sabato 18 luglio 2009

Partiti ed emergenza democratica

da www.nuvole.it

Partiti ed emergenza democratica

Forum di Nuvole del 3/4/2009

con Monica Cerutti, Gianfranco Morgando e Armando Petrini



Questa tavola rotonda con tre importanti dirigenti politici locali dei partiti della sinistra torinese si è svolta il 3/4/2009, proprio all’indomani delle minacciose dichiarazioni di Berlusconi sulla riforma del Parlamento. Monica Cerutti, capogruppo della Sinistra democratica al Comune di Torino, Gianfranco Morgando, segretario regionale del Partito democratico e Armando Petrini, segretario regionale di Rifondazione comunista hanno discusso con la redazione di Nuvole dell’emergenza democratica. Nuvole, per la sua collocazione politica, è interessata ai destini della sinistra e a un confronto fra le sue diverse anime e auspica una ripresa costruttiva del dialogo fra le diverse parti della sinistra (e del centrosinistra). La convergenza di opinioni fra i nostri interlocutori è la prova che non esistono ostacoli insormontabili al dialogo e ci fa ben sperare in una ripresa del confronto sia a livello locale, dove senz’altro è più agevole, sia a livello nazionale. Siamo grati ai nostri tre interlocutori per aver accettato di discutere con noi.





NUVOLE: Considerando l’attuale situazione politica, siamo convinti che si vada delineando una divisione piuttosto netta e anche drammatica. Da una parte ci sono forze che, per quanti errori abbiano potuto compiere in passato, restano tenacemente affezionate alla democrazia: ai principi democratici che sono scolpiti nella Costituzione. Queste forze politiche si sono ultimamente divise, hanno condotto ingloriosamente al fallimento l’esperienza del secondo governo Prodi e dell’Unione, hanno restituito il potere alla destra. Eppure tra loro tuttora sussiste un denominatore comune che è un certo modo d’intendere la democrazia. Sul fronte opposto sta viceversa una coalizione il cui sentimento nei confronti della democrazia è del tutto diverso, così come lo è quello nei riguardi della Costituzione: gli episodi da citare sono troppi, ma anche troppo noti, per attardarsi a rammentarli. Purtroppo questa coalizione governa attualmente questo paese e ciò a nostro avviso configura una condizione di grave emergenza democratica. Dove non è ormai più a rischio unicamente, la democrazia “sostanziale”, o “sociale”, ma è addirittura in pericolo la democrazia “formale”, le stesse procedure democratiche: temiamo siano ormai in pericolo la libertà di pensiero, la libertà di opinione, la libertà di manifestazione. Certo, non è immaginabile una forma di repressione brutale di questi diritti. Il mondo, per com’è fatto, non si presta più al fascismo. Curiosamente però, magari rispettando le forme della democrazia, la libertà di opinione può essere non poco circoscritta. Basta controllare i principali canali televisivi, sottrarre la pubblicità ai giornali non ritenuti amici, stabilire qualche forma di controllo ideologico-culturale nelle scuole e nelle università. Senza reintrodurre il confino e la censura sulla stampa, o il giuramento di fedeltà, si può fare molto per impoverire la democrazia. Abbiamo anche letto di inquietanti ipotesi di chiusura del parlamento – perché è questo che si vagheggia quando si vogliono far votare unicamente i capigruppo. Non c’è da stare allegri. Noi abbiamo dunque qualche domanda da rivolgervi in quanto dirigenti delle principali forze politiche democratiche locali. Condividete questa nostra preoccupazione? Se sì, ritenete che si possa far qualcosa – e cosa - per difendere la democrazia? Non riterreste per caso che sarebbe auspicabile unire le vostre forze e seppellire vecchi attriti, per fronteggiare questa emergenza?



CERUTTI: Penso che un’emergenza democratica esista, anche se non in termini tradizionali: non siamo alla vigilia di un colpo di stato. Credo però che l’emergenza democratica sia centrata soprattutto sul sistema dell’informazione. Si può dire con certezza che in Italia non vi è un sistema dell’informazione “democratico”.

Anche se non è solo un problema italiano - ritengo che si tratti di un’involuzione “culturale” generale – si deve sottolineare come i partiti che sono stati al governo abbiamo sottovalutato questo aspetto. In particolare, è il tema del controllo delle televisioni che è stato del tutto trascurato.

Il controllo quasi totale dei media televisivi ha finito col riflettersi sul tema dei diritti. E si è pian piano messa in discussione la stessa concezione di “cittadinanza”, che per tradizione è costituita da diritti politici, sociali e civili. Insieme ad essa sta subendo un duro attacco la stessa concezione della separazione dei poteri. Si pensi alla sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40, duramente attaccata da membri del Parlamento. La rivendicazione di una sovranità assoluta del Parlamento mette in discussione il ruolo della Corte che è incaricata di difendere i principi costituzionali e quindi il ruolo della Costituzione stessa. Basta questo per dire che esiste un’emergenza democratica. Il mezzo che Berlusconi utilizza, per alterare l’equilibrio tra i poteri dello stato e perseguire il suo disegno autoritario, è il sistema mediatico, sono le televisioni.

Per fortuna il sistema democratico mostra anche qualche segno di resistenza. Il ruolo del Presidente della Camera ad esempio è stato particolarmente rilevante nel caso della sentenza sulla legge 40. E’ sicuramente riuscito a mettere un argine al tentativo di scavalcare la Corte. Quale che sia l’obiettivo vero di Fini - che magari vuole semplicemente costruirsi una sua presentabilità per cariche più importanti - c’è evidentemente qualche elemento che salvaguarda la nostra democrazia.

Ora è certo che la situazione è complessa e che i partiti della sinistra hanno indubbiamente gravissime colpe. In primo luogo non riescono a interpretare le aspettative degli italiani in generale e neanche di coloro che si collocano tradizionalmente a sinistra. Del resto siamo in un momento in cui la politica non riesce a stabilire rapporti con i cittadini. E l’antipolitica in questo momento è molto presente e pesante in Italia e spesso sembra giustificata. Io stessa ho difficoltà a difendere la credibilità della politica e dei politici all’interno delle istituzioni.

Credo che tra le cause della perdita di credibilità delle istituzioni ci sia senz’altro la diminuzione delle competenze dell’assemblee elettive. Si è creato uno sbilanciamento a favore del potere esecutivo che svuota del tutto queste assemblee. I consigli comunali sono molto in difficoltà a esercitare il proprio ruolo di indirizzo e controllo. E questo si riflette in una perdita di appeal delle assemblee elettive. Tant’è che la composizione sociale dei membri delle assemblee legislative registra una crescente descolarizzazione e un legame sempre più diretto con il mondo degli affari, da cui vengono d’altronde la maggior parte dei parlamentari. Si crea così un parlamento che da un lato ha sempre meno potere e dall’altro è composto da persone che sono lì per altro che sostenere il bene comune. Nello stesso consiglio comunale si assiste a dinamiche del tutto simili: svuotamento di competenze e incapacità di esercitare le competenze residue. Da questo punto di vista, si dovrebbe forse aprire anche una riflessione sulle riforme Bassanini. Perché se è vero che hanno giustamente distinto tra funzioni politiche e funzione amministrative, vero è anche che hanno contribuito a una degenerazione nei rapporti tra gli eletti e i dirigenti, dando un ulteriore contributo alla perdita di rilevanza dei primi.

Il centrosinistra dovrebbe discutere del ruolo delle assemblee elettive e delle ricadute negative, per questo aspetto, delle riforme Bassanini.



MORGANDO: Vorrei mettere in luce tre elementi. Il primo elemento riguarda una breve analisi dell’attacco al sistema democratico. Credo che non ci siano dubbi che il pericolo esista, ma non credo che esista nei termini di un pericolo di dittatura. È un fenomeno che dura da alcuni anni e ha caratteristiche tra di loro diverse. Mi pare di poterne individuare tre.

La prima è il progressivo venir meno del ruolo delle assemblee elettive. È emersa in questi giorni - come ricordato prima - una polemica sul funzionamento del parlamento. È dall’inizio degli anni novanta che siamo davanti ad un progressivo indebolimento del ruolo di tutte le assemblee elettive e a un trasferimento del potere decisionale al livello degli apparati esecutivi. Questa è la conseguenza di un’impostazione culturale che privilegia il governo rispetto alla partecipazione democratica. Di questo siamo tutti responsabili.

La seconda caratteristica della crisi della democrazia è la progressiva concentrazione della proprietà degli organi di informazione. Sono rimasto molto impressionato, guardando i tg nei giorni del congresso fondativo del PDL dall’abnorme presenza di quell’evento in programmi condotti e gestiti da giornalisti da cui ci si poteva quantomeno aspettare un atteggiamento critico. E anche questo non è un prodotto di questi giorni, o di questi anni, ma è cominciato almeno agli inizi degli anni novanta. E il dibattito sugli assetti televisivi ha risentito dell’impostazione culturale di cui parlavo prima.

La terza caratteristica riguarda il meccanismo di selezione della classe dirigente. Siamo abituati a criticare la legge elettorale in vigore, ma le cose non erano tanto diverse quando c’era l’uninominale. Quando sono stato eletto nel 1996, nel collegio di Mirafiori, era difficile pensare che in quel collegio il candidato dell’Ulivo o di Rifondazione Comunista potessero perdere. Erano pochi i collegi elettorali di frontiera in cui c’era una competizione reale.

Mi sembrano queste le caratteristiche dell’attacco al sistema democratico: l’accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo; l’accentramento della proprietà dei mezzi di comunicazione di massa; l’espropriazione - attraverso le leggi elettorali - delle possibilità di scelta dei cittadini da parte del sistema politico.

Il secondo elemento che vorrei mettere in luce ha a che fare con le ragioni per cui si sono verificate queste condizioni. Mi pare se ne possa individuare una in particolare. Negli anni novanta è esploso il problema del rapporto tra democrazia ed efficienza economica. Si è affermato un filone culturale che sosteneva - e sostiene - che i processi di sviluppo sono favoriti da contesti politici decisionisti, sostanzialmente autoritari. Contesti istituzionali fortemente autoritari, come quello delle tigri asiatiche, sarebbero tendenzialmente più efficienti. E anche in contesti più soft, come Italia o Francia, si sostiene che un accentramento delle decisioni non possa che produrre un miglioramento nel rendimento delle pubbliche amministrazioni. Il tema con cui le forze progressiste devono confrontarsi è questo.

Con una ulteriore complicazione - ed è il terzo elemento che volevo mettere in luce - che riguarda il fatto che tutto questo piace ai cittadini italiani. Piace a una maggioranza di italiani trasversale sia dal punto di vista sociale che politico. In un recente seminario, tenutosi a Roma sul posizionamento elettorale del PD, si è osservata la differenza tra le curve di consenso dei governi dal 2001 al 2008. È assolutamente evidente che la “curva di consenso” migliore è quella dell’attuale governo Berlusconi. Le curve di consenso del primo governo Berlusconi del 2001 e di quello Prodi del 2006 avevano il classico andamento caratterizzato da crescita nei primi mesi e poi riduzione in quelli successivi. La curva dell’ultimo governo Berlusconi, pur mostrando lo stesso andamento, è più positiva. Collego questo dato allo spostamento del consenso dei ceti popolari, come segnalato dal rapporto ITANES. Questo è il problema. Questo governo “autoritario” sta incontrando il consenso della maggioranza degli italiani.

Come possiamo ricostruire allora qualcosa che sia in grado di affrontare questo problema invertendo la tendenza? Bisogna aprire un dibattito franco tra le forze progressiste, che metta a nudo problemi, contraddizioni e che provi a individuare i problemi reali. Ne indico tre:

1. non essere percepiti come coloro che tutelano i garantiti. Questo ha a che fare con problematiche difficili, sulle quali le opinioni sono molto differenti, anche all’interno del PD, a partire dal tema controverso del modello contrattuale;

2. come incrociare gli interessi dei lavoratori con quelli dei produttori, del mondo dell’impresa. È infatti necessario riuscire a costruire una proposta che tenga insieme interessi diversi;

3. come uscire dalla nostalgia fordista, come uscire dall’idea di una società che non c’è più.



PETRINI: Anch’io credo che si possa affermare che siamo di fronte a un’emergenza democratica o comunque a un attacco alla democrazia. Ci sono alcuni segni significativi da questo punto di vista. Certo, con questo si vuole anche coprire la politica fallimentare del governo, spostando l’attenzione altrove. Ma certamente l’aspetto autoritario di questa destra non è irrilevante. L’attacco al parlamento, con l’idea di far votare solo i capigruppo, non è l’unico segno dell’attacco al sistema democratico. C’è l’accordo separato, stipulato con una parte dei sindacati che l’esclusione del maggiore, con cui si vuole attaccare l’esistenza stessa del sindacato. Ci sono le politiche relative all’immigrazione. E sicuramente anche il federalismo obbedisce a questa logica sempre meno democratica.

L’attacco alla democrazia non si sostanzierà nella messa in discussione dei diritti o nel senso di uno scivolamento verso la dittatura. Non penso che succederà questo, ma ritengo che ci possa essere qualcosa di addirittura più pericoloso, qualcosa che può stare all’interno di un modello di “democrazia totalitaria”. E penso che il quadro che si profila abbia radici antiche.

L’attacco alla democrazia ha a che vedere con la “questione sociale”, con una questione “di classe”, posto che questo termine abbia ancora un senso. L’attacco alla democrazia arriva da una cultura di destra, che è non è semplicemente rozza e ademocratica, ma che ha un obiettivo sociale e civile - messo in campo a partire dalla fine del comunismo, dalla fine degli anni ottanta - cioè attaccare lo stato sociale.

Penso che non si possa scindere la questione democratica dalla questione sociale, declinata in questo modo. I punti che ho appena richiamato (accordo separato, politiche di immigrazione) sono pezzi di un attacco alla democrazia attraverso l’attacco ai diritti sociali. Da questo punto di vista diciamo che un vulnus democratico di questi ultimi tempi è stata la legge elettorale per le europee. La legge elettorale fa parte di un quadro di progressivo sgretolamento della rappresentanza. Senza una motivazione plausibile - considerato che le elezioni europee non portano alla formazione di un governo e i gruppi parlamentari sono già definiti - si introduce uno sbarramento che non ha come obiettivo la riduzione della frammentazione o l’aumento dell’efficienza, ma intende colpire soltanto la rappresentanza della sinistra alternativa. Questa legge è l’esempio di come vengano a saldarsi un problema democratico (la rappresentanza di una parte di società) con una questione sociale (nello specifico la parte di società che non viene rappresentata è il mondo del lavoro).



NUVOLE: Forse ci si rende conto che la società è troppo complicata per poterla gestire con le camicie nere o con l’esercito, forse la democrazia è messa così male che il fascismo è diventato superfluo. I segni del degrado sono sempre più evidenti. Uno dei segnali più drammatici è l’imbarbarimento del costume civile. Quando si assaltano i campi nomadi c’è qualcosa che non funziona.

Rispetto a quanto avete detto, vale la pena soffermarsi su una considerazione di Morgando relativa al rapporto tra democrazia politica e governo dell’economia. Si dice che il governo dell’economia ha bisogno di una democrazia efficiente e spesso si identifica l’efficienza con il sistema maggioritario o con la riduzione del numero dei partiti. Questo è quantomeno discutibile. In Italia quando c’era un governo proporzionalista, consociativo, multipartitico abbiamo avuto ottimi risultati economici. Paradossalmente questo paese è in declino vistoso da quando ci sono state le riforme in senso maggioritario. Probabilmente è stata sottovalutata la questione sociale, è mancato il consenso, si è governato gli uni contro gli altri.

Un’altra considerazione riguarda l’idea che questo piaccia alla maggioranza degli italiani, ma forse piace, perché nessuno offre altro. Se tutti dicono le stessa cosa - la personalizzazione dello scontro tra Berlusconi e Veltroni è stata tra due interpretazioni dello stesso modello di democrazia - gli italiani hanno solo questo sul piatto.

Anche la questione dei sondaggi andrebbe affrontata con circospezione. I sondaggi in genere danno risposte preconfezionate. Se si chiede “Vuoi eleggere il presidente della repubblica?” la risposta non può che essere “Sì, certo, voglio eleggere il presidente della repubblica”. Ma se si avviano discussioni più articolate, ci si accorge che le persone hanno idee un po’ diverse, vogliono essere considerate, vogliono contare. L’antipolitica forse non esiste, forse c’è ancora un grande rispetto per la politica. C’è senz’altro una differenza tra il grande rispetto che la gente ha per la politica e il disprezzo che ha per i politici. Il rapporto ITANES segnala gli spostamenti elettorali, che sono minimi anche se hanno degli effetti politici importantissimi. Gli elettori hanno delle teste molto abitudinarie, votano sempre allo stesso modo oppure si arrabbiano e non vanno a votare. Gli spostamenti da sinistra a destra sono marginali.

Che questa involuzione della democrazia non sia anche figlia delle parole che si dicono, del modo di rappresentare e costruire la democrazia? Che non derivi anche da affermazioni del tipo “la democrazia è scelta”, “la democrazia è decisione”? Le persone vogliono anche una democrazia che le ascolti. Persino il rito delle primarie segnala che la politica in fondo interessa. Riformuliamo la domanda in questo modo: la crisi della democrazia è crisi della democrazia in quanto tale o di un certo modo di pensare e raccontare la democrazia? si tratta dunque di ridefinire le scale di priorità? insomma è vero che la gente vuole eleggere il presidente del consiglio, vuole questo tipo di democrazia o l’abbiamo persuasa che questa è la soluzione di tutti i problemi?



PETRINI: Io sono d’accordo quando si dice che alla maggioranza degli italiani piace questo modello perché non gli viene offerto altro. La sinistra in questo momento deve ragionare su un problema di fondo che è quello dell’identità. Credo che la sinistra abbia avuto un rapporto sbagliato col problema dell’identità, alla quale ha rinunciato, che ha inteso in una forma debole, lasciando il campo a chi ha proposto identità molto forti e politicamente avverse e opposte alla nostra. Io penso che sia questo il nodo cruciale, che è culturale e politico. Berlusconi ha saputo costruire un’identità forte, molto solida, e la sinistra ha largamente sottovalutato la capacità di costruzione egemonica di questa destra. Al congresso fondativo del PDL non solo è stata rafforzata ulteriormente la costruzione dell’identità, ma Berlusconi ha persino saputo costruire una storia dell’Italia degli ultimi vent’anni. La destra ha imparato che l’identità ha bisogno di una storia. Mentre la sinistra, in questi anni, ha messo da parte sia la propria storia sia la propria identità, lasciando aperta una prateria non solo a Berlusconi ma anche alla Lega, che anch’essa ha costruito un’identità forte che rende. Persino l’UDC ha fatto un percorso di questo genere, un percorso politico-culturale. Penso che la sinistra debba porsi questo problema e lasciarsi alle spalle una stagione in cui si è interpretata in modo debole l’identità. Nel momento in cui la sinistra ha saputo costruire un progetto forte e chiaro di società, in quei momenti ha saputo incidere sul modello egemonico che sta edificando la destra, mostrando come questo percorso non sia ineluttabile. In due momenti, in particolare, si è resa visibile la possibilità di incidere sul progetto egemonico della destra: quello in cui il sindacato guidato da Cofferati è riuscito ad opporsi al governo, raccogliendo un sentimento diffuso contro la destra; e quello della manifestazione del 20 ottobre del 2007, raccolta attorno a un’identità forte che ha prodotto una grande partecipazione. Queste forze sono state tuttavia disperse per il modo in cui ci siamo presentati alle elezioni politiche, che ha disatteso quel percorso. Non solo per questo, certamente, ma anche per questo.



CERUTTI: Anch’io ritengo che non si propongano progetti alternativi. C’è però da dire che chi vuole lavorare in altre direzioni non ha tanti modi. Si è imposta l’idea che la politica debba risolvere i problemi, come se il “fare” fosse neutro: ci sono i problemi, le soluzioni e queste esistono a prescindere da quelle che possono essere scelte politiche. Questo si innesta in una società che avrà anche molta voglia di partecipare, ma che è fondamentalmente una società individualista in cui la dimensione collettiva non è molto percepita. Io penso che la sinistra debba ragionare sul proprio modello. Più che ricercare il consenso bisogna ragionare sul proprio modello culturale. Il progetto della sinistra arcobaleno era molto carente: non solo dal punto di vista identitario ma anche della proposta. La proposta non era chiara, non vi era un’analisi puntuale della società, del lavoro. La sinistra è carente dal punto di vista dell’analisi dell’evoluzione del ruolo del lavoro nella società. La diffidenza sulle partite iva da parte della sinistra - quando si parla di lavoratori che sono stati costretti ad aprire una partita iva perché sono stati buttati fuori dalla loro realtà - è un problema. Non voglio rincorrere il senso comune, stigmatizzato da Gramsci, ma abbiamo il problema che la società nel tempo è cambiata. Sapendo che, nonostante stia prevalendo un modello individualista, c’è una società che ha voglia di regole, di semplificazioni. Certo, se ci si pone seriamente di fronte alla società riemerge il tema della complessità delle questioni. Molte non possono essere semplificate o ricondotte ad un sì o un no. Invece si tende a semplificare. Anche nelle proposte. Ad esempio la questione della TAV, per cui necessariamente si è Sì TAV o No TAV, per quanto mi riguarda è un falso problema, perché bisogna entrare nel merito. Anche nella questione che riguarda la costruzione del grattacielo di Torino. Una sinistra seria deve entrare nelle cose, deve approfondire e poi saper costruire un proprio modello, modello che al momento mi sembra complicato a vedersi.

Si deve anche ragionare sul modello di sviluppo. Non si può ricercare il consenso senza fare un’analisi effettiva di cosa si vuole mettere in campo. Anche il rimettere in campo una coalizione, come l’Unione di Prodi, bisogna pensarla sulla base di contenuti, di progetti comuni. L’unità è un valore, ma un’unità fatta come la sinistra arcobaleno, in cui si mettono insieme troppe cose diverse non ha tante possibilità. Lo stesso termine “sinistra” ha senso, ma deve essere ridefinito. Siamo in un momento di grande movimento e da qui a qualche mese potranno cambiare le geografie politiche. Ma non si può non ripensare e non tornare a ragionare sul modello di società e sul modello di sviluppo, altrimenti si insegue il consenso di una società che sempre più si fatica a comprendere. Il tema delle partite iva è emblematico di come non si riesca a interpretare una nuova rappresentanza sociale. Si vogliono rappresentare persone, ma queste non si sentono rappresentate da te.



MORGANDO: Dirò due cose che aprono dei problemi più che chiuderli. Voi dite che la situazione attuale piace alla maggioranza degli italiani perché nessuno propone cose diverse. Credo che sia vero. Credo che il nostro problema sia che non possiamo proporre le cose del passato. Dobbiamo proporre qualcosa di nuovo, che faccia i conti con le trasformazioni strutturali che hanno caratterizzato le società moderne. Questo solleva un reale problema. Dobbiamo interrogarci tutti per condividere le analisi sulle trasformazione e poi, naturalmente, provare a costruire una proposta che sia sotto il segno del “progressismo”. Chi mi ha preceduto ha usato il tema dell’identità, declinato sul versante del progetto. È stimolante e anch’io sono convinto che il vero scontro è tra una proposta che guarda soltanto all’immediato - che identifico con la proposta della destra, di Berlusconi, che sollecita le reazioni immediate delle persone - e uno sguardo più di lungo periodo, che non può essere declinato che nei termini di un progetto più generale. Anche questo non chiude il discorso, ma apre delle domande. La mia sensazione è che noi su questo abbiamo delle carte da giocare, perché mi sembra che il centrodestra abbia come elemento caratterizzante quello di guardare semplicemente alla soddisfazione degli interessi immediati e che in questo trovi le ragioni del suo consenso. Abbiamo però difficoltà a giocare queste carte, perché farlo ci impone un cambiamento culturale molto profondo. Ho l’impressione che il tema sia quello di capire come si possa riuscire a lavorare anche sul fronte del cambiamento degli orizzonti culturali di fondo del nostro paese. Per le forze politiche che rappresentavano la stragrande maggioranza degli italiani era del tutto naturale immaginare che la strategia della politica fosse costruire orizzonti di solidarietà. Democristiani e comunisti lo declinavano poi in modi diversi, ma era così: l’orizzonte culturale era questo. Oggi è tutto diverso. Ma perché era così? Perché era l’orizzonte culturale della maggioranza della società italiana. Allo stesso modo, bisogna oggi capire come si possa incidere più nel profondo.



NUVOLE: Dalle indagini che abbiamo a disposizione emerge uno scollamento profondo e sempre più forte fra cittadini e partiti. Ricerche empiriche e sondaggi mostrano frustrazione e rabbia, soprattutto da parte di chi fino a ieri si identificava nei partiti di sinistra. La dinamica è evidente: non siamo soltanto in presenza di un’offensiva della destra, ma anche di una inarrestabile deriva della sinistra. In una situazione così deteriorata, i partiti democratici dovrebbero quantomeno cercare di ricomporre denominatori comuni. Dalla difesa dei diritti civili a quella dei diritti sociali; da una posizione comune sul lavoro a una valorizzazione del ruolo strategico della scuola. E così per molte altre questioni di valore essenziale. Di fronte a un’offensiva antidemocratica dell’ampiezza che registriamo, la ricerca di denominatori comuni può affermarsi solo attraverso un percorso in grado di condurre, se non altro, a una visione condivisa delle linee di trasformazione che si profilano, a un’analisi attenta del cambiamento sociale.

Ma l’aspetto più inquietante è che i partiti di sinistra sembrano avere una straordinaria capacità di isolarsi, di sottrarsi al confronto, perfino nella diagnosi dei problemi da affrontare. C’è uno sforzo, all’interno dei vostri partiti, per mettere al centro dell’iniziativa politica i diritti civili e la tutela dei diritti sociali, sia pure in modo diverso dalle forme tradizionali? Per elaborare il tema del lavoro attraverso una strategia di costruzione di nuovi lavori e nuove modalità per garantire i lavoratori, al di là della ricerca di forme sostenibili di flessibilità? E quanto siete aperti, quanto siete in ascolto delle competenze della società civile, dei cittadini comuni, delle competenze delle comunità professionali, degli esperti, delle università? Ci si aspetterebbe che un partito che si definisce “democratico” cerchi quantomeno di essere democratico, di sviluppare momenti di confronto con comunità professionali che riflettono, piuttosto che con comunità professionali autoreferenziali; che la sinistra “democratica”, in senso lato, sviluppi momenti di confronto non con cittadini auto interessati, ma con esperti, testimoni, cittadini comuni. E qualcosa di non molto diverso ci si potrebbe aspettare anche dai partiti che ancora si rifanno alla tradizione comunista. Per contro, preoccupa e sconcerta che non si veda questa esigenza di ricerca, di apertura, di costruzione di una democrazia capace di sviluppare e regolare il confronto, di costruire elementi di un programma, di un progetto in grado di ricostruire in primo luogo degli argini, e al tempo stesso di prospettare concrete prospettive di cambiamento. È presente, nonostante tutto, una domanda di momenti e spazi di aggregazione in vista di un reale miglioramento della qualità sociale. Ma oggi, se si partecipa a momenti di confronto pubblico organizzati dai partiti, da questi partiti, non si ha certo una sensazione di apertura, di disponibilità alla ricerca e all’ascolto, di assunzione di responsabilità e sviluppo di progettualità sui grandi problemi di rilevanza collettiva. Forse da qui si dovrebbe ripartire.



MORGANDO: Questi sono senz’altro problemi reali. In particolare all’interno del PD siamo impegnati in un complicato lavoro di ricostruzione: siamo abbastanza attivi nell’organizzazione di momenti, di iniziative, di dibattiti, ecc. Il limite di queste iniziative è però quello di servire soltanto alla propaganda di una posizione e non alla ricerca di un confronto.

Se si pensa agli ultimi due mesi le iniziative, principalmente focalizzate sui temi della crisi economica, erano finalizzate a spiegare la posizione del partito e non hanno avuto nessuna capacità di ascoltare le competenze cui si faceva riferimento. La costruzione di relazioni tra partiti e competenze professionali, organizzazioni sociali, comunità concrete è un problema che si risolve soltanto lavorando sul modello di partito. Serve un modello di partito che consenta di avere un rapporto con pezzi di società con una certa continuità. Questo è il problema. Un partito come il PD, che ha avuto un avvio basandosi su un modello leaderistico, ha finito per applicare questo modello anche alle modalità con cui agisce ed elabora il suo programma. Da noi c’è stata una riflessione critica molto importante su questi temi e per certi versi stiamo provando a recuperare un modello di partito tradizionale, che è la condizione per riuscire ad avere nelle articolazioni della società persone che non soltanto condividano le iniziative del partito, ma possano portate nel partito la propria competenza. Il processo di elaborazione di un progetto per un partito non si risolve nelle relazioni diplomatiche con le organizzazioni economiche o sociali. Noi incontriamo queste organizzazioni, ma il problema si risolve solo ripensando il modello organizzativo del partito. Questo “modello” deve ricalcare quello di tipo associativo e deve avere la forza di accogliere dentro il partito persone che vivono nell’esperienza concreta dei mondi professionali, culturali e sociali. In questo vedo il limite dell’esperienza del PD. E la lamentela che sovente viene indirizzata ai dirigenti del partito è una conferma di questo limite. Persone che hanno compiti significativi in organizzazioni sindacali ed economiche lamentano di non essere più all’interno del dibattito del partito. Una volta riuscivano ad incidere, partecipavano al dibattito del partito, alla sua vita. Oggi non accade più.



CERUTTI: La voglia di aprirsi certamente c’è. Tuttavia non si sa bene come fare perché è difficile creare delle occasioni, delle situazioni. “Sinistra democratica” nasce per provare a mettere insieme, per unire quello che c’è a sinistra del PD e non per costruire l’ennesimo partito di sinistra. L’obiettivo principale era quello di far militare coloro che non hanno precedenti esperienze di militanza. Provare ad aprirsi a quella che si chiama - con termini un po’ enfatici - “sinistra diffusa”, che esiste e in questo momento è disorientata, ma che vorrebbe dare un contributo e partecipare. Questo percorso non è così semplice. Stiamo provando a fare alcuni esperimenti. Il programma delle elezioni provinciali, ad esempio, è stato elaborato da alcuni gruppi ai quali sono stati invitati tutti gli iscritti dell’associazione; questo lavoro è stato riassunto da un gruppo più ristretto e ora lo si vuole portare al confronto con vari soggetti della società civile, dai docenti universitari alle comunità professionali, alle organizzazioni socio-economiche ecc. Non sarà questo a risolvere il problema, però è un tentativo che mi sembra vada in questa direzione.

C’è da dire però che spesso si creano dei momenti che vengono disertati e ci si ritrova in pochi e sempre i soliti. Forse siamo noi a sbagliare e li congegniamo male ma - senza necessariamente ridurre tutto a questioni molto pratiche - c‘è da ragionare sugli strumenti dei quali dotarsi. La volontà di chiudersi non c’è. C’è piuttosto il bisogno di aprirsi il più possibile, di rimettere in gioco le proprie idee. Ma se andiamo a costituire una nuova formazione politica è molto importante il modello di cui ci si dota: ha ragione Morgando. Se il momento esterno è solo quello delegato alle primarie - per quanto possano essere più o meno condivise - può essere sì un momento di partecipazione, ma dovrebbe anche essere un momento in cui si dovrebbe ragionare non solo dei candidati ma anche delle idee. In questo senso va letto il nostro tentativo di promuovere le “primarie delle idee”. Anche in questo caso non è così semplice ma la volontà c’è. Questa difficoltà di carattere “operativo” a volte viene interpretata come chiusura, invece è incapacità o mancanza di strumenti di cui dotarsi. Io credo molto nelle possibilità telematiche, di lavorare con la rete. Abbiamo costruito un sito che è certo una piccola cosa, ma è anche un modo per dar conto di quello che succede in consiglio comunale. Se si guarda il sito si notano enormi differenze con quello che si legge sui giornali in cui predomina la logica del “sì” o del “no”.



PETRINI: Io vorrei partire dalla considerazione introduttiva, riferita al rifiuto diffuso dei partiti. Dal mio punto di osservazione penso che si possa dire - brutalizzando e quindi semplificando - che il motivo per cui questo accade a sinistra e non accade a destra è perché a sinistra i partiti non fanno quello che dicono di voler fare, mentre a destra i partiti fanno esattamente quello che dicono di voler fare. E’ una semplificazione brutale, ma secondo me efficace. Questo determina una disaffezione molto forte. Certo ci sono ragioni reali e complesse per cui la sinistra non fa quello che dice di voler fare. Penso però che dovremmo fare autocritica col nostro elettorato, col nostro popolo. Abbiamo detto alla nostra gente - entrando nel governo Prodi - che avremmo fatto cose che poi non abbiamo fatto. Credo che questo valga anche per le altre sinistre, anche per il PD. L’opposizione del PD al governo Berlusconi viene evidentemente riconosciuta in un modo parziale. Si tratta di tornare a fare quello che si dice di voler fare. Che vuol dire? Che bisogna avere cose da fare che siano dentro un progetto. Quando sottolineo il problema dell’identità non voglio certo dire che bisogna tornare alle vecchie identità, o recuperare quelle di un tempo, ma credo che sia fondamentale averne una. Per averla ci vuole un’analisi della società che supporti il progetto politico e quindi è necessario ascoltare, mettere a frutto intelligenze, competenze, analisi.

Io penso che le strade siano due. Ha ragione Morgando quando dice che innanzitutto c’è il problema del modello di partito. Bisogna costruire un modello di partito che sappia autenticamente mettere a frutto - non in modo occasionale e retorico - queste relazioni. L’altro aspetto è però quello dell’iniziativa politica. Tanto più le iniziative politiche sapranno porsi come momento di confronto, di raccolta e di ricchezza di idee, tanto maggiore sarà il vantaggio per tutta la sinistra. Anche Rifondazione Comunista si sta muovendo in questa direzione, anche se con molti limiti, il primo dei quali è relativo alla nostra poca forza. Considerato il contesto, è da sottolineare che abbiamo costruito un’iniziativa, una discussione sull’università e l’abbiamo intitolata “Un’università pubblica di qualità e critica”. Con questo volevamo definire la cornice all’interno della quale si muoveva la nostra iniziativa. Il centro è stato l’ascolto e la discussione con molti che stanno all’interno dell’università. Mi pare che la risposta possa essere proprio questa: un partito che sappia mettere a frutto queste iniziative.



MORGANDO: Voglio aggiungere che se il modello della vita interna di un partito è così importante per la sua capacità di creare un rapporto con la società, non è meno importante per quanto riguarda la possibilità di migliorare la qualità della democrazia. L’idea di democrazia è rappresentata in primo luogo dal modello di democrazia che pratichi dentro il partito. Allora mi sto chiedendo se non sia venuto il tempo di riflettere attorno ad una legge sui partiti…

NUVOLE: Non ci si farà venire in mente Berlusconi…

MORGANDO: Berlusconi ha detto di no! Una legge che individui un modello di partito democratico…

CERUTTI: C’è l’applauso come metodo di votazione del leader…

MORGANDO: L’applauso con cui è stato eletto Berlusconi non è diverso da quello con il quale noi abbiamo eletto Franceschini all’assemblea nazionale! Se avessimo votato in segreto andava così lo stesso, ma …

NUVOLE: E’ evidente che qui c’è un problema di stile, di messaggi che si lanciano, è stato messo il dito nella piaga. Rappresentare la democrazia come un’elezione plebiscitaria fa pensare alle persone che questo sia democratico. Questo è il dramma che stiamo vivendo: continuando a dire che è normale, che la fisiologia democratica è questa, si può spiegare il risultato elettorale come una non sufficiente applicazione di questo modello.

Per quanto riguarda l’emergenza democratica, se vogliamo dire che non ci sarà la “marcia su Roma” siamo d’accordo. Se invece vogliamo dire che non potrà succederà qualcosa di estremamente sgradevole - anche dal punto di vista formale - non ci sono limiti alla provvidenza…. Certo nel breve periodo non succederà nulla alla democrazia elettorale, ma solo perché va benissimo a Berlusconi, quindi perché metterla in discussione? Però forse è il caso di drammatizzare la questa questione.

Un altro punto riguarda le iniziative contingenti. Intanto sono anche iniziative “autocentrate”. Un partito deve farle, però dovrebbe anche fare essenzialmente tre cose:

a) cercare di capire come stanno le cose, con gli strumenti che le scienze sociali mettono a disposizione. Analizzare i rapporti di forza, le trasformazioni politiche ed economiche, definire i vincoli e le opportunità del contesto all’interno del quale si muove;

b) dire che tipo di progetto di società ha in mente;

c) data l’analisi di vincoli e opportunità, elaborare delle politiche pubbliche capaci di catalizzare l’attenzione e il cuore del suo elettorato di riferimento (posto che ve ne sia uno).

I partiti non fanno questo da molto tempo. Ma non solo perché non sono più in grado di strutturare questi tre momenti, ma soprattutto perché hanno preso il primo di questi tre momenti - l’analisi dei rapporti di forza elaborata alla luce di sondaggi contingenti- e ci si sono sdraiati sopra! Trasformare i vincoli in obiettivi è la radice di quello che un tempo si chiamava “opportunismo”. Ed è questo che sta alla base della loro perdita di legittimità. Qualsiasi tattica, accomodamento, concessione, compromesso è legittimo in presenza di una visione autonoma dei fini che ci si propone. Ma se l’unico obiettivo è massimizzare i voti non è necessario essere autonomi. Ed è precisamente questo il criterio a cui si è informata la selezione –avversa – della classe politica, di governo e di opposizione, che incombe come una cappa sul paese. Vincere le elezioni non per varare politiche finalizzate a un progetto di società, ma proporre politiche nella speranza di intercettare voti e con essi cariche di governo e sottogoverno. E’ il politicantismo, il male che sta divorando la sinistra e con essa la democrazia.



PETRINI: Io penso che il rischio democratico vada effettivamente drammatizzato. Sono anche d’accordo sul fatto che in questo momento la democrazia formale regge perché porta un certo risultato e sono d’accordo sul fatto che qualora le cose dovessero mutare ci potrebbe essere un rischio di messa in discussione di alcuni gangli del sistema democratico. Berlusconi non fa neanche mistero di questo…

NUVOLE: Nel 2005 lui si era riscritta la legge elettorale…

PETRINI: Appunto. Prima volevo dire che non mi pare che Berlusconi possa usare l’esercito, non mi pare ci sia questo rischio. Però credo che sia necessario essere molto vigili, molto attenti. Soprattutto se questo rischio lo si lega a un’analisi sociale. Se c’è una crisi così grave, come quella cui assistiamo, il rischio democratico non è dovuto ad un ceto politico che è semplicemente rozzo, che non ha cultura democratica. Questo c’entra, ma la vera ragione è che questa è una risposta a un conflitto sociale che sta crescendo. Fino a che il sistema democratico, così com’è, permette di reggere il conflitto sociale va tutto bene. Quando ciò non sarà più possibile non mi stupirebbe se ci fossero dei cambiamenti preoccupanti.

Sono d’accordo anche sulla seconda parte, che è mancata un’analisi profonda della base. Laddove manca una progettualità autentica, che poggia su un’analisi, e si galleggia sulle cose da fare nell’immediato, inevitabilmente si resta all’interno di una direzione che è “data”. Da questo punto di vista la sconfitta della sinistra è una sconfitta essenzialmente culturale. Noi abbiamo introiettato - dopo la caduta del muro di Berlino - una visione ineluttabile del percorso storico e sociale. Questo modello culturale lo abbiamo introiettato applicando, ciascuno a suo modo, una concezione della politica che è debole, non più attenta al piano dell’analisi. Credo che questo punto sia dirimente. Il modo con cui costruiremo il partito - se lo faremo capace di dedicarsi soltanto alla soluzione del problema immediato o piuttosto anche all’analisi - sarà decisivo.



CERUTTI: Anch’io non credo che siamo alla vigilia di una nuova marcia su Roma, ma la nostra può essere considerata una dittatura mediatica e su questo c’è da preoccuparsi. Ma se c’è da drammatizzare, bisogna alzare i toni non solo a livello sociale e politico, fuori dal parlamento, ma anche all’interno del parlamento. Sicuramente il PD in questo momento non sta facendo un’opposizione durissima all’interno del parlamento. E questo è un problema. È un problema perché i due maggiori partiti nazionali agiscono contrattando. Si è citata prima la questione della legge elettorale con la soglia di sbarramento al 4%. Bene, questo è stato uno degli elementi di contrattazione tra PD e PDL. Insieme alla RAI, insieme al federalismo e altro ancora. Questo non è certo un modo per essere consapevoli della gravità della situazione. Da una parte si dice che Berlusconi è un clerico-fascista e dall’altra poi si contratta tutto. L’astensione sul federalismo fiscale francamente è assai poco comprensibile nell’ottica di salvaguardare un’uniformità nazionale rispetto ad alcuni diritti. La gravità del momento dovrebbe portare a una coerenza di comportamenti.

E qui arrivo al secondo punto. I partiti dovrebbero recuperare una loro credibilità, una loro autorevolezza. Sicuramente sul contenuto e sul progetto. Un tema centrale che è patrimonio della sinistra è quello del valore del pubblico, del lavoro pubblico. Perché il pubblico è un valore. Su questo dovremmo tornare a confrontarci, perché abbiamo visto che determinate politiche, che sono andate in una certa direzione, non hanno portato nessun vantaggio. A partire dal problema dell’acqua. Su questo possiamo arrivare a una posizione comune. Rispetto ai modi serve una coerenza di comportamento che molte volte è proprio difficile da intravedere. Rispetto poi alla questione morale, io credo che i comportamenti politici siano inficiati da una grande arroganza.



MORGANDO: Sono convinto che il tema della qualità della democrazia - e dei suoi rischi - sia oggi una questione su cui è possibile allargare la convergenza oltre il centrosinistra. Nel senso che anche nel centrodestra c’è qualcuno che si pone questo problema, anche nel centrodestra c’è qualcuno che s’interroga sulla deriva dei modelli di democrazia dentro il partito, sulla deriva delle libertà. Alcuni qualche volta si affacciano, anche cautamente, a prese di posizione pubbliche, come Pisanu ad esempio. Credo sia giusto accogliere l’invito a mettere al centro della questione dell’iniziativa e del dibattito politico questo tema. Io sono rimasto molto colpito nel verificare che nell’UDC uno di quelli che erano più convinti nel mantenere un’autonomia del partito ed evitare la confluenza nel centrodestra, dopo le elezioni, era Buttiglione. La motivazione era che la sua concezione di democrazia non corrispondeva a quella di Berlusconi.

Sul secondo tema penso che la difficoltà progettuale e di innovazione che c’è oggi nei partiti del centro sinistra sia anche il prodotto di una difficoltà progettuale che c’è nei retroterra socioculturali di riferimento. La capacità di elaborazione e di proposta dei partiti progressisti - dei partiti di sinistra, come pure di larghi pezzi di cattolicesimo politico - era legata anche a un dibattito che esisteva nella società, nelle organizzazioni sociali economiche, e si autoalimentava anche grazie al confronto con i partiti. Oggi noi cattolici democratici abbiamo difficoltà, ad esempio, nell’elaborazione di una teoria della laicità. Questo credo derivi dal fatto che nel nostro retroterra questo tema non c’è più. Nel passato c’era e contribuiva anche all’elaborazione di posizioni politiche che sapevano farsi carico di questo nodo. Di questo sono molto convinto e penso che, in fondo, il livello di dibattito e di elaborazione della politica sia molto legato al livello di dibattito ed elaborazione che c’è nella società.

NUVOLE: Bisogna però creare i presupposti da cui queste cose nascono. La destra ha finanziato dei think-tank, ha avuto dei momenti che hanno strutturato questo progetto socio-politico. La sinistra invece ha costruito delle pseudo-fondazioni che sono essenzialmente delle organizzazioni elettorali o di corrente, centri di potere, cricche clientelari non luoghi in cui si investono risorse e capacità per un progetto di lunga lena.

In conclusione, dalla discussione sono emersi diversi elementi. C’è un problema grave di legittimità e di farsi ascoltare, di avere un discorso. Il tema della qualità democratica è fondamentale. È così grave che se ne occupano persino quelli di destra, come dice Morgando. La domanda da lasciare forse in sospeso è se non sia il caso di fare un’iniziativa visibile in questa città, un’assemblea cittadina, una sorta di “stati generali della democrazia”. Dobbiamo chiederci se non ci sia la possibilità di mettere insieme degli attori politici, degli intellettuali, per immaginare cosa possa essere un’elaborazione comune, che cosa pensiamo e vogliamo dalla democrazia. E’ chiaro che il riavvicinamento sarà lungo, faticoso anche perchè le elezioni sono state un disastro e l’esperienza del governo di centro sinistra è stata un disastro. Ma ci chiediamo se non si sia in grado di lanciare un progetto politico di discussione pubblica. Se non sia l’ora di fare un discorso e vedere cosa succede. Ci sono delle idee sull’elettorato? E quali? La nostra sollecitazione è questa: riusciamo a fare un’iniziativa politica che ponga al centro dell’attenzione la questione democratica?

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