giovedì 31 agosto 2017

Referendum on Renzi: The 2016 Vote on the Italian Constitutional Revision: South European Society and Politics: Vol 0, No 0

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Ben venga il reddito di inclusione mai i dimenticati sono ancora troppi - Eddyburg.it

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Visco: basta bonus, servono investimenti, non scontri giovani-anziani - nuovAtlantide.org

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The Socialism America Needs Now | New Republic

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Social Democracy Is Good. But Not Good Enough.

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martedì 29 agosto 2017

Brexit Sends Labour Back to Class - The New York Times

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The Euro Area's Future: Rigorous Reforms - And More Solidarity

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Levrero, il ruolo dello Stato e l’autosufficienza del mercato | Avanti!

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I laburisti Uk puntano alla “soft Brexit” e indeboliscono il fronte duro dei 'tories' di Theresa May - Eunews

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Il messaggio di Draghi sul Qe tra parole e silenzi

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I mercati sono keynesiani? A Jackson Hole si discute di debito e sostenibilità finanziaria | Keynes blog

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Franco Astengo: Crisi del moderno e articolazione del discorso politico

CRISI DEL MODERNO E ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO POLITICO di Franco Astengo La ricostituzione di un soggetto della sinistra politica richiede, in questa fase di tumultuosa modificazione nei parametri di riferimento, un ritorno in profondità nella ricerca teorica. E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica. In Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche. Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della democrazia”. La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia pratica. La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l'intero arco cronologico della civiltà occidentale. Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente politica. Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta. Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono. Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”). E’ possibile tentare l’esplorazione del “politico” nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale. Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l'urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo. Oppure si può esplorare l'intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”, formando l'opinione pubblica. Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri. Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto. Disgiungere questi elementi e cercare la via di un pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita. In questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa: a) definire i termini reali in cui si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900. Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di Hegel. Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta (lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi utopie: tragiche utopie?). Questa fase si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”. Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica (i progetti neokantiani e neo liberali); b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico”, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del moderno. Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite. Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale. Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando la guerra come elemento di “esportazione della democrazia”. La considerazione (sbagliata) era quello di un potere delle istituzioni considerato ormai come esaustivo della legittimità del “comando politico”. Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di formalizzazione data per universalmente acquisita. Nello stesso tempo deve essere messa in discussione quell’idea dei diversi rapporti che si sono stabiliti tra l’esercizio della politica come strumento “separato” e il parallelo costituirsi della moderna soggettività individuale. Nella sostanza la crisi da analizzare è quella tra la formalità della concezione dello Stato (sbrigativamente intesa come esigenza di “cessione di sovranità” da parte dello Stato – Nazione”) e lo stabilirsi dell’egemonia culturale dell’individualismo. Occorre recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo all'idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas), chiamando a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, delle dialettica della storia. Una dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione politica ridotta all’ “individualismo competitivo”. Al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia” e il predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’agire politico, è chiamata la sinistra e soprattutto quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.

sabato 26 agosto 2017

Franco Astengo: Democrazia e fine della politica

DEMOCRAZIA E FINE DELLA POLITICA di Franco Astengo Il punto che questo intervento intende evidenziare è quello di una vera e propria carenza di cultura politica, a tutti i livelli derivante dall’assenza di “agenzie cognitive” che se ne occupino: l’Università, in generale, propone schemi prefissati e ha grandi responsabilità nell’idea di una politica fatta esclusivamente sui sondaggi e non sulle idee; i partiti hanno completamente rinunciato ad una funzione pedagogico e hanno abbandonato l’idea della funzione guida della storia trascurando completamente la memoria; le istituzioni non rappresentano più la sede della saldatura tra società e politica da realizzarsi attraverso il suffragio e, di conseguenza, il consenso e svolgendo così il ruolo indispensabile di mediazione sociale e culturale. La crisi della democrazia rappresentativa di marca occidentale sta interessando la riflessione di vasti settori intellettuali che si cimentano in diversi spunti di analisi. I due maggiori quotidiani italiani hanno recentemente dedicato spazio a questo tema, sia pure affrontando l’argomento in forme diverse, nei loro inserti culturali “La Lettura” del Corriere della Sera e” Robinson” per Repubblica. La Lettura, nel numero di domenica20 agosto ha pubblico il testo di un colloquio tra Han Ulrich Obrist e il controverso artista cinese Ai Weiwei che sta per presentare in concorso al Festival di Venezia il suo film “Human Flow”. Un kolossal sulle migrazioni girato il 22 paesi attraverso quaranta campi profughi realizzando seicento interviste e mille ore di girato. Nel suo film Ai Weiwei affronta i nodi delle contraddizioni epocali cui oggi la democrazia sembra non essere più in grado di dare risposta: guerre, carestie, malattie, choc climatici e la crisi dell’umanità in fuga. Nel testo dell’intervista s’individuano quelle che vi sono definite come “emergenze planetarie”: la libertà di parola e la democrazia. Si pone così la grande questione della politica di oggi, se intendiamo ancora considerarla tale nella sua etimologia classica: le cose che ineriscono la Polis. Il tema è quello della sorveglianza cui siamo sottoposti e a cui dobbiamo sottoporre i governanti : il reciproco interscambio tra governanti e governati. Appare evidente come, nell’analisi che emerge dal colloquio tra Obrist e Ai Weiwei si smentisca l’assioma democrazia uguale politica che per due secoli aveva retto una presunta superiorità del sistema occidentale “classico”. Lavoro da svolgere per chi intende misurarsi nel definire una nuova complessità dei cleavages sociali. In precedenza “Robinson” inserto culturale di Repubblica si era occupato, nel numero uscito domenica 30 Luglio, del ruolo dei social network nella diffusione di notizie e nella relativa formazione di opinione politica. In quel testo si sono ricostruiti schematicamente tutti i passaggi dal 1980 quando nacque l’Electronic Frontier Foundation per tutelare e promuovere i diritti digitali, considerata la “madre” di tutti gli attivismi online fino al 2016 con la campagna elettorale di Trump nel corso della quale si evidenzia un uso spregiudicato, diretto e aggressivo di Twitter (“Fake news” comprese). Appaiono evidenti due cose che probabilmente tutti noi consideriamo scontate ma che non sono state ancora sufficientemente analizzate: 1) Il peso, inedito nella storia della democrazia e nell’insieme delle relazione politiche, di questi strumenti di comunicazione, di formazione e aggregazione del consenso quali sostituivi dei classici meccanismi usati a questo proposito a partire dalla prima rivoluzione industriale e dalla nascita degli ormai tramontati partiti di massa; 2) La creazione di una realtà virtuale illusoriamente percepita come effettiva e concreta da parte degli utenti e sede effettiva della discussione politica (ma non solo). Si annullano così gli elementi che hanno condotto a stabilire le consolidate gerarchie nella presenza politica nell’appartenenza e nella conoscenza. Quella scala gerarchica che ha portato , nella realtà dei soggetti culturali e politici, al formarsi dei cosiddetti “gruppi dirigenti” o élite. Chissà, al proposito cosa avrebbero scritto oggi Michels, Pareto, Weber? Si è così costruita quella che, nel suo articolo presente nel citato inserto di “Robinson”, Tom Nichols definisce come “Illusione egualitaria” creata, appunto, dall’immediatezza dei social network che per l’appunto cancella l’autorevolezza dei gruppi dirigenti consolidati e crea l’illusione del “tutti alla pari”. E’ evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente illusori meccanismi di “democrazia diretta”. Fenomeni che stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S e del PD(R). Disintermediazione che , alla fine, favorirebbe davvero l’egemonia di quella “società dello spionaggio” di cui parla Ai Weiwei . C’è da domandarsi: l’azione politica agita attraverso gli strumenti della comunicazione “social” crea nuova acculturazione e di conseguenza diversa aggregazione oppure soltanto l’illusione di un’inedita forma di democrazia diretta, diversa da quella che abbiamo fin qui considerata sul modello plebiscitario del consenso diretto nella relazione tra il Capo e le masse? Al di sopra di questa comunicazione “social” non agisce forse un qualche potere occulto, non paragonabile neppure al “Grande Fratello” orwelliano ma dotato di poteri di controllo assolutamente superiori perché insiti direttamente nella vita quotidiana delle persone modellandone i comportamenti effettivi? Questo è, mi pare, l’interrogativo di fondo, quello più pregnante e insidioso. Pare proprio che, alla fine, il confronto si sia spostato tra una teoria dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che era l’antica visione pluralista. Attenzione: verticalizzazione del potere, ripetiamo “ad abundantiam” che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo non semplicemente “sociali” (com’era un tempo) ma “personali”. Sorge forse da qui la crisi della democrazia liberale: una crisi della quale la democrazia dei social porta responsabilità evidenti. Sono anche palesi gli interrogativi che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione. intendendo beninteso la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il concorso collettivo alla cosa pubblica ( e non di più, senza affidare al voto alcunché di salvifico di per sé). Forse sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede. Ma quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra epoca. Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più , come si pensava un tempo, un’ipotesi – limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa. Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post – modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica /vita e di conseguenza tecnica / politica. Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica. Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale. Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento ( del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”. Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico. Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza rispetto al declino in atto: declino che si compone degli elementi sopra enunciati , guerre, carestie, malattie, choc climatici , la crisi dell’umanità in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico nell’uso della tecnologia. Le “sette piaghe” della modernità racchiuse tutto all’interno della categoria dello sfruttamento? Probabilmente sì.

mercoledì 23 agosto 2017

In Italia una lunga e lenta ripresa che non basta

In Italia una lunga e lenta ripresa che non basta

A pagare la crisi sono i più poveri - Sbilanciamoci.info

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Trumpism and the Philosophy of History by Mark S. Weiner - Project Syndicate

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Chuka Umunna: Labour's line on Brexit must be different from extreme Tories | LabourList

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La parola “sinistra" - Eddyburg.it

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Guido Rossi e la lezione di Keynes | Keynes blog

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lunedì 21 agosto 2017

Franco Astengo: Maggioritario

A VOLTE RITORNANO: MAGGIORITARI, PRESIDENZIALISTI di Franco Astengo Sta prendendo di nuovo forma e sostanza l’iniziativa politica raccolta attorno ai temi del sistema elettorale maggioritario e del presidenzialismo. Mi rivolgo pertanto a coloro che nel corso di questi mesi non hanno sostenuto soltanto il “NO” nel referendum difendendo così i punti essenziali del dettato costituzionale ma, nello stesso tempo, hanno lavorato per favorire l’adozione di un sistema elettorale proporzionale: primi fra questi quanti hanno preso parte alla battaglia in Corte Costituzionale avverso il “Porcellum” e successivamente il famigerato “Italikum”. Intendo lanciare un vero e proprio segnale d’allarme, in questo senso. Oggi, 21 Agosto, infatti, compare sulle colonne del “Corriere della Sera” un articolo di Ernesto Galli della Loggia che pare preludere a una vera e propria controffensiva da parte delle forze sostenitrici insieme del sistema maggioritario e del presidenzialismo. Sotto il titolo “Come risvegliare nelle urne un paese troppo indeciso” Galli della Loggia, prima di tutto, sottolinea la necessità di un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio collegando questa ipotesi con l’adozione di un sistema elettorale maggioritario (premio di maggioranza alla lista oppure collegio uninominale maggioritario) ma soprattutto attaccando direttamente la Costituzione, all’articolo 1, agli articoli 55, 56, 57 e all’articolo 92. Un attacco diretto che si esplicita con le parole conclusive dell’articolo che qui si riportano: “In realtà bisognerebbe finalmente convincersi che le elezioni (e quindi anche le leggi elettorali) dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati. E dunque dovrebbero servire soprattutto a eleggere e a mandare a casa i governi”. Appare evidente l’attacco alla Costituzione in dispregio anche allo stesso esito del referendum del 4 dicembre 2016. E’ necessaria una risposta immediata che deve essere risposta politica . Poco e probabilmente nulla, in materia di riforma elettorale, è accettabile se non fornisce con una qualche credibilità risposte a un obiettivo che deve essere ricordato: quello della centralità del Parlamento e la rappresentanza di tipo proporzionale da realizzarsi proprio in quella sede attraverso l’espressione delle sensibilità politiche attive e organizzate nella società Non si capirebbe d'altronde, perché si dovrebbe ingaggiare una battaglia politica su questo argomento se non per ampliare la democrazia dei cittadini, per migliorare il rendimento del sistema politico, per restituire la speranza di cambiamenti di fondo coerenti con le preferenze degli elettori, incisivamente espresse. Questa deve essere la filosofia politica di qualsiasi riforma elettorale. L'obiettivo di fondo dovrà essere quello della politica che recupera i criteri della legittimazione sociale, nell'idea di una rappresentanza quale fattore fondamentale dei processi d’inclusione. Un cammino che siamo convinti valga la pena di percorrere, non certo in forma isolata, ma costruendo interesse collettivo, capacità di dibattito, costanza di un’iniziativa tale da produrre effettivi momenti di crescita nella conoscenza, nella consapevolezza, nella realtà di una proposta rivolta verso il futuro. Per questi motivi l’obiettivo deve essere quello di una legge elettorale proporzionale in pieno rispetto con le idealità di fondo e i contenuti della Costituzione Repubblicana. Occorrono iniziativa politica e, tanto per usare un linguaggio d’altri tempi, vigilanza democratica.

giovedì 17 agosto 2017

Lorenzo Borla: Alcune osservazioni sull'Iri

ALCUNE OSSERVAZIONI SULL’IRI Nel 1980 l'Iri era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Nei precedenti anni Sessanta e Settanta, mentre l'economia italiana cresceva a ritmi elevati, l'Iri fu tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri Paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula Iri" come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione", perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e privato. Le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori. Giuseppe Petrilli, presidente dell'Istituto per quasi vent'anni (dal 1960 al 1979) nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della "formula Iri". Attraverso l'Iri le imprese controllate dallo Stato erano utilizzabili per finalità sociali, nel senso che lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti. Non solo, ma uno degli scopi di una industria di Stato come l’Iri era quello di contribuire alla massima occupazione. Insomma, l’Iri non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato "oneri impropri", cioè perdite economiche, che andavano a carico dello Stato. All'Iri vennero richiesti ingenti investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro. Lo Stato erogava i cosiddetti "fondi di dotazione" all'Iri, che poi li allocava alle sue società caposettore sotto forma di capitale; ma tali fondi non erano mai sufficienti per finanziare gli investimenti richiesti e spesso venivano erogati con ritardo. Di conseguenza l’Istituto e le sue aziende dovevano finanziarsi con l'indebitamento bancario, che negli anni settanta crebbe a livelli vertiginosi: gli investimenti del gruppo Iri erano coperti da mezzi propri solo per il 14%; il caso più estremo fu la Finsider dove nel 1981 questo rapporto scendeva al 5%. Gli oneri finanziari, oltre ad altri fattori, portavano in rosso i conti dell'Iri e delle sue controllate. In particolare, la siderurgia e la cantieristica riportarono perdite fino agli anni ottanta, così come costantemente pessimi eranoi risultati economici dell'Alfa Romeo. Nel luglio 1992 l'Istituto fu convertito in Società per azioni. Tra il 1992 ed il 2000 furono privatizzate tutte le partecipazioni che avessero un valore di mercato. Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Alitalia e Rai) rimaste in mano all'Iri furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenere in vita la Iri Spa, trasformandola in una non meglio precisata "agenzia per lo sviluppo", il 27 giugno 2000 la società Iri Spa fu messa in liquidazione e nel 2002 fu incorporata in Fintecna, scomparendo definitivamente. E’ opportuno ricordare il contesto del 1992: il governo Amato, nella notte tra il 9 ed il 10 luglio operò un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti depositi bancari. La preoccupazione era il default dello Stato: ovvero che mancassero i soldi in cassa per pagare gli stipendi dei dipendenti e gli interessi sul debito. Il debito pubblico, che nel 1970 era al 37,11% del Pil, e nel 1980 al 56,08 %, era arrivato, nel 1992, al 105,09%. La preoccupazione del default spiega l’ansia di dismissioni della proprietà pubblica al fine di mettere al sicuro le casse dello Stato. Tra il 1992 ed il 2000 l'Iri vendette partecipazioni e rami d'azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, di 56.000 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti. Non c’è dubbio che da un punto di vista politico, per chi crede nello Stato socialista, la privatizzazione dell’Iri è stato un errore gravissimo. Lo è stato certamente per quanto riguarda le attività sane, cioè profittevoli, che pure c’erano: per esempio la Stet/Telecom, finita in balia della gestione scellerata dei “capitani coraggiosi”. Oppure, sempre per esempio, la società Autostrade (un monopolio naturale) finita ai Benetton per un pugno di dollari. Non solo: molte società della galassia Iri, se gestite con criteri manageriali, avrebbero potuto, coi propri utili, dare un contributo non marginale alle casse dello Stato. Insomma, fu preferita la disponibilità dei “pochi, maledetti e subito” a quello della profittabilità a lungo termine. Resta da decidere però se aziende competitive sul mercato, senza aiuti statali, gestite con lo scopo di fare profitti, avrebbero assolto ai criteri della “formula Iri” di Giuseppe Petrilli. In conclusione (una conclusione sintetica aperta a infiniti approfondimenti e valutazioni): io non sono al corrente se un conto economico dei costi e dei benefici del gruppo Iri, dal dopoguerra fino al 2002 (anno in cui cessò di esistere) sia mai stato fatto. O se sia possibile farlo. Ci sono da registrare, in negativo, le perdite cumulate dalle società del gruppo in una cinquantina d’anni; a cui bisogna aggiungere le esenzioni, le sovvenzioni, le iniezioni di capitale. Questi oneri per lo Stato non furono mai sostenuti dalle varie “finanziarie” su base annua: bensì semplicemente messi in conto al debito pubblico. In positivo (e qui una valutazione economica è molto difficile) bisogna mettere il grandissimo contributo dato dall’Iri allo sviluppo dell’Italia del dopoguerra, incluso l’aspetto occupazionale. Che cosa ha significato per l’economia del Paese, nei cinquant’anni considerati, un numero ingentissimo di occupati, ovvero di famiglie con una ragionevole capacità di spesa?

mercoledì 16 agosto 2017

Franco Astengo: In sordina l'anniversario del Psi

IN SORDINA L’ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA di Franco Astengo In pochi hanno ricordato che ieri, 15 Agosto, ricorreva il 125° anniversario dalla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani avvenuta con il congresso nazionale di Genova: partito che l’anno appresso a Reggio Emilia avrebbe ufficialmente assunto la qualifica di “socialista”. E’ il caso, invece, di ribadire l’importanza di quella data proprio in questo momento nel quale si può ben dire che la sinistra si trova sul serio ancora lontana dal raggiungere “l’anno zero”. Anzi la discussione in corso intorno al tema del formarsi di una presumibile soggettività politica unitaria della sinistra italiana (per adesso, in verità, soltanto di una lista elettorale) appare – da fuori – del tutto irritante perché circoscritta a questioni che, davvero, risultano negative. Questioni sviluppate semplicemente a fini immediatamente utilitaristici e declinate semplicisticamente sulla base di un’accezione deteriore del concetto di “autonomia del politico”: la questione della cosiddetta leadership (fra l’altro contesa da personaggi almeno improbabili che al massimo sono in grado di proporre le disastrose “primarie”) e il tema delle altre cosiddette “alleanze di governo”, PD o non PD e quant’altro di vera e propria miseria umana. Detto questo e ricordato ancora, rispetto al congresso di Genova, che tutti noi (socialisti di diversa tendenza e comunisti di varia collocazione, ma non certo cattolici popolari, radicali, azionisti) deriviamo da quella precisa vicenda politica, torniamo al 1892 per un breve, ma necessario, excursus storico. Il congresso operaio nazionale di Genova discusse e approvò un programma politico che doveva rimanere la carta fondamentale del PSI fino alla rivoluzione d’Ottobre e al primo dopoguerra. Da quel congresso iniziò un lavoro di organizzazione centralizzata, intesa secondo il principio socialista e classista e l’esempio di partiti d’ispirazione marxista già esistenti all’estero, in primo luogo quello tedesco. In un periodo nel quale radicali e repubblicani, liberali, conservatori e cattolici militanti erano in modi diversi alla ricerca di un nuovo programma e di un embrionale coordinamento delle rispettive forze, i socialisti fondarono il primo partito moderno della storia d’Italia. Pochi, allora, se ne accorsero nell’opinione pubblica ufficiale. La grande stampa dedicò scarsa o nulla attenzione alla riunione nazionale dei socialisti, cha apparivano più condizionati da una dialettica interna al loro piccolo movimento che inseriti nella realtà storica. Eppure la nascita del socialismo in Italia derivava proprio dalla capacità di affrontare quella realtà storica nei suoi elementi generali. Il processo di unificazione politica dei socialisti si misurava infatti appieno con le grandi divisioni del Paese tra un Nord non ancora attrezzato sul piano della struttura industriale e un Centro – Sud agricolo e pre- capitalista. Attraverso la costituzione del partito socialista si stabilivano contatti tra i gruppi d’avanguardia del proletariato settentrionale il già fiorente movimento cooperativo emiliano e i rappresentanti socialisti dei Fasci siciliani. L’impulso unitario del 1892 nasce appunto dalla convergenza fra questi tre settori del movimento e i circoli e nuclei locali più o meno fittamente esistenti sul territorio nazionale. L’iniziativa è nettamente nelle mani dei milanesi perché a Milano è molto più avanti che da altre parti l’incontro tra esperienze di lotta operaia e di ricerca politica socialista, attuata da nuclei intellettuali raccolti attorno alla “Critica Sociale” fondata da Turati nel 1891. In precedenza,nel 1889, proprio dall’incontro tra gruppi di giovani intellettuali socialisti e alcuni dirigenti operai era nata la Lega Socialista Milanese, vero e proprio embrione del nuovo partito. Erano cadute, nel frattempo, entrambe le iniziative che si erano sviluppate nel corso degli anni’80 all’interno del movimento operaio di tendenza classista: il Partito Operaio Italiano con centro a Milano e il partito Socialista Rivoluzionario fondato in Romagna da Andrea Costa. Nella ricostruzione storica è necessario valutare appieno anche i tentativi condotti tra il 1877 – 80 dai redattori de “La Plebe” e dallo stesso Andrea Costa di unificazione del gruppi socialisti italiani: tentativi appoggiati tatticamente da Marx e da Engels soprattutto in funzione antibakuniniana. La Lega Socialista Milanese si riallacciò a quei primi albori di coscienza di partito e alla tradizioni illuministiche e positiviste dell’ambente politico – intellettuale della Città. Nel 1892 i tempi erano maturati soprattutto perché il processo di formazione di un’industria moderna a Milano e in altri centri era ormai in corso e il nuovo proletariato , la cui formazione derivava proprio da quel processo, si trovava sempre di più davanti problemi di lotta di classe non deformati da suggestioni ideologiche nazionali. Correnti differenziate non se ne ravvedono ancora all’interno del congresso di Genova: la destra embrionale di Prampolini e dei reggiani è controbilanciata da un diffuso atteggiamento di intransigenza e di autonomia socialista. Sul PSI pesava certamente l’origine antianarchica che aveva causato il giorno precedente la divisione della Sala Sivori, soprattutto rispetto al distacco dagli anarchici individualisti. L’atteggiamento antianarchico si verificava però in un contesto di carattere internazionale: nel 1889 era nata a Parigi la Seconda Internazionale che in quel momento stava attraversando un processo di epurazione degli anarchici qualificandosi come organismo aperto a influenze democratiche mentre la socialdemocrazia tedesca riportava successi organizzativi ed elettorali. In questo quadro erano in via di riflessione i temi dello Stato e della conquista del potere . Il congresso di Genova fu dominato dalla discussione e dalla riformulazione del programma. In quell’occasione il socialismo italiano raggiunse il massimo delle sue possibilità per l’epoca e l’atto della costituzione del partito richiede, ancora oggi, una valutazione storica prioritaria, rispetto a ogni indicazione di limiti. Infatti, fino agli anni della prima guerra mondiale e al congresso di Bologna del 1919 il programma di Genova doveva rimanere il testo fondamentale del PSI, e solo una nuova valutazione del problema dello Stato e della conquista socialista del potere ne avrebbe, in pieno periodo rivoluzionario, dichiarato la genericità e insufficienza. Dal testo curato da Luigi Cortesi “Il Socialismo Italiano tra riforme e rivoluzione” Laterza, Bari 1969, riportiamo il testo del programma del Partito dei Lavoratori Italiani (il lavoro di Cortesi cita come fonte: "La Lotta di Classe” del 20 – 21 Agosto 1892 “ Considerando Che nel prossimo ordinamento della società umana gli uomini sono costretti a vivere in due classi: da un lato i lavoratori sfruttati; dall’altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali; Che i salariati d’ambo i sessi, d’ogni arte e condizione formano per la loro dipendenza economica il proletariato, costretto a uno stato di miseria, d’inferiorità e di oppressione; Che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e mantenere i benefici della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefici, primo dei quali la sicurezza sociale dell’esistenza Riconoscendo Che gli attuali organismi economico – sociali, difesi dall’odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali della classe lavoratrice; Che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione; Ritenuto Che tale scopo non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) Della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica,ecc.) lotta devoluta alle Camere del Lavoro e alle altre Associazioni di arti e mestieri; 2) Di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni Pubbliche, ecc) per trasformarli, di strumento che oggi sono di oppressione e sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante; I lavoratori italiani che si propongono la emancipazione della propria classe Deliberano Di costituirsi in Partito, informato ai principi su esposti e retto da uno Statuto.

Stefano Rolando: Di Maio e Pertini

Che un giovane parlamentare italiano, come Luigi Di Maio, per giunta con l’incarico di vicepresidente della Camera dei Deputati (che fu per molti anni l’incarico di Sandro Pertini) dichiari di avere Pertini come modello, non mi scandalizza e non mi incita a guerre di lesa maestà o di “impertinenza” irriguardosa (come ho letto in questi giorni). Le ironie esplose in rete sono, in verità, comprensibili. Ma che da un movimento spesso galleggiante nella non memoria appaia un segnale alla ricerca di qualche identità ricomposta con le migliori storie di questo Paese è in sé notizia da non gettare nel tritacarne della rissa politica quotidiana. Per chi da tempo ha a cuore primariamente la cura di quelle storie (qui parlo anche come membro del comitato scientifico della Fondazione Pertini) quella dichiarazione viene tuttavia ora trascritta nel quaderno degli “osservati speciali”. Pensieri e parole di Di Maio saranno materia esaminata con l’attenzione che la sua dichiarazione richiede. Nella speranza che gradirà parimenti i giudizi di eventuale coerenza e di eventuale incoerenza che da oggi è lecito esprimere come abbiamo fatto con noi stessi e con la nostra generazione che, anche più giovane di Di Maio, scelse Pertini come modello.

domenica 13 agosto 2017

The "S" Word Lives | Dissent Magazine

The "S" Word Lives | Dissent Magazine

Franco Astengo: Privatizzazioni e piano industriale

PRIVATIZZAZIONI E PIANO INDUSTRIALE di Franco Astengo Calenda: "All'Italia serve un piano industriale. La crisi non è alle spalle".Dice il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda: "La verità, vuol sapere? La verità è che in trent'anni nessuno ha fatto niente per le imprese di questo Paese". Chi non ha fatto nulla? "I vari governi della fine della prima e della seconda Repubblica. Se dal 2007 al 2014 l'Italia ha perduto il 25% della propria base manifatturiera, la ragione è proprio questa". Queste recentissime dichiarazioni del ministro Calenda hanno aperto un forte dibattito all’interno dell’area di governo, con risposta del responsabile economico del PD Nannicini (già consigliere di Renzi a Palazzo Chigi nel ruolo di elaborazione del job act), e si collegano anche con una interessante intervista rilasciata al Corriere della Sera ( pubblicata il 2 Agosto) dal presidente e dall’amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, Gallia e Costamagna ,pone in rilievo una questione sul quale da tempo dovrebbe essere aperta una discussione di fondo. In entrambe le occasioni emerge, infatti, con grande chiarezza il deficit di politica industriale che l’Italia accusa ormai da molto tempo e dovuto dal vero e proprio disastro creato nei settori strategici dalle privatizzazioni, a partire dallo scioglimento dell’IRI : Dal ’93 al 2000 l’IRI ha venduto partecipazioni e rami d’azienda i cui proventi andarono al Ministero del Tesoro, suo unico azionista; è uscita completamente da interi settori economici: bancario (cedute le partecipazioni detenute nelle tre banche di interesse nazionale: Comit, Credit e Banca di Roma), siderurgico, impiantistico, alimentare, delle telecomunicazioni (cessione della Stet-Telecom), autostradale, delle costruzioni dell’ingegneria e delle infrastrutture edili. Vende le compagnie di navigazione e di linea. Ultime operazioni sono state l’uscita dal sistema aeroportuale e la cessione della quota ancora posseduta in Finmeccanica. Il 27 giugno del 2000 l’Assemblea Straordinaria dell’IRI spa delibera lo scioglimento dell’IRI mettendolo in liquidazione a partire dalla data del 1 luglio 2000 secondo un processo che si concluderà nel novembre 2002: il suo patrimonio residuo è incorporato nella società Fintecna, che fa parte appunto del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti. Rievocato questo passaggio storico rimane da ricordare, nell’attualità, come il quadro generale sia comunque quello del rapporto tra internazionalizzazione dei processi e ruolo dell’intervento pubblico in economia (come ben dimostrato del resto dall’intervento del governo francese nella vicenda dei cantieri navali). Da considerare, ancora, il ruolo dell’industria bellica e del suo rinnovamento tecnologico in una fase di fortissima ripresa delle procedure di riarmo da parte delle grandi potenze (pensiamo a navi, aerei, ecc) e all’impegno che questo comporta nei vari bilanci statali e nella pianificazione industriale. Andiamo allora per ordine nel valutare ciò che è successo con le privatizzazioni seguite alle dismissioni e poi allo scioglimento IRI 1) Inutile ricordare ciò che è accaduto nel settore bancario. Nell’intervista citata i vertici di CdP parlano della partecipazione al fondo Atlante (10%) come di un “toppa” per non far saltare l’intero sistema. Ed è tutto detto, lo si capisce addirittura leggendo l’intervista; 2) L’Italia ha il più alto consumo di acciaio al mondo e dispone di una produzione insufficiente (ad esempio importa laminati piani) ed è ormai costretta, come sostengono gli intervistati, a “tifare” Ilva cioè gli indiani, con tutte le conseguenze del caso. 3) Anche rispetto ad Alitalia non si ritiene di dover riferire e commentare più di tanto: i risultati della privatizzazione sono sotto gli occhi di tutti e anche i ridicoli balletti alla ricerca di partners più o meno probabili; 4) Al riguardo delle telecomunicazioni (settore strategicamente decisivo) appare evidente l’estrema debolezza e ritardo accumulato nel settore (oltre a vicende poco edificanti come quella dei “capitani coraggiosi”) portando Telecom in mano ai francesi e istruendo una finta concorrenza in termini di “cartello”. Un quadro di vero e proprio arretramento. 5) Nella stessa intervista già citata ai vertici di CdP si lamenta il blocco di molti progetti infrastrutturali (si accenna alle carceri e agli impianti di illuminazione pubblica). Esistono sotto questo aspetto quattro punti di vera propria sofferenza che l’intervista ai vertici di CdP non affronta: la rete ferroviaria, quella idrica, l’assetto geologico, le autostrade. Per quel che riguarda le ferrovie pensiamo all’incompetenza dimostrata, nel corso degli anni, dal management sulla vicenda dall’Alta velocità; 6) Nell’insieme l’industria, sul piano occupazionale, è calata negli ultimi 16 anni dal 32% al 28% complessivo ( e si vanta la percentuale dello 0,9% nell’aleatoria prospettiva dei “posti vacanti”, in ogni caso prevalentemente destinati, nell’eventualità, ai servizi). Settore dei servizi dove si esercitano sfruttamento intensivo e lavoro nero, in condizioni complessive di lavoro insopportabili come dimostra l’analisi riguardante l’intero settore della logistica e dell’e-commerce.Dal punto di vista della struttura industriale siamo di fronte non soltanto di una diminuzione di peso specifico ma ad un vero e propri depauperamento dal punto di vista della capacità di know- how, di innovazione, di progettualità. 7) La vantata manifattura italiana si esercita in settori soprattutto- come non ci stancheremol mia di far rilevare - ad alta intensità di sfruttamento della manodopera e scarsa valorizzazione del know – how, con interi comparti dove lo sfruttamento è esercitato direttamente da imprese a capitale e personale straniero (esempio i cinesi a Prato nel tessile).Capitale straniero che esercita appunto un livello di sfruttamento intollerabile, con quote fortissime di lavoro nero. Questa riflessione vale anche per la vantata crescita della produttività industriale contabilizzata nel trimestre scorso. Lo stesso “Sole 24 ore” denuncia il ritardo nell’insieme del quadro di relazioni industriali. Naturalmente governo e opposizioni si occupano prevalentemente di sgravi e decontribuzione ignorando completamente la necessità di creazione di lavoro vivo. Il giudizio, a questo punto appare scontato e anche la valutazione per il futuro. E’ certa l’assoluta insufficienza del quadro industriale e infrastrutturale del Paese soprattutto al riguardo del quadro europeo. In conclusione possono essere evidenziati, come punti di riflessione sulla materia, questi quattro punti: 1) Il primo punto di analisi riguarda l’assoluta fragilità del sistema di cui è indicatore primario il gap tra la crescita media dell’Italia 0,9% rispetto alla media europea 1,9% (fatto salvo tutto le scetticismo rispetto a questi dati che pure debbono essere comunque assunti sul piano dell’analisi) 2) La valutazione di “fragilità sistemica” e avvalorata dal fatto che tutto il quadro è “drogato” dal “quantitative easing” portato avanti dalla BCE; 3) Altro indicatore che desta grande preoccupazione è quello riguardante il fatto che il tasso di crescita più elevato è relativo al Nord Est: ancora una volta “distretti per l’export”. Un punto di debolezza perché modello territoriale inteso esaustivamente senza alternative sul piano industriale; 4) Il nodo di fondo rimane quello della struttura industriale del Paese assolutamente carente nei settori strategici .Si comprende a questo modo la relativa ripresa al Sud e l’ulteriore calo nel Nord Ovest: si arretra ancora proprio negli asset fondamentali della produzione industriale per via dei due elementi di ritardo già poc’anzi richiamati: l’innovazione tecnologica e il deficit infrastrutturale. In ogni caso rimane il nodo di un piano industriale che non si potrà elaborare e portare avanti (nell’eventualità di si voglia pensare concretamente) senza un riferimento di intervento e gestione pubblica. In questo senso va inteso il richiamo allo scioglimento dell’IRI compreso in questo intervento. Scioglimento dell’ IRI che a distanza di tanti anni può ben essere considerato come fortemente negativo per l’industria italiana.

venerdì 11 agosto 2017

Nadia Urbinati: LA TRAGEDIA DEL POPULISMO AL POTERE

LA TRAGEDIA DEL POPULISMO AL POTERE | Libertà e Giustizia

Felice Besostri: Quante e quali sinistre

Quante e quali sinistre alle prossime elezioni italiane ed europee? Pubblicato da il Manifesto del 11 agosto 2017 a pag. 15 con titolo: “Elezioni e progetto vanno insieme a cominciare dalle sfide regionali” di Felice Besostri* Due processi paralleli sono in corso nel variegato mondo della sinistra e del civismo costituzionale. Dato lo scontato appello all'inclusione, è un fatto che tutti e due i processi hanno preso avvio da un'iniziativi di pochi. Non è un peccato capitale. Neppure la rottura col passato lo è, ma la discontinuità non basta: dobbiamo fare politica non riscrivere la storia. I morti non devono afferrare i vivi. Dobbiamo dare una risposta agli elettori ignoti, quelli che hanno dato al NO quel risultato inaspettato per i fautori del SI', vanificando campagne mediatiche con costi milionari. Se il punto di partenza è l'attuazione della Costituzione, il voto espresso il 4 dicembre non è determinate per includere o escludere a priori chicchessia; il punto principale è il rispetto della volontà popolare democraticamente espressa sulla forma di Stato e di Governo, come delineato dalla nostra Costituzione: uno Stato delle autonomie e una forma di governo parlamentare. Il referendum ha confermato un sistema parlamentare bicamerale paritario: non si può andare al voto, con soglie totalmente differenti e contraddittorie (3% nazionale per la Camera e 8% regionale per il Senato), che, quindi, condannano a maggioranze disomogenee e che violano articoli fondamentali della Costituzione, come il 3, il 48 e il 51, sull'uguaglianza del diritto di voto e di candidatura ed anche il 49, perché i partiti politici non sono liberi di presentarsi con le stesse liste nei due rami del Parlamento. Il paese ha bisogno di un momento di trasparenza e di verità della sua rappresentanza: se i due processi paralleli non riescono ad accordarsi nemmeno sulle regole del gioco fondamentali, è meglio lasciar perdere ogni tentativo di unificarli. In questa fase le discussioni sulla leadership sono perdita di tempo o puramente strumentali. Un accordo sulla legge elettorale è una condizione necessaria; tuttavia, non è sufficiente. La lista unica e unitaria della sinistra e non solo, variamente declinata, è un obiettivo in sé o un passaggio verso una nuova formazione politica? La sola alleanza elettorale sarebbe percepita come frutto di uno stato di necessità: insufficiente, quando si deve convincere a ritornare al voto, tendenzialmente, la metà del corpo elettorale (in termini percentuali). Un progetto credibile da costruire nel corso della prossima legislatura dovrebbe mettere in conto, intanto, le elezioni regionali siciliane del 5 novembre del corrente anno e quelle regionali del 2018 in Lombardia, Lazio, Molise, Friuli Venezia Giulia e Basilicata. Basta proiettarsi nel 2019 per incontrare le elezioni regionali in Sardegna, Abruzzo, Piemonte, Calabria e Emilia Romagna, la regione dove più bassa è stata la percentuale dei votanti alle elezioni precedenti, 37,71%. Troppa carne al fuoco e in assenza di cuochi e fornelli in comune! Senza fare i conti con l'Europa non è possibile alcuna inversione/rottura con le politiche economiche e sociali dettate dall'austerità. Senza un cambio deciso di rotta dell'Unione Europea la questione dell'accoglienza dei migranti, quale che sia la loro natura politica, economica o ambientale diventerà il tema numero 1 della prossima campagna elettorale Chiaramente la prudenza consiglierebbe che, prima di impegnarsi per il 2019( elezioni europee), si veda come va nel 2018, ma qui casca l'asino perché, se ci sono troppe timidezze e riserve, il progetto non è credibile: non lo è per gli elettori se non ci credono neppure i suoi promotori. Se il progetto non è nemmeno biennale (2018-2019), c’è da dubitare sulla sua validità per un elettorato che vuol coniugare sentimento e ragionamento, il bacino naturale di riferimento di ogni sinistra. Emerge un problema di fondo sulla natura della proposta di una lista unica ed unitaria. Se si crede nella democrazia come partecipazione, e non solo come rappresentanza parlamentare e nelle altre assemblee territoriali, la mobilitazione nella società è un dovere; ma se si crede nella democrazia costituzionale per la conquista e la gestione del potere, ci si presenta alle elezioni con l'ambizione di vincerle, perché convinti di poter conquistare la maggioranza dei cittadini. Una sinistra senza aggettivi dice solo dove si sta, non dove si voglia andare tutti insieme, appassionatamente e non può ignorare nessuno dei suoi filoni ideali storici, socialista, comunista e libertario( Edgar Morin). Il terreno dell'attuazione della Costituzione rappresenta un comune denominatore, che assegna alla nascente formazione politica sia il compito di rappresentanza delle masse popolari, che di una missione nazionale contro la disgregazione sociale, Questa missione nazionale presuppone una visione ampia dell'orizzonte, una volta era scontato l’internazionalismo socialista e comunista e l’universalismo cristiano, ora che sarebbe più che mai necessaria una visione cosmopolitica, perché è in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, prevalgono egoismi nazionali, che le organizzazioni internazionali, prive di una dimensione parlamentare, spesso acuiscono, perché gli stati son rappresentati dai loro governi, sempre con più poteri perché sottratti ai controlli dei loro parlamenti. Il punto di partenza - e che rischia di essere anche d’arrivo - è l'esistenza di due processi paralleli, che se restano tali in una geometria euclidea non si incontrerebbero mai. Occorre una lista unica e unitaria della sinistra e del civismo democratico costituzionale, che prepari una formazione politica larga, plurale ed inclusiva per l'attuazione della Costituzione e dei suoi principi fondamentali. *Felice Besostri, Presidente del Gruppo di Volpedo, è componente dell’esecutivo del Coordinamento Democrazia Costituzionale. Felice Besostri: