Da L'Unione Sarda
Paolo Borsellino, il senso dello Stato
Lo Stato, quello con la S maiuscola. È la prima associazione che viene in mente quando si pensa a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta. La stessa che si richiama spontaneamente ricordando il nome di Giovanni Falcone.
Il 23 maggio del 1992 l’uomo che aveva raccolto le confessioni di Buscetta non sapeva che sarebbe andato incontro ad una morte crudele e violenta su un tratto come tanti di un'autostrada siciliana. E non sapeva, Falcone, che con lui sarebbero morti sua moglie e tre agenti della sua scorta. Paolo Borsellino, invece, dopo la tragica fine del suo grande amico, era consapevole di essere nel mirino e che presto sarebbe toccato a lui. Mi resta poco tempo, diceva a familiari e amici. Sopravvisse al suo collega solo cinquantasette giorni. Nella sua bella storia della mafia pubblicata da Laterza, lo storico inglese John Dickie ha scritto che tutti gli italiani si ricordano, più meno, cosa facevano quel 23 maggio o quel 19 luglio. È vero. Quel 19 luglio del 1992 me lo rammento bene. Avevo quindici anni e con mia sorella sonnecchiavo di fronte alla televisione di mia nonna. Improvvisamente venne annunciata un’edizione straordinaria. Una frase secca del telegiornale: «Strage in via d’Amelio, trucidati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta». C’era anche una giovane poliziotta di Sestu dal luminoso sorriso in quel tragico pomeriggio: si chiamava Emanuela Loi. Anche lei fu travolta insieme al giudice e ai suoi colleghi dalla tremenda carica di esplosivo preparata da Cosa Nostra contro quello che, eliminato Giovanni Falcone, restava il nemico principale.
Riina e Provenzano sottovalutarono però il fatto che quell'attentato avrebbe risvegliato la coscienza di molti cittadini e ne avrebbe segnato l'esistenza come mai era successo prima. Oggi, non a caso, nuovi filoni di indagine in corso fanno intravvedere livelli occulti che potrebbero portare a nuove verità. Del resto gli italiani cosa sapevano della mafia prima di Falcone, Borsellino e del lavoro del Pool di Palermo? Poco, o meglio ne avevano una rappresentazione caricaturale e da romanzo. Avevano visto “Il Padrino”, sapevano di Lucky Luciano o di Al Capone, ma difficilmente si aveva una profonda consapevolezza di quello che la mafia aveva rappresentato nella storia d'Italia sin dai tempi dell'Unità. Falcone e Borsellino furono infatti capaci, insieme al gruppo di magistrati guidato e messo in piedi con la supervisione prima di Rocco Chinnici e poi di Nino Caponnetto, di analizzare scientificamente il fenomeno mafioso: lo vuotarono dei suoi contenuti caricaturali e ne studiarono, anche grazie alle rivelazioni dei pentiti, forme, strutture interne, strategie, rapporti internazionali, oltre ai legami perversi con la politica e le istituzioni che invece di combatterla si servivano di Cosa Nostra all'interno di logiche affaristiche e di mero potere. Intelligenza, memoria e capacità di lavoro: queste erano le grandi qualità professionali dei due giudici nei ricordi dei colleghi. È così li ricordava Antonino Caponnetto, il mite magistrato fiorentino che, prossimo alla pensione, subito dopo il vile assassinio di Chinnici nel 1983 fece domanda per trasferirsi a Palermo dove, con un lavoro metodico e intelligente, conducendo una vita semplicissima in una stanza della caserma della Guardia di Finanza, guidò il lavoro di quei giudici che conseguirono i più importanti risultati nella storia della lotta alla mafia. Viene allora da chiedersi se Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Giuliano, Impastato, Livatino, Libero Grassi, Don Puglisi, La Torre, Mattarella e tutte le altre vittime della violenza mafiosa siano morte invano. No, non lo sono. Certo, oggi Cosa Nostra non è più presente con i suoi delitti clamorosi ed efferati sui grandi mezzi d'informazione; continua però ad agire e a condizionare pesantemente la vita quotidiana di moltissimi italiani. È allora più che mai necessario parlare del fenomeno mafioso, studiarne le radici storiche e i mutamenti nel tempo, discuterne nelle scuole. E il più grande lascito di uomini come Falcone e Borsellino e dei loro agenti di scorta che mai smisero di incarnare quei valori di onestà e di servizio disinteressato per la Patria, guidati dalla dirittura morale come prima regola della loro vita professionale.
Nonostante questo, lo Stato che servivano non riuscì a proteggerli. Per la disperazione, Rita Atria, una ragazza che aveva visto il fratello e il padre uccisi dalla mafia e che aveva stabilito di confidare ciò che sapeva a Borsellino, decise di suicidarsi appena una settimana dopo la strage di via D’Amelio. Diciassette anni dopo è doveroso ricordare anche per lei.
Gianluca Scroccu
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