venerdì 3 luglio 2009

Franco Bianco: Sinistra, manca un progetto

Da Aprile

Sinistra, manca un progetto
Franco Bianco, 26 giugno 2009, 10:24

Dibattito E' sorprendente, almeno a prima vista, che il disagio sociale, tanto più in momenti di crisi diffusa e di preoccupazioni crescenti ad essa connesse, non venga intercettato da chi ha come ragione fondativa quella di combattere le sperequazioni sia sociali che economiche: la sinistra. E' una sorta di "paradosso", che però non può essere assunto come uno scherzo di cattivo gusto giocato dalla sorte o dalla storia, ma deve indurre a riflettere. Questo articolo svolge alcune considerazioni sull'argomento, prendendo spunto da un recente intervento di Giorgio Ruffolo



"Repubblica" ha pubblicato, alcuni giorni fa, un articolo di Giorgio Ruffolo, intitolato "Dieci temi per il rilancio del riformismo", nel quale il noto economista si proponeva di individuare "le grandi sfide del riformismo", come le ha chiamate, che a suo giudizio rivestono un'importanza «fondamentale per il destino della sinistra», dopo che «le elezioni hanno decretato la fine di una socialdemocrazia appannata e sconclusionata», pur non potendosi ritenere, a suo parere, che «il socialismo, grande movimento storico legato a imprescindibili esigenze di giustizia, sia stato seppellito da una sconfitta elettorale, per quanto clamorosa».
Nella parte iniziale del documento Ruffolo ha scritto: «Sembra paradossale che le elezioni non abbiano penalizzato la destra, che per venti anni si è identificata con la sregolatezza responsabile dell´attuale marasma economico, e che oggi sembra diventata keynesiana e statalista; e abbiano invece devastata la sua antagonista storica», che è senza dubbio la sinistra ("riformista", aggiungerei, conoscendo le posizioni del grande economista, quali egli ha chiarito e proposto innumerevoli volte negli ultimi decenni). Sulla considerazione di Ruffolo, che costituisce il grande problema politico che sta di fronte non solo all'Italia, ma all'Europa tutta intera, vale la pena di spendere qualche riflessione.

Io concordo con quell'affermazione di Ruffolo: esiste un paradosso nel fatto che, in presenza di una crisi mondiale devastante tutta interna al capitalismo, gli elettori (si parla dell'Europa, non solo dell'Italia: ed infatti ancora ieri Luciano Gallino dichiarava, in un'intervista a "il manifesto", che si tratta di una "sindrome europea") premino la destra - che certamente non ha mai dimostrato in precedenza avversione a quel capitalismo finanziarizzato che è all'origine dei disastri economico-sociali nei quali viviamo e che muteranno il volto del mondo - e penalizzino la sinistra, che, dopo molti ritardi iniziali (per alcuni anni - fra fine dei '70 e primi '80 - essa, in realtà, non capì quello che stava avvenendo nel mondo, ed anche per questo si parlò di "pensiero unico"; e Luciano Gallino ancora oggi parla di «totale fraintendimento da parte delle sinistre, dei partiti socialdemocratici in particolare, del processo di globalizzazione») ormai da tempo denunciava i danni sociali che la "globalizzazione neoliberista" stava producendo (basta il solo grande aumento delle disuguaglianze, sia fra i diversi Paesi che, all'interno dei vari Paesi, fra i diversi ceti sociali) ed i pericoli di crisi ulteriore e devastante che da quei meccanismi sarebbero derivati. Anche nel suo ultimo e molto fortunato libro (intitolato, con l'arguzia a lui consueta, "Il capitalismo ha i secoli contati" - ma analisi analoghe sono state svolte anche da altri studiosi, sia italiani che esteri), che è stato pubblicato nei primi mesi del 2008, e quindi prima che la crisi finanziaria (che era iniziata nell'agosto 2007) scoppiasse in tutta la virulenza che ha assunto a partire dall'autunno di quell'anno, Ruffolo denunciava le tre grandi cause di "insostenibilità" che il modello che si era affermato a livello globale presentava: per cui la crisi è ambientale, sociale, finanziaria. Alla "finanziarizzazione" - definita «l'elemento più caratterizzante del capitalismo del nostro tempo» - Ruffolo dedica in quel testo un intero capitolo, che inizia richiamando un libro di Susan George sul "capitalismo d'azzardo", dal quale cita: «Il sistema finanziario occidentale va somigliando sempre più ad un'enorme casa da gioco. Ogni giorno vi si mettono in gioco somme di denaro di proporzioni inimmaginabili». I numeri, che è opportuno richiamare, fanno rabbrividire per la loro enormità: mentre l'economia reale totale del mondo, cioè la somma dei vari PIL (l'insieme di tutti i beni e servizi prodotti), è di circa 60.000 miliardi di dollari, quella finanziaria (vale a dire le transazioni che a vario titolo vengono compiute nel mondo ogni anno, sia a pagamento di acquisti o di contratti che a scopi speculativi) aveva raggiunto la cifra astronomica di 600.000 miliardi di dollari. Giova anche ricordare che il FMI ha calcolato che fra il 1975 ed il 1997 si sono verificate 158 crisi dovute a pressione sui cambi e 54 crisi finanziarie: ciò portava Ruffolo a dire, mi pare giustamente, che «Milton Friedman [sappiamo: insieme a Von Hayek fu il padre del monetarismo, l'ispiratore della globalizzazione neoliberista, che non casualmente ebbe inizio nella seconda metà degli anni '70. Milton Friedman ottenne il Nobel per l'economia nel '74 e da allora la "Scuola di Chicago" da lui diretta diventò una sorta di soglio pontificale del capitalismo degli ultimi decenni del Novecento, ed i "Chicago boys" suoi allievi ne furono i cardinali] non si dimostrò un buon profeta: scomparsi i cambi fissi stabiliti dai governi - annunciò Friedman - i cambi flessibili avrebbero permesso l'autoregolazione degli scambi, cioè il riequilibrio automatico delle bilance dei pagamenti. La globalizzazione avrebbe consentito di allocare le risorse in modo ottimale dal punto di vista economico e, alla lunga, anche da quello politico». Abbiamo visto come è andata - lo stiamo ancora vedendo, e chissà come andrà a finire e quando.

Eppure, si va alle elezioni e che succede? I "colpevoli" vengono premiati (la destra, che di quel sistema è sempre stata sostenitrice, come ha osservato lo stesso Ruffolo, anche se oggi ci sono alcuni che cercano di rifarsi una verginità - mostrandosi "keynesiana e statalista", ivi - affermando di aver nutrito ed espresso dissidi e "distinguo" dei quali, però, nessuno si era mai accorto) ed "i critici" vengono puniti (la sinistra, nelle sue varie espressioni): come non parlare di paradosso? Però non si può inveire contro un "destino cinico e baro": occorre invece assumersi le proprie responsabilità. Ciò che le persone serie - alle quali Ruffolo certamente appartiene ed occupa le prime file, ma non è certo il solo - fanno ormai da tempo. La verità - ormai largamente riconosciuta da pensatori di grande statura - è che la sinistra odierna ha ottime capacità di analisi ma non ha un progetto credibile: ed è questa la sfida culturale, immensa, con la quale essa deve misurarsi. Ma non è un fatto nuovo (il che non consola, anzi), se già Ruffolo scriveva, in un libro di circa dieci anni fa intitolato "Sinistra di fine secolo", che per "Quadrare il cerchio" - come aveva scritto nel 1995 nell'aureo volumetto così intitolato Ralf Dahrendorf (il compianto grande sociologo scomparso pochi giorni fa) fra "creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica" (questi gli elementi da "far quadrare" fra loro: ma quella "quadratura" a tutt'oggi non è avvenuta, come è evidente, ed anzi ne siamo molto lontani) - occorreva colmare il divario che si era creato, negli ultimi decenni del ‘900, fra politica e mercato a vantaggio di quest'ultimo. Ed aggiungeva infine Ruffolo: «E' compito fondamentale della sinistra di ricostruire quell'equilibrio. Per assolvere questo compito essa ha bisogno di un progetto. La sinistra non ha più, da tempo, un progetto» [corsivo mio]; e perciò concludeva, un po' sconsolatamente, citando Friedrich Durrenmatt: «E così non siamo né quelli che eravamo un tempo né quelli che dovremmo essere ora».

Sono passati dieci anni, e la sinistra è ancora là, tanto che tesi analoghe sono state ripetute anche di recente da più parti: non perché non sappia "fare", bensì perché sa cosa non vuole, ma non ha una proposta - un programma, un progetto complessivo - che venga recepita (non basta che esista, quand'anche fosse: occorre che venga riconosciuta e condivisa) come adeguata ai tempi che viviamo e, soprattutto, a quelli che ci aspettano. La strada è lunga e difficile: sapere quello che dovremmo fare è già qualcosa - ma poco, occorre riconoscere - per sperare di riuscire a percorrerla.

Personalmente io ritengo che quello sforzo vada compiuto dalla sinistra ma non da sola, bensì in congiunzione con tutte le forze che possiamo chiamare, a seconda delle preferenze che abbiamo, "riformiste" oppure "progressiste", che includono certamente la sinistra come sua parte importante e per molti versi determinante, ma vanno "oltre" - un avverbio ricorrente - l'orizzonte specifico della sinistra (che, in ogni caso, ha bisogno di essere ridefinita in rapporto alle caratteristiche specifiche del XXI secolo: un altro grande e difficile compito, di enorme portata culturale), come peraltro alcuni - pensatori, studiosi e politici di notevole livello - vanno proponendo da qualche tempo. Ma questa, come si dice, è un'altra storia.

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