>>>> editoriale
Anacronismi
Il risultato del referendum sulla legge elettorale è stato
archiviato troppo frettolosamente. Gli osservatori hanno
piluccato fra le technicalities dei costituzionalisti, ora proponendo
di abolire il quorum, ora di elevare il numero delle firme
necessarie per avviare la procedura; hanno fatto della
facile sociologia sulla stanchezza degli elettori, i quali peraltro
solo quindici giorni prima avevano dimostrato di essere
molto meno stanchi degli elettori tedeschi e polacchi; hanno
addirittura insistito nella querelle sulla data, come se, fra
l’altro, il 21 giugno di un anno di recessione le spiagge pullulassero
di turisti in vacanza; hanno fatto del colore sull’incoerenza
dei leader che due anni fa avevano sostenuto l’iniziativa
ed ora la avevano affossata, unendo per una volta in
un solo fascio Di Pietro e Berlusconi; ed hanno infine ammirato
la disciplina militante degli elettori leghisti, che non
avendo più tre gozzi sono perfino in grado di discernere una
scheda dall’altra e di far vincere Podestà ma non Guzzetta.
Quasi nessuno, invece, ha individuato nell’evento il segno
della fine di un ciclo che era cominciato proprio con un altro
referendum. Eppure bastava vedere la delusione di Mario
Segni trasmessa dagli stessi teleschermi che ne avevano
documentato i trionfi per avere l’immagine vivente di che
cosa sia un anacronismo. Può sembrare paradossale che a
segnalarlo sia una rivista che, come sappiamo noi per primi,
rischia costantemente di essere a sua volta un anacronismo in
re ipsa. Ma più paradossale, semmai, è l’inconsapevolezza di
quanti oggi calcano le scene del teatro (teatrino?) della politica
senza rendersi conto che il copione che recitano è fuori
tempo, e senza peraltro avere neanche il mestiere per recitare
a soggetto. Per usare i termini della locandina del Democratic
Party di Caracalla (dove party sta per festa, come
quelle a cui negli spot del Martini si affaccia George Clooney,
l’amico di Veltroni), i democratici si compiacciono di
essersi “mescolati”, ma non sono “agitati” per avere perso
quattro milioni di voti a sinistra senza averne recuperati
altrettanti a destra. I berlusconiani, invece, si compiacciono
per non aver subito il sorpasso della Lega nel Veneto e in
Lombardia, e per controllare le eventuali agitazioni si affidano
alla geometrica potenza di Bertolaso. Eppure, sedici anni
dopo le radiose giornate dell’aprile 1993, gli elementi per
tirare un bilancio del sistema che allora prese forma ci sono
tutti. E c’è anche l’urgenza di farlo, se si vuole evitare che
agli effetti della crisi economica in Italia si assommino quelli
della crisi politica.
Le promesse di quel plebiscito di sedici anni fa ce le ricordiamo
tutti. Il sistema politico sarebbe stato riformato secondo
il “modello Westminster”. I governi, legittimati dal voto
popolare, avrebbero avuto maggiore stabilità e capacità decisionale.
Il rapporto fra eletti ed elettori sarebbe stato più
diretto. Le mediazioni parlamentari non avrebbero potuto
sovrapporsi alla volontà degli elettori. I partiti sarebbero
diminuiti. Ed in più, va sans dire, sarebbe finita la corruzione.
Per la verità chi aveva occhi per vedere avrebbe potuto
verificare fin da subito la fallacia di quelle promesse. Non
tanto perché fra i neofiti del decisionismo governativo c’erano
anche quelli che avevano dipinto Craxi con gli stivaloni e
la camicia nera quando aveva tagliato tre punti della scala
mobile (la via di Damasco è aperta per tutti, e gli operai dell’undicesima
ora sono sempre i benvenuti). Piuttosto perché,
nella prima legislatura in cui i governi erano stati eletti direttamente
dal popolo ed al popolo i parlamentari dovevano
rispondere quasi con vincolo di mandato, in sei mesi si registrò
un ribaltone ed in due anni, con una disinvoltura che
avrebbe scandalizzato Depretis, più di un terzo di deputati e
senatori aveva cambiato casacca.
Ma anche chi ha gli occhi solo per piangere può ora valutare
il seguito. Sunt lacrimae rerum, infatti, le ulteriori evoluzioni
del sistema. La democrazia dell’alternanza ha funzionato solo
grazie ai capricci della Lega, che nel 1996 negò la vittoria a
Berlusconi, ed a quelli della sinistra estrema, che dieci anni
dopo assicurò (malauguratamente) a Prodi una vittoria risicata.
I partiti sono cresciuti di numero in ragione inversamente
proporzionale alla crescita dei loro consensi, finchè l’insipienza
politica non li ha fatti collassare (a sinistra) o abdica-
>>>> Luigi Covatta
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editoriale / / / / mondoperaio 5/2009
re (a destra). Il rapporto fra eletti ed elettori è garantito dalle
liste bloccate. La maggiore capacità decisionale dei governi
(nazionali e locali) ha lasciato marcire cumuli di immondizia
nelle città e lascia che si navighi a vista nei marosi della
recessione, salvo protestare contro la lentocrazia di un Parlamento
in cui si gode di un’ampia maggioranza e rimediare
ricorrendo opportune et importune alla Protezione civile,
all’esercito, e perfino ai prefetti per vigilare sul credit crunch.
Semmai stupisce che a piangere siano ancora in pochi, e che
quei pochi piangano piuttosto sugli effetti collaterali del disastro
invece di risalire alla causa. Che si attardino, per
esempio, a lamentare le conseguenze della “vocazione maggioritaria”
sulla tradizionale politica delle alleanze della
sinistra; o che per ricondurre all’ovile Lombardo senza
scontentare Schifani non abbiano di meglio che offrirgli su
un piatto d’argento la replica meridionale della Lega. E stupisce
che non escano dal cortile di casa neanche per vedere
se il “modello Westminster” almeno in Inghilterra esiste
ancora, se in Germania la socialdemocrazia è viva o è morta,
che fine ha fatto il “socialismo latino” dopo Craxi, Gonzales
e Mitterrand. Solo Sergio Chiamparino, finora, si è
mostrato consapevole del disastro, e per la parte che gli
compete ha auspicato lo scioglimento del PD, pur offrendo
un tiepido endorsement alla candidatura di Marino. Il quale,
fra l’altro, deve averlo preso sul serio, a giudicare dalle
sue esternazioni sulla selezione eugenetica dei quadri. E
sempre che, nel frattempo, il PD non venga seppellito dalla
risata di un guitto.
In queste condizioni a rappresentare un anacronismo non è
solo Mario Segni. Anacronistici sono soprattutto quegli attori
politici che, conquistata la scena grazie al plebiscito di sedici
anni fa, ora frequentano assiduamente i salotti televisivi per
sostituire con la chiacchiera una cultura politica che non c’è,
perché se ci fosse avrebbe già riformato la forma di governo
invece di abusare della decretazione d’ugenza; avrebbe riformato
la forma di Stato invece di affidarsi ad un vaghissimo
“federalismo fiscale”; avrebbe riformato l’ordinamento giudiziario
invece di produrre leggi ad personam dagli alti costi
e dai dubbi benefici.
Quanto a noi, che dalla frequentazione dei talk show siamo
esclusi anche a regola di manuale Cencelli, anacronistici
saremmo se ci facessimo prendere dalla nostalgia o coltivassimo
propositi revanscisti. Invece cerchiamo di continuare
a ragionare: innanzitutto sui guai nostri, come sono
quelli del socialismo europeo, ai quali dedichiamo gran parte
di questo numero; e poi sui guai della nostra società,
come faremo nel numero di settembre che sarà in gran parte
dedicato ai problemi del lavoro e dell’economia; e sui
guai del nostro Stato e del nostro sistema politico, come
faremo nel numero di ottobre. Nelle crisi di sistema, infatti,
piuttosto che la parte dell’ultimo comprimario in commedia,
è meglio cercare di interpretare, come Segni sedici anni fa
(e come chi volle il referendum nel 1946), quella società
civile a cui molti cattivi maestri avevano promesso di poter
fare a meno della politica e che di questa politica effettivamente
fa volentieri a meno.
Anche questo è un paradosso: che chi, a ragione o a torto, era
stato identificato con la partitocrazia si proponga ora di dare
voce alla società civile contro la “partitocrazia realizzata”.
Ma questo è il vantaggio di cui gode chi è stato espulso dal
campo ed ha potuto seguire la partita dalle tribune o al massimo
dalla panchina. E’ un vantaggio che fra l’altro consente
di offrire una sponda a segmenti di classe dirigente che
nelle professioni, nel sindacato, nelle università, si sono
affermati nonostante l’eclisse dei lottizzatori d’antan e la
voracità dei lottizzatori ora in servizio, e che hanno la voglia
e le competenze per ricostruire un sistema politico degno di
questo nome e all’altezza delle sfide del nuovo secolo. Per
discutere di politica, cioè, e non dei wargames dei politologi,
ai quali pure bisognerebbe intimare il silete che è stato
intimato agli economisti dopo la crisi di Wall Street.
Per la verità il Capo dello Stato, nell’intervista concessa al
Corriere della sera dopo il vertice dell’Aquila, il silete lo ha
suggerito con garbo anche alle forze politiche. Non poteva (e
non doveva) fare di più. Ma il tono “civile” del confronto è
un prerequisito, non la soluzione della crisi, che per non
incancrenirsi ha anzi bisogno che le forze che siedono in Parlamento
comincino a dire parole di verità sul funzionamento
delle istituzioni e del sistema politico.
Il rischio, altrimenti, è che la riforma di cui il paese ha bisogno
venga octroyée da qualche principe o da qualche imperatore.
Del resto nello stesso numero del Corriere che ospitava
l’intervista di Napolitano Mario Monti si è rivolto a Berlusconi
suggerendogli di investire la credibilità acquisita col
successo del vertice dell’Aquila per progettare fin d’ora “l’Italia
del 2015”. È già inquietante che ormai chi vuole le riforme
non trovi di meglio che imboccare una via napoleonica,
magari completa di polvere e di altari. Ma con l’aria che tira
sarà già tanta grazia se entro il 2015 il Cavaliere avrà almeno
centrato l’obiettivo dell’Expo di Milano. A meno che non
mandi Bertolaso anche a Palazzo Reale per sedare la rissa fra
napoleonidi.
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