutturazione industriale al Nord, dell’occupazione delle terre al Sud, del sanguinoso scontro Luglio ’60 quando fu sconfitto il governo Tambroni sostenuto dal MSI nella fase difficile e complicata di gestazione del centro sinistra. Così come fu altrettanto difficile e complicato applicare la Costituzione: un processo ancor oggi non pienamente completato anche se, nel frattempo, la Costituzione è stata attentata da modifiche sbagliate ( Titolo V, articolo 81) e da tentativi di stravolgimento l’ultimo dei quali respinto pochi giorni fa dalla stragrande maggioranza del voto popolare, come già era accaduto nel 2006. Oggi, all’indomani del voto referendario e alla vigilia di una fase che si preannuncia molto complessa, siamo chiamati ad un compito di analisi, di riflessione, di proposta politica cui l’articolo di Battista ha sicuramente fornito un contributo interessante. Nel corso degli ultimi anni si sono verificati fenomeni di vera e propria involuzione nella capacità di esprimere un determinato grado di cultura politica, da parte dei principali attori operanti nel sistema. Sotto quest’aspetto alcune linee appaiono assolutamente meritevoli di approfondimento: 1 Le influenze internazionali. L'Italia è l'unico paese del mondo occidentale che vede il sistema politico destrutturarsi totalmente con la crisi del '92-'94 (fenomeno che va ripetendosi ai giorni nostri). Solo nei paesi latino americani (e ovviamente in termini diversi, nell'Europa dell'Est) è avvenuto un processo analogo. Questo fatto colloca le radici della crisi in una storia di lungo periodo del sistema politico e individua negli anni '70-'80 la conclusione di un ciclo iniziato nel dopoguerra. Allo stesso tempo avvicina (ovviamente solo sotto alcuni aspetti) il sistema politico italiano ad alcuni modelli partitici più fragili e fortemente condizionati dalle linee della Guerra Fredda. Pertanto l'intreccio nazionale/internazionale è un punto di partenza decisivo, anche se solo nel definire la premessa, dello scenario che ha avviato e determinato la crisi italiana. 2 Le influenze dei media. Le caratteristiche della crisi del'93 sono state assolutamente originali. Nel nostro Paese il peso di forze mediatiche ed economiche è sproporzionato rispetto agli altri Paesi e assegna ruoli decisivi a forze esterne al sistema politico (su questo punto è apparsa notevole l'intuizione presente nel documento della cosiddetta "Rinascita Nazionale" elaborato dalla loggia massonica P2 nel 1975; un documento che lo si potrebbe quasi d’ispirazione gramsciana almeno nell’intento di delineare una mutazione di rapporto tra struttura e sovrastruttura). Questo fatto ha implicato una discontinuità con la storia dell'Italia repubblicana ed anche, per alcuni aspetti, della stessa storia dell'Italia liberale. Sono state capovolte gerarchie tradizionali nel rapporto tra sistema politico e forze sociali. Alcuni di questi soggetti sono diventati protagonisti assumendo la leadership o comunque condizionando partiti e coalizioni. 3 Il cambiamento politico-istituzionale. Un cambiamento che ha riguardato tutta l'impalcatura della Repubblica. Il sistema elettorale ha facilitato e accelerato questo cambiamento. Il sistema uninominale al 75% (in vigore dal 1994 al 2001) ha consentito l'affermazione di questi nuovi protagonisti e, allo stesso tempo, ha fotografato i rapporti di forza. Inoltre ha consentito a tutte le forze residuali nate dalla frammentazione del 92-94 di giocare una funzione nell'equilibrio delle coalizioni sproporzionata al peso effettivo. La risposta a questo problema, avutasi con l'ulteriore modifica della legge elettorale del 2005, ha ulteriormente aggravato lo stato di cose, riducendo la rappresentatività reale delle forze politiche, ormai ridotte (molto volentieri, dal loro punto di vista) al solo "potere di nomina" (oltre a disporre di un rilevantissimo “potere di spesa” che ho cercato di analizzare più avanti, cercando di occuparmi della nuova qualità della “questione morale”) e provocando problemi molto seri di vera e propria credibilità per le più importanti istituzioni rappresentative. Quel sistema elettorale è stato dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale e il successivo tentativo di ripresentarlo sotto una veste ancora più “hard” nella definizione dell’Italikum subirà probabilmente la stessa sorte nel prossimo mese di Gennaio. Al tempo stesso il meccanismo si è trasferito sul piano locale, dove appare sempre meno verticalizzato il rapporto tra centro e periferia: è mutato, soprattutto, il ruolo dei vertici istituzionali, Sindaci e Presidenti di Regione, essenzialmente sul piano politico sotto l’aspetto della crescita di peso della personalizzazione della politica. Un elemento, quest’ultimo, del tutto esiziale per la credibilità del sistema. 4 In questo ambito ha preso consistenza una nuova qualità della “questione morale”. Oggi la situazione, è cambiata rispetto soltanto a qualche anno fa e la “questione morale 2017” si presenta con caratteristiche ben diverse: al centro della scena ci sono pezzi di sistema bancario (o presunto tale, perfettamente in linea con le caratteristiche che stava assumendo la crisi) con l’emergere di un ruolo della Banca d'Italia, da giudicare del tutto inquietante come si è visto nella recente sentenza riguardante Banca Etruria. Sul piano dell’intreccio tra “questione morale” e “questione politica” si è aperta quindi una fase di passaggio non trovandoci più dentro alla classica contrattazione di tangenti tra sistema politico e sistema economico, ma alla rappresentazione diretta del sistema economico nella politica: insomma, la politica viene “usata” direttamente, senza intermediazioni, per “fare affari”. Sotto quest’aspetto chi si era permesso di dichiarare che economia produttiva ed economia finanziaria, al giorno d'oggi, si equivalgono nel giudizio di valore, non ha avuto ben presente la gravità e il peso delle parole che stava pronunciando. Su questa basi si è nel frattempo aperto un vero e proprio “fronte” di decostituzionalizzazione del nostro sistema politico. Si è così tentato, in Italia,di procedere alla costruzione di un regime personale e illiberale di tipo nuovo, senza precedenti né confronti nella storia, che è il frutto di molteplici fattori di svuotamento della rappresentanza politica. Il fascismo, infatti, deteneva in sé assieme il concetto del potere personale e quello – molto forte – della rappresentanza politica nella logica del Partito / Stato. Il fattore principale che ha generato lo stato di cose in atto è rappresentato dalla verticalizzazione e personalizzazione della rappresentanza. Il fenomeno è presente in molte altre democrazie, nelle quali la rappresentanza si è venuta sempre più identificando nella persona del Capo dello Stato o del governo e si sono indeboliti o esautorati i Parlamenti. Nel nostro caso però ci siamo trovati di fronte ad un tentativo di forte accelerazione verso il compimento di un passaggio da quella che è stata definita “democrazia di competenza”, rappresentata nel caso dal cosiddetto “governo dei tecnici”(che sembrava proprio andare per la maggiore con i governi Monti e parzialmente ma significativamente Letta) al recupero di un’idea di “governo politico” fondato sulla rottamazione del sistema che ha operato proprio nel senso appena indicato della già definita “decostituzionalizzazione” del sistema, attorno a tre punti: 1) L’uso della leva internazionale, ed in particolare delle istituzioni economiche europee, allo scopo di affrontare la crisi da un solo, esaustivo, angolo di visuale; 2) Il rimodellamento della struttura dello Stato in senso di un riaccentramento dei poteri. Ovviamente, negli anni scorsi, sul terreno del decentramento dello Stato e del cosiddetto “federalismo” sono stati commessi degli errori del tutto marchiani, valutando malamente il riaffacciarsi della frattura “centro-periferia”. Si prenda ad esempio la frettolosa modifica del titolo V della Costituzione attuata dal governo di centrosinistra nella fase finale della legislatura 1996-2001 e la messa in moto dell’infernale macchina dell’elezione diretta di Presidenti e Sindaci, fonte di sprechi immensi e di ulteriore distacco tra i cittadini e le istituzioni. E’ stato, però, messo in atto un tentativo “feroce” di passaggio verso una situazione nella quale le leve del potere principale, quello di erogazione delle risorse, sarebbe tornato, a livello costituzionale, in piena potestà del potere centrale che intendeva usarlo proprio nella logica indicata al punto precedente, al riguardo delle imposizioni che arrivano dalle istituzioni economiche europee (con una finzione scenica di presunta opposizione drammatizzata dall’incrudelirsi della situazione internazionale soprattutto al riguardo del fenomeno dei migranti . Finzione scenica resa credibile dalla davvero incredibile piaggeria e sudditanza dei mezzi di comunicazione di massa) 3) Per via legislativa, approfittando della presunta emergenza imposta della crisi, si sono già modificati quei rapporti tra la prima e la seconda parte della Costituzione Repubblicana che avevamo giudicato intangibili proprio per via del sottile equilibrio esistente tra diritti, doveri e attuazione delle norme in materia delle strutture operative dello Stato e della società. Attraverso l’attacco diretto ai diritti dei lavoratori, esplicitatosi in provvedimenti molto pesanti che hanno posto in discussione lo stesso Statuto dei Lavoratori (provvedimento non incluso in Costituzione, ma sicuramente definibile di rango costituzionale) quell’equilibrio è già stato spezzato in maniera che potrebbe essere giudicata, a prima vista, come irrimediabile. Il tentativo di decostituzionalizzazione presente nel progetto “Renzi – Boschi” avrebbe completato questo quadro rendendolo “de facto” irreversibile almeno nel medio periodo. In questo senso il nostro sistema politico ha, nel frattempo, assunto comunque una connotazione apertamente populista, omologata nell’azione di governo del PD con la demagogia debordante dei precedenti governi di estrema destra fino al 2011 e con la costruzione di un’opposizione (quella del M5S) assolutamente simmetrica rispetto al modello indicato (come dimostra la vicenda romana simmetria che si estende anche al tema già ricordato della “questione morale”). Di populismo comunque si tratta perché come ha scritto Kelsen non esiste, nella concezione espressa assieme da PD. M5S, Lega, Forza Italia, "una volontà collettiva" , non essendo il popolo "un collettivo unitario omogeneo" e la sua assunzione ideologica serve solo "a mascherare il contrasto di interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro". La democrazia, ha aggiunto Kelsen, è un regime senza capi, giacché sempre i capi tendono ad autocelebrarsi come esseri eccezionali e come diretti interpreti della volontà e degli interessi popolari. L'idea presidenzialistico - maggioritaria che presiedeva al processo, per adesso “stoppato” il 4 Dicembre, di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano cui stiamo facendo riferimento risultava anche radicalmente anticostituzionale (al di là della modificazione dei singoli articoli), dato che ignorava i limiti e i vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri della maggioranza riproducendo in termini parademocratici, una tentazione antica e pericolosa, che è all'origine di tutte le demagogie populiste ed autoritarie: l'opzione per il governo degli uomini, o peggio di un uomo, il capo è naturalmente contrapposta al governo delle leggi e la conseguente insofferenza per la legalità avvertita come legittimo intralcio all'azione del governo. Fu proprio questa concezione che fu rinnegata dalla Costituzione del '48 all'indomani della sconfitta del fascismo, che dopo aver conquistato il potere con mezzi legali, distrusse la democrazia edificando un regime totalitario proprio sull'idea del capo come espressione diretta della volontà popolare. Di fronte a questo stato di cose, qui riassunto schematicamente nei tratti essenziali, la sinistra ha il dovere di contrapporre una chiara e netta linea istituzionale, partendo dalla riaffermazione di fondo dell’intangibilità della forma parlamentare: non c' nessuna investitura diretta di alcuna figura istituzionale a livello centrale. Il Governo continua (e deve continuare) a ricevere la fiducia da Camera e Senato, il Presidente del Consiglio è incaricato dal Presidente della Repubblica. E' necessario difendere rigorosamente la suddivisione dei poteri messa in pericolo da una tendenza a sorpassare il senso della “esprit de la lois”. In particolare va riaffermata la natura parlamentare della nostra Repubblica e l'indipendenza della magistratura, da qualsivoglia ingerenza del potere politico. Il nodo più controverso riguarda, però, la struttura stessa del sistema politico. E' nostra opinione che la struttura portante del sistema politico debba rimanere, nonostante tutto, formata dai partiti che debbono riprendere un ruolo rispetto alla società, ricoprendo un ruolo di "integrazione di massa", di soggetto "intermedio" di collegamento e non di semplice sede separata meramente garante del mito della governabilità, anzi facendosi promotore di un forte rilancio del ruolo dei consessi elettivi a tutti i livelli (sotto questo aspetto debbono essere sottoposti a forte critica le cosiddette "primarie"). L’idea delle “primarie” si lega, infatti, strettamente all’affermazione del concetto di “partito personale” e di dialogo diretto del leader con il “popolo”, attraverso l’adesione a tutte le pieghe di quel processo di ripensamento totale del sistema politico in senso autoritario, che è stato fin qui descritto. Il tentativo di analisi che sto cercando di sviluppare attorno alla realtà della crisi del sistema politico italiano risulterebbe del tutto monco senza alcuni accenni (molto brevi e, di conseguenza, anch'essi del tutto schematici) alla grave crisi economico-finanziaria in atto a livello globale. La crisi finanziaria e la recessione economica, partita dagli Stati Uniti e propagata dalla globalizzazione al mondo intero, rappresentano un clamoroso fallimento del neoliberismo e delle sue politiche di "deregulation", ispirate dal culto di un mito chiamato "assoluta libertà" del mercato che è in verità la libertà di una ristretta oligarchia che decide su scala mondiale, la più grande e sconvolgente redistribuzione di capitali, lavoro, risorse. Da molti analisti è stato tragicamente scambiato il processo di velocizzazione del messaggio comunicativo con quello dello spostamento secco verso il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, sviluppatosi invece – a livello planetario – nelle forme classiche già studiate negli anni’20 ad esempio da Hilferding (“Il Capitale Finanziario”) : questo fraintendimento analitico ha portato ad errori molto gravi nella valutazione dei processi e causato un quadro di crescita enorme delle disuguaglianze derivante dal procedere di insensati meccanismi speculativi: un fenomeno ben analizzato da autori come Piketty, Stiglitz, Atkinson ma non ancora affrontato sul piano politico. L'occasione offre una posta alta: l'egemonia culturale e morale nel mondo sviluppato. La sinistra dovrebbe essere capace di leggere la necessità del cambiamento e trovare la forza di proporre un modello di società all'altezza dei tempi, soprattutto per le giovani generazioni. Il neoliberismo ha respinto nettamente l'interferenza dello Stato sul Mercato in nome della fede indiscussa nella sua capacità di autoregolazione. Così si è pervenuti alla conquista di una posizione di forza rispetto allo Stato nazionale (il vero e proprio punto di “cessione di sovranità”), mentre si è verificato un intreccio collusivo tra classe politica e élite capitalistica in forme diverse anche da quel passato che Marx ed Engels avevano racchiuso nel motto “il governo qualunque esso sia, è sempre il comitato d’affari della borghesia”. Abbiamo già avuto modo di osservare come le conseguenze economiche e sociali dell'offensiva capitalistica non sono certo quelle promesse dai profeti del neoliberismo, da Friedman a Von Hayek, fino al decretatore della "fine della storia" Francis Fukuyama. Una crisi di grande portata storica ha, infatti, investito l'economia ed essa rappresenta il segno tangibile di un clamoroso fallimento dell'ideologia (spacciata per "fine delle ideologie") che ha egemonizzato un ciclo, ormai trentennale. Negli ultimi trent'anni, infatti, la distanza dei redditi dei più ricchi e quella dei più poveri è diventata enorme: la diseguaglianza è il connotato più caratteristico della fase del capitalismo globalizzato. Si tratta di una tendenza perversa rispetto al bisogno di coesione sociale. Queste tendenze si risolvono dunque in una polverizzazione della società. Bauman la chiama liquefazione (la "società liquida"), Marx scriveva "dissolvimento". L'indebolimento dei diritti dei cittadini è insieme un indebolimento della democrazia. Il libero mercato e la concorrenza spietata fra le imprese, inviperita dall’utilizzo delle nuove tecnologie comunicative attraverso le quali si è cercato di sostituire il lavoro di intermediazione, hanno spostato l'attenzione sui consumatori e gli investitori invece che sui cittadini portatori di diritti. Per attrarre i consumatori con prezzi stimolanti, si sono tagliati i costi: il metodo più semplice è stato quello di tagliare salari e diritti dei lavoratori. Un sistema, però, che sembra essere giunto al capolinea non soltanto negli stati industrialmente avanzati dal punto di vista “storico”, ma anche in quelli delle nuove economie “affluenti”. E’ andato in crisi lo stesso sistema delle delocalizzazioni anche in un ambito ristretto come quell’Unione Europea. Un problema nuovo degli ultimi decenni è la coesistenza in ogni persona di due modi diversi di porsi di fronte alla società: quello del consumatore e quello del portatore di diritti in una democrazia. Ed è questo l’elemento che si è rovesciato almeno a partire dagli anni’70 del XX secolo e poi successivamente con l’affermarsi delle teorie dei “Chicago – boys” (sperimentate per la prima volta nel Cile di Pinochet) e del reaganismo – tachterismo. La democrazia e il capitalismo hanno rovesciato il loro rapporto: il capitalismo sopraffà la democrazia. Non è certo possibile, in questa sede, sviluppare una proposta organica di affrontamento di questi grandi temi. Mi limito, allora, a elencare i nodi critici che hanno caratterizzato lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni e rendono conto, con chiarezza, le sue contraddizioni e i suoi limiti: 1 In questo quadro la società mondiale è economicamente molto più instabile. La liberazione dei movimenti di capitale da ogni regola, oltre a sradicare l'economia dalle radici nazionali, ha prodotto un’interminabile serie di terremoti monetari e di recessioni. A livello internazionale è ancora in pieno corso una "tempesta perfetta" che mette a repentaglio un intero modello di sviluppo e che qualcuno vorrebbe risolvere oggi ricostruendo teorie di chiusura “auto centrata”. In altri tempi, per dirla sbrigativamente, la guerra sarebbe stata considerata una scorciatoia risolutiva dei problemi. Adesso lo strumento bellico viene usato per dirimere (anche per procura) vertenze di medio raggio ma non appare utilizzabile sul piano globale sussistendo ancora la logica che fu del cosiddetto “equilibrio del terrore”. 2 Le diseguaglianze sociali invece di diminuire sono più pronunciate che nel periodo del "welfare state" e del capitalismo democratico. Si è verificata una divaricazione drammatica della distribuzione dei redditi nei paesi in via di sviluppo e un inasprimento delle diseguaglianze nei paesi ricchi, con effetti disgreganti sulla coesione sociale e nel comportamento morale prodotti dalla competitività accesa per soddisfare le gratificazioni individuali. 3 L'inversione delle priorità sociali, che ha portato al declino dei beni collettivi rispetto a quelli privati. I beni sociali fondamentali (salute, sicurezza, ambiente, educazione) che erano al centro dello Stato Sociale, sono ridotti a costi da minimizzare. 4 Il problema della sovranità politica con lo spostamento delle decisioni strategiche dall'area democratica a quella capitalistica. Lo Stato è in gran parte privato della possibilità di definire la sua politica economica in un sistema in cui non ha più senso la distinzione tra il mercato, fondato sulla legge dello scambio, e lo Stato fondato sull'equilibrio della legittimità democratica del potere. 5 La sostenibilità ambientale determinata dalla circostanza incontrovertibile che le risorse naturali non sono di quantità infinita e che le emissioni prodotte dal processo industriale hanno un limite di tollerabilità 6 La fragilità di un sistema basato sull'accumulazione finanziaria di risorse al momento inesistenti, anticipate dall'indebitamento a carico del futuro. Su quale terreno, allora, collocarci per affrontare questi nodi così intrecciati? Marx ha dedicato pagine memorabili a descrivere la potenza rivoluzionaria e modernizzatrice del capitalismo e come questo ha travolto le società precedenti, rivelandosi il più grandioso sistema di mobilitazione della ricchezza del mondo sviluppato. Nello specifico del “caso italiano” (inquadrato, ovviamente, nel già più volte richiamato contesto europeo) appare totalmente insufficiente il ruolo del PD emerso come soggetto compromissorio davvero capofila sul piano dell'allontanamento dalle istanze sociali. Servirebbe, allora, un vero e proprio salto nella storia: ma non si potrà fare alcun salto senza prima fare spazio al pensiero di un diverso futuro.

sabato 24 dicembre 2016

La sinistra oltre il referendum - micromega-online - micromega

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Rodotà: “Bocciato il renzismo. Ora ripartiamo dalla Costituzione” - micromega-online - micromega

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Organizing Labor’s Left Pole | Jacobin

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Un nuovo ’93? Il contesto internazionale

Un nuovo ’93? Il contesto internazionale

Franco Astengo: Un 18 aprile alla rovescia

UN 18 APRILE ALLA ROVESCIA di Franco Astengo L’analisi ravvicinata sul territorio dei risultati referendari del 4 Dicembre scorso, eseguita attraverso una comparazione tra i voti raccolti nell’occasione delle Europee 2014 tra lo schieramento favorevole al SI’ (PD, NCD, Scelta Civica) e quello del NO (il resto dello schieramento politico, oltre ad una frazione minoritaria in parlamento e nel gruppo dirigente del PD) ci indica come quella del fronte del SI sia stata una vera debacle al punto che potrebbe essere definita davvero come un “18 Aprile alla rovescia”. Di seguito si troverà un’analisi riguardante tutte le regioni: se ne evince che gli unici punti di sostanziale tenuta per lo schieramento del SI’ si sono situati in Lombardia e nel Molise. Il dato più sorprendente riguarda le Regioni nelle quali il SI è prevalso ma dove, considerati i dati di partenza, si è registrata egualmente una flessione molto rilevante. Già noti i dati del Sud che, scorporati appunto a livello regionale, consentono una analisi più attenta dei diversi scostamenti, come si vedrà esaminando i dati regione per regione. Si può notare, inoltre, come si sia sicuramente verificata un’influenza specifica di quella parte del PD che si è schierata diversamente dalle indicazioni di partito: lo si rileva, infatti, dai dati riguardanti l’Emilia Romagna e la Toscana e, ancor più in particolare, da quelli della Puglia dove si era dichiarato per il NO il presidente della Regione Emiliano: inoltre, se si guardano – ad esempio – i risultati della Basilicata un certo spostamento elettorale è stato determinato anche dalla posizione di diniego assunta dal PD nell’occasione del recente referendum sulle trivelle; posizione non accolta favorevolmente dagli stessi militanti ed elettori del PD nelle regioni più direttamente interessate. Ancora un’annotazione preliminare in precedenza all’esposizione dei voti: il numero di elettrici ed elettori aventi diritto diminuisce tra il 2014 e il 2016 in tutte le regioni per via dello spostamento nell’iscrizione all’interno delle liste nell’apposito albo degli elettori aventi diritto di voto all’estero. Inoltre, per ragioni di facilità nei conteggi si è tenuto conto dei voti validi e non delle elettrici e degli elettori partecipanti al voto: quindi togliendo in partenza schede bianche e schede nulle. PIEMONTE Iscritti nelle liste 2014 3.574.232 2016 3.396.378 Voti validi 2014 2.248.947 (62,92%) 2016 2.423.550 (71,35%) incremento di 174.603 voti pari all’8,35% SI: schieramento alle elezioni 2014 1.019.253 (45,32%) referendum 2016 : 1.054.749 (43,50%) incremento di 35.496 voti e diminuzione percentuale dell’1,82% NO: schieramento alle elezioni del 2014 : 1.229, 694 (54,67%) referendum 2016 1.368.801 (56,47%) incremento di 139.107 voti pari all’1,82%. Il Piemonte è sicuramente una delle regioni dove il SI ha tenuto meglio, anche se il NO si è aggiudicato circa l’80% dei voti validi in più VALLE D’AOSTA Iscritti nelle liste 2014 102.900 2016 99.735 Voti validi 2014 46.426 (45,11%) 2016 70.684 (70,87%) incremento di 24.258 voti pari al 25,76% SI: schieramento alle elezioni 2014 24.093 (51,89%) 2016 : 30568 (43,24%) incremento di 6.475 voti. NO: schieramento alle elezioni 2014 22.333 (48,10%) 2016: 40.116 (56,75%) incremento di 17.783 voti pari all’8,65% IN Valle D’Aosta, pur incrementando, il SI non riesce a mantenere la maggioranza LIGURIA Iscritti nelle liste 2014 1.336.147 2016 1.241.469 Voti validi 2014: 776.812 (58,13%), 2016 : 858.448 (69,14%) incremento di 81.636 unità pari all’11,01% SI: schieramento del SI alle elezioni 2014 : 357.699 (46,04%) elezioni 2016: 342.671 (39,91) decremento di 15.028 voti (-6,13%) NO: schieramento per il No elezioni 2014: 419.113 (53,96%), 2016: 515.777 (60,09%) incremento di 96.664 voti pari al 6,13% IN Liguria il SI cede sia in voti assoluti sia in percentuale nonostante un incremento nella partecipazione al voto superiore al 10% LOMBARDIA Iscritti nelle liste 2014 : 7.676.180 2016: 7.480.375 Voti validi 2014: 4.890.124 (63,70%) 2016: 5.511.146 (73,67%) incremento di 621.023 voti (9,97%) SI: schieramento per il SI elezioni 2014 2.213.904 voti (45,27%) 2016: 2.452.936 (44,50%) incremento di 239.032 voti con un calo percentuale dello 0,77% NO: schieramento per il NO elezioni 2014 419.113 (53,96%) 2016: 515.777 (60,09%) incremento di 381.991 voti pari allo 0,77% In Lombardia si registra un sufficiente equilibrio tra il SI e il No nel contendersi i nuovi voti arrivati tra le elezioni del 2014 e il referendum del 2016 TRENTINO ALTO ADIGE Iscritti nelle liste 2014 820.331 2016 792.504 Voti validi 2014 : 410.676 ( 50,06%) 2016 : 566.795 (71,51%) con un incremento di 156.119 unità pari al 21,45% SI: schieramento per il SI elezioni 2014 : 250.975 voti (61,11%) SI 305.322 (53,86%) decremento di 54.347 voti (-7,25%) NO: schieramento per il NO elezioni 2014: 159.701 (38,88%) 2016: 261.473 (46,13%) incremento di 101.772 pari al 7,25% Arretramento del SI nonostante l’appoggio della SVP VENETO Iscritti nelle liste 2014: 3.920.691 2016: 3.725.400 Voti validi : 2014 2.397.744 (61,15%) 2016: 2.835.027 (76,09%) incremento di 437.283 voti (14,94%) SI schieramento per il SI alle elezioni 2014 : 1.028.937 (42,91%) 2016: 1.078.561 (38,04) incremento numerico di 49.624 voti e decremento percentuale del 4,87% NO schieramento per il NO alle elezioni 2014: 1.366. 807 (57,09%) 2016: 1,756- 466 incremento di 389.659 voti (4,87%) Evidente l’influsso leghista nel procacciare i “nuovi voti” al NO FRIULI VENEZIA GIULIA Iscritti nelle liste 2014: 1.042.552 2016: 952.494 Voti validi 2014 573.152 (54,97%) 2016: 685.111 (71,92%) CRESCITA DI 111.959 unità pari al 16,95% SI schieramento per il SI elezioni 2014 276.018 (48,15%) 2016 : 267.379 (39,02) incremento di 8.639 voti con una flessione del 9,13% NO: schieramento per il NO elezioni 2014 297.134 (51,85%) 2016: 417.732 (60,97%) incremento di 120.598 voti pari al 9,13% Anche in Friuli il No cede nettamente EMILIA ROMAGNA Iscritti nelle liste 2014 3.415.283 2016: 3.326.910 Voti validi 2014 2.308.559 (67,59%) 2016 2.505.476 (75,30%) incremento di 196.917 unità SI Schieramento per il SI 2014: 1.294.991 (56,09%) 2016: 1.262.484 (50,38) una flessione di 32.507 unità ( -5,71%) NO: Schieramento per il NO 2014 1.013.568 (43,90%) 2016 : 1.242.992 (49,61%) incremento di 229.424 voti e del 5,71 in percentuale. IL SI vince “in discesa” diminuendo voti e percentuale e il NO sfiora la maggioranza. In questo caso non si esclude una diretta influenza della sinistra PD. TOSCANA Iscritti nelle liste 2014: 2.956.360 2016: 2.854.129 Voti validi 2014: 1.997.292 (67,55%) 2016: 2.105.777 (73,78%) crescita di 108.485 voti pari al 6,23% SI schieramento per il SI elezioni 2014 1.132.587 (56,70%) 2016: 1.105.769 (52,51%) calo di 26.818 voti (- 4,19%) NO schieramento per il NO elezioni 2014 864.705 (43,29%) 2016 1.000.008 (47,48%) aumento di 135.303 voti pari al 4,19% Caso analogo all’Emilia Romagna: ex regione rossa dove il SI vince nonostante un calo evidente UMBRIA Iscritti nelle liste 2014 694.129 2016 675.610 Voti validi 2014 464.550 (66,92%) 2016 492.254 (72,86%) incremento di 27.704 unità (5,94%) SI schieramento per IL SI 2014: 248.436 (53,45%) 2016: 240.346 (48,82%) meno 8.000 voti e meno 4,63% NO schieramento per il NO 2014 216.204 ( 46,55%) 2016 : 251.908 ( 51,17%) incremento di 35.704 voti pari al 4,63% L’Umbria è una di quelle regioni dove si registra il ribaltone con il passaggio della maggioranza dal No al SI (che cede in cifra assoluta e in percentuale). Quasi un emblema della persistente impressione di un vero e proprio “sfarinamento” del PD MARCHE Iscritti nelle liste 2014 1.276.853 2016 1.189.181 Voti validi 2014 464.550 (66,92) 2016 492.254 (72,86%) incremento di 27.704 suffragi ( 5,94%) SI schieramento per il SI 2014 : 400.832 (50,40%) 2016 : 385.768 ( 44,93%) decremento di 15.064 voti ( - 5,47%) NO 2014 schieramento per il NO 394.406 ( 49,59%) 2016: 472.765 ( 55,06%) crescita di 78.359 unità ( 5,47%) Anche nelle Marche il Si cede la maggioranza e il NO incrementa con cifre molto considerevoli. LAZIO Iscritti nelle liste 2014: 4.685.371 2016: 4.402.145 Voti validi 2014 : 2.536.572 (54,71%) 2016: 3.023.165 (68,67%) incremento di 486.593 suffragi ( 13,96%) SI 2014 schieramento per il SI : 1.127.583 (43,98%) 2016: 1.108.768 (36,67%) calo di 18.815 unità (- 7,31%) NO 2016 schieramento per il NO 1.408.989 (56,02%) 2016: 1.914.397 ( 63,22) incremento di 505.408 voti ( 7,31) Impressionante, sul piano dei numeri assoluti, l’incremento del NO ABRUZZO Iscritte nelle liste 2014 1.163.972 2016 1.052.049 Voti validi 674.768 (57,97%) 716.189 (68,07%) incremento di 41.421 voti (10,10%) SI schieramento per il SI 2014 271.207 (40,19%) 2016: 255.001 (35,60%)calo di 16.206 voti ( - 4,59%) NO 2014 schieramento per il NO 403.471 ( 59,81%) 2016 461.188 (64,39%) incremento 57.717 (4,59%) MOLISE Iscritti nelle liste 2014 308.734 2016: 256-.600 Voti validi 2014 150.066 (48,60%) 2016: 162.123 (63,18%) incremento di 12.057 voti (14,58%) SI 2014 schieramento per il SI 58.244 (38,81%) 2016 63.395 (39,10%) incremento di 5.151 ( 0,29%) NO 2014 schieramento per il NO 91.822 (61,19%) 2016 98.728 (60,89%) incremento di 6.906 voti e calo percentuale dello 0,29% Nel Molise si registra il miglior risultato del SI nella comparazione con il 2014 CAMPANIA Iscritti nelle liste 2014 4.818.561 2016: 4.566.905 Voti validi 2014 2.303.894 (47,81%) 2016 2.667.460 (58,40%) aumento di 363.566 unità (10,59%) SI 2014 schieramento per il SI 998.783 (43,35%) 2016: 839.692 (31,47%) decremento di 159.091 voti (-11,88%) NO 2014 schieramento per il NO 1.305.111 (56,64%) 2016: 1.827.768 (68,52%) incremento di 522.657 voti pari all’11,88% Più di mezzo milione di voti d’aumento per il No esimono da commenti. PUGLIA Iscritti nelle liste 2014 3.416.133 2016 3.280.712 Voti validi : 2014 1.637.959 (47,94%) 2016: 2.007.927 (61,20%) incremento di 369.968 (13,26%) SI 2014 schieramento per il SI 691,814 (42,23%) 2016 : 659.354 ( 32,83%) decremento di 32.460 unità ( - 9,40%) NO 2014 946.145 (57,77%) 2016: 1.348.573 ( 67,16%) incremento di 402.428 voti pari al 9,40% Evidente l’influsso della spaccatura nel PD BASILICATA Iscritti nelle liste 2014 545.922 2016 467.000 Voti Validi: 2014 241.644 44,26% 290.005 ( 62,09%) incremento di 48.631 voti pari al 17,83% SI 2014 schieramento per il SI 124.236 ( 51,41%) 2016: 98.924 (34,11%) calo di 25.312 unità ( - 17,30%) NO 2014 schieramento per il NO 117.408 (48,59%) 2016: 191.081 ( 65,88%) incremento di 73.673 voti ( 17,30%) Altra regione nella quale si verifica il sorpasso del NO sul SI. Probabile influenza del referendum sulle trivelle, molto sentito da queste parti CALABRIA Iscritti nelle liste 2014 1.786.728 2016 1.553.741 Voti Validi : 747.917 ( 41,85%) 837.940 ( 53,93%) incremento di 90.023 unità ( 12,08%) SI schieramento per il SI 2014 370.721 (49,56%) 2016 276.214 (32,96%) decremento di 94.507 ( - 16,60%) NO schieramento per il NO 2014 377.196 ( 50,43%) 2016 561.726 ( 67.03%) incremento di 184.530 voti (16,60%) SICILIA Iscritte nelle liste 2014 4.309.963 2016 4.031.871 Voti Validi : 2014 1.794.959 (39,55%) 2016:2.262.808 ( 56,12%) incremento di 557.849 voti (16,57%) SI 2014 schieramento per il SI 750.050 (43,99%) 2016 642.713 (28,40%) calo per 107.337 voti ( - 15,59%) NO 2014 schieramento per il NO 954.909 ( 56.01%) 2016 1.620. 095 (71,59%) incremento di 665.186 voti (15,59%) Il NO conquista tutti i “voti in più” ed anche una parte dei voti in partenza patrimonio del Fronte del SI SARDEGNA Iscritti nelle liste 2014 : 1.405.116 2016 1.375.735 Voti validi: 2014 564.449 ( 40,17%) 2016: 854.071 ( 62,08%) incremento di 289.622 unità ( 21,91%) SI schieramento del SI 2014 245.493 (43,49%) 2016: 237.280 ( 27,78%) decremento di 8.213 voti (- 15,71%) NO schieramento del NO 2014 318.956 ( 56.51) 2016 : 616.791 (72,21%) incremento di 297.835 voti (15,71) In percentuale la Sardegna è la regione dei record per il NO ESTERO A puro titolo esemplificativo, non essendo possibile alcuna comparazione, si uniscono anche i dati del voto all’Estero Iscritti nelle liste 4.052.341 Voti Validi 1.117.323 (27,5% ) molto lontana dal vantato 40% SI 722.915 NO 394.408

venerdì 23 dicembre 2016

GRAFICO DEL GIORNO: IL RAPPORTO OCCUPATI/POPOLAZIONE NEI PAESI OCSE

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Fabrizio Barca: La mia proposta alle sinistre del Pd: da dove ripartire per ritornare uniti | Fabrizio Barca

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giovedì 22 dicembre 2016

Livio Ghersi: I dilemmi della legge elettorale

I dilemmi della legge elettorale. Due settimane fa, nell'articolo titolato "Bene Gentiloni, ma ora approviamo delle buone leggi elettorali", ho concentrato l'attenzione sull'eventualità che il Parlamento, per dare soluzione al problema di individuare due nuove leggi elettorali, fra loro armonizzate, per la Camera ed il Senato, riprenda in considerazione la legislazione elettorale del 1993. Non, però, per riproporla tale e quale, ma — scrivevo — con «minimi adattamenti». Gli adattamenti che ho suggerito sono effettivamente "minimi" dal punto di vista della tecnica di scrittura, nel senso che sarebbe agevolissimo approvare disposizioni chiare e coerenti, formulate nel senso proposto. Non sono altrettanto "minimi" nella sostanza, perché, a ben vedere, comporterebbero rilevanti conseguenze rispetto all'impostazione delle leggi numero 277/1993 (per la Camera) e 276/1993 (per il Senato). Salterebbe tutta la farraginosa normativa sullo "scorporo", che ha minato non poco la funzionalità della legge elettorale per la Camera. Basti pensare all'espediente, molto praticato, delle cosiddette "liste civetta": il trucco consisteva nel collegare un candidato sicuramente vincente in un collegio uninominale, non alla lista circoscrizionale del partito di cui faceva parte, ma ad un'altra lista (una "fictio"). Tutto ciò al solo scopo di non diminuire i voti della lista ufficiale del partito, perché i voti scorporati erano così sottratti alla lista civetta. In questo modo le liste dei maggiori partiti potevano ottenere qualche seggio in più tra quelli da assegnare con metodo proporzionale. Viceversa, secondo la mia proposta, i seggi da assegnare in relazione al voto espresso con la seconda scheda di votazione, non sono più in alcun modo collegati ai seggi assegnati nei collegi uninominali. Il collegamento, ovviamente, resta dal punto di vista logico e politico, perché tutti i seggi ottenuti da una medesima coalizione, grazie ai voti espressi dagli elettori con la prima o con la seconda scheda, si sommano ai fini della formazione di una maggioranza parlamentare. Ma non c'è più alcun collegamento fra i due voti, dal punto di vista tecnico-normativo, salvo il requisito che tutti i candidati nei collegi, aderenti ad una medesima coalizione, debbano essere caratterizzati da uno stesso contrassegno. In più ho proposto di assegnare i 142 seggi della Camera che sarebbero attribuiti con il voto espresso mediante la seconda scheda, non tutti in ragione proporzionale, come era previsto dalla legge n. 277/1993, ma attribuendo un numero di seggi, a cifra fissa, alla coalizione, o, eventualmente, alla singola lista non coalizzata, risultata più votata nella dimensione nazionale: 94 seggi, in misura corrispondente al 15 % del totale dei componenti la Camera dei Deputati, sarebbero destinati a questo scopo, a titolo di incentivo per la costituzione di una stabile maggioranza parlamentare. Poiché il sistema elettorale descritto contempera già, sia il sistema maggioritario puro nei collegi uninominali (in ciascun collegio il candidato più votato conquista il seggio, ossia l'intera posta), sia l'incentivo dei 94 seggi alla coalizione, o lista, più votata in ambito nazionale, ne consegue che per i residui 48 seggi si possa finalmente trattare le minoranze con spirito di liberalità. Niente soglie di sbarramento, dunque: occorre consentire che anche liste con cifre elettorali nazionali relativamente basse possano ottenere rappresentanza (il che poi, in concreto, può significare, uno o due seggi). Ciò è possibile applicando il riparto proporzionale nella circoscrizione più vasta possibile, che è quella coincidente con l'intero territorio nazionale. Un buon Parlamento deve essere rappresentativo di tutte le forze politiche presenti nel Paese nel dato momento storico, anche quelle che, magari non avendo grande consistenza numerica, possono comunque esprimere proposte innovative e contenuti di qualità. E' l'idea del cosiddetto "diritto di Tribuna", che arricchisce e rende più veritiero il ruolo del Parlamento. Con riferimento alla legge elettorale del Senato la mia proposta era più aderente all'impostazione della legge n. 276/1993. C'è però un elemento d'importanza cruciale, che nel precedente articolo avevo dato per scontato, ma che, evidentemente, non è stato compreso. É necessario rivedere l'ambito territoriale dei collegi uninominali, tanto per la Camera, quanto per il Senato. I collegi con i quali si votò, a partire dalle elezioni del 1994, erano stati concepiti con riferimento ai dati del censimento generale della popolazione del 1991. Nel frattempo, sono intervenuti altri due censimenti generali: nel 2001 e nel 2011. Dopo più di vent'anni i dati demografici sono troppo cambiati perché si possa far finta di niente. Nella mia proposta, mi sono riferito a 476 collegi per la Camera (uno in più rispetto a quelli istituiti ai sensi della legge n. 277/1993) ed a 243 collegi per il Senato (11 in più rispetto a quelli istituiti ai sensi della legge n. 276/1993). Secondo me, infatti, bisogna tendere a riportare ogni collegio della Camera alla corrispondenza media di una popolazione residente di 125.000 abitanti, ed ogni collegio del Senato alla corrispondenza media di una popolazione residente di 250.000 abitanti. Per il Senato l'obiettivo è un pò più complesso da raggiungere, perché bisogna realizzare quanto richiesto dall'articolo 57 della Costituzione: cioè che, indipendentemente dal dato della popolazione residente, alla Valle d'Aosta spetti un senatore, al Molise due, e che tutte le altre Regioni italiane abbiano, comunque, un minimo di sette senatori ciascuna. Poiché il criterio discriminante diverrebbe così la dimensione demografica del collegio, non sarebbe più strettamente vincolante il precedente criterio del riparto dei seggi fra quota maggioritaria e quota proporzionale nel rapporto del 75 % contro il 25 %. La nuova delimitazione territoriale dei collegi non è un espediente dilatorio: non richiederebbe almeno sei mesi di tempo, come ho letto in commenti evidentemente interessati. Non si tratterebbe, infatti, di partire da zero: ci sarebbe già il dato dei collegi istituiti nel passato. Bisognerebbe lavorare su questi, restringendo, o allargando, ciò che c'è da restringere, o da allargare. I collegi da istituire in più, ex novo, sarebbero troppo pochi per determinare sconvolgimenti. Una Commissione tecnica, composta da dipendenti dell'Istat scelti dal Presidente dell'Istituto e da un ristretto numero di esperti designati dai Gruppi parlamentari, potrebbe, lavorando intensamente, assolvere questa incombenza in non più di due mesi. Prevediamo un altro mese per consentire alle competenti Commissioni legislative parlamentari, di Camera e Senato, di esprimere il proprio parere sul complessivo progetto di delimitazione dei collegi. In questo modo, fissando rigorosamente, in una disposizione della stessa legge elettorale, gli aspetti procedurali e attribuendo al Governo la delega a determinare la delimitazione territoriale dei collegi entro il limite massimo di 120 giorni, l'obiettivo potrebbe realisticamente essere conseguito in poco meno di quattro mesi. Sempre che ci sia la volontà politica di farlo. Ho letto che, secondo alcuni, l'attuale assetto tripolare del sistema politico italiano mal si adatterebbe al ripristino dei collegi uninominali. Niente di più falso. Il fatto che ci siano tre raggruppamenti politici, più o meno equivalenti, non significa affatto che ciascuno otterrebbe all'incirca un terzo dei seggi disponibili. Nel sistema maggioritario è decisiva la distribuzione territoriale del consenso. Un partito ben radicato in alcune aree geografiche, tipo la Lega Nord, può conquistare numerosi collegi nelle zone in cui ha un forte insediamento. Un partito che raccolga complessivamente molti voti in ambito nazionale, ma che non sia prevalente in alcun luogo, finirà per non ottenere seggi nei collegi. La regola del maggioritario è fin troppo semplice: il primo e soltanto il primo vince. Da questo punto di vista, si comprende il panico che, a quanto pare, sta provando il Movimento Cinque Stelle, di fronte alla prospettiva di ritornare ad una legislazione elettorale tipo quella del 1993, con i necessari adattamenti. L'unica legge elettorale che può garantire in pieno il potenziale elettorale del Movimento Cinque Stelle è una legge proporzionale. Loro lo sanno perfettamente; ma chi ritiene che sarebbe opportuno ridimensionare il peso istituzionale di questo Movimento all'interno del Parlamento italiano dovrebbe, anche lui, farsi due conti. Non è un caso che il Movimento Cinque Stelle difenda la legge elettorale approvata da Renzi (legge 6 maggio 2015, n. 52): infatti, al netto di tutte le disposizioni che la Corte Costituzionale riterrà eventualmente di dichiarare costituzionalmente illegittime nel contesto di quella normativa, ne risulterà comunque una legge proporzionale, corredata da soglie di sbarramento, punitive per i partiti minori, ma favorevolissime per un partito di dimensioni medio-grandi, quali appunto sono i Cinque Stelle. L'attuale assetto tripolare del sistema politico potrebbe, al contrario, operare come forte incentivo a selezionare al meglio le candidature nei collegi uninominali, perché, essendoci una competizione vera ed un esito incerto, ogni partito, per convincere gli elettori, dovrebbe schierare il meglio della classe politica di cui può disporre. Mi sembrano più fondate le preoccupazioni espresse da Forza Italia e dal suo leader Berlusconi. In questo caso l'ostilità al ripristino dei collegi uninominali nasce dalla difficoltà politica a ricreare un'organica coalizione di centro-destra. La Lega Nord si caratterizza sempre più per posizioni di estrema destra (dall'antieuropeismo all'islamofobia) e per un partito come Forza Italia, legato al Partito Popolare europeo, non è possibile candidarsi credibilmente al governo dell'Italia con un partner siffatto. Tuttavia, per rilanciarsi politicamente, Forza Italia ha bisogno di ritrovare la sintonia con un'opinione pubblica moderata, che è assai differente dall'estrema destra. Così come avviene in Francia, laddove il raggruppamento che sosterrà François Fillon nella prossima campagna presidenziale, è il più acerrimo avversario ed il più temibile concorrente del raggruppamento che si riconosce in Marine Le Pen. Il proporzionale conviene davvero a Forza Italia? E se, invece, se ne avvantaggiassero formazioni centriste d'ispirazione cattolica? E se, invece, si creasse l'opportunità di fondare un nuovo partito di repubblicani e liberali collegato al gruppo dei Liberal-democratici (ALDE) al Parlamento Europeo? Si tratta di scelte delicate, che dovrebbero essere assunte con la capacità di guardare non al domani immediato, ma ad un periodo sufficientemente congruo per impostare un'azione politica di ampio respiro. Palermo, 22 dicembre 2016 Livio Ghersi

Alberto Benzoni: Deficit di socialismo e liberalismo

Da Critica liberale, 19 dicembre 2016 deficit di socialismo e di liberalismo alberto benzoni Con due primi interventi, di Benzoni e di Ghersi, iniziamo una tribuna libera (che sarà pubblicata sia sul quindicinale sia sull’evidenza del nostro sito) per discutere sul “Che fare?”delle forze azioniste, democratiche, liberali, liberalsocialiste, repubblicane e socialiste. Naturalmente l’invito a partecipare è rivolto a tutti i nostri lettori. La redazione Socialisti e liberali hanno avuto una sorte comune. Quello di essere scomparsi dal panorama politico della seconda repubblica. Non parlo delle persone, sopravvissute per lo più come "professionisti a contratto" in qualche corte straniera; almeno fino all'esaurimento del loro compito.. Parlo delle formazioni politiche, scomparse o ridotte allo stato larvale, sigle senza merci e senza avventori. E parlo anche, purtroppo, della cultura politica, rispettivamente ripresentata in una caricatura grottesca oppure ufficialmente bandita come pura sopravvivenza di un passato da respingere senza beneficio d'inventario. Una sorte opposta rispetto a quella subita da altre formazioni durante la prima repubblica, come gli azionisti e i verdi: là dove la morte o l'ibernazione della matrice partitica era accompagnata dalla affermazione della relativa "sensibilità" nella cultura e nell'immaginario politico complessivo. In questi venti anni e passa questo processo di osmosi collettiva non si è affatto verificato. Il berlusconismo è stato, come si diceva, in precedenza, la caricatura grottesca della annunciata rivoluzione liberale: salvo a considerare il suo "fate come vi pare e tutto andrà per il meglio" la traduzione in volgare del pensiero di Croce o di Einaudi. In quanto al Pd, basti considerare la fine miseranda della Cosa 2 e dei cosiddetti miglioristi, ridotti ad affidare le loro sorti prima a Monti e poi a Renzi: e con un "house organ", leggi “Le ragioni del socialismo” che non si è mai illustrato per la sua capacità di difenderle o, quanto meno di spiegarle. 057 19 dicembre 2016 12 Questo per dire che la seconda repubblica è stata segnata, sin dall'inizio, per un totale "deficit di socialismo e di liberalismo". C'era naturalmente chi considerava (o faceva finta di considerare...) questo deficit o, più esattamente questa assenza, come una specie di viatico per il nostro ritorno sulla scena. Con il seguente ragionamento:" alla sinistra manca la cultura socialista, alla società italiana manca la cultura liberale; ma questo vuoto dovrà prima o poi dovrà essere riempito; teniamo duro ancora per un po’ e saranno costretti a rivolgersi a noi". Era, tradotto in politichese, il sillogismo che, decenni prima, un mio vecchio amico socialista, occasionalmente e improvvidamente assunto al ruolo di pianificatore dello sviluppo economico del Lazio, applicava all'industria siderurgica: "nel Lazio manca una industria siderurgica; perciò occorre crearla". In entrambi i casi il punto sta nel fatto che un "vuoto" esiste in quanto viene percepito. Ora, nel caso del Lazio, gli altiforni esistevano solo nella fugace immaginazione del mio amico e quindi nessuno poteva comunque percepirne la necessità; mentre, nel caso della cultura socialista e liberale, la scomparsa della domanda è, semplicemente, il frutto della scomparsa dell'offerta. In parole povere, nessuno ci frequenta perché noi stessi non siamo stati presenti; non avendo né fatto né scritto né pensato nulla che ci potesse rendere riconoscibili. Facile attribuire la nostra mancata ricomparsa alle esigenze di sopravvivenza di un ristretto ceto politico sempre più autoreferenziale. In realtà essa è stata legata a qualcosa di più profondo: al fatto che, per sopravvivere in un ambiente organicamente ostile, occorreva accettarne e i principi ispiratori

Paolo Bagnoli: Un incredibile schiaffo al no

un incredibile schiaffo al no Da critica liberale 19 dicembre 2016 paolo bagnoli Ciò che è avvenuto a seguito del risultato referendario ha dell’incredibile. A un Paese che per il 60% ha rigettato il progetto di riforma costituzionale del governo di Matteo Renzi, si è risposto con un governo del SI’. Il ministero Gentiloni, infatti, per il contesto nel quale è nato e per come è formato, equivale al cappello che il presidente cacciato dal popolo italiano ha lasciato sulla sedia per tenerla occupata nell’attesa sperata di riprenderne possesso. Diciamo la verità: è una vergogna. L’altra verità è che le preoccupazioni per la sorte del Pd hanno avuto la meglio su quanto il Paese ha chiesto: vale a dire, una svolta politica sostanziale che rimetta in moto una processualità di ricostruzione istituzionale della “politica democratica” – e non si tratta di forma, naturalmente – la cui assenza segna, oramai, un periodo ben più lungo di quello della dittatura fascista. Il risultato del referendum, infatti, ha consegnato al Paese l’occasione di una ripresa di coraggio nelle capacità della democrazia repubblicana, ma queste non sono certo rappresentate da un governo di sala di attesa quale quello Gentiloni la cui forza consiste solo nel non averne nei giochi del suo partito. Il significato del voto è chiaro e ci saremmo aspettati che il Presidente della Repubblica lo cogliesse nella sua essenza invece di regalarci un pasticcio che non è una risposta e ponesse in essere un tentativo serio di nuovo inizio con la formazione di un governo istituzionale, di responsabilità repubblicana che, archiviando la lunghissima sfibrante decoazione della nostra vita pubblica, ricollocasse la politica dentro un processo ricostruttivo della democrazia italiana e della intima moralità che deve sostenerla. Il Paese lo ha chiesto, ma si è detto no in salsa neodemocristiana, paludato da esigenze e necessità fittizie che aggiungeranno negatività al già tanto negativo accumulatosi in poco più di due decenni. Le questioni particolari del Pd sono state anteposte a quelle dell’interesse generale. Il presidente Mattarella ci sembra essergli andato incontro; forse, anche ai suoi esponenti ha detto quanto va ripetendo nelle periodiche visite ai terremotati: “non vi lasceremo soli, ricostruiremo tutto.”! Il presidente cacciato, segretario di un partito che vorrebbe, non riuscendoci, a essere “sistema”, dopo la sceneggiata, invero pietosa e macchiettista dell’addio, continua a muoversi per riprendersi il governo e con esso il Paese. Lo strumento dovrebbe essere una resa dei conti plebiscitaria da giocarsi nel prossimo congresso. Non a caso lo si vuole prima 057 19 dicembre 2016 6 possibile sperando in una legge elettorale che il Pd cercherà, come peraltro per l’Italicum, di tagliare sulle sue esigenze. La vocazione maggioritaria continua. Non sappiamo, in effetti, cosa possa succedere. Infatti, se il Paese ha cacciato Renzi, l’accoppiata di questi con le decisioni di Mattarella, ha ulteriormente indebolito il luogo principe della democrazia, cioè il Parlamento, considerato che Gentiloni si è presentato in aule con larghi vuoti i quali, piaccia o non piaccia, non segnano solo una modalità di opposizione al governo, ma lacerano la funzione stessa di legittimità del Parlamento. È anche sorprendente, inoltre, che negli interventi alla Camere, Gentiloni abbia fatto praticamente finta di niente, intessendo discorsi lunari. Perfino la parvenza della dignità istituzionale è parsa latitare; le intenzioni programmatiche si sono limitate a richiamare la priorità del lavoro e la condizione del Sud. Il lavoro, già, dal momento che i voucher del Jobs act hanno creato ancor più precariato. Sul settore incombono poi i tre referendum proposti dalla CGIL e sottoscritti da tre milioni di cittadini. Sulla loro ammissibilità la Consulta inizierà a discutere l’11 gennaio 2017. I referendum puntano a cancellare la modifica dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, vale a dire la possibilità di licenziamento; ad abrogare le disponibilità che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante in caso di violazioni a danno del lavoratore e, infine, a cancellare i richiamati voucher, ossia i buoni lavoro per il pagamento delle prestazioni accessorie. Il Jobs act è a rischio smantellamento ed era stato presentato come un fiore all’occhiello del governo Renzi. Si può immaginare la situazione se, dopo la bocciatura della nuova Costituzione, la Consulta dichiarasse ammissibili le proposte di referendum e decidesse di farli votare in primavera. Dalla sconfitta, per il Pd, si potrebbe passare alla disfatta; così, anche per scongiurare il pericoloso appuntamento, Renzi vorrebbe che si votasse prima, tra quattro o cinque mesi. Tornato a casa ha dichiarato, abbandonata per una volta la falsa burbanza del masaniello che la sa lunga: ”Nessuno ricorda cosa abbiamo fatto in mille giorni, robe mai fatte in dieci anni. E non c’è uno che mi renda almeno l’onore della armi.” Affermazioni buttate là perché è vero che quello che ha fatto lui non solo in dieci anni, ma nemmeno in oltre mezzo secolo, nessuno aveva tentato: stravolgere la Costituzione e pensare in contemporanea una legge elettorale quali due gambe a sostegno del suo disegno; ossia di se stesso quale dominus della politica praticata e dello Stato. Non è vero, poi, che non abbia avuto l’onore delle armi quando si legge - se pure all’interno di un ragionamento in cui si ammette che il partito in quanto tale non esiste - quanto dichiarato, due giorni dopo il risultato, un uomo politico di lungo corso quale Vannino Chiti, non un renziano stretto, ma da comunista di scuola nemmeno abituato, alla fine, a porsi contro il segretario di turno del suo partito. Chiti ha dichiarato – e c’è voluto coraggio per un uomo sicuramente prudente quale è il senatore toscano – che “Renzi è uno dei leader più forti della sinistra europea.” 057 19 dicembre 2016 7 Torniamo al governo. Una delle ragioni della fretta invocata da Mattarella per ridare un ministero al Paese era il Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo della UE del 15 dicembre scorso: quello nel quale si dovevano prendere delle decisioni sull’immigrazione. L’Italia doveva dare battaglia nella pienezza del proprio quadro istituzionale.ma le richieste di Roma sono state del tutto disattese e quanto Gentiloni ha dichiarato al rientro a Roma fa cadere le braccia: gli avevano consegnato i saluti da portare a Renzi. In Parlamento è sembrato quasi che il governo facesse una dichiarazione della propria impotenza senza avere l’onestà intellettuale di dire al Paese il proprio pensiero sulla situazione della Repubblica dopo il referendum e di quanto racchiuso nel suo risultato, preoccupato solo di dare a Matteo Renzi omaggi di stima per il suo comportamento, invero fuori misura. Quasi che l’esecutivo varato da Mattarella si scusasse per il fatto di esistere augurandosi tutti che Renzi continui a governare; bastava solo si mettessero a cantare: ”torna, sta casa aspetta te”!. In tale triste scenario le furbate continuano a imperversare. Ci sbaglieremo, ma il comportamento di Verdini ci sa tanto di combinato disposto tra lui e Renzi poiché i voti che il gruppo verdiniano ha al Senato possono essere utilissimi per staccare la spina a Gentiloni Renzi ritenga di farlo. Inoltre perché, oggettivamente, l’entrata di uno dei suoi nel governo avrebbe quando dato nuovi stringenti argomenti all’opposizione bersaniana. Riteniamo, tuttavia, che la compensazione possa avvenire tramite la legge elettorale che, nelle loro intenzioni, dovrebbe prevedere un premio di maggioranza alla coalizione. Allora, considerata anche l’iniziativa di Pisapia che si propone di unire la sinistra fuori dal Pd, si intravede un connubio con il partito renziano al centro, Alfano, Verdini e Casini sulla destra e Pisapia sulla sinistra sempre che l’ex-sindaco riesca nel proprio intento. Una parte della sinistra fuori dal Pd – Sinistra Italiana – sta strutturandosi dopo la decisione di Sel di sciogliere i ranghi ed è una presenza che l’operazione Pisapia non contempla. L’occhio sul futuro, però, non deve farci perdere l’attenzione sul presente perché il dato politico del NO vincente non può essere lasciato cadere e non c’è, al momento, nessuna forza che possa porsi a riferimento di quanto di democraticamente omogeneo il NO contenga. Lo sforzo, ora, deve essere di far germogliare in termini di politica pratica il senso politico di quel risultato cercando di articolare un’aggregazione alla quale possano fare riferimento – e, per intenderci, ricorriamo a formule gloriose del passato - sia quelli della “rivoluzione liberale” che quelli della “rivoluzione democratica” ramificando nel Paese punti di riferimento di cultura e di soggettività politica. Le energie ci sono, singole o facenti capo a riviste, circoli, cenobi intellettuali e così via; si provi a fare uno sforzo per mettersi insieme cercando di far prevalere ciò che unisce rispetto a quanto divide; in fondo il NO ha fatto intravedere che l’idea di un’Italia “comune” c’è ed è meno esangue di quanto si potesse pensare.

Mps, una crisi venuta da lontano | D. S. Mare e R. Rossi

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domenica 18 dicembre 2016

Fabian Society » The problem of “English socialism”

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Varoufakis e Chomsky lanciano Diem25: "Come Sanders e Podemos, anche in Italia". - Eddyburg.it

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I partiti della Costituzione e i populismi - Eddyburg.it

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Le incursioni della BCE sul mercato del lavoro italiano | Economia e Politica

Le incursioni della BCE sul mercato del lavoro italiano | Economia e Politica

DOPO IL REFERENDUM

DOPO IL REFERENDUM

Franco Astengo: L'individualismo competititvo

L’INDIVIDUALISMO COMPETITIVO di Franco Astengo Sono molti gli esempi concreti attorno a noi e si possono prendere a piene mani dall’attualità politica. Simmetricamente con un evidente “sfrangiamento sociale” si sta sfarinando l’intero sistema politico, a tutti i livelli centrale e periferico. Una caduta verticale di credibilità e di capacità operativa che si verifica nonostante l’ostinarsi di forme di partecipazione attiva che davvero sarebbero meritevoli di ben altro scenario. In realtà si tratta di una partecipazione che si esprime “in tondo”, priva di punti di riferimento plausibile, vagando di volta in volta verso il raggiungimento di obiettivi labili ed effimeri. Mete subito smentite dal muoversi di un ceto politico autoreferenziale che non tiene più conto delle aspirazioni collettive e sposta il traguardo di volta in volta laddove sembrano situarsi gli interessi dei singoli protagonisti dell’arena politica. Emerge così il fenomeno dell’individualismo competitivo inteso quale fattore dominante dell’agire politico. Alle spalle di questo fenomeno emergente risiede l’affermazione del concetto di cessione e di incerto trasferimento di ruolo da parte dello “Stato – Nazione” inteso quale soggetto – perno di ogni sistema (indipendentemente dalle forme democratiche, oligarchiche, dittatoriali che questo ha assunto nel tempo) e dominante almeno dal trattato di Westfalia in avanti. Apparentemente in crisi (anche se, in verità non è proprio così) il modello westfaliano è saltata l’organizzazione politica classica: quella transitata dal notabilato ai partiti di massa. Ciò ha provocato l’emergere di alcuni fenomeni che possono ben essere considerati come negativi: 1) L’esasperazione nel concetto di personalizzazione della politica; 2) L’emergere di quell’individualismo competitivo che appare ormai come l’unico fattore di mobilitazione nel passaggio dall’impegno sociale all’impegno politico; 3) L’adozione di meccanismi elettivi assolutamente esiziali per il perseguimento di un’ipotesi d’impegno collettivo: le primarie e l’elezione diretta; 4) Il passaggio del meccanismo di centralità istituzionale dai consessi elettivi al “governo” (anche in questo caso a tutti i livelli, al centro come in periferia) 5) La mancata selezione della classe dirigente che ormai avviene nella casualità di cordate costruite per vocazione fideistica, magari dopo lo svolgimento di sondaggi (tra ignoti: candidati e votanti) sul web. Su questi elementi è necessaria una riflessione del tutto approfondita che mi pare non si abbia, a tutti i livelli, granché voglia di sviluppare limitandoci nell’insieme ad assurde ricerche del “leader” (femmina o maschio che sia, in questo l’omologazione nel “far politica” tra i sessi è assoluta e totale). Già in passato si era tentato di avviare un’analisi attorno a questi tempi e allora è il caso di riprendere alcuni spunti già posti all’ordine del giorno del dibattito. Uno spunto di riflessione ulteriore può essere suggerito, a questo punto, da un aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere” elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio all’evidenziarsi di quella “confusione tra i poteri” cui si è accennato nella descrizione del passaggio dalla centralità delle istituzioni elettive a quella del “governo”. La teoria del filosofo francese considera il potere come una risorsa che circola attraverso un’organizzazione reticolare. Si tratta di un punto sul quale l’analisi non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la pena riprendere all’interno di una riflessione dettata dall’attualità di questi giorni. Una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana. Un’orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io. Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui Luhmann risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria della riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una sorta di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste. La presa d’atto, in sostanza, della necessità di un potere sovraordinato rispetto al venir meno di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra poteri costituenti e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo, legislativo, giudiziario. Sorge però a questo proposito una domanda cruciale: come potrà costituirsi, nel concreto, questo potere sovraordinato? Una possibile risposta può venire proprio dall’analisi dell’attualità del caso italiano. La risposta può venire dalla finzione, dalla messa in scena di un potere esclusivamente immaginario esercitato in via personale da un attore capace di interpretare il flusso degli strumenti mediatici (orientati, tra l’altro, sempre più verso il consumo individuale di notizie e di fittizi rapporti sociali e di trasmissione di idee). Una finzione, quella attuata prima da Berlusconi e in seguito da Renzi e imitata come verifichiamo nell’attualità da Presidenti di Regione, Sindaci, Presidenti di Authority e via dicendo (capaci di mascherare, in questo modo, potenti interessi privati : lo verifichiamo dappertutto nelle espressioni di questo potere “finto”: da Roma a Milano fino a Savona). Una finzione, del tipo di quella esercitata sia dal PD sia dal M5S sia da Forza Italia :tutti soggetti sfuggenti a regole democratiche basate sull’intervento diretto del “collettivo” ma fondati appunto sull’immagine del capo e sui comprimari sgomitanti proprio in virtù dell’esercizio del loro individualismo tendente a soffocare gli altri e che ammette soltanto “raggi magici” piuttosto che “gigli magici” attorno a loro stessi. Una finzione sulla quale l’opinione pubblica si adagia avendo introiettato sul piano culturale l’idea della governabilità quale sola sponda possibile per l’esercizio della funzione politica e ricevendo in cambio il “via libera” a una sorta di “anarchismo diffuso” sul piano sociale esplicitato nell’assenza di regole e nel ritorno alla possibilità di esercitare una sorta di “potere privato” su chi s’incontra sulla nostra strada in posizione subalterna. Una nuova concezione del potere : “di finzione” sul piano del pubblico e “privato” nella concezione, ormai apparentemente egemone, dell’individualismo quale sola fonte di rapporto verso gli altri. La scaturigine evidente del fenomeno dell’individualismo competitivo. L’interrogativo alla fine è questo: quanto tempo potrà reggere questa finzione? Che tipo di replica potrà verificarsi al momento del suo disvelamento? Torno su argomenti già esaminati proprio in questi giorni in una riproposizione che mi pare urgente e di bruciante attualità. Sarà difficile, al momento proprio del disvelamento della finzione, evitare un rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria soggettiva affermazione di fronte alla “collettività del dramma sociale”. Costruire un’alternativa sarà compito lungo e arduo: avremo bisogno soprattutto di motivare un senso, un indirizzo, un destino, sfuggendo alla banalità dell’ovvio, alle litanie delle inutili alternanze. Per redigere questo testo sono stati consultati: Max Weber “Economia e Società”, Milano 1974; Michel Foucault “Microfisica del potere” Torino 1977, Niklas Luhmann “Potere e complessità sociale” Milano 1979, Roberto Esposito e Carlo Galli, “Enciclopedia del pensiero politico”, Roma – Bari 2005.

"Ripartire dopo la vittoria del no per una legge elettorale pienamente costituzionale" | COMITATO PER IL NO REFERENDUM COSTITUZIONALE | SITO UFFICIALE

"Ripartire dopo la vittoria del no per una legge elettorale pienamente costituzionale" | COMITATO PER IL NO REFERENDUM COSTITUZIONALE | SITO UFFICIALE

sabato 17 dicembre 2016

Elezioni presidenziali in Austria: Il candidato della sinistra ha vinto. Quello di estrema destra non ha perso | VoxEurop.eu: notizie europee, vignette e rassegne stampa

Elezioni presidenziali in Austria: Il candidato della sinistra ha vinto. Quello di estrema destra non ha perso | VoxEurop.eu: notizie europee, vignette e rassegne stampa

CONTI PUBBLICI: LA PESANTISSIMA EREDITA' LASCIATA DAL GOVERNO RENZI

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Understanding Global Inequality

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Non siamo la sinistra del no, no, no - micromega-online - micromega

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La legge di stabilità e la precarietà del lavoro - micromega-online - micromega

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Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario - micromega-online - micromega

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Geografia referendaria

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Capitalism in the Time of Trump?

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The Short- and Long-run Inconsistency of the Expansionary Austerity Theory: A Post-Keynesian/Evolutionist Critique | Levy Economics Institute

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Socialism in an Age of Reaction | Jacobin

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Where Is Our Labor Party? | Jacobin

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Rifare l’Ulivo … prima si riporti il timone a sinistra « gianfrancopasquino

Rifare l’Ulivo … prima si riporti il timone a sinistra « gianfrancopasquino

Franco Astengo: Tangentopoli

TANGENTOPOLI E DINTORNI di Franco Astengo Oggi, proprio nel giorno in cui nelle cronache spicca l’arresto del factotum dell’amministrazione comunale romana Marra e l’autosospensione a causa di una indagine della procura del sindaco di Milano Sala, è uscito un interessantissimo rapporto sulla corruzione redatto dalla Fondazione Res presieduta dal prof. Carlo Trigilia e diretta dal prof. Rocco Sciarrone. Un’indagine molto accurata e attendibile perché fondata esclusivamente su sentenze della Corte di Cassazione, quindi esauriti i gradi di giudizio e riguardante i profili di 541 casi. Si può riassumere il senso complessivo di quanto è stato individuato nello sviluppo dell’analisi con questa frase: “ negli anni ’90 quasi la metà dei ladri intascava soldi per il partito, ora lo si fa per profitto personale”. Ancora: “Siamo di fronte ad una fotografia di come si è evoluta la razzia delle risorse pubbliche dai tempi di Tangentopoli. Scoprendo che i casi sono addirittura aumentati”. Eppure: fin dagli anni ’80 i segnali dell’evolversi della situazione corruttiva nella politica e nella pubblica amministrazione nel senso appena indicato c’erano già stati e fu soltanto per la miopia delle forze politiche che il fenomeno non fu contrastato nella giusta dimensione (era necessario farlo ben oltre il giudizio della Magistratura). In precedenza all’entrare nel merito della già citata ricerca portata avanti dalla Fondazione Res è il caso allora di ricordare l’episodio decisivo di avvio del processo che oggi viene denunciato: la “questione morale savonese” meglio nota come “caso Teardo” (dal nome del leader socialista attorno al quale ruotò tutto il marchingegno tangentizio). Riprendo il tema riguardante il “caso Teardo” da un’analisi dell’epoca redatta da chi scrive queste note: “La “questione morale savonese” presentava, rispetto ad altri fenomeni evidenziatisi proprio in quel periodo, come il caso “Biffi Gentili” a Torino (laddove fu il sindaco Novelli ad attivare il meccanismo di riferimento alla magistratura), elementi di assoluta originalità. Si trattava, infatti, dell’esistenza, non tanto e non solo di una “centrale” collettrice di tangenti, ma di un fenomeno di contropotere organizzato in cui erano poteri extra-legali (appunto le logge massoniche “coperte”) a determinare gli assetti politici e gli atti concreti della Pubblica Amministrazione al di fuori da qualsiasi possibilità di controllo democratico. Lo stesso rapporto con la società che era stato instaurato da questo potere extra-legale non risultava essere di natura classicamente clientelare (per cui si sarebbe potuto parlare semplicemente di reciproco favoritismo tra società civile e ceto politico) ma si trattava, invece, di un fenomeno di vera e propria “progettualità criminale” che puntava a contaminare (realizzando l’obiettivo) i diversi settori della politica, delle professioni, dello stesso mondo del lavoro. Era quello il punto, che riconosciuto adeguatamente, avrebbe dovuto portare da subito a considerare Savona un “caso nazionale”. Quali erano, allora, i terreni di coltura del progetto criminale? La prima condizione era stata costituita dal progressivo decadimento dell’economia e della struttura produttiva del savonese. Su questo punto dovrebbero, ancor oggi essere analizzate le responsabilità di quanti promossero un vero e proprio feroce processo di deindustrializzazione, senza che da parte delle giunte di sinistra si verificasse una reazione efficace e adeguata. Va affermato ancora oggi con chiarezza: la sinistra di governo non seppe riconoscere, qui in Liguria, il fenomeno nella sua vastità e nella sua dirompenza, non riuscendo a legare un progetto preciso di difesa e rinnovamento della vocazione industriale della Città a un progetto precisa relazione con un terreno di nuova qualità dello sviluppo che pure, all’epoca, poteva essere possibile se pensiamo alle esigenze di modernizzazione (mai realizzate) delle infrastrutture e di un coerente uso del territorio. E’ stato, all’epoca, il processo di deindustrializzazione (attuato, è bene ricordarlo, per quanto riguarda il fondamentale settore della siderurgia, sul piano nazionale dall’IRI allora guidato da Romano Prodi) il punto vero di copertura dell’intreccio politica – affari. Un processo di deindustrializzazione la cui finalità ultima, come puntualmente fu verificato negli anni successivi, era quello di un tragico scambio: liberazione delle aree/ speculazione edilizia. A questa prima condizione se ne collegò un’altra che riguardava il tema delle basi strutturali sulle quali si erano realizzate, negli Enti Locali, le alleanze politiche. La strategia delle cosiddette “giunte bilanciate”, attuata in Liguria ma anche in altre parti del territorio nazionale, da DC e PSI assunse un aspetto del tutto particolare: non soltanto di copertura dell’intreccio fra politica e affari ma come sanzione (direi quasi come terminale) dell’aspetto più pericoloso di tutta questa storia e che va ribadito, dopo essere stato già indicato poco sopra: quello delle assunzioni delle decisioni politiche in sedi extra-legali come le logge massoniche segrete e al di fuori da ogni possibilità di controllo democratico Si aprì, in quel modo, un vero e proprio “varco”, quasi una codifica della separatezza tra la gestione della cosa pubblica a livello locale e gli interessi e i bisogni della popolazione. Le forze politiche, adagiate sul terreno della governabilità, favorirono un processo di spostamento dal collettivo all’individuale nel soddisfacimento dei bisogni, la creazione di un’illusoria “società affluente” con il “privato” al centro di tutto e la “questione morale” resa quasi funzionale a una falsa idea dello sviluppo. Nel caso savonese d’inizio anni’80 questi elementi c’erano già tutti, a volerli vedere e analizzare: non fu fatto per negligenza e colpa.” A chi si era fatto carico di denunciare politicamente questo stato di cose fu risposto, addirittura dalle colonne della rivista ideologica del PCI “Rinascita”, che si trattava di “una macchia nera su di un vestito bianco”, l’omologo cioè del famoso epiteto “mariuolo” tirato fuori nel 1992. Ci si trovava, però, nel caso ligure in anticipo di 10 anni, in tempo per provvedere nel merito. Adesso l’inchiesta della Fondazione Res codifica che sono i Comuni e le Regioni l’habitat dei nuovi predatori (esattamente come era avvenuto quasi quarant’anni fa) con una crescita esponenziale dal 1993 in avanti. C’è da dire che il meccanismo dell’elezione diretta, sia nei Comuni sia successivamente – ed in particolare – nella Regioni, ha sicuramente alimentato il fenomeno. La struttura verticistica degli Enti, raccolta attorno ad una figura monocratica, è stata sempre più orientata (verrebbe da scrivere : ha subito una vera e propria torsione) nel senso di costruire “staff” la sorte dei cui componenti è sempre più stata legata alle prospettive di rielezione dei vertici: anche la condizione di mobilità dei dirigenti, la privatizzazione del loro rapporto d’impiego, ha sicuramente favorito il fenomeno corruttivo. Secondo i dati dell’inchiesta il Sud appare sicuramente maggiormente colpito dalla tendenza al malaffare ma Centro e Nord non ne risultano certo immuni. Così come dal punto di vista degli schieramenti politici d’appartenenza dei condannati (si ribadisce : l’analisi riguarda sentenze già passate alla Corte di Cassazione) si ravvisa un certo equilibrio: con il 39,2% di appartenenza alle forze politiche pre- modifica della legge elettorale; il 32,3% al centro destra; il 17% al centro sinistra e il rimanente l’11,4% tra forze di centro, mutamenti di fronte e soggetti non identificabili. Non c’è soltanto il denaro come merce d scambio ma anche altro: case, auto, assunzioni o promozioni di parenti, pacchetti di voti. In realtà assunzioni , promozioni, pacchetti di voti erano già ben presenti anche nel “caso Teardo”. Si può concludere riportando testualmente un’affermazione contenuta nel documento in questione : “La corruzione è specchio della società e lo dimostrano le differenze di stile dei malandrini. Nella pianura padana c’è un’impronta imprenditoriale, nel meridione avvocati e medici seguono la tradizione dei notabili e delle clientele. Ma il risultato è identico: la devastazione delle risorse pubbliche. E il prezzo di questo sistema lo pagano tutti i cittadini”.

giovedì 15 dicembre 2016

Franco Astengo: 40

ATTENZIONE : IL 40% NON E’ TUTTO DEL PD, MA NON E’ COSI’ DISTANTE di Franco Astengo Nell’immediato post – referendum si sono scatenate molte polemiche rispetto all’affermazione compiuta da qualche componente del “Giglio Magico” renziano circa il ripartire – da parte del PD – dal 40% ottenuto dal SI il 4 Dicembre. Un 4% corrispondente a 13.431.109 voti validi. Allo scopo di confutare questa affermazione, ritenuta dai più molto azzardata, è stato anche ripescata una comparazione riguardante il PCI nell’occasione del referendum sulla scala mobile del 1985. In quell’occasione lo schieramento del SI, sostenuto dal Partito Comunista, all’abrogazione del famoso decreto di San Valentino ottenne il 45,68% dei voti pari a 15.460.855 voti ( erano tempi di più rigida osservanza al riguardo delle direttive di partito, assieme al PCI lo schieramento del Sì comprendeva Democrazia Proletaria e il MSI) ma il PCI risultava di gran lunga il maggior azionista. La partecipazione al voto si assestò al 77,85% Nelle elezioni politiche successive, svoltesi però due anni dopo nel 1987, il Partito Comunista ottenne 10.255.904 voti pari al 26,58% ( partecipazione al voto all’88,3% ) mentre gli altri soggetti che si erano schierati con il SI due anni prima superarono complessivamente i 3 milioni di voti ( in questa quota debbono essere conteggiati anche i Verdi che, nel 1985, non erano ancora nati ma i cui potenziali dirigenti e futuri elettori appartenevano, in quel momento, in gran parte al fronte del SI). In somma il fronte del SI aveva ceduto, in due anni, circa 2 milioni di voti, con un tasso di fidelizzazione complessiva sicuramente non trascurabile all’epoca dell’84%. Le percentuali si erano abbassate per via dell’incremento nella partecipazione al voto, superiore di 11 punti tra le politiche e il referendum. Come si vede un paragone, considerati i numeri, quello tra il 2016 e il 1985 abbastanza improprio per valutare adesso una drastica caduta del PD dalla quota del 40%. Tralasciando i sondaggi, i cui autori si sono parzialmente riscattati nell’occasione referendaria, sarà il caso di andare a valutare i numeri veri seguendo la traccia del tasso di fidelizzazione alle indicazioni di partito fornite dai dati dell’Istituto Cattaneo. A quei dati va aggiunta una valutazione su stime percentuali riguardante il voto di quelle elettrici e di quegli elettori che, nell’occasione delle Europee 2014 presa in esame come metro di riferimento, si erano astenuti e nel 2016 sono tornati a votare. Naturalmente c’è stato un interscambio: abbiamo avuto infatti, tra entranti e uscenti un saldo attivo di circa 3.500.00 di elettrici ed elettori. 6 milioni e mezzo di entranti e oltre 3 milioni di uscenti. La vittoria del NO, infatti, è stata costruita in gran parte dalle elettrici e dagli elettori che sono tornati a votare con circa 3.500.000 voti di scarto a favore del NO. Sulla base dei dati forniti dall’Istituto Cattaneo e da una comparazione percentuale del voto dei rientranti o nuovi partecipanti al voto è possibile, quindi, con una approssimazione sufficientemente definita valutare le posizioni di partenza delle singole forze politiche all’indomani dell’esito referendario. Come si noterà emerge un certo scostamento dall’esito dei sondaggi: PD 35,76% Area Popolare 4,09% Forza Italia 17,72% Movimento 5 Stelle 24,91% Lega Nord 7,58% Sinistra Italiana 4,67% Fratelli d’Italia 4,54% Altri 0,70% Attenzione è il caso di ribadire : queste sono posizioni di partenza all’indomani dell’esito referendario: è evidente che si registreranno, da qui alle elezioni politiche, scostamenti rilevanti anche per via della tendenza a livello di grandi numeri a seguire l’orientamento generale dettato dai mezzi di comunicazione di massa. Si tratta, però, di dati utili per una valutazione più attenta della realtà dei rapporti di forza in campo. Toccherà ad elettrici ed elettori modificarli o confermarli. Sono troppe le incertezze riguardanti le future leggi elettorali (Camera e Senato) per poter sviluppare delle considerazioni politiche in chiave di maggioranze : una prima impressione direbbe che comunque il premio previsto dall’Italikum in caso di ballottaggio rimane, rispetto alle posizioni di partenza, esagerate. Al PD sarebbe regalato all’incirca il 20%, al M5S (probabile vincitore del ballottaggio per il principio del “tutti contro uno” che ormai vale in questi casi e fin qui ha penalizzato il PD) addirittura il 31%. Tutti dati che indicano l’insufficienza delle principali forze politiche a rappresentare di per se stesse una base sufficiente di aggregazione e di consenso per rendere credibile un sistema che, complessivamente, appare in forte difficoltà

Aldo Penna: Trump può ancora essere fermato?

Pochi giorni dopo le elezioni presidenziali americane, un gruppo di eminenti informatici denunciarono anomalie nei risultati di tre swing state: dovunque si era votato tramite apparati elettronici il consenso al candidato Trump raddoppiava rispetto alle contee o distretti dove si erano utilizzate le schede cartacee. La candidata dei verdi, Jill Stein, ha raccolto in pochi giorni sette milioni di dollari per chiedere il riconteggio, procedura avviata in Wisconsin senza grandi ribaltoni. Solo che gran parte delle macchine adibite al voto elettronico non danno documentazione cartacea e quindi non esiste la controprova che abbiano riportato fedelmente il voto dei cittadini americani. Il presidente eletto ha subito bollato come “ridicolo” il riconteggio chiesto dalla signora Stein e ha continuato a usare lo stesso termine quando la CIA ha diffuso un rapporto dove si denuncia la pesante interferenza russa nel processo elettorale al chiaro scopo di favorire Trump, prima con la diffusione di mail prelevate dai server dei democratici poi con la possibile manipolazione di altre parti del processo elettivo. Per la prima volta nella secolare storia elettiva americana (se si eccettuano i tentativi inglesi durante i primi vagiti del nuovo Stato) si parla di interferenza straniera nel voto. Se si riflette sul fatto che la legge espressamente vieta ai candidati presidenti di ricevere da un cittadino straniero anche una piccolissima donazione, diviene di una gravità eccezionale, ai limiti dell’alto tradimento, pensare che si possa accettare o “subire” un aiuto straniero per raggiungere la carica di Presidente. Alla notizia del rapporto l’entourage di Trump ha bollato l’affidabilità della CIA con le stesse parole usate dai movimenti di protesta occidentali “questa è la stessa gente che ha detto che Saddam aveva armi di distruzione di massa”. Ma a quanto pare le parole dell’agenzia di intelligence non sono rimaste inascoltate e dal Senato alla Camera è tutto un interrogarsi su cosa accade. Davvero Trump con due milioni e settecentomila voti in meno rispetto a Hillary Clinton è stato favorito attraverso l’intervento degli hacker russi che hanno trasformato una sconfitta in vittoria negli swing state? Davvero i russi hanno adesso un amico alla Casa Bianca? Certo i calici che gli autocrati di tutto il mondo hanno levato alla notizia della vittoria di Trump, inquieta. E anche i primi passi in politica estera sembrano muoversi sulla linea di una distensione con i russi che somiglia a un’adesione acritica alla dottrina neosovietica di Putin. Quando nel passato si sono verificate intromissioni nella successione delle leadership di potenti unioni statuali queste erano, a volte senza saperlo, alla vigilia dell’inizio della loro decadenza. Così accadde con la successione a inizio del 1700 al vasto impero spagnolo con Francia e Austria impegnate a piazzare un proprio uomo come re. O con la caduta del secondo impero francese che segna il declino della potenza francese e l’affermarsi dell’ascesa della Gran Bretagna e della Prussia sulla scena europea e mondiale. Anche per gli Stati Uniti, baluardo delle libertà in un mondo di trionfanti autoritarismi, potrebbe essere iniziato, pur nella fase della massima espansione della sua influenza, il count down del declino. Gli ingredienti ci sono tutti: leadership non autonoma e “riconoscente” a una potenza straniera, modello istituzionale in crisi perché debole e penetrabile con relativa facilità, una paventata politica di retroguardia rispetto alle grandi sfide mondiali sull’energia, sulla coesistenza, sulla salvaguardia dell’ambiente. Quando affioravano gravi crisi all’orizzonte o si trovavano per casualità, complotti o scellerate successioni con guide inadeguate e deboli, i grandi imperi del passato hanno ritardato la loro decadenza dotandosi di leader forti e indipendenti e nuove visioni strategiche. Agli Stati Uniti la caduta del muro di Berlino ha consegnato una grande responsabilità e un grande potere. Quasi trenta anni dopo sono nate agli orizzonti del pianeta altri giganti economici, politici e militari che bisogna fronteggiare. Può avere Trump questa autorevolezza e questa visione? I dubbi della CIA sul processo elettorale si stanno rapidamente diffondendo. Il 19 dicembre il Collegio dei grandi elettori dovrebbe eleggerlo, ma su di lui grava l’interpretazione data da Alexander Hamilton circa l’autonomia che i grandi elettori hanno di poter scegliere diversamente dall’indicazione popolare. L’obiettivo finale, dice, è quello di fornire un controllo sulle “cricche, gli intrighi, la corruzione” minacce provenienti “principalmente dal desiderio di potenze straniere di ottenere un ascendente improprio nei nostri consigli sollevando una loro creatura a capo dell’Unione”. Intanto una lettera dove si invitano i grandi elettori repubblicani a rivedere il loro orientamento sull’elezione di Trump ha già raccolto quaranta adesioni. Il tempo corre, al 19 mancano pochi giorni ma ancora tutto può accadere. http://www.lavocedinewyork.com/news/politica/2016/12/14/si-puo-ancora-fermare-trump-il-19-dicembre-lo-sapremo/ Per rimuoverti da questa lista:http://dem.mvmnet.com/unsubscribe.php?M=3638810&C=f22c2513eac730e55bdbda0bb66a20ea&L=623&N=7604

mercoledì 14 dicembre 2016

Franco Astengo: Dal regime personalistico al governo autoritario

DAL REGIME PERSONALISTICO AL GOVERNATIVISMO AUTORITARIO? IL SISTEMA ELETTORALE NODO DI FONDO DELLA PROSPETTIVA POLITICA di Franco Astengo La situazione politica italiana, in base all’esito referendario e alla scelta assunta dal PD di formare il governo Gentiloni si trova di fronte ad un bivio molto pericoloso: passare dal regime personalistico al governativismo autoritario. In passato, nella storia d’Italia, sono stati attraversati momenti di spaccatura profonda nella realtà sociale e politica, da quella tra interventisti e neutralisti nel periodo della prima guerra mondiale alla quale seguì la dicotomia fascismo / antifascismo, per buona parte quasi come conseguenza naturale della precedente (il passaggio di Mussolini da un campo all’altro, esempio evidente di trasformismo, risulta decisivo sul piano dell’analisi storica della frattura fascismo /antifascismo). Dicotomia fascismo /antifascismo che dopo aver attraversato vent’anni di dittatura rappresentò il fondamento ideale della Resistenza antifascista, il momento più alto moralmente e politicamente dell’intera storia d’Italia in un Paese dove non si è verificata la rivoluzione protestante e neppure quella borghese. Nel dopoguerra un effetto molto forte su di un periodo di vita politica abbastanza significativo ebbe la divisione tra partito della fermezza e partito della trattativa al momento del rapimento Moro, con la linea della fermezza utilizzata politicamente quasi a significare la necessità di una rottura del sistema: quindi ben oltre il suo senso originario. Oggi, all’indomani del referendum del 4 Dicembre, apparentemente si presenta la possibilità di un’analogia in questa “logica della spaccatura” tra partito del Sì e partito del No. Attenzione, perché le cose stanno diversamente. Limitiamo l’analisi al quadro istituzionale. Il tentativo fallito da parte del SI’ è stato quello di modificare assieme la Costituzione e la legge elettorale soprattutto dal punto di vista della forma parlamentare della Repubblica al fine di codificare formalmente il regime personalistico che attorno al gruppo dirigente del PD (mai legittimato da un’elezione popolare) si era formato per effetto e completamento della torsione antidemocratica portata avanti, grazie ad un processo di esasperazione della personalizzazione della politica, dal governo di centro destra nella sua ultima fase tra il 2008 e il 2011. Torsione antidemocratica che era stata accentuata dalla scelta della Presidenza della Repubblica di dar vita a un governo, nel novembre 2011, che escludeva qualsiasi combinazione parlamentare attraverso una manovra davvero al limite della costituzionalità repubblicana. La risposta delle elettrici e degli elettori nel referendum è stata quella di un massiccio diniego di legittimazione del regime personalistico. Una risposta così secca e netta al punto da provocare una crisi di governo alla quale è stata fornita una risposta almeno egualmente inquietante dal punto di vista delle sorti democratiche del Paese, almeno quanto quella che intendeva fornire il regime personalistico. Egualmente da parte di settori politici che hanno sostenuto il NO, oltre al manifestarsi di un improvvisato Aventino parlamentare, si è aperto il fronte al riguardo della richiesta di voto immediato dimostrando l’urgenza di impadronirsi del voto referendario per trasformarlo nella rampa di lancio per l’ascesa al governo. E’ emersa, in sostanza, una sorta di smania governativista, espressasi nelle ore immediatamente seguenti il voto del 4 Dicembre. Una smania arrivata al punto da ostentare addirittura un’indifferenza un po’ dilettantesca circa la formula elettorale da adottare in previsione di questo “voto subito”. Da parte di questi settori politici si è fatto finta di dimenticare, in quel frangente, che il sistema è praticamente privo di formula elettorale per entrambi i rami del Parlamento: per quel che riguarda la Camera dei deputati, infatti, è pendente il giudizio della Corte Costituzionale che si avrà dopo il 24 Gennaio; per il Senato i sagaci legislatori del regime personalistico, non prevedendo la possibilità di una loro sconfitta, addirittura non ci si è pensato per nulla. Il tema della legge elettorale, come si cercherà di descrivere nel seguito di questo intervento, non è affatto un tema di pura materia istituzionale staccato dalla realtà concreta delle opzioni di politica economica e sociale che interessano direttamente la grande massa delle elettrici e degli elettori. Il sistema elettorale è il cardine del sistema politico. Per questo motivo la frattura più importante in questo momento è proprio attorno al nodo della formula con la quale saranno tradotti i voti in seggi parlamentari. E’ necessario che prendano posizione quella parte di settori politici, sociali, di movimento che hanno espresso milioni di voti per il NO (milioni di voti legati a precise posizioni politiche e sociali) e non appartengono agli schieramenti direttamente interessati a scalare indiscriminatamente e con qualsiasi mezzo le posizioni di governo portando in dote posizioni facilmente identificabili come di stampo populistico. Una posizione che individui nella formula elettorale proporzionale il discrimine che consente di eludere il drammatico dilemma che si sta presentando in questo momento sulla scena tra regime personalistico (quello appena sconfitto nel referendum) e governativismo autoritario (quello che intende strumentalizzare lo stesso esito a fine di un’improvvisata escalation di governo). Non si tratta di esprimerci in una forma meramente politicista. Legare la formula elettorale proporzionale alla centralità del Parlamento e dei consessi elettivi a tutti i livelli deve significare l’aggregazione di uno schieramento democratico nella ricerca dell’espressione più ampia delle soggettività e delle sensibilità politiche rappresentative delle istanze sociali in grado di presentare le istanze più urgenti nei settori popolari: lavoro, stato sociale, uguaglianza. Il tutto sta avvenendo all’interno di un quadro generale di riclassificazione complessiva degli equilibri politici a livello internazionale, con l’arretramento della globalizzazione e il profilarsi di una possibilità di nuovo contratto di divisione delle sfere d’influenza tra le superpotenze e di recupero di un’idea dell’agire politico legato al radicamento territoriale superando l’universalismo della “democrazia del pubblico”. Temi sui quali riflettere partendo da una rinnovata strutturazione e definizione d’identità delle soggettività politiche a tutti i livelli: forse non era vero che i concetti di destra e sinistra si stessero sfumando in reciproci moderatismi fino a quasi scomparire.