La prima volta
di Zapatero
>>>> Nerio Nesi
Quando parliamo della Spagna dobbiamo
porci quattro domande.
Innanzitutto dobbiamo chiederci quali
sono le ragioni del cambiamento così
radicale della società spagnola in questi
ultimi trent’anni, da quel 1975, cioè,
quando – con la fine del regime franchista
– rinacque la democrazia e iniziò
l’alternanza al governo del paese fra la
sinistra riformista (il PSOE) e la destra
(il Partito Popolare); in secondo luogo
qual è la situazione reale della economia,
in un paese nel quale la componente
industriale ha un rilievo modesto
rispetto alla Germania, alla Francia e
all’Italia; inoltre quanto pesa nella
struttura unitaria della Spagna la esistenza
di due regioni (la Catalogna e i
Paesi Baschi) che fanno della autonomia
e della tendenza alla indipendenza
economica e politica la loro base ideologica;
infine qual è la situazione reale
del cattolicesimo in Spagna.
Il primo punto riguarda soprattutto la
cultura spagnola, alla quale il franchismo
inflisse una ferita profonda, che
poteva essere mortale, in un paese
che nella prima parte del ‘900 conobbe
un vero e proprio “Rinascimento”
dopo la “generazione del ‘98” che
aveva dato Juan Ramón Jiménez,
Antonio Machado, Miguel de Unamuno.
In quegli anni la cultura spagnola
aveva raggiunto un prestigio
internazionale molto alto in tutti i
suoi settori: nella composizione letteraria,
con Ramon Maria del Valle,
Jorge Guillén, Gerardo Diego, Dámaso
Alonso, Vicente Aleixandre,
Rafael Alberti, ma, sopra tutti, con
Federico Garcia Lorica; nell’arte pittorica,
con Pablo Picasso, Juan Gris,
Salvador Dalì; nel cinema, con Luis
Buñuel; nella musica, con Manuel de
Falla; nella ricerca filosofica, con
José Ortega y Gasset.
La tragedia della guerra civile – provocata
dal sollevamento militare del
17 luglio 1936 – interruppe il Rinascimento
spagnolo. L’assassinio di
Federico Garcia Lorca, ad opera della
teppaglia fascista, nella notte del 19
agosto dello stesso anno, fu l’inizio e
divenne il simbolo della lunga parentesi
franchista. La guerra civile mise in
evidenza un latente estremismo di sinistra,
in particolare di origine anarchica
(ma non solo), che per molto tempo
considerò la democrazia liberale e la
dittatura fascista forme equivalenti di
“dominio borghese”.
Ciò fu la conseguenza della sfiducia
delle masse popolari verso la democrazia,
dopo che un sistema pseudo democratico
– prima della Repubblica – aveva
governato per decenni attraverso
sistematici brogli elettorali, escludendo
la classe lavoratrice e i suoi esponenti
da ogni rappresentanza: nel 1923, dopo
trent’anni di suffragio universale, il
Partito Socialista riformista aveva alle
Cortes solo sette deputati, mentre una
qualsiasi legislazione sociale fu pressoché
inesistente per molti decenni.
Anche una parte del Partito Socialista
non era immune da componenti estremiste.
Proprio per questo, negli anni
’80, il tentativo di Felipe González e di
Alfonso Guerra di fare del P.S.O.E. un
partito socialdemocratico è da iscrivere
nella storia della sinistra europea come
un compromesso lungimirante realizzato
tra la borghesia illuminata e la classe
operaia. Ma la trasformazione del più
grande partito spagnolo non aveva
cambiato quella straordinaria combinazione
di impulsi, di sentimenti e di
bisogni che stava investendo gran parte
della società, ma soprattutto della gioventù
spagnola: un misto di anarchia, di
spirito libertino, di anticlericalismo, di
spavaldo desiderio di trasgressione.
Il nuovo corso della dirigenza socialista
e in particolare il nuovo leader José
Luis Rodríguez Zapatero hanno cavalcato
queste pulsioni attraverso una
legislazione sempre più orientata da un
lato alla liberalizzazione dei costumi
privati e dall’altro al miglioramento
continuo delle condizioni di vita e quindi
all’aumento dei consumi. In questo
quadro il turismo è stato, ed in parte è
ancora, la carta vincente della politica
economica spagnola: trasporti efficienti,
servizi modesti, ma a prezzi bassi,
movida libera; tutto questo ha fatto delle
coste e delle isole spagnole la terra
promessa della gioventù europea. È stata
una politica per molti anni vincente,
fondata anche sul giovanile ottimismo
del primo ministro. La crisi mondiale –
che ha colpito la Spagna più degli altri
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paesi europei - ha interrotto – speriamo
solo temporaneamente – l’idillio.
Era ovvio che la Spagna non avrebbe
potuto essere risparmiata dall’uragano,
ma essa rischia di divenire il paese
europeo che paga il prezzo più alto alla
crisi mondiale. Bastano poche cifre:
l’aumento vertiginoso della disoccupazione,
(quasi il 20% nel 2009, contro la
media europea del 9,3%);
un deficit pubblico molto alto, una solvibilità
finanziaria per la prima volta
messa in dubbio dalle agenzie internazionali
di rating;
un deficit privato che rasenta i picchi
delle famiglie nordamericane: nell’ultimo
trimestre del 2008, il rapporto
medio tra l’ammontare dei debiti e il
totale delle entrate di una famiglia ha
raggiunto il 125 per cento, rispetto al 90
per cento circa della Francia e all’80
per cento circa dell’Italia.
Nel 2008 i crediti ipotecari non rimborsati
sono aumentati del 300 per cento
rispetto al 2007 e 2,7 milioni di persone
hanno finito l’anno senza poter onorare
i loro debiti. Perché è successo tutto
questo?
Da qualche tempo, alcuni economisti
europei, non sospetti di simpatie conservatrici,
e nemmeno di fantasie estremistiche,
si chiedono: può un grande
paese europeo continuare a crescere
soprattutto attraverso un aumento sproporzionato
della edilizia abitativa e dei
consumi interni, con un livello di produttività
relativamente basso e una
capacità competitiva nel mondo conseguentemente
modesta?
La Banca di Spagna aveva espresso
spesso, pubblicamente, il timore di un
eccessivo indebitamento delle famiglie.
E aveva suggerito di moderare la pressione
della domanda attraverso una
politica fiscale più severa. Ma cambiare
la rotta quando la nave viaggiava ad
un ritmo più spedito del resto d’Europa
era pressoché impossibile. Tanto più in
un paese sostanzialmente ottimista e
positivo, poco incline a comportamenti
rivolti al futuro.
E veniamo al terzo punto: la tenuta della
struttura istituzionale spagnola, in
presenza di due regioni “secessioniste”.
Ma sono, in realtà, secessioniste, la
Catalogna e i Paesi Baschi? Ci sono
stati in questi ultimi anni ricorrenti episodi
che darebbero ragione a chi riteneva
pressoché inevitabile la rottura. Ne
cito due:
quando il Parlamento catalano inserì
nel preambolo del suo statuto la definizione
della Catalogna come “nazione”,
benché si trattasse di un compromesso
raggiunto con eccezionale intelligenza
dal Presidente della Commissione
Costituzionale delle Cortes, Alfonso
Guerra a fronte della rinuncia ad un
federalismo fiscale totale e alla gestione
regionale di porti e aeroporti;
quando l’Istituto di Cultura di Barcellona
escluse gli scrittori di lingua “castigliana”
(la lingua nazionale) dalla rappresentanza
della cultura catalana nella
fiera del libro di Francoforte.
Ma questi pur significativi episodi non
devono trarre in inganno. Gli indipendentisti
catalani non hanno nulla a che
fare con i leghisti cosiddetti padani. La
Catalogna è “un fattore differenziale”
nella storia della Spagna, riconosciuto
dalla Costituzione del 1978: una differenza
(non una invenzione di tipo “bossiano”)
che nessuno discute. In sintesi:
la Catalogna tirerà sempre la corda, ma
non la spezzerà mai, come mi disse
molti anni or sono il suo mitico capo
Jordi Pujol, dopo avermi fatto presente
che Barcellona stava alla Spagna
come Genova, Torino e Milano (insieme)
all’Italia.
La situazione nei Paesi Baschi è più
complicata, anche perché condizionata
dall’ambiguo atteggiamento della Chiesa
cattolica “basca”, dalle incertezze
dei governi centrali che si sono succeduti
a Madrid, ma soprattutto dal carattere
“militare” che ha assunto il movimento
indipendentista Batasuna, al
quale vanno addebitate gravissime perdite
di vite umane (850 assassinii).
L’ultimo aspetto del cambiamento
riguarda quel fenomeno che i cattolici
definiscono “crescente secolarismo”
delle nuove generazioni e che fa ritenere
la Spagna “porto franco” di una serie
di “desideri-bisogni” ispirati al principio
della libertà slegato dal principio
della responsabilità. L’indifferenza religiosa
che caratterizza il tessuto sociale
spagnolo attuale è impressionante: in
una nazione definita per secoli “cattolicissima”
soltanto il 29% dei giovani
spagnoli dichiara di appartenere alla
Chiesa cattolica (era il 51% nel 1999),
e solo il 6% considera fondamentale la
religione.
Non è questa la sede per una analisi
approfondita delle cause di un distacco
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così radicale. Ma una osservazione è
d’obbligo. Se i vescovi spagnoli colgono
nel segno quando lamentano il livello
di scristianizzazione raggiunto dalla
società spagnola, essi dovrebbero
anche non allontanare lo sguardo dalle
proprie responsabilità. Assai costruttivo
sarebbe infatti domandarsi come
sia stato possibile che una società per
tanti secoli così cattolica e con una
Chiesa così privilegiata e favorita dal
potere si sia scristianizzata così rapidamente
nel volgere di pochi anni.
Come sia stato possibile, cioè, avendo
avuto a disposizione per secoli tutte le
leve del potere, lasciare in eredità al
presente un panorama ritenuto così
desolante.
Per concludere: dai quattordici anni di
governi socialisti e dagli otto anni di
governi della destra José Luis Rodríguez
Zapatero e il Partito Socialista
hanno ereditato un paese rispettato nel
mondo, di cui, e della cui classe dirigente,
la grande crisi del capitalismo
ha però messo in fila i punti deboli.
Colpiscono la “impreparazione psicologica”
alla crisi mondiale del governo
Zapatero e conseguentemente la iniziale
incertezza con la quale sono state
affrontate le misure economiche. Ma è
singolare che neanche le opposizioni
abbiano saputo approfittare della crisi:
né la destra, che guadagna consensi in
misura minore di quello che accade
negli altri Paesi europei, né l’ estrema
sinistra, rappresentata da Izquierda
Unida, che vive ancora una stasi che
non sembra trovare una via di uscita.
È difficile soprattutto capire quale
modello di società ispiri le scelte sia
del governo Zapatero sia delle opposizioni
di destra e di estrema sinistra, e
se la mancanza di un progetto generale
sia sostituita – dal governo e dalle
opposizioni – dalla tendenza a cavalcare
tutte le rivendicazioni presenti
nelle lobbies sociali. È da questa mancanza
di una “linea generale” che derivano,
forse, atteggiamenti difficilmente
comprensibili: tattiche movimentistiche,
accelerazioni talvolta affannose,
squillanti riforme sui diritti civili,
sui costumi, sull’autogoverno delle
Regioni, sulle revisioni storiche.
Gli italiani, ma, in particolare quelli di
noi che credono nei grandi valori del
socialismo, guardano alla democrazia
spagnola con appassionato interesse.
Dalla Spagna, negli ultimi due secoli,
sono venute anticipazioni importanti e,
talvolta, fughe in avanti pagate a caro
prezzo. Ora la situazione è cambiata e
la società civile è profondamente maturata,
mentre la situazione politica appare
rovesciata, rispetto, non soltanto a
quella italiana, ma anche a quella francese,
inglese e tedesca. Anche per questo,
il modello socialdemocratico spagnolo,
con i suoi punti di forza ma
anche con i suoi fattori di rischio, costituisce
uno strumento fondamentale di
confronto, di analisi e di critica, ma
anche di speranza.
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