sabato 4 luglio 2009

Nadia Urbinati: L'Italia, il potere e il silenzio delle donne

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L’Italia, il potere e il silenzio delle donne
La repubblica 30.06.2009

Autore: Urbinati, Nadia

La dure e sofferta denuncia d'un silenzio che, insieme a molti altri, contribuisce ad ammorbare l’aria, già resa malvagia da uomini "a mal più ch’a ben usi". La Repubblica, 30 giugno 2009

Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c’è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell’harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c’erano eunuchi. È questo l’esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?

Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l’educazione, che la ragione dell’assoggettamento delle donne fosse da cercare nell’ignoranza e nell’esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un’occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».

La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l’inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l’esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l’arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.

Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un’altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l’abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l’interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".

Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull’altare della religione secolare e dall’altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l’informazione, facendola passare come un’intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l’uno e l’altro a seconda dell’interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l’arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.

In giuoco, è stata l’unanime e giusta diagnosi, c’è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L’Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch’a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell’altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l’aria.

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