sabato 18 luglio 2009

Stefano Rodotà: L'etica pubblica perduta

> Società e politica > I giornali del giorno > Articoli del 2009

L’etica pubblica perduta
Data di pubblicazione: 11.07.2009

Autore: Rodotà, Stefano

Continueremo a dibattere questo tema finchè il male non sarà stato estirpato. La Repubblica, 10 luglio 2009



Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un’anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.

Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d’una confessione?

Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa dell’impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla di conflitto d’interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d’ogni regola: "Di conflitto d’interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell’irrilevanza politica e giuridica quel conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E, quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s’infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà.

Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte. Campagna all’americana si disse, ovviamente. Ma l’America è un’altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove proprio in questi giorni, sull’onda di uno scandalo che rischia di spegnere le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell’etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l’imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali.

"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell’Inquisizione, fautore della società della sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un’occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull’attività giornalistica in tema di privacy).

Proprio così’: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l’attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell’esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico.

Proviamo di nuovo a dare un’occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un’altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.

Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell’etica pubblica? Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l’essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s’incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un inciampo dal quale liberarsi.

Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici". Registro due fatti. Il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo dell’esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E’ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro.

Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l’annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti!

Nessun commento: