Da La Stampa
24/7/2009
Per uscire indenni
MARIO DEAGLIO
Mentre si apprestano a partire per ferie un po’ più brevi e un po’ più ansiose di quelle del passato, molti italiani si stanno indubbiamente chiedendo a che punto siamo con la crisi.
Sta davvero passando, come si sente dire con fiducia da più parti, oppure il peggio deve ancora venire come continua ostinatamente a ripetere qualche pessimista? La risposta onesta è che non lo sappiamo. I tempi e l’intensità delle reazioni degli attuali sistemi economici - nei quali dall’industria deriva solo un quinto del prodotto totale, mentre quasi tutto il resto è «produzione invisibile», sempre più effettuata e fruita istantaneamente con supporti elettronici - sono molto diversi da quelli del passato e gli economisti sono come dei medici che stanno visitando un paziente nuovo o, quanto meno, un paziente che è molto cresciuto dall’ultima visita. Per conseguenza, nessuno aveva previsto una caduta così forte della produzione dei paesi ricchi tra l’ottobre 2008 e il marzo 2009, nessuno dispone di sufficienti argomenti per poter affermare con certezza come e quando verrà innescato il meccanismo della ripresa e bisognerebbe essere molto più cauti circa la sospirata data di una ripresa troppe volte rinviata.
A livello mondiale le uniche cose certe sono che la Cina, l’India e il Brasile sono colpiti dalla crisi in maniera leggera; che gli interventi di salvataggio delle grandi banche e società finanziarie americane (e di non poche europee) si sono rivelati efficaci nell’immediato ma hanno trasferito il rischio sulle banche centrali, specie sulla Fed americana, che ora devono impegnarsi per mantenere la propria credibilità; che, anche in conseguenza di ciò, il dollaro è strutturalmente debole e, soprattutto in Asia, comincia a essere sostituito da altre monete in alcune transazioni commerciali. I tentativi di rilancio implicano un consistente indebitamento aggiuntivo da parte dei governi dei principali Paesi con rischi di una risalita dei tassi di interesse (che «ammazzerebbe» la ripresa) o di pressioni inflazionistiche (che «ammazzerebbero» il debito pubblico mondiale, ossia ne ridurrebbero il valore). Tra questi due opposti pericoli, governi e banche centrali devono navigare senza bussola e inviano all’opinione pubblica una serie di messaggi, dal tono tra il preoccupato e il rassicurante, che assomiglia a una doccia scozzese.
Sappiamo ancora che la scintilla della ripresa globale ben difficilmente deriverà da un’improvvisa risalita dei consumi americani, che hanno trainato per decenni l’espansione mondiale, in quanto le famiglie americane sono fortemente indebitate e un loro significativo ulteriore indebitamento appare estremamente difficile; non verrà, se non in piccola parte, dalla domanda cinese, pure in crescita, a soddisfare la quale contribuiranno soprattutto le imprese cinesi o di altri paesi asiatici. L’altro pilastro su cui provare a costruire un’espansione produttiva è rappresentato dai grandiosi piani di investimento dell’amministrazione Obama ma, come sempre succede per la spesa pubblica, questi piani richiedono molto tempo per partire.
In questa situazione difficile ci saranno naturalmente miglioramenti nei conti di buona parte delle istituzioni finanziarie americane, alleggerite dai titoli tossici grazie agli aiuti pubblici ma è difficile che questo miglioramento, oltre a provocare l’attuale modesta euforia delle Borse, si estenda all’economia nel suo complesso. Ci potranno essere segni di alleggerimento delle cadute produttive dei trimestri passati ma chi immagina che tutto sia tornato come prima solo perché la produzione di qualche settore cade di meno o accenna a un piccolo rimbalzo fa lo stesso errore di chi ritiene il paziente guarito solo perché ha la febbre a trentanove anziché a quaranta.
In questo contesto, l’Italia presenta un’anomalia positiva, derivante dalla situazione finanziaria delle famiglie, dotate di patrimoni mediamente molto superiori a quelli delle famiglie di altri paesi tali da controbilanciare il pesantissimo debito pubblico italiano. Certo, aumentando le loro spese, le famiglie sarebbero in grado di contrastare gli elementi negativi della congiuntura ma sull’economia italiana pesa come un macigno la contrazione della domanda estera, stimata attorno al venti per cento. Se si pensa che le esportazioni rappresentano all’incirca il venti per cento della produzione italiana, si deve concludere che dall’estero deriverà una spinta alla contrazione del prodotto pari a circa il quattro per cento. A contrastare una simile spinta non basta l’(eventuale) buonumore dei consumatori.
Invece che da misure generali, un contrasto di qualche efficacia alla crisi potrà derivare da misure specifiche che pongano un rimedio, almeno temporaneo, ad alcune debolezze strutturali italiane. Il tessuto dell’economia avrà giovamento dall’accelerazione dei pagamenti relativi agli acquisti pubblici, da sempre in grave ritardo, sempre che si riesca tecnicamente a realizzarla; e il credito bancario a quell’ampio settore di piccole e medie imprese la cui situazione di rischio si è deteriorata potrà essere mantenuto se si troverà il modo di fornire alle banche qualche forma di garanzia da parte del settore pubblico, a esempio mediante la Cassa Depositi e Prestiti. I pochi soldi che l’Italia, con il suo fortissimo debito pubblico, potrà mettere in campo dovrebbero andare in queste direzioni.
In definitiva, non dobbiamo illuderci di poter uscire indenni da una crisi mondiale di questa portata che non è ancora stata veramente avviata a soluzione ma qualche carta da giocare l’abbiamo. E soprattutto, invece di cercare di esorcizzare la crisi, di chiudere gli occhi sperando che vada via, dovremo attrezzarci per gestirla al meglio, come occasione per correggere le storture di una lunga stagione di non crescita.
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