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Democrazia e populismo
di Valentina Pazé *
1. Nella commedia I cavalieri, di Aristofane, Demo è un vecchio padrone di casa mezzo rincitrullito, ingordo e volgare, divenuto ostaggio dei servi che lo adulano e lo circuiscono in ogni modo. Il bersaglio della satira di Aristofane è duplice: da un lato il demagogo Cleone, suo contemporaneo, impersonato sulla scena dal servo Paflagone; dall’altro il popolo (Demo), che con tanta facilità si fa abbindolare e corrompere da chiunque si mostri disposto a soddisfarne gli appetiti.
Verso la fine della commedia un nuovo personaggio, il salsicciaio Agoracrito, riesce con la sua eloquenza a spodestare Paflagone dalla posizione di favorito di Demo e a prenderne il posto. Questo è il commento del Coro: “O Demo, grande è il tuo potere: tutti gli uomini ti temono al pari di un tiranno. Ma è facile sedurti: ti piace essere adulato e ingannato; e sempre resti a bocca aperta a sentire chi parla; e la tua mente, pur presente, vaga altrove”. A queste parole il vecchio Demo reagisce stizzito, dichiarando di non essere affatto uno stupido, ma di fingersi tale per sfruttare i servigi dei servi-demagoghi: “Non avete cervello sotto le vostre chiome, se pensate che io non ragiono: a bella posta faccio lo sciocco. Mi piace fare la pappa tutti i giorni; e di proposito mi allevo un solo ministro che ruba: quando è satollo, lo afferro e lo sbatto per terra” (Eq. 1111-1130).
Non è chiaro quale delle due interpretazioni sia la più attendibile. Chi conduce il gioco: Demo o i servi-demagoghi? Chi è il corrotto? Chi il corruttore? È possibile che la verità non stia tutta da una sola parte...
2. “Demagogia” è parola antica, e significa – alla lettera – l’arte di “condurre” e trascinare il popolo. “Populismo” è un termine molto più recente, che appartiene al lessico politico della modernità. Ma non è difficile scorgere una parentela tra le due nozioni e tra i fenomeni che esse designano.
L’espressione “populismo” compare nell’età in cui l’ideale democratico, da secoli caduto in discredito, torna a riproporsi, in forma nuova. “Il populismo – scrivono Yves Meny e Yves Surel (2004, p. 11) – può nascere solo con l’arrivo del popolo sulla scena politica”. Si potrebbe precisare: con il ritorno – il contrastato ritorno – del demos sulla scena politica dopo la breve esperienza delle poleis greche del V secolo e pochi altri esperimenti successivi. Nasce in altre parole nell’età in cui il consenso dei governati tende a divenire l’unico criterio di legittimazione del potere politico socialmente accettato. L’età in cui inizia a diventare difficile dichiararsi apertamente anti-democratici e neppure gli autocrati possono permettersi di decidere platealmente contro il volere del “popolo”.
Dopo aver fatto la sua prima comparsa in Russia, a metà Ottocento, per designare un movimento politico-culturale di orientamento socialista, che riscopre e idealizza la comunità rurale tradizionale, “populismo” diventa il nome di un movimento e poi di un partito che, negli Stati Uniti di fine Ottocento, esprime il disagio dei ceti agrari di fronte ai processi di modernizzazione. Nato come nome proprio (di un determinato movimento o partito), il termine “populismo” finisce tuttavia ben presto col diventare un nome comune, usato per designare – e per qualificare, in genere con una connotazione negativa – partiti, movimenti, regimi, attori politici che per lo più non si riconoscono in tale etichetta. Significativo è il fatto che il termine russo con cui è stato chiamato fin dalle origini il movimento di Herzen e Černyševskij – narodnicestvo (da narod, popolo) – continui oggi a essere usato solo in sede storiografica, mentre a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in Russia, si è diffuso un altro temine per descrivere l’ideologia e il modo di fare di alcuni “nuovi politici” emergenti: populizm, calco dall’inglese populism.
Il ricorso alla categoria di populismo in questa più ampia accezione si diffonde verso la fine degli anni Sessanta del Novecento. In un primo momento la nozione viene adoperata per classificare alcuni regimi politici latinoamericani difficili da inquadrare attraverso categorie più tradizionali, come quelli di Vargas, in Brasile, e di Peròn, in Argentina, che si distinguono per la “singolare miscela di manifestazioni di piazza, leadership personale, retorica del popolo e generose politiche economiche paternalistico-ridistributive” (Mastropaolo 2009). Quarant’anni dopo in Argentina sale al potere Menem e il suo governo viene definito, con quello di Fujimori in Perù, “il miglior esempio di governo populista con politiche economiche neo-liberali” (Paramio 2006, p. 23). Quale migliore indicatore della trasversalità di una categoria adatta ad applicarsi a regimi “di sinistra” e “di destra”, a partiti di governo e a movimenti di opposizione?
In Europa un antenato del populismo viene comunemente identificato nel bonapartismo. In anni a noi più vicini, si può ricordare il poujadismo, in Francia, e, in Italia, il Fronte dell’uomo qualunque creato da Guglielmo Giannini. In tempi ancora più recenti, l’etichetta di populismo è stata applicata a una serie di formazioni politiche di estrema destra, affacciatesi sulla scena politica a partire dagli anni ‘70: il Front National in Francia, erede diretto del poujadismo, nelle cui file era stato eletto inizialmente Le Pen; i partiti del Progresso in Danimarca e Norvegia, contrari all’immigrazione, al fisco, all’estensione del welfare agli stranieri; il Vlaams Blok belga, espressione del regionalismo fiammingo; il partito “liberale” austriaco (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ) spostatosi, sotto la guida di Jörg Haider, su posizioni nazionaliste e xenofobe; la Lega Nord in Italia; il Partito degli Automobilisti e poi l’Unione democratica di centro in Svizzera, e altri ancora. Il populismo è oggi identificabile con la “nuova destra”, dunque? Qualcuno lo ha sostenuto. Che dire però degli attuali eredi della tradizione del populismo latinoamericano, come Chavez e Morales, di cui tutto si può dire, ma non che non appartengano di diritto all’iconografia della sinistra terzomondista?
Se dalla letteratura scientifica passiamo a considerare ciò che viene scritto su giornali e riviste a larga diffusione, scopriamo usi ancora più generici di populismo. Effettuando uno spoglio sui quotidiani statunitensi nei mesi della campagna per le presidenziali, Alfio Mastropaolo ha notato come la categoria di populismo sia stata usata, a proposito e a sproposito, praticamente per tutti i candidati. “Populista” sarebbe Barack Obama (per Usa to day del 20 agosto 2008), perché promette di difendere i lavoratori dagli effetti della delocalizzazione delle imprese. Populisti sarebbero, per il Washington Post, Hilary Clinton, perché schierata con le classi lavoratrici (25 febbraio 2008), John Mc Cain, perché ostile alle lobbies e alle corporations (17 agosto), Sarah Palin per motivi di stile e linguaggio (4 settembre), ma anche George W. Bush, per il suo proverbiale anti-intellettualismo (27 luglio). In Italia, è frequente che si dia del populista non solo a Umberto Bossi, che occupa un posto “di diritto” in tutte le trattazioni scientifiche sul tema, ma a Berlusconi, a Di Pietro, al Beppe Grillo del V-day e, più di rado, a Veltroni e a Prodi.
Dobbiamo concludere che la nozione di “populismo” è talmente inflazionata e camaleontica da risultare inservibile, se non ai fini della polemica politica spicciola?
3. Tutto sommato, credo di no. Certo, se bolliamo come “populista” qualsiasi movimento che si rivolge al popolo, o che critica i privilegi delle élites schierandosi dalla parte della gente comune, finiamo col trovarci tra le mani una categoria priva di qualsiasi valore euristico. Ciò non significa che non sia possibile identificare un’accezione di populismo plausibile e sufficientemente rigorosa.
Di seguito, provo ad enumerare quelli che, secondo me, sono i tratti indispensabili perché si possa parlare sensatamente di “populismo”:
a) Elemento irrinunciabile è, ovviamente, il riferimento al popolo. Non un riferimento generico ai cittadini, agli elettori, o ai ceti meno abbienti, ma al popolo concepito come un tutto omogeneo e compatto. Aristotele, nel IV libro della Politica, definisce “demagogica” quella particolare forma di democrazia in cui “sovrana è la massa, non la legge”, e “i molti sono sovrani non come singoli ma nella loro totalità” (Polit., 1292a). In modo analogo possiamo dire che, per i populisti, il popolo non è l’insieme dei cittadini singolarmente presi, ma è un soggetto collettivo, dotato di una volontà unitaria. È una comunità (talvolta di tipo etnico-nazionale), che non è detto comprenda tutti coloro che abitano lo stesso territorio, e viene anzi di regola “costruita” attraverso un’operazione di rimozione ed espulsione dei “corpi estranei”. Del popolo a cui si rivolgono i populisti non fanno parte gli immigrati, i marginali, le varie minoranze che, a seconda del contesto, si prestano a svolgere la funzione di comodi capri espiatori. E non ne fanno parte, naturalmente, i “poteri forti” che del popolo rappresentano l’antitesi. Come ha scritto efficacemente Laclau, “Per ottenere il ‘popolo’ del populismo […], abbiamo bisogno di una plebs che reclami di essere l’unico populus legittimo – ovvero di una parzialità che pretende di fungere da totalità della comunità” (Laclau 2008, p. 77).
b) Secondo elemento: nella rappresentazione del mondo dei populisti al popolo si contrappone l’estabilishment politico-economico-culturale, concepito come un potere opaco e inavvicinabile, sottratto al controllo della gente comune. Il popolo, manco a dirlo, è buono: lavora, produce, si sporca le mani. Le élites sono corrotte, improduttive, parassitarie; costituiscono una casta privilegiata e distante. Anche questa forma di manicheismo – buoni da una parte, cattivi dall’altra – che non distingue tra politici di destra e di sinistra, tra istituzioni di governo e di garanzia, è un ingrediente tipico di ogni forma di populismo.
c) Ma non è tutto. Perché davvero si possa parlare di populismo deve esserci qualcosa di più: l’identificazione del popolo con un leader, che si rivolge direttamente ad esso, mostrando insofferenza per le forme di mediazione tipiche della democrazia rappresentativa. Insofferenza, dunque, per il parlamento e per il parlamentarismo, con le sue lungaggini, le sue inconcludenze, la sua vocazione al dialogo e al compromesso. E rivalutazione, corrispondente, di istituti tipici della democrazia diretta, come il referendum. Insofferenza, in secondo luogo, per i partiti politici, percepiti e rappresentati come parte dell’apparato del potere.
È significativo che, anche quando si candidano alle elezioni e prendono parte alla vita istituzionale, le formazioni politiche “populiste” preferiscano denominazioni diverse da “partito” per autodefinirsi: movimento, lega, fronte, blocco. Ma anche quando non rifiutano di autorappresentarsi come partiti, si tratta di partiti sui generis, fortemente personalizzati, nati – o rinati, come nel caso della FPÖ di Haider – intorno a un leader carismatico che si pone come l’unico autentico interprete della volontà del popolo e, all’occorrenza, si rivolge direttamente ad esso scavalcando gli organismi dirigenti del proprio partito. Che cosa sarebbero stati o sarebbero il peronismo senza Peron, il poujadismo senza Poujade, il chavismo senza Chavez, ma anche il Front National senza Le Pen, la Lega Nord senza Bossi, il Popolo [!] delle Libertà senza Berlusconi? E l’elenco potrebbe allungarsi.
Ciò che è degno di nota è il nesso che esiste tra concezione organicistica del popolo – punto (a) – e la tendenza alla personalizzazione della politica. “E’ in virtù di tale omogeneità che la comunità populista si esprime con una sola voce: quella del leader, una figura […] che non rappresenta, bensì incarna il suo popolo” (Zanatta 2004, p. 382). Inutile aggiungere che la tendenza alla “presidenzializzazione della politica” oggi in atto, anche in regimi formalmente parlamentari, fornisce la cornice istituzionale ideale per l’affermarsi di leader e di formazioni politiche di questo tipo.
d) Più in generale, rifiuto delle mediazioni significa tendenziale ostilità nei confronti dei contropoteri che in una democrazia costituzionale limitano e bilanciano il potere del popolo: la magistratura, la stampa, le autorità indipendenti non elettive. Tale ostilità investe il principio cardine della democrazia costituzionale: l’idea che il popolo esercita la sovranità “nei limiti e nelle forme previste dalla Costituzione”. Il populismo – come abbiamo visto – nasce insieme alla democrazia. Ma quella dei populisti è una concezione fondamentalista della democrazia, che non tiene conto della svolta compiutasi in Europa nel secondo dopoguerra, con l’affermarsi dello Stato costituzionale di diritto.
La democrazia costituzionale è il regime in cui il popolo governa attraverso i suoi rappresentanti, ma non può tramutare in legge qualsiasi sua volontà. In una democrazia costituzionale l’azione del parlamento e del governo è soggetta a vincoli non solo formali, ma sostanziali: esiste una “sfera dell’indecidibile” sottratta alla disponibilità delle maggioranze democraticamente elette, che sono tenute ad assumere decisioni coerenti con i principi costituzionali (Ferrajoli 2001). Alla base della concezione populista della democrazia c’è invece l’idea che il popolo abbia sempre ragione e debba avere l’ultima parola su tutto. Una concezione quasi roussoviana della democrazia, se non fosse che l’interprete autentico della volontà del popolo è, in questo caso, il leader carismatico.
e) Sul piano della comunicazione pubblica, ciò che contraddistingue i populismi è la tendenza alla semplificazione del messaggio, sia dal punto di vista del contenuto sia da quello del linguaggio.
Presentandosi come “uno del popolo”, il leader populista usa il suo gergo, promettendo soluzioni facili, drastiche, definitive, comprensibili a tutti. Quando è all’opposizione e non ha nulla da perdere, può permettersi di “spararle grosse” e lasciarsi andare alla volgarità più greve. Ma in generale il leader populista non rinuncia a simpatizzare con la gente comune e a ergersi a suo paladino, anche quando la sua biografia di comune ha ben poco: l’uomo più ricco d’Italia che si presenta come il “presidente operaio”; Ross Perot che aizza le folle contro Clinton, presidente in carica, perché non paga l’affitto alla Casa Bianca. “Un nuovo ibrido è nato – osserva in proposito Pierre-André Tagueff (2003, p. 136) –: il tribuno proletario-miliardario”.
Ritroviamo nella retorica populista tutte le caratteristiche della demagogia: l’arte di incantare e sedurre il popolo, solleticandone gli istinti più elementari. L’arte di guidare e mobilitare le masse, fingendo di assecondarle. Ma non tutto è ripetizione dell’antico. Nell’età della video-politica i populisti dispongono di mezzi inediti per stabilire un contatto diretto e immediato con la propria gente. Il mezzo televisivo, tra tutti, appare il più congeniale al loro messaggio. Come hanno notato Meny e Surel, esiste una singolare coincidenza tra il “semplicismo” dei programmi populisti e il linguaggio della pubblicità televisiva, che sempre più ha preso piede anche in politica.
Dall’incontro tra l’arte antica della demagogia e i moderni mezzi di comunicazione di massa ha origine un fenomeno nuovo: il “populismo mediatico”. In Italia, ne sappiamo qualcosa.
4. Per concludere, come valutare il fenomeno populista? Manifestazione patologica o fisiologica della democrazia?
Secondo alcuni, il populismo non è una malattia, ma un sintomo, come la febbre. La malattia sarebbe un’altra: l’autoreferenzialità della classe politica, la sua tendenza a tramutarsi in una casta privilegiata e inaccessibile, il restringimento degli spazi di partecipazione nel contesto globale, quando le decisioni cruciali sono assunte da poteri economici e tecnocratici dalla scarsa, o inesistente, legittimazione democratica. Si potrebbe essere tentati dal dire: il populismo è una reazione, forse sbagliata, sgangherata ed eccessiva, al fenomeno della “presidenzializzazione della politica” e della “rinascita delle oligarchie”. Peccato che, di regola, i due processi vadano di pari passo: presidenzializzazione della politica e populismo sono fenomeni che si compensano e si alimentano a vicenda. Quale migliore strumento di legittimazione, per i nuovi autocrati, che il consenso del popolo, da sbandierare contro il parlamento, i giudici, i partiti di opposizione e chiunque cerchi di ostacolarli?
Si potrebbe comunque sostenere che il populismo esprime l’aspirazione a ritrovare la purezza dell’ideale democratico originario. Rousseau pensava che “quando il popolo delibera su tutto il popolo” non bisogna chiedersi “se la legge possa essere ingiusta, poiché nessuno è ingiusto verso se stesso”. Che cosa rivendicano i populisti, in fondo, se non il governo “del popolo, per il popolo, da parte del popolo”?
A chi fosse tentato da questo tipo di argomento credo si possa rispondere che Rousseau è un pensatore fondamentale, ma che richiede oggi di essere maneggiato con cautela. Pur essendo uno dei classici della modernità, Rousseau è, paradossalmente, un teorico della democrazia “degli antichi”: la democrazia diretta, in cui a governare è il demos inteso in senso organicistico, come corpo collettivo dotato di un’unica e indivisibile volontà. Nella realtà – come ha insegnato Kelsen – il popolo non esiste; esistono individui e gruppi portatori di interessi e visioni del mondo diverse e potenzialmente conflittuali. In democrazie rappresentative come le nostre, oltretutto, le decisioni di chi sta al governo non riflettono mai la “volontà del popolo”, ma tutt’al più quella della maggioranza degli elettori (o di una minoranza, dati gli effetti distorsivi dei sistemi elettorali).
“Se c’è un tratto tipico del fascismo che sempre insidia la nostra cultura politica – scrive Luigi Ferrajoli (2003, p. 61) – è precisamente l’idea di un rapporto organico e sacralizzante tra stato e società, governo e governati, rappresentanti e rappresentati, o peggio tra il capo e il popolo intero. E in un paese come il nostro, che ha partorito il fascismo, un simile pericolo non andrebbe sottovalutato”.
Per saperne di più
Di Giovine, A. e A. Mastromarino (a cura di) (2007), La presidenzializzazione degli esecutivi nelle democrazia contemporanee, Torino, Giappichelli.
Ferrajoli, L. (2001), Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Roma-Bari, Laterza.
Ferrajoli, L. (2003), Rappresentanza politica e organicismo para-democratico, in «Democrazia e diritto», numero speciale dedicato a Democrazia e populismo, 3, pp. 57-62.
Goodwyn, L. (1976), Democratic Promise. The Populist Movement in America, New York, Oxford University Press.
Gennaro Lerda, V. (1984), Il populismo americano. Movimento radicali di protesta agraria nella seconda metà dell’Ottocento, Roma, Bulzoni.
Ionescu G. e E. Gellner (1969), Populism. Its Meaning and National Characteristics, London, Weidenfeld & Nicolson.
Laclau, E. (2008), La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Roma-Bari, Laterza.
Mastropaolo, A. (2005), La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Torino, Bollati Boringhieri.
Mastropaolo, A. (2009), Democrazia e populismo, in Come sta la democrazia?, a cura di M. Bovero e V. Pazé, Roma-Bari, Laterza, in corso di stampa.
Meny Y. e Y. Surel (2004), Populismo e democrazia, Bologna, il Mulino.
Paramio, L. (2006), Izquierda y populismo, in «Nexos», marzo, 339, pp. 19-28.
Tagueff, P. A. (2003), L’illusione populista, Milano, Mondadori.
Venturi, F. (1952), Il populismo russo, Torino, Einaudi.
Zanatta, L. (2004), Il populismo in America Latina Il volto moderno di un immaginario antico, in «Filosofia politica», XVIII, n. 3, pp. 377-389.
* Valentina Pazè insegna Teorie dei diritti umani all’Università di Torino.
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