mercoledì 29 luglio 2009

Giorgio Ruffolo: 4 idee per Bad Godesberg

Dal numero 5/09 di Mondoperaio, in edicola

Quattro idee
per Bad Godesberg
>>>> Giorgio Ruffolo
La sconfitta socialista alle elezioni
europee non appartiene alla categoria
delle normali oscillazioni politiche.
Essa segna la rottura di un ciclo
storico e richiede un’analisi che investa
gli eventi dell’ultimo trentennio. Non
credo che il socialismo, grande movimento
storico legato a imprescindibili
esigenze di giustizia, sia stato seppellito
da una sconfitta elettorale, per quanto
clamorosa. La storia del socialismo è
piena di annunci mortuari smentiti.
Neppure il fascismo ce l’ha fatta. Però
le elezioni hanno decretato la fine di
una socialdemocrazia appannata e
sconclusionata.
Può apparire paradossale che le elezioni
non abbiano penalizzato la destra,
che per venti anni si è identificata con
la sregolatezza responsabile dell’attuale
marasma economico, e che oggi sembra
diventata keynesiana e statalista; e
abbiano invece devastato la sua antagonista
storica. Ma non lo è per due
ragioni. Innanzitutto la destra non è
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diventata affatto statalista, ma pretende
solo che sia lo Stato a pagare i conti
della crisi per poi ritirarsi rapidamente
dalla scena. Inoltre la socialdemocrazia,
in tutti questi anni, non è stata affatto
antagonista del liberismo, ma ne ha
solo praticato una versione debole, propriamente
“post-socialista”, come il
blairismo.
Per di più alla globalizzazione economica
la socialdemocrazia non ha contrapposto
quel rafforzamento del potere
politico internazionale che avrebbe
potuto nascere da una più forte integrazione
europea. Al contrario, si è chiusa
nel socialnazionalismo (l’espressione,
volutamente provocatoria, è di Nino
Andreatta), un terreno sul quale la
destra è imbattibile.
I socialisti hanno perduto un’occasione
unica di costruire un’Europa unita e
riformista quando erano al governo in
quasi tutti i paesi europei. Un’Europa
diversa da quella creatura burocratica e
diplomatica che non è fatta certo per
accendere i cuori. Un’Europa che si
riconosca in un modello economico
integrato e in un modello sociale avanzato.
Opporre al nazionalismo politico
e alla globalizzazione economica
un’Europa del benessere, nuovo soggetto
della scena mondiale, questa
sarebbe stata la risposta efficace alla
deriva liberista.
Quell’occasione è stata perduta. E ora
in Europa trionfano i nazionalismi, riemerge
il razzismo, e il conto della crisi
è posto sulle spalle dei contribuenti.
C’è da chiedersi allora: del socialismo,
que reste et-il? Questo sarebbe il
momento di una nuova Bad Godesberg:
di un ripensamento fondamentale di
quelle che sono state per una fase storica
gloriosa le ragioni del “vero socialismo
reale”. Non si tratta ovviamente di
tornare indietro, in un mondo radicalmente
cambiato. Si tratta di riconoscere
le correnti pesanti che attraversano la
nostra storia, per domandarsi in quale
modo una politica ispirata ai valori tradizionali
della sinistra possa piegarne il
corso verso una società più libera e più
giusta. Questa è l’essenza concreta del
riformismo. Per non cavarmela con i
soliti auspici retorici ( appunto: più
libera, più giusta) provo a indicare le
linee fondamentali di una ricerca e rielaborazione
teorica e politica. Che poi
all’esito di questa rielaborazione si debba
ancora dare il nome di socialismo è
problema che può essere rinviato, come
un indice, alla fine dell’opera.
Penso a quattro linee fondamentali di
ricerca. La prima riguarda la governance
mondiale. Non esiste e non è realisticamente
proponibile un governo
mondiale. Ma esiste un problema di
governabilità (governance). L’attuale
configurazione del “disordine mondiale”
è l’esito di un lento processo di disgregazione
che si è andato sviluppando
a partire dagli accordi di Bretton
Woods: e cioè dall’ultimo grande tentativo
di costruire, sul terreno economico,
un sistema di ordine mondiale. Quel
sistema è stato travolto, ma non sostituito.
Resta implicito il presupposto di
quel sistema: l’egemonia americana,
priva però delle regole che avrebbero
dovuto assicurarne la responsabilità.
Ma è proprio quell’egemonia che è
messa in forse dall’emergere di nuove
grandi potenze. Questo è un aspetto
dell’attuale disordine. Un altro è il varco
che si è aperto tra politica ed economia:
tra l’interdipendenza dell’economia,
sancita dalla globalizzazione, e
cioè soprattutto dalla liberazione dei
movimenti internazionali di capitale, e
le capacità di controllo di una politica
che resta confinata essenzialmente nell’ambito
delle sovranità nazionali. L’attuale
crisi, nella quale siamo tuttora
immersi, è in grande parte conseguenza
di questo vuoto, e della pretesa che esso
potesse essere colmato da una autoregolazione
dei mercati: degli scambi e
dei cambi. Se una nuova grande potenza
come la Cina richiama addirittura la
necessità di affrontare il tema di una
moneta mondiale “responsabile”, è
segno che l’attuale condizione si sta
avvicinando ai limiti dell’insostenibilità
economica e politica. Da parte dei
partiti socialisti non c’è stata finora una
parola su questo problema formidabile,
che non è neppure “tematizzato” nei
loro programmi e nei loro congressi. Il
loro quadro concettuale resta quello
statale e nazionale. La loro risposta alla
globalizzazione è la loro incapacità di
darne una.
La seconda linea di ricerca riguarda il
problema emerso e ingigantito nell’ultimo
mezzo secolo: quello della sostenibilità
ambientale ed ecologica. Esso è
evocato, più per un omaggio alla moda
che per intima convinzione, come esigenza
di scoraggiamento delle tecnologie
inquinanti e di incoraggiamento
delle cosiddette tecnologie “pulite”. Si
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evita invece accuratamente il centro del
problema: la insostenibilità storica di
una crescita continua , ad interessi composti,
considerata come condizione normale
e irrinunciabile dell’economia. Il
problema, non del benessere, ma della
sopravvivenza dell’umanità è legato al
passaggio da una economia della crescita
quantitativa ad una economia stabilizzata
quanto all’impiego di risorse
non rinnovabili e concentrata sul loro
sviluppo qualitativo. Ciò comporta la
necessità di abbandonare la pretesa di
misurare il progresso dell’umanità con
l’aumento indefinito della sua statura, e
di definire esplicitamente indici di progresso
autentico, economico, sociale e
culturale, da perseguire. Da parte socialista,
sempre a livello delle enunciazioni
politiche e programmatiche, non c’è
stata una esplicita denuncia della “pirlandizzazione”
dell’economia del
benessere, e una indicazione di altri
traguardi qualitativi all’economia.
La terza linea di ricerca riguarda quello
che dovrebbe essere il cuore del messaggio
socialista: l’eguaglianza (ricordo
la lezione di Bobbio) o, meglio, la
lotta contro le diseguaglianze. Sembra
che i partiti socialisti si siano convinti
del rozzo slogan convenzionale della
destra - per distribuire occorre prima
produrre - quando appare sempre più
evidente dagli eventi che ci hanno precipitato
in questa ultima crisi che essi
sono stati generati da una sproporzione
distributiva, irresponsabilmente compensata
con un ricorso illimitato all’indebitamento,
che produce soltanto nuovi
debiti. Non si produce niente a partire
dalla regola di Trilussa: due polli a
me, nessuno a te, eguale un pollo statistico
a testa. La distribuzione iniqua
non genera la corsa virtuosamente competitiva
di tutti, ma la progressiva
secessione dei pochi.
La quarta linea della ricerca mi pare la
più importante perché investe la
domanda che sta al fondo delle altre tre:
a quale scopo? A quale scopo la governance,
la produzione, la distribuzione?
Il senso di questa domanda non è una
predica, ma la concretissima constatazione
della incoerenza fondamentale
della strategia della mercatizzazione,
che sta alla base del vangelo liberista:
la sua autodistruzione. Richiamo una
banalità: le regole del gioco non fanno
parte del gioco. Le decisioni dell’arbitro
sul campo di calcio non possono
(non dovrebbero!) essere comprate e
vendute, pena l’inconsistenza della partita.
Le sentenze dei giudici non possono
(non dovrebbero!) essere comprate e
vendute, pena l’irrilevanza dei processi.
I voti dei cittadini e dei loro rappresentanti
non possono (non dovrebbero!)
essere comprati e venduti, pena l’impraticabilità
della democrazia. Lo stesso
vale per il credito. Esso è legato a un
confronto oggettivo e reale tra la sua
domanda e la sua offerta (così almeno
ci insegnavano i testi). Ciò costituisce
la sua regola e il suo freno. Se invece
diventa un prodotto che si può comprare
e vendere sul mercato, perde la sua
qualità di regola e diventa un bene da
massimizzare. Non è proprio questo
che è successo quando le ipoteche sui
prestiti sono diventate titoli da scambiare
sul mercato? E’ venuto a mancare
ogni freno alla loro emissione. La regola
è entrata nel gioco che doveva regolare.
Si spiega così come l’autoregolazione
divenga sregolatezza. I comportamenti
che obbediscono a regole oggettive
sono di carattere compensativo: se
aumenta la domanda di titolo ne sale il
prezzo che ne frena la domanda. Ma se
al tempo stesso c’è chi offre titoli rappresentativi
di crediti che possono essere
comprati, la domanda può aumentare
e il mercato diventa cumulativo, esplosivo,
senza freni.
E’ ciò che è in effetti avvenuto. La stessa
cosa si può dire per il rischio. Se
anche il rischio diventa un oggetto da
comprare e vendere, la domanda di protezione
dal rischio diventa facilmente
domanda di moltiplicazione dei rischi.
In altri termini, si innescano spirali
autoalimentate. Si scatena da parte delle
banche una caccia ai clienti cui vengono
offerti prestiti a condizioni irrisorie;
e le carte di credito sono offerte in
garanzia per la concessione di nuovi
mutui: un credito ne garantisce un altro.
A un certo punto, la cuccagna finisce e
il gioco si rovescia.
Mi domando anche qui se non ci sia stata,
da parte degli esponenti più rappresentativi
dei partiti socialisti, una resa a
un pensiero falso e bugiardo, che identifica
il valore del denaro come valore
tout court. Del resto, se è vero che nel
tempo in cui risiedeva al numero 10 di
Downing Street la coppia Blair si è
impegnata in mutui immobiliari per 4
milioni di sterline, sarebbe stato ingenuo
pretendere che egli ponesse, come
segretario dell’antico e glorioso partito
laburista, un argine economico e morale
alla tempesta che stava per travolgerci.

3 commenti:

Luigi Fasce ha detto...

Caro compagno Scirocco,
grazie per utile segnalazione ... conferma la grande utilità del
nostro convegno genovese di cui rimando ancora la lettura visto
che ripartiamo - regredire per progredire - anche noi a settembre da
Bad Godesberg
www.circolocalogerocapitini.it.
sotto argomento numero due
liberismo liberalismo liberalsocialismo
Buon dibattito a tutti.
Luigi Fasce--

felice besostri ha detto...

Il problema di fondo è come far passare proposte non immediatamente popolari con il consenso che la democrazia presuppone. La situazione attuale è molto simile a quella del sorgere del movimento socialista nella quale agitazione politica e pedagogia erano strettamente unite. I regimi populisti accentuano i bassi istinti del popolo, quelli totalitari si sostituiscono al popolo per determinare dal'alto e con la coercizione quello che è il bene del popolo.
I socialisti democratici sono in una posizione difficile perché dervono spiegare e convincere cosa è meglio, ma senza imposizioni.

Tom ha detto...

Ok su tutto però, attenzione che dalla teoria alla pratica subentrano dei fattori discorsivi nella relazione fra reddito-produzione-consumo e sono:
_ tariffe e prezzi fuori controllo

_ evasione ed elusione fiscale

_ la globalizzazione

Per assurdo ma neanche troppo, non ho bisogno di adeguare i redditi se avessi maggiore coscienza e controllo degli elementi sopraccitati.

Non trascurerei nemmeno il fenomeno delle “municipalizzate” che distribuiscono enormi profitti a privati senza contribuire a migliorare i servizi al cittadino e cosa ancora più grave è che si tratta di beni di primaria necessità (es. l’acqua, la luce, il gas…)