domenica 26 luglio 2009

Giuseppe Tamburrano: Risorgimento socialista

“Dalla sera alla mattina non vale più il principio di fondo
dell’Occidente, ovvero il libero mercato....Proprio coloro
che fin ora avevano rifiutato con veemenza ogni intervento statale,
dalla sera al mattino si sono convertiti: si stanno trasformando
da neo-liberali in socialisti statalisti, almeno per quanto riguarda
singoli punti”: cito Ulrick Beck dal Corriere della sera del 5
novembre 2008.
E’ così. Poco tempo prima che la crisi cominciasse a rivelare la
sua gravità – sono passati solo pochi mesi – la grande maggioranza
della pubblicistica e della politica esaltava le “magnifiche
sorti e progressive” del mercato senza regole e della globalizzazione.
Nei paesi più poveri, specie dell’Africa sub-sahariana si
registravano: aumento generalizzato dei redditi, riduzione delle
fame, della miseria, della mortalità infantile, incremento dell’igiene,
della scolarità, della sicurezza, elevamento degli standard
di libertà e di democrazia.
Questi processi, assistiti da “elaborate” statistiche e precisi indici,
davano ragione al solito Fukuyama: “la storia è finita” col crollo
del comunismo, il mondo è ora unipolare, a modello unico, quello
del mercato americano, globalizzato e unico è il pensiero liberal-
liberista. Per anni il guru di Tony Blair ha dettato legge: e la
legge era: “Il socialismo in quanto tale è un progetto sepolto in
quanto si basava sull’idea che un’economia regolata potesse
sostituire i meccanismi di mercato: un termine privo di senso”.
Così scriveva il “socialista” Anthony Giddens, mentre Tremonti
sosteneva che è privo di senso un mercato senza regole.
Vi erano anche altre statistiche di segno diverso: oltre alle celebrazioni
del capitalismo globalizzato dei seminari di Davos, vi era la
denuncia del Global Forum. Vi erano i fallimenti dei vari programmi
ONU, come il Millenium round che fissava al 2015 il dimezzamento
della povertà nel mondo. E vi erano le opere di agguerriti
scrittori controcorrente, da Beck a Stiglitz, Amartia Sen, Yunus, Gallino,
Reich. Ma il pensiero dominante, se non unico, era quello: il
mercato sovrano e la globalizzazione deregolata trionfano.
A tale pensiero sono stati convertiti i più antichi e incalliti avversari
del capitalismo, i comunisti, che dalla fede nel collettivismo
sono passati, senza un momento di riflessione, alla fede nel liberismo.
Curiosamente racconta di questa conversione Michele Salvati
sul Corriere della sera del 10 marzo 2009 in un articolo dal
titolo significativo: “Ritorno a sinistra”, nel quale, tra l’altro, giustamente
osserva che la sinistra non si può presentare come la
“salvatrice” del sistema perchè ha accettato in pieno il liberismo
“con l’entusiamo che solo un neofita può provare” e non può
quindi pretendere di dire: “l’avevo detto io”. Altrettanto curiosamente,
chi si è tirato fuori per primo dall’altra parte è stato l’intellettuale
ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, colui che
aveva esaltato la finanza creativa.
Non intendo soffermarmi sui fattori della crisi, sulla quale ha sicuramente
inciso la bolla dei subprime. Ma in sostanza la causa più
profonda è stata la “finanza creativa” che si è rivelata distruttiva,
ed è stata messa alla gogna in vetrina dalle retribuzioni da capogiro
intascate dai tanto celebrati manager anche sulle ricapitalizzazioni
con i soldi dei contribuenti erogati per salvare l’impresa
dal crack da loro provocato, come nel caso più noto, ma certo non
unico, dell’AIG. Al paragone i tanto a suo tempo bistrattati manager
– i boiardi – delle Partecipazioni statali italiane sembrano
monachelle.
Le conseguenze sono devastanti: imprese finanziarie che sembravano
indistruttibili sono crollate, due nomi americani – oltre a
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Risorgimento socialista
>>>> Giuseppe Tamburrano
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saggi e dibattiti / / / / mondoperaio 3/2009
AIG – fra tanti, Lehman Brothers, Merrill Lynch sono stati salvati
dallo Stato colossi come la General Motors (ricordate il Presidente
Eisenhower:” quello che va bene per General Motors va
bene per l’America”); la gravissima crisi edilizia (per i subprime);
l’aumento della povertà, delle diseguaglianze e specie della disoccupazione;
la forte diminuzione del reddito globale (in continua
revisione al ribasso. Sono fenomeni che, con diversità nazionali,
investono tutto il mondo produttivo.
Globalizzazione in ritirata
La globalizzazione è in ritirata: Gordon Brown parla di “deglobalizzazione”.
I capitali emigrati rientrano a casa; si privilegiano i
prodotti domestici,“buy american”, si riducono le delocalizzazioni;
cresce la discriminazione verso i lavoratori immigrati; sui venti
Paesi del G.20, diciassette praticano il protezionismo. E tutto
ciò è particolarmente grave in Europa, che è piuttosto un’“concerto”
di nazioni che una “Comunità”, nella quale ognuno fa
ormai a modo suo, e come potenza economica e politica rischia
di retrocedere dietro la Cina: non per nulla si parla ormai di G.20,
USA e Cina, più che di G.8.
E che cosa possono attendersi i paesi poveri se non una ulteriore
riduzione degli aiuti dai paesi ricchi? E che fine faranno i grandi
progetti mondiali di energia verde, di riduzione dei gas inquinanti?
Sulla crisi della globalizzazione nessuna voce è più autorevole
dell’Economist. La copertina del n. 6 del 2009 recitava Il ritorno
del nazionalismo economico e a pag. 9 si legge: “La globalizzazione
sta soffrendo il suo più grosso rovescio nell’era moderna”.
E veniamo ai rimedi che sono disparati, anzi “disperati”. Interessante,
prima di tutto, è la sede in cui si apprestano: non le organizzazioni
economiche e finanziarie, il FMI, il WTO, la Banca
mondiale. No, le terapie si discutono in “casa d’altri”, una casa
guardata finora con ostilità e tenuta alla larga: i governi, i Parlamenti,
lo Stato. Il mercato ha abdicato alla sua sovranità e lo scettro
è passato nelle mani pubbliche. Questa sì che è una rivoluzione
culturale, una rivoluzione “copernicana”. Dalla quale occorre
prendere le mosse per capire gli scenari presenti e futuri.
Le cifre dell’intervento pubblico confermano la svolta epocale.
Non sono riuscito a quantificarle, anche perchè, a parte quelle
approvate dal Congresso americano, le altre sono “in ballo”. Ma
per restare agli Stati Uniti, il dato che sembra certo è il 12% del
PIL impegnato nella ricapitalizzazione delle imprese finanziarie e
industriali e nella caccia ai titoli tossici (con il concorso del capitale
privato). Migliaia di miliardi di dollari. Alcuni senza peli sulla
lingua definiscono queste operazioni come “nazionalizzazioni”.
Si può sottilizzare, tra azioni ordinarie, azioni privilegiate,
obbligazioni, ma la realtà è che queste imprese, afferrate sull’orlo
del baratro, circondate dalla sfiducia del cliente e investite dalla
collera dei cittadini difficilmente potranno restituire quegli enormi
capitali pubblici e tornare ad essere quelle di prima. Come ha
scritto il Times un mondo è finito e non tornerà più.
Sulla “nazionalizzazione” surrettizia di grandi imprese finanziarie
non ci sono dubbi. Che vocabolo usare per definire il rapporto tra
il governo americano e la General Motors? Obama licenzia il
capo del colosso automobilistico, annuncia un grande piano di
risanamento e rende la GM “dipendente” dai programmi del
governo, ad esempio nella politica energetica e ambientale. Lo
stesso ha fatto Sarkozy che ha ottenuto la liquidazione della dirigenza
della Peugeot e vietata la delocalizzazione.
Che capitalismo sarà?
Se il capitalismo non sarà più quello di ieri, che cosa sarà? C’è
poco da scegliere. Le prospettive sono tre: o lo Stato o il mercato
o una forma di economia mista. Il mercato senza regole è morto;
il collettivismo è stramorto. Avremo il paradosso della statizzazione
del capitalismo operata non da Lenin o Palme ma da “lor
signori” dell’establishment? O si realizzerà una forma di collaborazione
tra Stato (sovrano) e mercato?
Cito ancora l’Economist, tempio del liberismo: “Manifestamente
l’opinione pubblica appoggia la regolazione statale” (n. 8, 2009,
p. 58): il titolo di copertina del numero è “The collapse of manufacturing”.
La parola “nazionalizzazione” trova difficoltà sulla bocca dei
capitalisti soprattutto dei turbocapitalisti. Ma è la parola giusta. Se
ne riparlerà quando la crisi sarà superata.
Non c’è nulla di sicuro sullo sbocco della crisi, a causa della sua
gravità. Leggo la prosa di Monti sul Corriere della sera del 22
marzo 2009: c’è una battaglia urgente – scrive – che viene trascurata:
contro gli eccessi e la crescita delle diseguaglianze tra
paesi e nei paesi. Monti cita uno studio dell’ Economist Intelligence
Unit: 95 dei 165 paesi studiati sarebbero “a rischio alto o
molto alto nei prossimi due anni”. E i rischi vengono dalla globalizzazione
(Monti non ne è stato un alfiere?). Purtroppo “gli Stati
hanno sempre meno risorse per assistere coloro che soffrono dalla
globalizzazione... I poteri pubblici hanno a lungo assistito passivi
agli eccessi del mercato e della finanza. Dinanzi a quella
avanzata hanno ritirato, disarmato lo Stato. E se non recupereranno
la capacità di contenere le diseguaglianze, gli Stati saranno in
gravi difficoltà di fronte alle pesanti conseguenze della crisi”. Si
paventa la rivoluzione? E dov’è Lenin? Ancora più esplicito
Strauss-Kahn: “La crisi farà salire le tensioni sociali. Una minac-
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cia che potrà sfociare, in alcuni casi, in una guerra” (Corriere della
sera, 24 marzo 2009). E’ il direttore del Fondo monetario internazionale
che scrive quelle parole.
Le prospettive
Partiamo da due dati: 1) il denaro pubblico diventa prevalente nel
capitale delle imprese; 2) l’impresa privata non è dunque più
“guidata” dalle regole cieche del mercato. Sulla copertina di Newsweek
tempo fa è uscito il titolo “Siamo tutti socialisti”. Evidentemente
la ricapitalizzazione statale di imprese “capitalistiche”
non realizza il socialismo come lo immaginiamo noi. Però ci sono
dei mutamenti culturali che pongono le questioni in modo nuovo.
Il dilemma Stato o mercato è superato e si pone diversamente:
Stato e mercato. Teniamo da parte le teorie riformiste del socialismo,
da Bernstein a Rosselli, da Palme a Bad Godesberg. Teniamo
conto di un solo punto. Se lo Stato contribuisce in modo determinante
alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’impresa non può
certo disinteressarsi della vita e della politica dell’impresa: obiettivi
produttivi, investimenti, salari, dipendenti, ecc. Ed in parte è
quello che fanno in particolare gli Stati Uniti e la Francia. E se è
lo Stato che orienta l’impresa, lo Stato risponde ai suoi azionisti
che sono gli elettori.
Questo è un punto fondamentale: lo Stato – nelle forme pubbliche
più varie: agenzie, comitati e controlli d’azienda, pubbliche consulenze
– orienta la vita economica, sulla base di un mandato ottenuto
dai cittadini e attraverso organismi partecipati. E certamente il
mercato è la bussola sulle preferenze dei consumatori e lo strumento
più efficace ed economico di produrre e distribuire nei campi
suoi propri. E’ la bussola, non il timone. Il timone è nelle mani
dello Stato e il mercato, nei settori in cui prevale il profitto, è lo strumento
neutrale di intervento, è uno strumento sussidiario, funzionale
al servizio dei fini decisi dallo Stato. Insieme ad altri strumenti
pubblici, semipubblici, privati, dalle cooperative al volontariato.
Obama socialista
Se questa è la nuova “ideologia” del capitalismo essa riguarda noi
socialisti molto da vicino: perchè, anche se la cosiddetta sinistra
non se ne è accorta, essa è simile alla “ideologia” del socialismo
riformista che guarda allo strumento dell’intervento pubblico non
nel piano, ma prevalentemente nel mercato. Il punto di partenza
sta nella distinzione tra fini e mezzi. Nella logica pura del liberismo
il mercato individua i fini, cioè le cose da produrre e appresta
il mezzo; la concorrenza è stimolata dal profitto. Nella logica
del socialismo riformista è il cittadino che sceglie i fini. Il fine è
il regno della democrazia e della politica; il mercato è il luogo della
tecnica e dello scambio.
A costo di ripetermi torno al caso Obama-industria automobilistica.
La quale ha scelto di produrre un certo tipo di auto per ricchi.
La crisi ha fatto crollare questo mercato. Obama si impegna a salvare
le imprese a condizione che le auto siano di piccole dimensioni,
a basso consumo energetico e poco inquinanti. Da questa
decisione politica è nato l’accordo Chrysler-Fiat e la ripresa del
mercato. La scelta e gli obiettivi sono pubblici, dello Stato, lo strumento
è il mercato.
Che cosa porteranno nel mondo le conclusioni del G.20 è presto
per dirlo, anche se nei commenti più autorevoli non vi è grande
ottimismo. E’ significativo, però, che le parole chiave sono state
non “globalizzazione” e “deregulation”, ma “governance”, “regole”,
“cooperazione”.
Nel 1997 la Fondazione Nenni ha discusso un progetto di nuovo
socialismo con importanti contributi tra i quali quelli di Giolitti e di
Bobbio. Il testo era astratto perchè dominante era l’ideologia liberista.
Oggi quel testo può essere calato nella realtà di un liberismo
sconfitto e stimolare la ripresa della ricerca e del dibattito nella sinistra
per un nuovo socialismo all’altezza dei tempi. Ma la sinistra si
è accorta della crisi per le sue drammatiche conseguenze, ma non
ha minimamente riflettuto sulle positive prospettive della rinascita
del socialismo che la crisi apre. Si direbbe che Giavazzi ed Alesina
hanno convinto la sinistra ex comunista con la loro opera “Il liberalismo
è di sinistra”: ovviamente di questa “sinistra”.
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mondoperaio 3/2009 / / / / saggi e dibattiti

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