giovedì 30 luglio 2009

Loredana Biffo: Oligarchie di partito

dall'avvenire dei lavoratori

Oligarchie di partito,
teorie dell'ordine e del conflitto

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Tra le promesse non mantenute della democrazia Bobbio ha indicato la nascita della società pluralistica, che ora appare più che mai necessaria, per la sopravvivenza della democrazia stessa.

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di Loredana Biffo

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Secondo la “teoria dell'azione razionale”, vige il postulato che l'agire umano sia motivato dalla massimizzazione dei benefici e dalla minimizzazione dei costi, onde evitare l'indeterminazione delle sue previsioni e delle sue spiegazioni, essa postula altresì che gli obiettivi da massimizzare siano materiali: benefici economici, controllo di risorse, di posizioni fruttuose, di prestigio ecc.

Poiché il contesto forgia l'azione che è quindi condizionata, possiamo sostenere che il condizionamento non include solo valori egoistici, ma essi fanno cadere la nostra attenzione sulla persistenza e sulla continuità dei comportamenti. Ne consegue che anche l'azione politica è condizionata dal contesto, che a sua volta è intessuto di consuetudini, valori e tradizioni, il mutamento politico è limitato, in quanto avviene all'interno di una tradizione, di una banda di oscillazione i cui confini sono determinati dalle tradizioni istituzionali, dove le motivazioni individuali finiscono col contare poco. Se il mutamento avviene, esso è originato dalla necessità di adattarsi a cambiamenti sociali avvenuti fuori dell'ambito politico (per esempio la questione del testamento biologico, in cui è evidente la discrasia tra la volontà popolare e la decisione politica).

Le istituzioni sono esse stesse espressioni di valori condivisi, necessari a tenere insieme le società che altrimenti si frantumerebbero, sono sedimentazioni che si formano nel tempo, per trasmissione, ma non può mancare l'adattamento. Sono il risultato di un lento apprendimento collettivo, esse costituiscono vincoli all'azione degli attori politici individuali (leader) e collettivi (partiti), questo finchè l'agire democratico non viene contaminato, finchè la democrazia non viene svuotata dall'interno attraverso meccanismi che rendono obsolete le “forme” democratiche.

La genesi delle regole non si spiega solo in termini di eliminazione degli effetti perversi della combinazione di strategie razionali, ma anche come esito di compromessi tra attori razionali che tendono a conquistare regole del gioco a loro favorevoli, le istituzioni ricadono in una logica che vede la politica come luogo della competizione-conflittualità: servono ad avvantaggiare qualcuno contro qualcun altro o rappresentano un punto di equilibrio tra interessi diversi. La conquista di regole favorevoli è quindi uno dei punti principali di scontro all'interno delle stesse coalizioni, nei partiti di destra e sinistra possono mettersi d'accordo per far passare un sistema elettorale maggioritario con relativo premio di maggioranza che consolidi la loro posizione eliminando i concorrenti minori.

I partiti dovendo tenere in considerazione diverse variabili prima di battersi per un sistema elettorale invece di un' altro, cercano di procurarsi sistemi elettorali che li favoriscano. I sistemi elettorali producono risultati differenti a seconda della realtà politica con cui interagiscono.

Un sistema maggioritario secco a un solo turno non avvantaggia allo stesso modo tutti i grandi partiti, può estendere la rappresentanza di partiti a forte radicamento territoriale e svantaggiare partiti che pur essendo consistenti non riescono però ad arrivare primi, o che arrivano “primissimi” con uno spreco di voti in pochi collegi. Quindi i partiti oltre a battersi per ottenere sistemi elettorali e regole a loro favorevoli, si ingegnano ad usarli al meglio delle loro possibilità; competono per ottenere sistemi elettorali che fungano da moltiplicatore di voti e seggi propri e come demoltiplicatore del rapporto tra voti e seggi degli avversari: ad esempio la soglia di sbarramento alla rappresentanza, un quorum del 4% come in Italia, taglia via i partiti minori, regalano in pratica i loro voti a quelli che superano la soglia.

I partiti che controllano l'esecutivo in un paese ideologicamente diviso tenderanno a tenere sotto controllo il Parlamento con regolamenti che evitino tecniche di ostruzionismo, la pubblica amministrazione (rendendo meno stabili le carriere, accentuando lo spoil system), a dare meno autonomia alla magistratura, tarpandole le ali, a influenzare o peggio manipolare e controllare pesantemente i media. Mentre le opposizioni dovrebbero volere un Parlamento influente, una magistratura indipendente, pubblici amministratori di carriera e una stampa libera. Chi controlla e pensa di controllare a lungo e in modo pervasivo l'esecutivo vorrà sempre più regole che trasmettano più rigidamente la propria volontà agli altri corpi dello stato e alla società civile.

In tal senso i partiti che pensano di non conservare il potere possono trasferire competenze a organi tecnici, meglio se ispirati da ideologie a loro favorevoli: authorities economiche ispirate al liberismo o ad authorities di bioetica in cui prevalgono i principi religiosi. Le varie fazioni concorrenti cercano di aumentare il proprio potere e di stabilizzarlo a scapito di altre, distorcendo i meccanismi della rappresentanza, cosa che porta ad uscire dal quadro democratico.

Poiché la genesi e lo sviluppo dei partiti ha modificato profondamente lo svolgimento delle elezioni, abbiamo una duplice anomalia, da una parte, tra elettori ed eletti si è inserito un terzo soggetto: il partito, non si ha più quindi una interazione dialogica tra eletti ed elettori, tra nazione e parlamento, perchè il partito “terzo incomodo” si è introdotto tra loro modificando radicalmente la natura dei loro rapporti; dall'altra parte, le elezioni avvengono in una fase dicotomica, scelta dei candidati fatta dai partiti, e scelta tra i candidati fatta dagli elettori, riducendo drasticamente il potere degli elettori, che quando si recano alle urne per eleggere i propri governanti si trovano di fronte ad una possibilità di scelta limitata a sua volta da una scelta precedente, potendo scegliere solo tra candidati precedentemente selezionati dai partiti. Sartori evidenzia che così la rappresentanza ha perso in efficacia, e non può essere vista come un rapporto diretto tra elettori ed eletti, ciò significa riconoscere i limiti del potere dell'elettore, in un sistema dove la cooptazione del partito-apparato diventa elezione effettiva. Norberto Bobbio già negli anni Cinquanta, si domandava in quale stato fosse la democrazia se la classe politica non traesse il suo potere direttamente dal consenso popolare, e dette parere negativo, perchè in Italia e anche negli altri regimi democratici, il rapporto tra corpo elettorale e classe politica non è un rapporto diretto, e tra uno e l'altro ci stanno i partiti organizzati, che combinano il metodo elettivo con quello della cooptazione, dicendo quindi soltanto una mezza verità.

Affermare che i candidati vengono selezionati all'interno dei partiti, è anche questa una definizione mezzana rispetto alla verità dei fatti, è necessario soffermarsi sulla domanda: “chi, entro i partiti, effettua concretamente la scelta?”

La selezione non viene fatta dal corpo del partito nel suo complesso, ma nella maggior parte dei casi dai dirigenti nazionali e locali, le cui decisioni gli iscritti si limitano a ratificare. Questo significa che milioni di elettori, votando, fanno una “scelta” tra i candidati “imposti” loro da un esiguo numero di “capi partito” locali o nazionali, il più delle volte dalle poche decine di persone che contano veramente nella classe politica del paese, per dirla con Bryce (che descrisse nella seconda metà dell'Ottocento gli Stati Uniti d'America nel loro metodo di elezione delle cariche): “Gli stessi uomini sono sempre rieletti, perchè tengono nelle loro mani le fila del movimento, perchè sono più al corrente e si occupano più degli altri degli affari del partito”.

Max weber nella sua “riflessione sul partito politico”, sosteneva che inevitabilmente la formazione del programma e delle liste dei candidati si trova nelle mani di una minoranza, che al vertice di ogni partito politico si trova un “nucleo stabile” di professionisti della politica, guidato da un capo o da un gruppo di notabili coadiuvato da un esteso apparato burocratico:

“Questo nucleo determina di volta in volta il programma, la procedura e i candidati, su queste decisioni la base esercita generalmente un'influenza molto scarsa, anche in una forma molto democratica di organizzazione di un partito di massa, almeno la massa degli elettori, ma in misura abbastanza consistente anche quella dei semplici iscritti, non partecipa (o partecipa in maniera solo formale) alla determinazione dei programmi e alla scelta dei candidati”.

Nella celebre “Legge ferrea delle oligarchie” Robert Michels, sostiene che “organizzazione” significa oligarchia, che è di per se stessa la causa del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti. Infatti Michels riprende la altrettanto celebre critica di Rosseau al sistema rappresentativo, secondo la quale appena si è dato dei rappresentanti, il popolo “non è più libero”. Ma anche se molti punti della sua interpretazione paiono confermare che il bersaglio polemico di Michels sia semplicemete la democrazia rappresentativa applicata al partito, la cosa non è così vera, piuttosto la si usa in modo giustificazionista per dare a intendere che il problema dell'oligarchia è intrinseco alla natura del potere ed è perciò ineliminabile. Apparentemente Michels sembra non credere non solo alla democrazia indiretta, ma nemmeno a quella diretta, perchè nemmeno questa riuscirebbe a fare a meno dei “capi”, come una assemblea popolare non può fare a meno di una autorità che stabilisca l'ordine del giorno, e stando alle leggi della psicologia di massa, una grande assemblea è esposta all'influenza del linguaggio demagogico e preda di abili e spregiudicati oratori. Perfino i referendum sono manipolabili dai capi partito, a mezzo di una formulazione delle domande e una interpretazione interessata dei risultati. La democrazia rappresentativa vista come tradimento della democrazia vera, quella diretta, è quindi impossibile. Questa critica alla democrazia rappresentativa condotta da Michels può apparire incomprensibile a chi vede oggi la democrazia rappresentativa come l'unica possibile, in realtà essa diventa comprensibile e condivisibile se la critica viene fatta in base alla accezione di “oligarchia chiusa”, dove il termine oligarchia sta ad indicare un gruppo dirigente chiuso, che si perpetua al potere con mezzi leciti, ma soprattutto illeciti e che si rinnova soltanto attraverso la pratica della “cooptazione”. Possiamo ragionevolmente sostenere che vi è in tale esercizio del potere una degenerazione della democrazia, che si trasforma in “forma di governo autocratica”, dove i leaders si isolano, formando gli uni con gli altri dei “patti difensivi”, erigendo un muro che solo quelli a loro graditi possono scalare; ovviamente chi è giunto ai vertici del partito cercherà in tutti i modi di reiterare la propria posizione di dominio, circondandosi di nuove difese, sottraendosi al controllo di massa e soprattutto alla giurisdizione. Il risultato sarà la formazione di una leadership stabile e inamovibile, chiusa nell'isolamento di una casta che si rigenera con la cooptazione.

Sono molti i metodi per conservare il potere anche quando c'è malcontento anche nella base del partito, quando è crescente l'insoddisfazione, si limita la libertà di espressione all'interno del partito, screditando gli oppositori, etichettandoli come demagoghi, incompetenti, irresponsabili, che mettono a rischio l'unità del partito. Si possono manipolare le elezioni al momento del rinnovo degli organismi dirigenti escludendo dalla competizione gli sfidanti più pericolosi; candidando alle elezioni per il parlamento soltanto coloro che sono ritenuti totalmente fedeli. Se poi, gli sforzi non fossero stati sufficienti a impedire l'opposizione interna, non la si affronta direttamente nella battaglia congressuale, ma la si indebolisce preventivamente attraverso la cooptazione di una parte dei suoi esponenti, di conseguenza non si esaurisce mai la lotta per il potere, nemmeno con l'avvento di un nuovo gruppo dirigente, piuttosto si assimila qualche soggetto nuovo nel vecchio gruppo dirigente.

Pur ritenendola una inevitabile conseguenza dell'oligarchia, Michels si rammaricava della mancanza di democrazia all'interno dei partiti, mentre molti in seguito hanno addotto questo a giustificazione di tale mancanza, ritenendo il carattere autocratico dei partiti un fatto irrilevante e fisiologico. Come osserva Bryce nel mondo della politica coloro che detengono il potere sono una ristretta minoranza, all'interno dei partiti affidare il potere ad un nucleo ristretto di capi è una necessità imposta dalla lotta per il potere. Analogamente Max Weber sostiene che un partito è sempre un organismo in lotta per il potere, ed è quindi organizzato in modo molto rigido e autoritario, e che se un partito si organizza in modo autocratico, gli altri partiti dovranno fare altrettanto per non essere meno efficienti nella lotta per il potere.

Sartori sostiene che se come diceva Schumpeter, la democrazia è la forma di governo in cui minoranze organizzate, cioè i partiti, competono per il governo, chiedendo il voto alla maggioranza disorganizzata degli elettori, ne abbiamo che questi ultimi hanno il potere di assegnare la vittoria all'una o all'altra delle minoranze in competizione, questo potere non viene diminuito dal fatto che le minoranze in competizione siano governate in modo autocratico. Secondo questo punto di vista Michels sbagliava a cercare la democrazia dove non è importante, cioè dentro i partiti, perchè la democrazia deve essere cercata nel rapporto tra partiti, si ha una forma di governo democratica quando le masse sono ragionevolmente libere scegliere di entro una rosa di èlites politiche in competizione tra loro, cioè i partiti.

In realtà si può falsificare questo ragionamento, ipotizzando un sistema bipartitico o anche bipolare, cioè composto da due coalizioni compatte; se un elettore è deluso della condotta del partito di appartenenza, ma è legato ai valori che esso rappresenta, ed è molto contrario agli interessi sostenuti dal partito avversario, difficilmente trasferirà il suo voto a quest'ultimo che da sempre osteggia. In questo caso l'elettore non ha la possibilità di scelta di cui parla Sartori, bensì può fare solo due cose: formare un nuovo partito che deve essere abbastanza forte da raggiungere almeno il parlamento, oppure restare nel proprio partito battendosi per cambiarne la politica e il gruppo dirigente. Poiché la prima impresa è molto difficile soprattutto in un sistema bipartitico, gli resta solo la seconda, questo è quello che Hirschman definisce “voice”, cioè protesta. Però la battaglia sarà tanto più difficile quanto più il partito è governato in modo autocratico e dominato da una oligarchia chiusa che tende a sottrarsi alla lotta politica aperta spegnendo sul nascere tutti i tentativi di opposizione, in tal caso l'elettore deluso, potrebbe abbandonare ogni interesse per la politica, cadendo nell'apatia e disertare le urne; questo sarebbe un grave danno alla democrazia, ed è sotto gli occhi di tutti il fatto che tale fenomeno è in aumento.

Un partito che si voglia definire democratico, deve essere un partito nel quale la lotta per la conquista delle posizioni di potere e le battaglie per i programmi e i valori, devono svolgersi in piena libertà e non essere inibiti o peggio soffocati, pur all'interno di regole; perchè sostenere che un partito è fragile nello scontro con gli altri significa ritenere la lotta politica interna, che deve essere condotta democraticamente, come un elemento negativo e di debolezza, significa giudicare negativamente il conflitto, riesumando le “Teorie dell'ordine”, come se non avessero prodotto abbastanza danni, sarebbe un modo di agire contrario e opposto a quello che si può trovare nel pensiero liberale, nella grande tradizione (come ci insegna Bobbio) del liberalismo di Kant, John Stuart Mill, Luigi Einaudi e tutti coloro che hanno sempre visto nel conflitto un importante e fondamentale fattore di miglioramento. Non si può in democrazia prescindere dalla “lotta” in tutte le sue forme: economica sotto forma di concorrenza,, ideologica all'interno di dibattito delle idee, politica, in forma di contrasto di parti all'interno di uno stato. Sarebbe deleterio e pericoloso soffocare il conflitto, come del resto hanno insegnato tutti i grandi filosofi della politica, da Platone a Hobbes, che la ritenevano importante al punto di stimolarla e proteggerla oltre che regolarla per non lasciarla degenerare nella disgregazione delle società tutte.

Luigi Einaudi scrisse: “ Conformismo, concordia, leggi repressive degli abusi della stampa sono sinonimi e indici di decadenza civile. Lotte di parte, critica, anticonformismo, libertà di stampa preannunziano le epoche di ascensione dei popoli e degli stati”.

Che altro è la protesta se non lotta politica all'interno del partito, la quale può svilupparsi liberamente soltanto in un partito governato democraticamente?

Hirschman a ragione, considera la “protesta” voice, il rimedio principe alla crisi dei partiti, oltre che degli stati, le proteste che i membri insoddisfatti di un partito muovono contro i propri dirigenti possono, anzi devono, spingere questi ultimi ad attuare i cambiamenti necessari per rendere il partito più competitivo ed arrestarne l' altrimenti inevitabile declino.

Sono queste buone ragioni per sostenere che la democrazia all'interno dei partiti sia tanto necessaria per la democraticità del sistema complessivo, quanto indispensabile per la sopravvivenza e l'identità dei partiti medesimi, nonostante ciò, tutto sembra confermare che nelle nostre democrazie i partiti a dispetto delle trasformazioni sociali subite dai tempi di Michels, hanno continuato e continuano tutt'ora ad essere gestiti in modo oligarchico, Tra le promesse non mantenute della democrazia Bobbio ha indicato la nascita della società pluralistica, che ora appare più che mai necessaria, per la sopravvivenza della stessa.

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