Una genealogia del concetto di classe
Data di pubblicazione: 14.07.2009
Autore: Catucci, Stefano
Ricerca su una parola, un’idea e una realtà che sono ancora oggi decisive, benché relegate alla vergogna dell’oblìo. Il manifesto, 14 luglio 2009
Libri: Andrea Cavalletti, Classe, Bollati Borighieri, Pp. 159, Euro 9
Nel confronto con realtà come la folla, la massa, il popolo, la moltitudine, il concetto di classe emerge come segnale di un'entità distinta, non descrivibile con il linguaggio della quantità né riducibile solo a un soggetto collettivo dotato di una propria identità biologica e psicologica. Lo aveva scritto con chiarezza Lukács nel suo fondamentale Storia e coscienza di classe (1923): «la coscienza di classe non è la coscienza psicologica dei singoli proletari oppure la coscienza della loro totalità (intesa in termini di psicologica di massa), ma il senso divenuto cosciente della situazione storica della classe stessa». Walter Benjamin, che riprende il testo di Lukács ma se ne distacca in alcuni snodi decisivi, individua dal canto suo quel che trasforma la compattezza biologica e psicologica della folla e della massa nell'unità politica della classe: la solidarietà, principio che non rinvia al livello dei buoni sentimenti ma che struttura il dinamismo di un processo nel quale il monolite della massa si differenzia, i suoi vincoli «naturali» si allentano, e viene meno dialetticamente la contrapposizione fra l'individuo e la folla.
Oggi che proprio l'idea di classe sembra storicamente tramontata, in misura direttamente proporzionale al venir meno di interessi collettivi capaci di trasformarsi in coscienza politica, un bel libro di Andrea Cavalletti, Classe, prova a ricostruirne la genealogia e a rintracciarne le persistenze nel presente, spesso nascoste sotto un modello di aggregazione che ricalca precisamente gli schemi della biologia e della psicologia: più o meno quello che Foucault riuniva nella parola «biopolitica». L'esempio di Benjamin è il motivo che organizza anche da un punto di vista metodologico un volume apparentemente dispersivo, che alterna analisi sulla sociologia, la psicologia, le scienze sociali in genere e la teoria politica nel passaggio tra Otto e Novecento, con riferimenti che non trascurano né Marx né Canetti e con momenti di riflessione su una figurazione di tipo letterario che allinea nomi come quelli di Robert Stevenson, Jules Verne o Raymond Chandler.
Cavalletti ricapitola per un verso alcune sue ricerche precedenti, come quelle sulla nascita e lo sviluppo dell'urbanistica o sulla forma dell'esperienza dei campi di concentramento. Per un altro spinge in avanti il senso della ricostruzione genealogica fino a gettare una luce sull'attualità: per esempio sul rapporto fra massa e leader, o sulla progressiva biologizzazione del politico. Il capo che si erge a guida della folla, si legge per esempio con riferimento a un libro di Emil Federer (1940), «non viene propriamente scelto, non supera alcun processo di prova» ma «diviene inaspettatamente il polo di una cristallizzazione», non esprime una inesistente «anima collettiva», ma funge da frangiflutti nei confronti del panico che agita la massa ed è, in questo senso, un semplice «funzionario» di coloro che guida, secondo l'espressione di Hannah Arendt: in fondo, chi guida è anche guidato, come avrebbe osservato Georg Simmel.
Da questo breve excursus sulla figura del leader si nota lo spirito benjaminano del collage che innerva la forma del libro: l'accostamento di autori diversi, provenienti da epoche anche lontane fra loro, ma riuniti dalla volontà di riflettere su un fenomeno di lunga durata, la cui estensione storica coincide con quella della contemporaneità, produce aperture inaspettate e permette di comprendere come proprio l'espansione di quello strato sociale cui né Benjamin né Lukács attribuivano lo statuto di una classe, la piccola borghesia, abbia provocato l'irrigidimento della folla e il suo compattamento in una collettività che non propone alcunché di politico, ma reagisce emotivamente al delinearsi di scenari terrorizzanti.
Occorre però soffermarsi sui passi che Cavalletti dedica alle forme attuali del «metalavoro», un lavoro prestato nel tentativo di procurarsi un lavoro, al volontariato, alla conseguente confusione tra i ruoli dell'occupato e del disoccupato, per vedere come un'idea di classe continui ad agitarsi al fondo delle strutture sociali senza più avere, però, la nitida riconoscibilità di quando poteva essere identificata con il proletariato dell'industria, e come tale poteva essere anche sindacalizzata. Bisogna allora pensare la classe come una variabile, e non come un apparato rigidamente codificato, seguendo in questo un'intuizione di Deleuze e Guattari che compare nel libro al modo di un Leitmotiv: «sotto la riproduzione delle masse c'è sempre la carta variabile della classe». Ed è appunto questa variabilità che la ricostruzione genealogica di Cavalletti ci invita a riconoscere e a ripensare in un libro eminentemente politico.
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