martedì 28 febbraio 2017

Growth Of Minimum Wages Accelerates Across Europe

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facciamosinistra!: La società dinamica e il contributo di Paolo Leon

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La sinistra e la NATO | Risorgimento Socialista

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How the Left Can Win | Jacobin

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Miracoli in Germania. Flessibilità interna e mercato del lavoro - Menabò di Etica ed Economia

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ATM un affare di Stato? | movimentimetropolitani

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Trenitalia Spa vuol mettere le mani sul trasporto urbano milanese | movimentimetropolitani

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domenica 26 febbraio 2017

facciamosinistra!: All’estero i voucheristi sono occasionali ma tutelati

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facciamosinistra!: Portogallo, il laboratorio della sinistra plurale che governa, e bene

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facciamosinistra!: Una sinistra per il welfare. Intervista a Jeremy Corbyn

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Dopo Hillary, la rivincita dei «sanderistas»

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Falcone: 'Sul lavoro si voti con le Amministrative. Penso a sinistra senza capi'

Falcone: 'Sul lavoro si voti con le Amministrative. Penso a sinistra senza capi'

sabato 25 febbraio 2017

Movimento democratico progressista, nasce il gruppo di ex dem e sinistra italiana: "Un nuovo inizio con i nostri valori"

Movimento democratico progressista, nasce il gruppo di ex dem e sinistra italiana: "Un nuovo inizio con i nostri valori"

Franco Astengo: Politica, ideologia, realtà

POLITICA, IDEOLOGIA, REALTA’ di Franco Astengo Un bell’intervento dell’editore Giuseppe Laterza (titolare della casa editrice che pubblicò Benedetto Croce) apparso oggi (25 Febbraio) su Repubblica affronta, sotto il titolo “Ma la politica non è morta”, un tema assolutamente fondamentale. Laterza mette in discussione, infatti, un punto decisivo partendo da una valutazione molto precisa “ Dopo la caduta del muro di Berlino in effetti si brindò non solo alla fine dell’ideologia comunista ma di tutte le ideologie, considerandole camicie di forza del pensiero, strumenti di autoritarismo culturale e politico. Molti liberali non consideravano la loro come ideologia: la intendevano piuttosto come l’unica concessione del mondo possibile per chi avesse a cuore la libertà”. La conclusione che Laterza trae da questo assunto la si trova più avanti nel testo: “Date per morte tutte le ideologie, la maggioranza dei professionisti della politica ha smesso da tempo di citare i libri che ha letto mentre si dedica con passione ad inseguire i ritmi e le logiche della comunicazione televisiva. Siamo alla politica del giorno per giorno, la cui agenda è dettata dai sondaggi e in cui la personalità dei capi fa premio sulla qualità dei programmi” Insiste Laterza “Certo, bisogna fare una rivoluzione culturale. Compito molto difficile ma (la storia ci dice) non impossibile. E oggi quanto mai necessario”. Un discorso antico, quello di Laterza, ma sempre attuale e che pone un interrogativo: come si passa dalle idee alle opinioni e dalle opinioni all’azione politica? Attraverso quali strumenti d’iniziativa culturale, di aggregazione sociale, di raccolta di consenso, di formazione e sviluppo delle decisioni a tutti i livelli ? Interrogativi ai quali fornivano una risposta le grandi agenzie e le grandi strutture politiche organizzate, i partiti, le fondazioni culturali, i sindacati: soggetti oggi tutti azzerati nella pratica dall’omologazione avvenuta attorno al feticcio dell’immagine intesa quale esaustivo veicolo per condurre al potere in tutti i campi. Nel frattempo sono cresciute le contraddizioni, si sono spazzati i fili dell’intreccio sociale, non esiste più rapporto tra progresso, sviluppo, eguaglianza : anzi quel rapporto si è rovesciato in un quadro di assoluta dequalificazione dell’agire politico. Restiamo in Italia. Ormai la condizione culturale del Paese è talmente ai minimi termini laddove la situazione si presenta in queste condizioni: 1) Nel 2015 si stima che le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta siano pari a 1 milione e 582 mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila (il numero più alto dal 2005 a oggi).L'incidenza della povertà assoluta si mantiene sostanzialmente stabile sui livelli stimati negli ultimi tre anni per le famiglie, con variazioni annuali statisticamente non significative (6,1% delle famiglie residenti nel 2015, 5,7% nel 2014, 6,3% nel 2013); cresce invece se misurata in termini di persone (7,6% della popolazione residente nel 2015, 6,8% nel 2014 e 7,3% nel 2013).Quest’andamento nel corso dell'ultimo anno si deve principalmente all'aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9 a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4 a 28,3%), in media più numerose. 2) I nuovi dati riguardano l’Italia nel 2016 arrivano dall’Ocse, che nel suo rapporto sulle disuguaglianze calcola che l’1% più benestante della popolazione della Penisola detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9 per cento degli attivi totali. La crisi ha inoltre accentuato le differenze, dato che la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata del 4% per il 10% più povero della popolazione e solo dell’1% per il 10% più ricco. Quanto ai redditi, nel 2013 il 10% più ricco della popolazione guadagnava undici volte di più del 10% più povero. La ricchezza nazionale netta, riporta ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (il cosiddetto “primo quintile”) detiene infatti il 61,6% della ricchezza e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, di cui appena lo 0,4% per il 20% più povero. Anche nella fascia più alta, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il vertice della piramide, cioè 5% più ricco della popolazione, detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco. 3) 40,1 è il tasso di disoccupazione giovanile in Italia 22%, è la percentuale media di disoccupazione giovanile nell’Eurozona 19,4%, è il tasso di disoccupazione giovanile avuto in Italia nel 2007, uno dei tassi più bassi mai registrati Uno dei grandi problemi del nostro Paese è sicuramente la disoccupazione giovanile (15-24 anni), un male non solo economico ma anche psicologico e culturale per i giovani italiani. Le cause della disoccupazione sono ricondotte al sistema scolastico, ai cattivi collegamenti fra scuola e impresa, ad una diffusa mentalità anti-impresa e alla criminalità organizzata .Secondo una rilevazione datata dicembre 2015, il tasso di disoccupazione in Italia è del 37,9%, in Germania del 7%, in Grecia del 48,6%. Il tasso medio dell’Eurozona è del 22%. Nel 2007 il nostro Paese ha avuto un livello di disoccupazione basso (disoccupazione giovanile al 19,4%, disoccupazione totale al 5,9%) a dimostrazione della cattiva conduzione della cosa pubblica così come è stata attuata in Italia nella fase delle crisi della globalizzazione a causa del processo di finanziarizzazione dell’economia e di crescita dei conflitti armati nel mondo. Dove si sviluppa allora, nella situazione data, la battaglia delle idee in Italia: non certo rispetto ai temi che Laterza suggerisce nel suo intervento (che in realtà appare del tutto anomalo rispetto al quadro politico – culturale corrente) ma attorno al tetto degli stipendi alla RAI fissato in 240.000 euro all’anno e al riguardo del quale alcuni inamovibili che si aggirano attorno ai 2 milioni protestano e c’è chi argomenta che riducendo i compensi come previsto dalla legge la RAI finirebbe “fuori mercato”. E’ questo il livello drammatico della situazione nella quale ci troviamo e questo il livello infimo della discussione di merito che si sta sviluppando: ben oltre lo scenario delle mosse delle contromosse che il vieto politicismo corrente ci sta mostrando. Non ci si venga, alla fine, a replicare che descrivere le cose in questo modo (come effettivamente stanno) alla fine alimenta il cosiddetto populismo (le cui espressioni meramente verbali, nel caso italiano, alla fine risultano tra l’altro complici della conservazione di quel potere che ha costruito il disastroso stato di cose in atto). Non servirebbe forse portare avanti un’ideologia alternativa a quella dominante (che non vuol definirsi tale) adottata da tutti e che ha portato a questi esiti?

venerdì 24 febbraio 2017

Luciano Belli Paci: Scissione, la domanda sbagliata

I personaggi della "Ditta" che si accingono, forse (finché non lo vedo non ci credo), alla scissione negli anni passati hanno fatto tutti gli errori possibili ed hanno trangugiato tutti i rospi immaginabili, rendendosi ridicoli con i loro penultimatum. Hanno addirittura inaugurato un nuovo genere letterario surreale, che consiste nel paventare cose già avvenute, nel lanciare caveat a proposito di disastri che si erano già consumati. E non è neppure chiaro cosa li abbia spinti a subire tanto a lungo così umilianti adattamenti: l’antica disciplina comunista ? l'ancor più vecchio "tengo famiglia" ? o proprio non capivano l'irreversibilità di alcuni passaggi ? Eppure glielo spiegammo, dieci e più anni fa, che facendo nascere un partito senz'anima e retto da meccanismi plebiscitari si creavano le premesse per approdare a quella subalternità culturale che puntualmente si è poi determinata. Detto tutto questo, a me pare che il dibattito di questi giorni ruoti, tanto per cambiare, attorno alla domanda sbagliata: "perché fanno la scissione?" La domanda corretta dovrebbe essere quest'altra: "perché hanno atteso tanto ? come facevano a rimanere insieme ?" Molti sembrano non distinguere più un partito da una società commerciale. Non è che si sta insieme per vincere o per non far vincere gli altri; quello semmai può essere lo scopo di un'alleanza. Si sta in uno stesso partito (che, forse è bene rinfrescare l'etimologia, significa parte, segmento, porzione ...) se si è uniti da: a) un certo grado di adesione ad un profilo identitario, cioè ad una almeno minima visione del mondo; b) un certo grado di condivisione di alcune fondamentali priorità programmatiche; c) un livello accettabile di stima e fiducia nei confronti del gruppo dirigente. Nessun osservatore obiettivo potrebbe negare che nel caso di specie tutte e tre queste condizioni non vi sono più, e da molto tempo. Il profilo identitario comune non c’è mai stato, ma vi era un accordo tacito di rimozione del problema (il famoso “ma anche” veltroniano), che Renzi ha rotto. Ed è l’unico merito che gli riconosco. Le priorità programmatiche di Renzi sono mutuate dal programma vintage di Berlusconi, quello del 2001, che con i programmi del PD e della coalizione Italia Bene Comune c’entra come i cavoli a merenda. La disistima e la sfiducia, tra renziani e minoranza, sono reciproche e totali: ciascuno dei due pensa che l’altro, se appena potrà farlo, lo “asfalterà”. Se questa è la realtà oggettiva, è evidente che non possono stare in uno stesso partito; magari potranno allearsi, alla bisogna, sulla base di patti chiari. Patti tra diversi, quali sono. Basta il buon senso per riconoscerlo. Bastava il buon senso per evitare fin dall’inizio di iniziare una marcia verso il nulla. Luciano Belli Paci

Lavoro, unità, diritto alla felicità. Così la sinistra discute senza litigare

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Tony Wood reviews ‘Return to Cold War’ by Robert Legvold, ‘Should We Fear Russia?’ by Dmitri Trenin and ‘Who Lost Russia’ by Peter Conradi · LRB 2 March 2017

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Trump’s Strategy: il caotico disegno del presidente - Pandora Pandora

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Andrea Ermano: Il meglio del talk show

Il meglio del talk show di Andrea Ermano Per me le cavalcate ussare del professor Cacciari appartengono al me­glio del talk show italiano. Scaturiscono da una naturale intem­peran­za del carattere mediterraneo, che poi si rinfocola per il vivo disappunto, da parte dell'uomo erudito, di non riuscire a contenersi. Da un lato la tensione verso un'ideale di sé che includerebbe a rigore anche il freno inibitorio. Dall'altro lato la resa indocile a un temperamento che alla fine dell'assedio ti espugna l'animo al grido di "verità!", intimandoti di mandar tutti a quel paese. cid:image005.jpg@01D28DDD.878DC630 "Rivoluzione socialista" - Massimo Cacciari e Enrico Rossi martedì scorso a "Otto e mezzo" «Gli uomini di carattere hanno un brutto carattere», diceva Pertini, che se ne intendeva, e al quale Cacciari in fondo un poco somiglia. Quando era sindaco di Venezia, si scagliò in Piazza San Marco contro due famiglie di turisti che lanciavano briciole ai piccioni: «Mandatemi un vigile!», urlò in mezzo alla folla. «Ce ne sarà almeno uno, no? Per questi quattro deficienti». Lui è fatto così, sempre incavolato. E guai a chi ce lo tocca: «Me ne frego di Halloween! E, di festeggiarlo a Venezia, non se ne parla proprio: roba da Peschiera del Garda!»: quando rilasciò questa dichiarazione, i primi a trovarla divertente furono, naturalmente, quelli di Peschiera. Tutti gli perdonano tutto, ma le sue migliori incavolature sono quelle contro il socialismo e i socialisti. Negli anni Ottanta, il ministro De Michelis disse a Cacciari, reduce da una deludente esperienza parlamentare nel Pci: «Massimo, molte delle tue idee mi piacciono. Perché non vieni nel Psi?» Erano impe­gna­ti in un dibattito pubblico tra veneziani, mi pare. «Grazie, Gianni, della tua generosa offerta», replicò quello, «ma sono già ricco di famiglia». Chissà come si sarebbero svolte le vicende della politica e della filosofia italiana, senza quella battuta memorabile. Nel frattempo sono passate due Repubbliche. Il PSI di Bettino Craxi non c'è più da un quarto di secolo. La gente del crucifige, oggi per lo più rimpiange l'ex premier sepolto a Hammamet. Ma i "socialisti" restano un nervo scoperto. Nell'inconscio collettivo italiano continua l'interminabile tafferuglio tra indignazione e senso di colpa. Quando, qualche giorno fa, Lilly Gruber ha chiesto lumi sullo stato di salute del socialismo in Italia dopo la scissione del PD, l'ex sindaco-filosofo è esondato: «Se "socialismo" significa nostalgia di vecchie forme di welfare che erano già superate teoricamente e praticamente verso la fine degli anni Settanta, se significa conservatorismo assoluto, com'è stato durante tutta la Seconda repubblica da parte del centro-sinistra sulle questioni di riforma costituzionale eccetera, eccetera, sugli assetti amministrativi, su tutto: conservatorismo assoluto! (…) Se è questo il "socialismo", allora è chiaro che non ha nessuna prospettiva», ha esordito Cacciari. E però non si è capito bene con quale "socialista", in concreto, egli ce l'avesse. I quattro premier italiani in qualche modo riconducibili all'orizzonte del socialismo europeo – Renzi, D'Alema, Amato e Craxi – si sono spesi non poco per le "riforme", anche se talvolta con uno slancio degno di miglior causa. Né certo hanno frenato le "riforme" Napolitano, Pertini o Saragat, i tre Capi di Stato socialisti avvicendatisi finora al Quirinale. Napolitano, addirittura, ha vincolato la propria rielezione al tema delle riforme. Anche se poi, sì, il risultato è stato quel disastroso "combinato disposto" tra l'Italicum e la revisione Renzi-Boschi che tutti conosciamo. cid:image003.jpg@01D28DDD.85F572F0 "Dal Pci al Socialismo Europeo" Cacciari con Giorgio Napolitano «Dopodiché, la si chiami come si vuole, ma una politica di difesa e di promozione del lavoro e dell'innovazione, di difesa dei giovani, di difesa dell'occupazione, una politica di reddito garantito per ragioni di fondo, storiche, perché siamo in un sistema sociale ed economico che lavora e funziona a riduzione del tempo di lavoro necessario, e quindi non è che possono sopravvivere soltanto i finanzieri, gli economisti e i creativi», ha aggiunto il professore: «Perché ci sono grossissimi problemi nuovi da affrontare… E allora se una forza che affronta questi problemi vuole chiamarsi "socialista", si chiami "socialista"!». Oibò, nulla è scontato, ma questo l'avevamo capito anche noi, dopo gli otto anni trascorsi alla Casa Bianca dal socialdemocratico Obama, dopo che il socialista americano Bernie Sanders si è rivelato essere il candidato preferito dalle giovani generazioni USA, dopo che il socialista portoghese António Guterres è stato eletto Segretario generale dell'ONU, e dopo l'avvento al soglio petrino di Francesco, pontefice della questione sociale globale, anche se sua eminenza il card. Camillo Ruini – in tutt'altre faccende affaccendato – fa il nesci. Che gli importava se c'era una legge dello Stato, confermata dal 70% degli italiani nel referendum del 1981? Il card. Ruini, quando fu giunto alla guida della CEI, intensificò la strategia "informale" dei "disincenti­vi economici e di carriera" in grado di "convincere" i ginecologi italiani all'obiezione di coscienza. La quale salì dal 58,7% del 2005, al 69,2% del 2006, al 70,5% del 2007, al 71,5% del 2008, con punte di oltre il 90% in alcune regioni. cid:image004.jpg@01D28DDD.85F572F0 Alleati storici: Berlusconi e il card. Ruini Disse una volta Loris Fortuna, con grande pacatezza e ironia: «Se gli alti prelati rimanessero "incinti", l'interru­zione di gravidanza sarebbe "un sa­cra­mento"». Ecco, al coraggio delle idee di quel socialismo dobbiamo tornare. E, in effetti, in quella dire­zione va la sterzata a sinistra del Labour di Jeremy Corbyn, la vittoria di Benoît Hamon alle primarie del PSF, l'impennata di consensi della SPD di Martin Schulz e, anche, perché no, la "Rivoluzione socialista" argomentata dal gover­natore toscano Enrico Rossi mentre esce, insieme a Pierluigi Bersani, da quello che loro ormai definiscono il "Partito di Renzi" (PdR). Il quale Renzi, tuttavia, rivendica anch'egli, ogni volta che può, il proprio ruolo decisivo nell'adesione del PD alla grande famiglia del Socialismo Europeo, dove la sinistra cristiana per altro si sente ormai a casa. Dopodiché, in tema di socialismo e socialisti, rispunta sempre in Italia una coda di paglia incredibile. Ed è forse in questa chiave che si comprende la conclusione di Massimo Cacciari: «Ma il termine "socialista", chiara­mente, appartiene al Novecento. In tutti i sensi. È chiaro. E le forze che vogliono rimanere aggrappate a quello che quel termine significava sono spacciate, come sta avvenendo». «Ma Bernie Sanders, col suo socialismo rooseveltiano, non è stato propriamente spacciato», gli ha ribattuto Rossi. «Veramente ha perso», è stata la controreplica di Cacciari. «Ha perso, però ha preso tanti voti», ha tenuto fermo Rossi. «Ecco, tanto basta: prendere i voti», ha osservato Cacciari. «Ma da quando la sinistra pensa che dobbiamo soltanto "vincere", si è condannata regolarmente a perdere, sempre di più», è stata la stoccata finale di Rossi. Touché. Insomma, la "questione sociale" ha riconquistato il centro della scena: la difesa del lavoro, delle giovani generazioni, del salario di garanzia... Temi che si diffondono, nuovamente, tra le barbe dei filosofi come pure tra le vaste masse del ceto medio occidentale instradato sulla via della decadenza. Quindi non importa quale termine userete per evitare di pronunciare la parola "socialismo". Ciò che importa davvero è che: o socialismo o forconi. E questo oggi ormai, in un modo più o meno esplicito, lo ammettono tutti. Poi si vedrà.

mercoledì 22 febbraio 2017

Attacks on foreign aid show the worst form of populism, warns David Miliband | LabourList

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L'Ecuador del dopo Correa | Global Project

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facciamosinistra!: Germania al voto: un programma per la sinistra

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Referendum senza data, il governo latita

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Dopo il PD. Alla ricerca di una sinistra opponibile - Eddyburg.it

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Restituire sovranità ai cittadini, la democrazia parlamentare rappresentativa è in pericolo | Antonio Caputo

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martedì 21 febbraio 2017

Hulala - Les socialistes hongrois tournent le dos au social-libéralisme

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Hamon in viaggio, a lezione di sinistra in Europa

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Torna in scena lo scontro sul debito greco | N. Borri

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La buona politica, non si esaurisce in una leadership.. | movimentimetropolitani

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Paolo Bagnoli: Quale socialismo

Da critica liberale quale socialismo paolo bagnoli La fine del Partito Socialista Italiano non ha portato con sé anche quella dei socialisti che ci sono un po’ in tutta Italia raccolti in circoli, gruppi, attorno a riviste; tutti desiderosi che qualcosa di serio rinasca, ma tutti paralizzati dall’incapacità di parlarsi come si deve e all’altezza del tema in oggetto. Recentemente da uno dei pianeti di questo frammentato microcosmo è stata riproposta la figura di Filippo Turati nel tentativo di stimolare l’avvio di una discussione culturale propedeutica a uno sviluppo positivo della questione politica. Il fatto è meritevole d una qualche attenzione per due sostanziali motivi: il primo riguarda la conoscenza del leader fondativo del socialismo italiano; il secondo perché il solo riferimento a Turati evoca, subito, suggestioni che interrogano il nostro presente e, tanto più, ciò vale per chi continua a credere, nonostante le repliche amare della nostra storia recente, che il problema del socialismo in Italia continui a essere all’ordine del giorno. E lo è tanto più se si vede come una rinascita ideale-politico-organizzativa non solo stenta ad alzare la testa, ma, pregiudizialmente, a porsi nella condizioni per cercare di rialzare la testa. Le osservazioni un po’ fanciullesche che, in perfetta buona fede peraltro, ogni tanto si alzano da questi ambienti per ammonire che uno spazio di ripresa ci sarebbe, non costituiscono un dato politico. In politica, infatti, lo spazio c’è sempre che lo si sappia conquistare e non è sufficiente lanciare una qualche iniziativa perché ciò avvenga. Occorre programmare un progetto che segua organicamente all’intenzione e le possibili, subito agguantabili, soluzioni organizzative, sono solo una corsa sul posto. Occorre all’intenzione far seguire la chiarezza sulle idealità, su come si vuole stare nella storia, quali forze si vuole rappresentare; significa fare dell’intenzione un progetto politico e muoversi lungo la definizione che ci offre un pensiero compiuto. E, significa altresì, puntare a dare forma al soggetto che non può essere il vecchio Psi travolto dal craxismo ma dalla vicenda del Psi, il soggetto storico per eccellenza del socialismo italiano non si può nemmeno prescindere in un rapporto serio di continuità di funzione storica e di innovazione metodologica. Naturalmente occorrono idee che tengano conto della lotta che occorrerebbe aprire nel presente storico che viviamo senza, con ciò, inseguire il presentismo poiché la rinascita del 060 20 febbraio 2017 11 socialismo in Italia implica una non ineludibile scommessa con la storia. Una scommessa duplice in quanto a essa è legata la più generale questione della sinistra; di quella vera, anch’essa cancellata soprattutto per responsabilità delle scelte compiute dai postcomunisti dalla fine del Pci in poi. Crediamo che una delle ragioni per cui nulla di effettivamente fattuale esista per ricostituire un soggetto socialista dipenda dal fatto che ancora non siano stati fatti seriamente i conti con la stagione di Bettino Craxi. Questo grumo irrisolto impedisce di avere quella pagina bianca su cui scrivere una nuova storia nonostante che l’insieme della vicenda stessa del Psi offra un canone storicamente e culturalmente alti, tali da permettere di avere un riferimento complessivo, ricco e articolato, per una ripartenza negli anni 2000 anche se la storia non si ripete e il passato non si cambia. Il discorso, naturalmente, è complesso e richiede intima consapevolezza di cosa esso voglia dire; una consapevolezza che, al momento sicuramente non c’è. Come non mai, nel caso dello specifico socialista, il rapporto tra passato e presente si impone. La vicenda del Psi ci consegna, infatti, un messaggio sociale e pure un contributo di identità che, se viene smarrito o messo in second’ordine, tutto riduce alla miseria dello smarrimento odierno. Infatti, se guardiamo bene, la questione socialista italiana ci sembra come incistata nel solo dover rendere omaggio a Craxi e alla tragedia umana che ha sofferto e che lo ha travolto. Così non si va da nessuna parte e, infatti, tutto è praticamente fermo. Non crediamo al tacitismo, ma senza saper leggere il passato, non solo non si governa il presente, ma si perde di vista – cosa fondamentale in politica – che l’oggi deve ragionare e incidere in funzione del domani. Se ciò non avviene dallo smarrimento si passa all’abdicazione di se stessi e dei propri ideali che è quanto è successo e sta succedendo, pur con gradazioni diverse, al socialismo europeo. La negatività indotta dal blairismo rischia di essere un virus da cui risulta difficile guarire poiché esso cancella del socialismo quella che è la sua ragione, ossia l’alternativa al capitalismo; tanto più alternativistico quanto più questo è barbarico. In fondo l’arrivo di Corbyn in Inghilterra e il farsi avanti di Hamon in Francia, al di là dei risultati legati alle rispettive situazioni, ci dicono della volontà socialista nei due Paesi di recuperare il socialismo alla sua funzione naturale di forza di sinistra, non di cogestione compassionevole del mercato senza regole. E dove il socialismo non assolve al proprio ruolo ecco che, come in Spagna e in Grecia, sorgono forze con la storia nel presente, ma non nella Storia, che ne surrogano la funzione; ma, piacenti o nolenti, il socialismo sta, per molteplici ragioni, solo nei partiti socialisti. Diverso è il caso della Germania ove sembra dato per scontato che Spd e Cdu continueranno, anche dopo le 060 20 febbraio 2017 12 prossime elezioni, nel governo del Paese avendo i socialdemocratici escluso che, anche se ci fossero i numeri, di dar vita a un’alleanza di sinistra. Per il popolo tedesco probabilmente è giunta l’ora di cambiare la guida del governo. Forse nasce da qui l’ascesa della Spd nei sondaggi. Di Filippo Turati, visto che è da lì che partono queste riflessioni, occorrerebbe tenere presente due cose che, quando si parla di lui, vengono sempre ignorate preferendo ricorrere alla formula trita del “riformismo”; un termine che identifica un metodo legalitario di lotta politica. Parlare di “riformismo” ha veramente poco senso oggi poiché non si sa più cosa la parola voglia dire. Per lo più essa è usata oramai da destra e da sinistra per celare un vuoto di identità e di proposta. Di Turati si dovrebbe ricordare, invece, che egli definiva il socialismo quale “rivoluzione sociale” sostenendo che era dovere dei socialisti avere una risposta per ogni problema sociale e politico che si presentava e doveva essere affrontato. Ci sembra un lascito su cui vale la pena di riflettere. Infatti, se ci pensiamo bene, se si vuole provare seriamente a ridare avvio a un processo di ricostruzione vera del socialismo italiano che non si riduca solo ad un’accolita di reduci o a un’adunata dei refrattari, è un po’ difficile sfuggire a ciò. Nagib Mahfuz, egiziano, Premio Nobel per la letteratura nel 1988, ha scritto: «Prima o poi tornerà il socialismo. Il socialismo non morirà mai». Ne siamo convinti anche noi anche se non è poca la differenza tra il prima e il poi.

sabato 18 febbraio 2017

Pd: l’inevitabile crepuscolo della “fusione fredda” | il Blog della Fondazione Nenni

Pd: l’inevitabile crepuscolo della “fusione fredda” | il Blog della Fondazione Nenni

Socialdemocratico? Da eresia di destra a eresia di sinistra | Avanti!

Socialdemocratico? Da eresia di destra a eresia di sinistra | Avanti!

Franco Astengo: Le ragioni della scissione

LE RAGIONI DELLA SCISSIONE di Franco Astengo Al di là dell’esito concreto della vicenda interna al PD (che ci sia o non ci sia la scissione) è il caso di indagare a fondo la situazione che si sta profilando ricercandone le cause: 1) Primarie: istituzionalizzazione del sacrificio e del tragico senso di colpa che non trova una possibile riconciliazione. Da qui l’origine “vera” della scissione non tanto a livello di singoli ma a dimensione “sistemica” come si cercherà di argomentare. 2) Le primarie diventano il momento della legittimazione mitica che consegna a una persona la segreteria del partito, il controllo degli organismi dirigenti, il potere di nomina dei parlamentari e la guida del governo, l’elezione del capo dello Stato. Congiunte al premio di maggioranza, le primarie in astratto rendono possibile un comando assoluto che s’insinua, a partire dai riti del gazebo, in ogni ambito del potere pubblico (Il nuovismo realizzato di Michele Prospero.) Un comando assoluto che segna il confine tra il partito leaderistico (il PSI di Craxi), il partito – azienda con un capo (Berlusconi) e il partito personale (PdR) 3) Ancora una volta si dimostra come le forme della politica abbiano regole invalicabili che quando si superano attuando forzature più o meno forti, come nel caso dell’attualità, alla fine si rivelano pericolose per l’equilibrio degli assetti democratici. Per questo motivo l’eventuale scissione del PD (che se fosse mancata lo sarebbe soltanto per un atto di mero opportunismo) presenta in sé una sua razionalità: appare tutt’altro che inspiegabile proprio perché origina da un’evidente forzatura attuata in partenza, fin dai tempi dei plebisciti al riguardo delle candidature Prodi e Veltroni. Plebisciti, infatti, e non primarie “all’americana”. Plebisciti che consegnano un indiscutibile “potere di nomina”. Nonostante l’esito del referendum del 4 Dicembre non è stato ancora sventato il pericolo di una codifica formale di un regime personalistico – autoritario che si intendeva e si intende realizzare in Italia sulla base di assunti dettati da poteri economici e finanziari esterni al sistema politico e ispirati nella sostanza dal documento di Rinascita democratica stilato dalla loggia massonica segreta P2 nel 1975. Sulla base di questi primi punti fermi è necessario indagare a fondo il fenomeno della personalizzazione così come questo si è realizzato nel corso degli ultimi decenni all’interno del quadro complesso del sistema politico italiano. Scrive Rossana Rossanda: “ Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona cui collegarsi che un’idea”. Questo fatto avviene in un momento di crisi profonda delle identità collettive e di vera e propria destrutturazione dell’agire politico ormai diluito nei rivoli del corporativismo. Un fenomeno chiarito già negli anni centrali del “secolo breve” da Max Weber che, preso atto dell’esistenza di una tensione verso un legame rivolto al riguardo del leader da parte delle masse in ragione della ricerca del successo e quindi dell’esigenza di controllo del potere, spiegava come in assenza di una forte spinta ideale viene a mancare una capacità d’interpretazione degli eventi. Sottolinea Weber, con un’affermazione di straordinaria attualità legata proprio al “caso italiano”: “ anche sui trionfi politici esteriormente più efficaci pende la maledizione della nullità”. Sembra proprio la fotografia del PdR all’indomani del vantato (e inesistente) 40,8% alle elezioni europee del 2014. Inesistente perché pochissimi hanno valutato quel risultato per quel che valeva anche sul piano numerico, drogato dall’astensione più elevata nella storia della Repubblica. Quello della presenza o dell’assenza della spinta ideale rappresenta il confine tra la direzione vera di un’organizzazione di massa che può anche essere interpretata da un soggetto identificato personalmente e il demagogo vanitoso che ride, recita, s’immerge nella finzione e la scambia egli stesso per il vero. I partiti tramontavano e la nuova parola magica “leadership” risuonava nel mondo della politica italiana e procedeva senza che a nessuno venisse in mente un controllo analitico del suo significato. Un’analisi non fatta che avrebbe dovuto svilupparsi, invece, attorno ad un punto: “il potere della persona” in Occidente rappresenta, in un’interpretazione di lungo periodo, una perdita secca rispetto a secoli di storia politico – giuridica occidentale che hanno separato la persona fisica dal potere. Quando, da parte di analisti tacciati di eccessivo pessimismo, si accenna a un “arretramento storico” in atto è proprio a questo tipo di fenomeni cui si fa riferimento. Un fenomeno del tutto diverso da quello, ad esempio, della solitudine del presidente americano che, come sottolinea Mauro Calise nel suo fondamentale “Il partito personale”: “trascende sì la funzione rappresentativa e concentra una grande autorità di comando ma questa è protetta, come accade nei sistemi sviluppati, da istituzioni complesse, da organizzazioni pubbliche che funzionano come procedure”. Tutto questo non è inteso dalla personalizzazione all’italiana che discende dall’idea mal interpretata delle “vocazione maggioritaria” e dal conseguente meccanismo di primarie intese come plebiscitanti. Su questi punti avviene la scissione: una rottura di fondo tra il soggetto che intende incarnare il plebiscito e il sistema democratico. Ben oltre a ciò che accadrà nella dimensione ridotta del PD tra chi entrerà e chi uscirà dalla porta girevole, tra un Pisapia che entra, un D’Alema che esce e un po’ di tremebondi che restano sull’uscio. I nodi verranno sicuramente al pettine e le scissioni dalla realtà si misureranno con il concreto.

facciamosinistra!: Pd, il partito sbagliato

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Le incognite della riforma elettorale

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lunedì 13 febbraio 2017

facciamosinistra!: I miti del capitalismo neoliberista. Intervista a Ha-Joon Chang

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A SINISTRA QUALCOSA SI MUOVE di Rino Genovese – Dalla parte del torto

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LE DUE "ANIME" DI PODEMOS - T.Ferigo e F.Olivo - la vittoria di Pablo Iglesias al Congresso - | Sindacalmente

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Iglesias, Errejón, and the Road Not Taken | Jacobin

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DIFFICILE CHE PRODI JR (PISAPIA) CE LA POSSA FARE - GLI STATI GENERALI

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PABLO IGLESIAS STRAVINCE E CONTROLLERà PODEMOS FINO AL 2020 - GLI STATI GENERALI

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STEINMEIER, UN PRESIDENTE CONTRO LE PAURE DELLA GERMANIA (E DELL’EUROPA) - GLI STATI GENERALI

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venerdì 10 febbraio 2017

The Long Affair Between The Working Class And The Intellectual Cultural Left Is Over

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Without Social Democracy, Capitalism Will Eat Itself

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Franco Astengo: Le motivazioni della Corte

LE MOTIVAZIONI DELLA CORTE di Franco Astengo Non ha provocato particolare sorpresa la lettura delle motivazioni addotte dalla Corte Costituzionale per pronunziare, lo scorso 25 Gennaio, la sentenza nel merito del ricorso avverso la legge elettorale “Italikum”. Nel testo, infatti, si ravvedono i principali elementi già contenuti nel comunicato che aveva – appunto- annunciato l’emanazione della sentenza stessa, con la conferma di due elementi di fondo: la legge elettorale così come modificata dalla sentenza è immediatamente utilizzabile per l’elezione della Camera dei Deputati ma stante la bocciatura della modifica del Senato nel referendum, la legge stessa è da “armonizzare” con quella che regge il meccanismo elettorale per la Camera Alta. Su questo elemento si è scatenato il politicismo di basso profilo che contraddistingue l’insieme dei soggetti presenti nel sistema politico italiano: un politicismo di basso profilo alimentato anche dalla mediocre qualità dei commenti giornalistici tutti improntati al tema della “governabilità” ancora una volta erroneamente intesa come punto esaustivo dell’agire politico. Invece l’occasione sarebbe buona per riprendere altri due elementi fondamentali: il primo riguardante la necessità che la legge elettorale si inquadri in un discorso complessivo di filosofia politica,com’era avvenuto del resto da parte dell’Assemblea Costituente nel tracciare le linee dell’impianto istituzionale della nuova Italia Repubblicana: senza che, del resto, la stessa Assemblea includesse la legge elettorale all’interno del testo costituzionale. Il secondo che concerne la necessità che la legge elettorale stessa non risponda alle esigenze del momento delle forze politiche, o addirittura (com’era avvenuto sia per la legge del 2005 sia per l’Italikum) della maggioranza di governo. L’elaborazione di una legge elettorale richiede quindi l’espressione di una filosofia politica e deve muoversi su di un asse strategico di valutazione sistemica. La legge elettorale rappresenta il cardine del sistema politico e come tale andrebbe trattata attraverso valutazioni di respiro “storico” traguardando le prospettive di un’intera fase politica. Invece si esprime proprio questo appena definito “politicismo di basso profilo: si tratta dell’ennesima dimostrazione di un ritardo accumulato da anni nella capacità di sviluppare un’analisi di fondo sulle forme e le strutture dell’agire politico. Un’analisi di fondo che pare proprio impossibile riuscire a far decollare. La realtà della profonda crisi economica e sociale richiederebbe, prima di tutto, un salto di qualità sul piano culturale, attraverso l’avvio di un serio tentativo di ricostruzione di una sintesi progettuale. Una sintesi da realizzarsi riuscendo a oltrepassare le espressioni correnti dell’individualismo dominante (frutto dell’approccio neo-liberista ormai introiettato, fin dai primi anni’90 del XX secolo, anche dalla sinistra italiana di tradizione socialista e comunista: salvo alcune eccezioni rimaste minoritarie). E’ stato attraverso le espressioni dell’individualismo che si sono affrontate, almeno fin qui, le cosiddette contraddizioni “post-materialiste”. Quelle contraddizioni “post-materialiste” che Inglehart, fin dal 1997, ha definito come “le scelte sullo stile di vita che caratterizzano le economie post-industriali”. Oggi, proprio nella realtà della crisi globale (della quale, almeno in questa sede, non enucleiamo le caratteristiche specifiche per evidenti ragioni di economia del discorso) reclama il ritorno all’espressione di valori orientati, invece: “ alla disciplina e all’autolimitazione, che erano stati tipici delle società industriali”. Appaiono evidenti le esigenze che sorgono nel merito della programmazione, dell’intervento pubblico in economia, della redistribuzione del reddito, dell’eguaglianza attraverso l’espressione universalistica del welfare, del ritorno anche ad una diversa dimensione concettuale sul terreno della geopolitica e del rapporto fra le dinamiche che si stanno muovendo in questo senso e i processi di monetarismo e di finanziarizzazione dell’economia venuti avanti nel corso degli anni che ci separano dalla caduta del bipolarismo tra le superpotenze fino al rimescolamento del quadro internazione oggi già in atto. Dal nostro punto di vista il tema della legge elettorale risulta, così, strettamente collegato a quello di una presenza politico-istituzionale capace di elaborare quel “progetto di sintesi” cui ci siamo già riferiti. Perché questo stretto legame? Ripercorriamo velocemente le caratteristiche dei due principali sistemi elettorali: il maggioritario (nella cui direzione ci si è rivolti, In Italia, al fine di costruire un artificioso bipolarismo) e il proporzionale. L’idea del maggioritario è stata frutto, al momento dell’implosione del sistema politico nei primi anni’90 del XX secolo, di una vera e propria “ubriacatura ideologica”, strettamente connessa alla già citata ondata liberista: non si sono avuti risultati sul terreno della frammentazione partitica e su quello della stabilità di governo. Inoltre il maggioritario ha aperto la strada allo svilimento nel ruolo delle istituzioni, alla crescita abnorme della personalizzazione (fenomeno che ha colpito duramente a sinistra, al punto da renderla in alcune sue espressioni di soggettività del tutto irriconoscibile), alla costruzione di quella pericolosissima impalcatura definita “Costituzione Materiale” attraverso l’esercizio della quale si tende verso una sorta di presidenzialismo surrettizio, all’allargamento del distacco tra istituzioni e cittadini. Si è poi tentato, arbitrariamente, di tradurre quella “Costituzione Materiale” in un’idea, del tutto raffazzonata dei modifica costituzionale nel tentativo di superare la centralità del Parlamento e di imporre un regime personalistico, ma com’è ben noto il voto popolare ha respinto questa ipotesi aprendo una grave crisi nei soggetti che in maniera del tutto arbitraria avevano provato questa pericolosa forzatura. Il sistema proporzionale, quello “vero” (non certo quello viziato dal premio di maggioranza) è stato accusato d rappresentare, nel passato recente della storia d’Italia, il veicolo di quel consociativismo considerato l’origine di tutti i mali del sistema politico, inefficienza e corruzione “in primis”. Rivolgiamo, allora, a tutti una domanda: il sistema misto usato, in due diverse formule, tra il 1994 e il 2013 ha forse contribuito a ridurre inefficienza e corruzione? Non crediamo proprio, considerata l’attenta lettura delle cronache di questi anni. Anzi, alla fine, dopo la chiusura di una esperienza di egemonia del populismo di estrema destra si è avuto addirittura quel tentativo di stretta autoritaria cui si è già fatto cenno. Cogliamo quindi l’occasione per esprimere una valutazione del tutto favorevole al sistema proporzionale:facciamo riferimento, tanto per intenderci, al sistema elettorale usato in Italia dal 1953 al 1992, che pure presentava all’interno una soglia implicita d’accesso con i 300.000 voti da conseguire sul piano nazionale e un quorum pieno in una circoscrizione e un vantaggio per i partiti maggiori. La DC e il PCI pagavano infatti un deputato circa 50.000 voti mentre i partiti “minori” all’incirca 100.000 voti per deputato. Quello proporzionale rappresenta un sistema fondato necessariamente sul ruolo dei partiti, quali componenti fondamentali di una democrazia stabile. Adottato oggi costituirebbe fattore non secondario di ricostruzione di un sistema politico ormai imploso e impazzito, non più credibile per la grande maggioranza dei cittadini. Inoltre lo scrutinio di lista con preferenza esige, necessariamente, un diverso equilibrio tra le candidature, affrontando così il tema del decadimento complessivo della classe politica. Interessa, però, soprattutto il legame tra sistema elettorale e struttura dei partiti. E’ questo il punto fondamentale del discorso che intendiamo sostenere in questa sede: il sistema, per recuperare il dato fondamentale della capacità di rappresentanza, ha bisogno di adeguate soggettività politiche che, proprio alla presenza di un’articolazione così evidente nelle richieste della società, produca reti fiduciarie più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni, in grado di essere produttrici e riproduttrici di capitale sociale, di allentare la morsa del particolarismo dilatando anche le maglie delle appartenenze locali e rilanciando il “consolidamento democratico”. Un’ultima annotazione riguardante le motivazioni rese pubbliche dalla Corte nel merito del premio di maggioranza che viene giudicato congruo in quanto subordinato “ a una soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata”. Sotto quest’aspetto è necessario ricorrere a un precedente storico: il premio di maggioranza previsto dall’Italikum è lo stesso che era stato previsto dalla “legge truffa” del 1953, il 15%. Con una differenza fondamentale: in questo caso, dell’Italikum a turno unico si tratterebbe di un “premio di minoranza” in quanto legato al raggiungimento del 40% (e se si pensasse di ricorrere alle coalizioni anziché alla lista il 40% rimarrebbe comunque intatto); nel caso della “legge truffa” del 1953 si trattava, invece, di un vero e proprio “premio di maggioranza” in quanto la coalizione vincente avrebbe dovuto superare il 50% dei voti validi. In quel tempo si pose il problema dell’attribuzione del 65% dei seggi come fu previsto dalla legge e non si verificò per l’esito del voto, una percentuale che avrebbe potuto consentire alla DC di mantenere la maggioranza assoluta dei seggi. Un fattore decisivo per provocare la scissione di socialdemocratici, repubblicani e liberali con la conseguente formazione di Unità Popolare di Parri e Calamandrei e dell’Alleanza Nazionale di Epicarmo Corbino, due soggetti che con l’USI di Cucchi e Magnani contribuirono – appunto – al mancato conseguimento da parte dell’alleanza centrista del premio pur non realizzando il “quorum” necessario per poter aver accesso ai seggi parlamentari. Tutto questo a futura memoria, ribadendo l’assoluta contrarietà a qualsivoglia premio di maggioranza predeterminato. Serve, in ogni caso, anche sul terreno delle regole istituzionali una proposta di vera alternativa.

lunedì 6 febbraio 2017

Franco D'Alfonso: Meno tasse per Totti | movimentimetropolitani

Meno tasse per Totti | movimentimetropolitani

Paolo Bagnoli: Verso la vera accozzaglia

Da Critica liberale verso la vera accozzaglia paolo bagnoli È una vecchia legge del politico che le leggi elettorali sono espressione della rappresentanza di un Paese istituzionalmente e comunitariamente pensato e, quindi, esse vengono dopo questa prima fondamentale fase e ne sono, o ne vogliono essere, la conseguenza. In ogni caso,per quanto rilevante sia la loro funzione, sono strumenti tecnici che attuano un’idea del Paese nella relazione tra rappresentanza e statualità. In Italia, dal momento che dopo Tangentopoli è mancato del tutto un pensiero ricostruttivo del Paese ed essendo venuta meno, a seguito della cancellazione dei partiti quali soggetti attivi e mediatori della democrazia, ogni responsabilità vera nonché funzione propria della classe politica, si è pensato che alla rinuncia del richiamato pensiero potesse sopperire lo strumento elettorale; che da esso potesse nascere quel sistema politico nuovo che una politica assente non aveva il coraggio di ricreare; in altri termini, che la soluzione tecnica potesse risolvere quella politica. Come sappiamo non è così e le nostre vicende lo hanno ampiamente dimostrato. Con il Mattarellum, che a dispetto delle leggi elettorali successive si qualifica come la migliore legge elettorale italiana del post Tangentopoli, si è cercato di salvare il “centro” salvo poi, tramite l’Ulivo e la stagione di Prodi, passare dal concetto del centro a quella della centralità nel senso di far assumere alla coalizione inglobante i democristiani di sinistra una centralità formatasi attorno a una candidatura a premier il nome del cui candidato, forzando in modo plateale la Costituzione, appariva addirittura sulla scheda. Si è cercato di cementare un polo che consolidasse un sistema chiamato “bipolarismo di coalizione”. I risultati di tale miopia sono noti e Silvio Berlusconi, se ha governato per oltre 3300 giorni, non potrà mai stancarsi di ringraziare. Successivamente, sull’onda della deriva del bipolarismo, è arrivata la vergogna della legge Calderoli che ha segnato il punto massimo del degrado politico-istituzionale del Paese. Benché bocciata dalla Corte essa, tuttavia, qualcosa ha lasciato, alla fase del renzismo: il lascito è confluito nel progetto elettorale del governo Renzi su cui, qualche giorno orsono, si è espressa la Corte. 059 06 febbraio 2017 5 In questa teoria di continuità si ritrovano i segni dell’impasse nel quale siamo; essi ci danno la conferma di una vecchia regola secondo la quale alla crisi della politica segue sempre quella del diritto. Il lascito più evidente è che si “costituzionalizzi” che vi siano ben 100 parlamentari nominati; una vergogna tanto più che la Corte, così, contraddice la parola e lo spirito della Costituzione che deve salvaguardare e, di conseguenza, il significato del voto e della rappresentanza. Inoltre, considerato che un nominato può godere della candidatura in ben 10 collegi, per determinare in quale di essi risulti eletto, nel caso di elezione plurima, si è riandati a ripescare la legge n.361 del 1957, ossia l’art.85 del Testo unico per l’elezione della Camera dei deputati che contempla, nel caso di elezione multipla, il sorteggio. Una norma che non ci risulta essere mai stata applicata, mentre sarebbe stato corretto limitare il numero dei collegi nei quali uno si può candidare lasciando poi all’eletto la libertà di opzione. L’altra questione riguarda il premio di maggioranza, l’architrave su cui Renzi puntava tramite lo strumento del ballottaggio che è stato smontato con buona pace dell’ex-presidente del consiglio. Ora, se pure esso è previsto che scatti sopra una soglia altissima, difficilmente raggiungibile da chiunque da solo, non è detto che non lo possa essere attraverso una rete di alleanze. Comunque, anche se il caso non si verificasse, la sola sua possibilità è un’altra vergogna della rappresentanza; lo è da un punto di vista morale; lo è da un punto di vista politico poiché la governabilità è data dalla politica e dalle maggioranze che la sostengono, non dai numeri assoluti dei seggi. Esperienze, anche recenti, ve ne sono e di ben significative. L’impressione è che – ma vedremo la sentenza che motiva il parere – vi sia stato, sotto il manto del formalismo giuridico, la ricerca di un pareggio tra il mantenimento dei capilista nominati e l’abolizione del ballottaggio. A proposito di quest’ultimo tanti commentatori hanno fatto rilevare perché sarebbe stato incostituzionale quello dell’Italicum e non lo è, invece, quello per l’elezione dei sindaci e dei presidenti di regione. La ragione è molto semplice: comuni e regioni godono di un sistema elettorale di stampo presidenziale, il governo della Repubblica, invece, ha un fondamento parlamentare. Sergio Mattarella ha chiesto l’armonizzazione delle norme elettorali tra Camera e Senato, ma per arrivarvi, occorre modificare una legge mai applicata – il cosiddetto Consultellum – la quale, proprio per un’ indicazione della Corte del 2014, prevede che il Parlamento indichi di introdurre la preferenza unica per i senatori contemplando diverse soglie di accesso e incentivando le coalizioni. Infatti, i partiti che corrono da soli devono superare l’8% a livello regionale mentre quelli coalizzati, qualora la coalizione raggiunga il 20% nella Regione, entrano al Senato anche se superano la soglia del 3%. Balza subito agli occhi come tale logica cozzi con quella dell’Italicum rivisto che segna il ritorno a un sistema sostanzialmente proporzionale. Il Parlamento deve rimetterci le mani a meno di non 059 06 febbraio 2017 6 smentire il richiamo di Mattarella. Questo, al momento, sembra il problema e non quello delle elezioni il prima possibile, sul quale Renzi monta tutta la panna possibile; problema serio anche se Renzi riuscisse, ma non ne siamo molto convinti, a far cadere Gentiloni per avvicinare le urne. Il Paese, insomma, non può restare prigioniero del Pd e dei suoi problemi e vogliamo sperare che il Presidente della Repubblica – che già al Pd, con il governo Gentiloni, ha concesso tanto – faccia peso ritto salvaguardando le proprie prerogative e il dettato costituzionale in merito al rapporto tra governo e Parlamento. Sul pronunciamento della Corte vi era, giustamente, una trepidante attesa poiché, in generale, dopo la dichiarazione di illegittimità della legge Calderoli ci si aspettava che anche la legge Renzi venisse respinta e si riaprisse un qualcosa di serio sul sistema elettorale. Così però non è stato e qualcuno ha parlato di “minimo sindacale”, ossia di un parere costituzionalmente minimale quasi che anche nelle stanze austere e dorate della Consulta il vento gelido e sferzante di un clima stressato dalla voglia di rivincita di Matteo Renzi si sia fatto sentire e pure con una certa forza. Ciò non autorizza a dire che la Corte abbia ceduto alle attese di Renzi, ma un clima politico agitato e sbiadito, al contempo, del Paese ha avuto il suo peso. La Corte giudica interpretando la Costituzione ed è chiaro che l’atmosfera del momento si fa sempre sentire e può accadere che le interpretazioni possano essere le più varie. In un sistema fragile non sempre si può pretendere di avere organi forti. Ciò vale per tutti e anche per la Corte. Infine, un’osservazione. La nuova legge elettorale prevede che si arrivi a coalizioni. Le manovre sono già iniziate e, probabilmente, sarà un altro capolavoro italiano veder appellato un acrocoro formato da Renzi, Alfano, Verdini, Casini quale “centro-sinistra”; speriamo che almeno questa ce la risparmino. Giuliano Pisapia, all’opera per raccogliere la sinistra dei salotti, ha fatto sapere che non ci starebbe; ma il suo campo, dopo l’iniziativa di Massimo D’Alema, sembra tramontato prima ancora di nascere. Tutto il quadro è gravato da nebbie spesse; ragionare sugli sviluppi è difficile. L’unica cosa certa è che la politica non ha interrotto il cammino del tramonto.

Europe's Centre-Left Risks Irrelevance

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facciamosinistra!: Gramsci o Laclau? I dilemmi di Podemos

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Livio Ghersi: Occorre un pensiero, che supporti la legge elettorale - nuovAtlantide.org

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Janiki Cingoli: Lo stop di Trump ai nuovi insediamenti israeliani

Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui Image Lo stop di Trump ai nuovi insediamenti israeliani di Janiki Cingoli, Direttore CIPMO Il brusco stop di Trump al continuo annuncio, da parte del Governo israeliano, di nuove costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania e ad est di Gerusalemme ha colto di sorpresa solo coloro che avevano abbracciato senza esitazione la versione di un Trump oramai legato mani e piedi ai più oltranzisti settori della destra israeliana e dei coloni. In realtà Trump vuol mantenere ben chiaro per sé il bastone del comando, chiarendo bene chi guida e chi deve farsi guidare. "Il desiderio Americano di giungere alla pace tra israeliani e palestinesi è rimasto immutato per 50 anni - inizia la dichiarazione, con un chiaro riferimento alla situazione esistente al momento della Guerra dei sei Giorni, svoltasi nel '67, e quindi ai relativi confini. "Mentre non crediamo - continua la dichiarazione - che la esistenza degli insediamenti sia un impedimento alla pace, la costruzione di nuovi insediamenti o l'espansione degli insediamenti esistenti oltre agli attuali confini - altro riferimento ai confini del '67 - può non essere di aiuto al raggiungimento di tale scopo" Dopo aver ribadito il desiderio del Presidente di raggiungere la pace in Medio Oriente, si ricorda che la nuova Amministrazione non ha ancora assunto una posizione definite sulle attività connesse agli insediamenti e intende continuare la discussione, anche in vista della prossima visita di Netanyahu a Trump, prevista per il prossimo 15 febbraio. Il New York Times, arriva a titolare forse esagerando, che "Trump abbraccia i pilastri della politica estera di Obama". Ma già nei giorni scorsi, sul quotidiano on line Al-Monitor, veniva segnalato lo scontro in atto tra due linee della Nuova Amministrazione Usa, quella, più estremista e legata alle organizzazioni dei coloni israeliani, rappresentata dal "cerchi magico" vicino al Presidente, e quella più cauta e legata alla posizione tradizionale USA, favorevole alla soluzione del conflitto a due stati, l'uno israeliano l'altro palestinese, espressa dal Dipartimento di Stato, guidato da Rex Tillerson, e dal nuovo Segretario alla difesa, James Mattis. È l'attitudine più cauta che sembra aver prevalso. L'opzione più probabile, è che Trump scelga di ricollegarsi alle posizioni espresse nella famosa lettera di Bush padre, il Presidente George W. Bush, inviata a Sharon nell'Aprile 2004, lettera che Obama aveva sempre rifiutato di fare propria e di considerare come posizione ufficiale degli USA. Trump avrebbe quindi buon gioco a riproporla, marcando contestualmente la discontinuità con il precedente presidente. In quella lettera, in cui si faceva riferimento tra l'altro all'accettazione da parte israeliana della Road Map, e alla decisione di Sharon di ritirarsi unilateralmente da Gaza, si affermava: "Alla luce delle nuove realtà sul terreno, inclusi i già esistenti maggiori centri a popolazione ebraica (riferimento ai grandi blocchi ad est della linea verde, ndr), è irrealistico aspettarsi che il risultato dei negoziati sul Final Status sarà un pieno e completo ritorno alle linee del 1949, e tutti i precedenti sforzi per negoziare una soluzione a due stati sono giunti a questa stessa conclusione. E' realistico aspettarsi che ogni accordo sul Final Status potrà essere raggiunto solo sulle basi di scambi (territoriali, ndr) mutuamente concordati, che riflettano tali realtà". Si comprendono meglio, ora le prese di posizione del Ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman, che sta cercando d'altronde di riposizionarsi al centro anche alla luce dell'indagine criminale cui è sottoposto il Premier Netanyahu, accreditandosi come suo possibile successore anche sul piano internazionale: posizioni che attaccavano come sconsiderate le proposte avanzate dall'estrema destra del Governo israeliano, guidate da Naftali Bennet, per legittimare i cosiddetti avamposti illegali, e invitavano a concentrarsi sui "grandi blocchi". E' assai probabile che quelle dichiarazioni fossero espresse sulla base di contatti stabiliti con lo staff presidenziale di Trump, già eletto ma non ancora insediato. Si comprende altresì l'inedita posizione assunta da Lieberman e Netanyahu sul Piano Arabo di Pace del 2002, approvato dalla Lega Araba su proposta dei Sauditi, ed ora rilanciato dal Presidente egiziano Al-Sisi, di concerto con sauditi e giordani: i due esponenti israeliani hanno dichiarato di considerarlo un importante punto di riferimento per la ripresa dei negoziati di pace: un modo per riconnettersi a quel prioritario asse sunnita da costruire in funzione anti iraniana, cui punta così fortemente anche il Presidente Trump.

sabato 4 febbraio 2017

Un Paese ostaggio di tre Destre - Eddyburg.it

Un Paese ostaggio di tre Destre - Eddyburg.it

Sinistra italiana e centro-sinistra - Eddyburg.it

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Ecuador, dieci anni di Rafael Correa - Eunews

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Elio Veltri: La grande rapina

Da Repubblica.it La Grande Rapina In Italia dalla fine della guerra hanno imperversato le mafie più potenti d'Europa e fra le più presenti nel mondo, arricchendosi, seminando morte, condizionandone le istituzioni, e sembra che sia tutto normale. Si convive con la mafia e se ne rileva la presenza solo quando compie qualche delitto eccellente, sempre più raro, o un capo cosca viene arrestato. Casualità sempre seguita da parole come “ sgominata la cosca” o “ latitante tra i più pericolosi”, che si ripetono meccanicamente. Le mafie non hanno più bisogno di uccidere perchè corrompono e comprano: con Antonio Laudati l' avevamo scritto nel libro Mafia Pulita. Ormai dovrebbe essere chiaro e di comprensione comune, che nemmeno con il carcere duro lo Stato vince la battaglia contro le mafie e che il solo modo di contrastarle, peraltro molto temuto dai mafiosi, è portagli via i patrimoni: soldi, titoli di ogni tipo e beni mobili e immobili. Senza soldi infatti, i mafiosi non possono viaggiare, pagare consulenti capaci di gestire i beni, garantire lo stipendio agli affiliati che difendono la cosca e nemmeno far studiare i figli nelle migliori università. E poi, solo se hanno i soldi riescono a intrattenere rapporti sociali e politici. La politica e le istituzioni però, sembrano ignorare tutto questo. Non si pongono alcune domande essenziali: perchè si deve parlare di una grande rapina; perchè dopo oltre 50 anni di lotta alle mafie che ha comportato il sacrificio fino alla morte di alcuni dei migliori servitori dello Stato, le mafie non sono state sconfitte, nonostante i capi siano tutti in galera; perchè i governi non hanno mai considerato la mafia il primo problema politico del paese e non l' hanno contrastata con interventi e alleanze sovranazionali, utilizzando il ruolo nell'Unione Europea. La Grande rapina al paese è stata compiuta e continua attraverso corruzione dei singoli e delle istituzioni, evasione fiscale , esportazione di capitali, riciclaggio, lavoro nero e imposizione di salari e orari illegali, facce della stessa medaglia. Una rapina consumata da milionari spesso nullatenenti dichiarati, con pensione minima o sociale .Nel 2014 Banca Italia ha pubblicato un studio sulla ricchezza degli italiani, che, soprattutto nella componente monetaria,non è poi tanto diversa da quella della Francia e della Germania, nel quale valutava in 200 miliardi di euro il valore dell'economia criminale e mafiosa . IL che significa profitti o , meglio, rendite di oltre 150 miliardi di euro. Altro dato interessante nello stesso periodo è stato fornito dal nucleo valutario della guardia di Finanza del ministero dell'economia: l'esportazione di capitali vale il 29,3 per cento dell'evasione fiscale del paese. E cioè, da 50 a 70 miliardi di euro che prendono la via dell'estero. Infine, in una trasmissione televisiva di Milena Gabanelli , Angelo Maria Costa, ex responsabile dell'ONU per i problemi della criminalità organizzata, ha dichiarato senza peli sulla lingua che nel momento di maggiore crisi della liquidità delle banche molte di esse in Italia e in Europa si sono presi i soldi delle mafie. La disinvoltura delle banche non è certo una novità nei rapporti con le mafie. Nel 2000 la moglie del boss Rocco Musolino, il re della montagna, si meritava questo titolo sulle pagine del Corriere della sera:” la moglie del boss va allo sportello e ottiene 5 miliardi”. Lo sportello era del Monte dei Paschi di Siena di Santo Stefano d'Aspromonte dove si conoscevano tutti. Un' indagine dimostrò che Musolino nel 1993 aveva ritirato, nello stesso giorno, prima 520 milioni e poi 1 miliardo e 675 milioni. Di fronte a dati tanto sconvolgenti che coinvolgono le responsabilità delle banche nessuno che avesse il dovere di farlo, ha parlato. Tutti zitti quasi fosse una cosa normale e scontata, mentre il chiacchiericcio tipico dei palazzi della politica imperversava. La mafia è sopravvissuta agli arresti e alle poche confische dei beni, diventando una multinazionale del crimine, dell'economia e della finanza. Il silenzio e l'inettitudine della Commissione europea non sono state inferiori a quelle dei governi nazionali. Anche i dirigenti di questa Europa si sono prodigati in dichiarazioni sulla lotta all'evasione fiscale e sulla necessità di controllare i paradisi fiscali che nel nostro continente abbondano, ma poi in concreto nulla è cambiato. D'altronde, il paese governato dal Presidente della commissione per circa 20 anni, oggi è uno dei più efficienti paradisi fiscali e nessuno, tranne l'Espresso, ha sollevato il problema. Eppure il nostro è stato il primo paese che si è dato una legge antimafia che coglieva nel segno. Mi riferisco alla Rognoni -La Torre, depositata in Parlamento da Pio La Torre nel 1980, tanto efficace se bene usata, da indurre Cosa Nostra ad assassinarlo. Ma poi la confusione è stata sovrana e, negli anni successivi una ventina tra leggi e decreti, hanno creato un ginepraio nel quale magistrati, prefetti, dirigenti dell'Agenzia per la gestione e destinazione dei beni sono costretti a operare. Con la conseguenza che persino le banche dati del Ministero della giustizia, dell'Agenzia, delle forze dell'ordine, forniscono dati diversi sui sequestri e sulle confische, sui tempi dei processi e sullo scambio di informazioni tra istituzioni. Eppure i richiami di alcuni giornali autorevoli non sono mancati: nel 2000 il Corriere della sera a tutta pagina titolava” I beni sequestrati dallo Stato restano ai boss; undici anni per completare la confisca e i mafiosi continuano a viverci o a riscuotere l'affitto e se arrivano gli 007 non si trovano le chiavi”. E Repubblica , sempre a tutta pagina:” Mafia, quei tesori dimenticati”. La politica, non certo casualmente, ha completato l'opera delegando il più grave problema politico del paese alla magistratura e alle forze dell'ordine, lavandosene le mani come Pilato. Non a caso la mafia ha assassinato soprattutto magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine. Nessun governo, istituzione indipendente o centro di ricerca, ha mai fatto uno studio per valutare quantità e valore dei beni mafiosi, il cui valore nel 2010 la rivista Economy stimava 1000 miliardi di euro. Per capire meglio il ginepraio vale la pena ricordare il pensiero di alcuni magistrati e funzionari in prima linea nella lotta alla mafia. Nel 2000 alla Commissione antimafia della quale facevo parte, in una trasferta in Calabria, il dr Boemi a Reggio disse:”La ndrangheta non è stata ancora impoverita quanto sarebbe stato non solo necessario ma anche possibile, da consistenti confische dei beni illecitamente o criminosamente acquisiti. C'è ancora una grandissima ricchezza nascosta”; ” C'è ancora un forte scarto tra patrimoni indagati e una differenza altrettanto rilevante tra patrimoni indagati e patrimoni colpiti. Non funziona nulla perchè le sezioni delle misure di prevenzione sono le più raccogliticce d'Italia”. A sua volta, il procuratore di Vibo Valentia lamentava che “ le indagini patrimoniali fatte dalla polizia giudiziaria erano superficiali” e che spesso “mancava la necessaria attenzione perchè” non sono spettacolari e non rendono in termini di indagine”. Ma le informazioni più significative le fornì il questore di Vibo Valentia, il quale indagando aveva trovato soldi della ndrangheta nelle banche della Mongolia, di Hong Kong e della Svizzera. Mentre il comandante del Gico segnalava che un appartenente alla cosca Piromalli – Molè, detenuto per narcotraffico, “era stato in grado di movimentare conti correnti in vari paesi europei ed extraeuropei per migliaia di miliardi e che era stata accertata l'esistenza di 120 tonnellate metriche di oro, diamanti, valuta libica, dollari Kuvaitiani, e tutto con procedure bancarie telematiche senza che un solo cent uscisse materialmente dalle tasche” E ancora:” abbiamo individuato i conti correnti che sono nelle Bahamas, nella Ex Unione Sovietica, in Iugoslavia, in Austria, e abbiamo avviato le rogatorie con il magistrato almeno per richiedere questi conti correnti”. E oggi? A distanza di 16 anni dei beni confiscati si sa solo che ammontano al 4-5 per cento dei beni sequestrati e segnalati nella banca dati del ministero della giustizia. E non tutti destinati. La stessa cifra la forniscono in anni diversi ( 2000, 2009; 2014) il generale Palmerini commissario ai beni sequestrati e confiscati, Piero Grasso procuratore generale antimafia, Rosi Bindi presidente della Commissione antimafia. Che fine hanno fatto beni valutati miliardi non si riesce a sapere e si assiste allo scaricabarile di conoscenze e responsabilità tra Magistrati, dirigenti dell'Agenzia del territorio, dell'Agenzia per la Destinazione e gestione dei beni confiscati, delle Prefetture. Un fallimento, se si considerano i sacrifici in vite umane, il dolore delle famiglie, l'enorme spesa pubblica che comporta la lotta alla mafia, l'umiliazione dello Stato costretto a chiedere a Bruxelles con il cappello in mano comprensione per far fronte alle esigenze più urgenti dei terremotati, mentre centinaia di miliardi potrebbero essere recuperati solo che si volesse farlo. Il nuovo codice antimafia, approvato dalla Camera l'11 Novembre del 2015, è fermo al Senato e nessuno ne parla. Deputati e Senatori sempre in posa davanti alle telecamere evidentemente non lo considerano una priorità . E' ora di smetterla con la retorica dei beni che non si devono vendere perchè se li ricompra la mafia. A parte il fatto che solo degli imbecilli si ricomprerebbero i beni avendo gli occhi puntati su di loro. Ma se anche qualche volta succedesse, il decreto sulla sicurezza del 2008 approvato dal governo ne consente la ri-confisca diretta e immediata. Per tutte queste ragioni il silenzio e la delega delle responsabilità sono ancora più inquietanti e a “pensar male”non si fa peccato. Concludo con una citazione di Louise I. Shelley , direttore del Transnational Crime and Corruption Center della Università di Washington il quale all'inizio del terzo millennio scriveva:”La criminalità transnazionale sarà per i legislatori il problema dominante del ventunesimo secolo, così come lo fu la guerra fredda per il ventesimo secolo ed il colonialismo per il diciannovesimo. I terroristi e i gruppi criminali tansnazionali prolifereranno perchè essi sono i maggiori beneficiari della globalizzazione. Acquisiscono vantaggi dalla facilità di spostamenti, dai commerci, dai movimenti di danaro, dalle telecomunicazioni e dai collegamenti informatici e così hanno tutti i numeri per crescere”. Amen! Elio Veltri

Franco Astengo: Destra/sinistra

DESTRA/SINISTRA di Franco Astengo L’Almanacco di Filosofia di Micromega giunto puntualmente in libreria contiene un impegnativo testo d’apertura titolato “La Linea Generale” (roba da congressi) nel quale, presumibilmente la direzione della rivista di Paolo Flores D’Arcais, non solo prende impegni con lettrici e lettori per il prossimo futuro, ma sviluppa anche un’analisi sulla situazione della sinistra, tentando un vero e proprio “bilancio di fase”. Estrapoliamo un passaggio molto significativo: “Vorremmo continuare a realizzare sempre di più la nostra dichiarata vocazione per una sinistra illuminista, consapevoli che oggi molto spesso i due termini suonano, ahimè, come un ossimoro. Oggi, in primo luogo, è il termine stesso “sinistra” di uso sempre più arduo, visto che i partiti etichettati come tali dalla vulgata giornalistica sono in realtà partiti di destra, strumenti degli establishment a tutti gli effetti. Del resto la “terza via” con cui Blair conquistò il Labour Party nel 1991 doveva essere giudicata subito come una iattura, che lasciava all’elettorato britannico solo la scelta tra due destre”. E fin dalla sua nascita questa rivista fece della categoria “partitocrazia” e “gilda” (molti anni prima della intelligentissima definizione di “casta” da parte di Rizzo e Stella) la caratteristica saliente e unificante (a destra!) delle forze politiche che si contendevano il consenso”. Non abbiamo però mai ceduto alla deriva post – moderna e post – tutto che vuole la distinzione destra / sinistra priva di senso. Anzi. In effetti non aveva e non ha più senso se riferita alle forze organizzate (comprese quelle etichettate come sinistra “estrema”) perché anch’esse sempre più omologate e corrive agli establishment, ma continuava e continua ad averlo, eccome, rispetto ai contenuti dell’azione politica e ai valori che essi esprimevano ed esprimono (quanto ai programmi elettorali dei partiti, sono notoriamente “scritti nel vento e nell’acqua” come le promesse di Lesbia a Catullo). Fin qui la “parsa destruens” dell’analisi di Micromega. Di seguito una parte di quella che può essere considerata (almeno crediamo nelle intenzioni dell’autore) “pars costruens”: “ La sinistra realmente esistita è stata perciò in Italia (e non solo) quella dei movimenti della società civile, delle lotte, della piazza e delle campagne di opinione. Una sinistra sommersa, la definivamo già nei primissimi numeri della rivista. Una sinistra carsica, che sembrava scomparire ma poi tornava in superficie con nuove fogge, negli anni dei girotondi, in alcuni momenti della CGIL di Cofferati, con le manifestazioni del “popolo viola”, “Se non ora quando” e l’ondata di proteste contro le leggi bavaglio. Questa sinistra realmente esistita, al di là delle contraddizioni politiche ha avuto un mondo di riferimento culturale assai variegato e tuttavia molto di rado illuminista. La sinistra, anche quella nelle sue espressioni più autentiche ed efficaci, spesso era ed è imbevuta di un mood ideologico irrazionalista che ha celebrato i suoi fasti (anche internazionalmente sia chiaro) nell’interminabile stagione di egemonia del postmoderno, dell’infatuazione heideggeriana declinata in concorrenziali confessioni accademiche e immaginari usi rivoluzionari del pensiero dell’Essere, nelle propaggini del “momento” francofortese, e derridiano… … Contro gli equivoci reazionari della differenza e relativa “idolatria” MicroMega si è battuta fin dai suoi primi anni di vita in totale isolamento e senza alcun successo, a dire il vero. E così la sinistra, anche la più autentica e senza virgolette, quella dei movimenti e dei riferimenti culturali, ha regalato alla destra armi micidiali e la possibilità di impancarsi a paladina (a corrente alternata, sia chiaro, e secondo comodo e convenienze) della libertà d’espressione, dell’eguaglianza degli individui contro le quote, dei diritti universali, della grande cultura, trovando esempi concreti e abbondantissimi di sedicenti progressisti che quei valori negavano. Su tutti questi temi, perciò, non faremo che lavorare in coerenza con il nostro dna di sinistra eretica”. L’idea è quindi quella di rappresentare una sinistra eretica (nel senso della testimonianza?) che si occupa della sovrastruttura, evitando – annunciati i suoi giudizi – di andare al fondo delle contraddizioni materiali che attraversano la nostra società. In questo senso come può invece essere sintetizzato il bilancio di questa fase che chiude con il mutamento di rotta al vertice dell’Impero. Trump ha ribadito il suo “America First” e tutti i populisti e i sovranisti d’Europa si sono sentiti vendicati. Si apre un nuovo ciclo, segnato dalla fatica dei gruppi chiave dell’industria e della finanza, con le loro élite politiche, i loro giornali, le loro televisioni e il cosiddetto establishment (più volte citato da MicroMega) a darsi un seguito di massa tra la piccola borghesia, gli strati intermedi e anche tra i salariati, per le incertezze seminate dalla crisi globale e le paure per il declino del vecchio mondo atlantico: qualcosa di più e di diverso dalla destra che si traveste da sinistra. Si pena a trovare chi tenga il punto, e con l’ipocrisia di dare ascolto alle “paure della gente” si lascia l’agenda del discorso pubblico a istrioni e demagoghi. Questo tipo analisi è assente nella “Linea generale” impostata da MicroMega e si tratta di una lacuna non da poco, proprio perché trascura il punto fondamentale sul quale ricostruire un’identità di sinistra oggi: quello del mutamento nella connessione esistente tra struttura e sovrastruttura. Per una combinazione, probabilmente non fortuita, nello stesso numero dell’Almanacco di Filosofia è ospitata una sezione dedicata all’analisi, sviluppata a più voci, del concetto di egemonia in Gramsci. Nel suo saggio Perry Anderson mette a confronto le analisi nel merito del tema elaborate nel tempo da diversi autori e fra questi da Giovanni Arrighi. Scrive Anderson: “ ..A differenza di molti suoi contemporanei egli (Arrighi) ne individuava il nodo fondamentale nell’ideologia ma nell’economia. Sul piano internazionale condizione fondamentale per essere egemonici era quello di essere portatori di un modello superiore di organizzazione, produzione e consumo non solo incline a generare acquiescenza agli ideali e ai valori della potenza egemone ma anche una generale tendenza all’imitazione, alla presa a modello”. La questione del concetto di egemonia rappresenta, allora, l’elemento cardine per rispondere alla debolezza della sinistra illuminista contenuta nella “Linea Generale” di MicroMega. Nel gennaio del 1958 si svolse a Roma un convegno di studi gramsciani i cui atti furono poi pubblicati, qualche mese dopo dagli Editori Riuniti. Nel volume “Palmiro Togliatti: la politica nel pensiero e nell’azione” uscito nella collana “Il pensiero occidentale” di Bompiani, compare l’intervento svolto in quell’occasione dal segretario generale del PCI sul tema “Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci” (pp.1121 -1141). Si tratta così di contribuire a un dibattito che è necessario riprendere sull’identità teorica e storica del comunismo italiano ponendosi in rapporto con le altre correnti di sinistra ponendo in questo modo anche il tema della soggettività politica. Si tende, insomma, in questi tempi così difficili soprattutto per la teoria politica a ricordare come Gramsci, nella difficoltà del carcere, delle sue condizioni di salute, delle temperie storiche che stavano attraversando il mondo in quel tumultuoso periodo fosse un “comunista rivoluzionario”. Ecco, dunque di seguito la parte conclusiva dell’intervento di Togliatti: “Vi è per Gramsci una differenza, e quale, nello sviluppo di questi concetti, tra il termine di egemonia e quello di dittatura? Una differenza vi è, ma non di sostanza. Si può dire che il primo termine si riferisca in prevalenza ai rapporti che si stabiliscono nella società civile e quindi sia più ampio del primo. Ma è da tener presente che per lo stesso Gramsci la differenza tra società civile e società politica è soltanto metodologica e non organica. Ogni Stato è una dittatura, e ogni dittatura presuppone non solo il potere di una classe, ma un sistema di alleanze e di mediazioni attraverso le quali si giunge al dominio di tutto il corpo sociale e del mondo stesso della cultura, così come ogni Stato è anche un organismo educativo della società, negli obiettivi delle classi che dominano. La società politica può però assumere una forma di estremo rigore dittatoriale, quando per i contrasti tra struttura e sovrastruttura, si crea un distacco tra la società civile e la società politica, o si apre, cioè, una delle grandi crisi rivoluzionarie della storia. Allora “si ha una forma estrema di società politica, o per lottare contro il nuovo e conservare il traballante rinsaldandolo coercitivamente o come espressione del nuovo per spezzare la resistenza che incontra nello svilupparsi ecc.” (A. Gramsci “Quaderni del Carcere” – Note sul Machiavelli). Quest’osservazione che sembra fatta di sfuggita è invece tra le più importanti. Da un lato a essa si collega il giudizio sul carattere degli Stati borghesi, nella loro evoluzione, progresso o decadenza. Dall’altro lato essa apre la via allo studio delle diverse forme che la stessa dittatura della classe operaia assume nelle sue diverse fasi e può assumere in paesi diversi. E’ un nuovo capitolo del leninismo che si discute, quello alla cui elaborazione completa sta oggi lavorando il movimento operaio internazionale. Il dominio politico della classe operaia tende a creare una società non più divisa in classi ma “regolata”. Ma cosa vuol dire una società regolata e come si giunge a essa? Occorreranno, dice Gramsci, parecchi secoli. Questo vuol dire che la conquista del potere e la creazione dello Stato socialista non portano alla risoluzione di tutte le contraddizioni. Anche al di fuori di quelle che sono legate al carattere parziale delle prime vittorie, altre ne sorgono e devono essere risolte. Uno dei cavalli di battaglia contro la concezione marxista del mondo e della storia era chiedere come si concilia la nostra visione dialettica della realtà con la nostra lotta per una società regolata. Quale sviluppo dialettico ci potrà dunque essere in siffatta società? Al che Gramsci ci insegna a rispondere che il marxismo non è dottrina di profezie, ma dottrina della realtà. Noi conosciamo le contraddizioni del nostro mondo, che è il mondo diviso in classi e lottiamo per superare queste contraddizioni. Profezie sugli sviluppi delle società future, prive di classi, non spetta a noi farne. Ci spetta invece conoscere e lavorare per risolvere con metodi nuovi le contraddizioni che in questa prima fase delle società socialiste continuano a esistere. Non poteva essere compito di Gramsci addentrarsi su questo terreno”. E’ il caso allora di aprire davvero un confronto tra l’idea della “sinistra illuminista” e il “concetto di egemonia”: un concetto che ha avuto una storia lunga e complessa ma che può rappresentare ancora la base concreta di elaborazione per una soggettività politica di sinistra che riprenda in pieno le conclusioni togliattiane del 1958 circa la necessità di conoscere e di lavorare con metodi nuovi esplorando le contraddizioni (il segretario del PCI si riferiva alle società socialiste) nell’intreccio di un’attualità drammaticamente alle prese con inediti livelli di scontro sociale e politico. Tutti richiami che nulla hanno a che fare con la nostalgia di un passato che evidentemente non ritorna.

European Leaders Should Ditch The Fiscal Compact

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mercoledì 1 febbraio 2017

Misure alternative di benessere: cosa serve - Sbilanciamoci.info

Misure alternative di benessere: cosa serve - Sbilanciamoci.info

La sfida francese - Sbilanciamoci.info

La sfida francese - Sbilanciamoci.info

Franco D'Alfonso: Hamon vince le primarie in Francia

Benoît Hamon vince le primarie in #Francia e viene bollato come "sinistra Corbyn", utopista e senza cultura di governo. A parte che Hamon è stato eurodeputato di maggioranza a trenta anni e ministro a quaranta, non proprio la storia di un outsider a vita, in base a questo schema superficiale esisterebbe una sinistra di trasformazione che rifiuta di governare ed una sinistra di governo che si rifiuta di trasformare. Questa contraddizione si chiude uscendo dagli schemi e passando per il confronto delle idee e per il pragmatismo delle cose da fare nell'oggi del governare . Hamon vince come Corbyn, probabilmente per perdere come Bernie Sanders ma preparando il terreno e le idee alle migliaia di neo iscritti e supporter giovani del labour come del psf come dei "metropolitans" anti Trump. Saranno i nuovi leader che si formeranno a vincere, perchè le risposte della #destra, da #Trump ai #sovranisti europei sono solo l'illusione di un ritorno al passato, sia esso la Rust Belt del Michigan, le acciaierie di Manchester e della Lorena o le fabbriche d'auto di Torino. Dobbiamo farlo, presto, anche in Italia. E per chiarezza i nostri #Sanders, #Corbyn ed #Hamon non sono D'Alema, #Bersani e gli altri della "ditta". E siccome non mi piace il "benaltrismo", non faccio un nome per questo ruolo in Italia, ne faccio due, senza averne parlato nemmeno con gli interessati: Claudio Martelli e Giuliano Pisapia , portatori di #idee, di #storia e di #passione. Se vorranno mettersi in gioco e mettersi al servizio, non necessariamente rientrando in servizio, potranno dare una buona mano.. Il tempo è adesso. #Martelli #Pisapia Cordiali saluti Franco D'Alfonso

MILANO IL PIL E LE RIFORME INCAGLIATE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

MILANO IL PIL E LE RIFORME INCAGLIATE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano