sabato 4 luglio 2009

Francesco Maria Mariotti: Quale battaglia si sta svolgendo in Iran?

Le considerazioni di Barbara Spinelli sulla Stampa di domenica possono essere discutibili, ma hanno il merito di segnalarci alcuni possibili fraintendimenti nell'interpretazione di ciò che sta accadendo in Iran.

Andando oltre l'articolo della Spinelli, possiamo provare a riflettere: la politica non può semplicemente dire no alle violazioni dei diritti umani (anche se è doveroso dirlo); la responsabilità che grava sulle diplomazie - e che spiega alcuni ambigui atteggiamenti di questi giorni - è tentare di mantenere la stabilità complessiva della regione, e capire quale può essere il futuro di un potenziale "partner" (come di fatto stava diventando Teheran per gli Stati Uniti, anche se magari in forme non esplicite), un "partner" (le virgolette sono comunque d'obbligo) che nei prossimi anni potrebbe avere in mano la bomba atomica, che siano i "radicali" o i cosiddetti "riformisti" a gestirla.

Dobbiamo essere fermissimi nel chiedere a Teheran il rispetto dei diritti umani dei manifestanti; ma al tempo stesso prudenti nel capire quali possono essere le possibili conseguenze di una generosa "rivoluzione", e della reazione del regime: chi vincerà in Iran? E chi sono i "riformisti" che guidano questa rivolta? Quale paese si sta disegnando in questa battaglia? Con l'Iran del futuro sarà possibile gestire i dossier Iraq, Afghanistan, Pakistan, terrorismo internazionale?

E' giusto oggi scendere in piazza con gli studenti iraniani, ma dobbiamo evitare l'errore di trent'anni fa, quando il desiderio di vedere finire il tremendo regime dello Shah oscurò la lucidità di molti nel giudicare la rivoluzione khomeinista.

Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it

Barbara Spinelli sulla Stampa di domenica: "Ci sono abitudini simili a bende sugli occhi, che impediscono di vedere. O simili a guinzagli, che accorciano il pensiero annodandolo al conformismo. Il nostro sguardo sull’Iran è prigioniero di queste bende e questi guinzagli, fin dai tempi dello Scià e poi anche dopo la rivoluzione di Khomeini. L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte (...) A Qom, che è una delle città sacre dell’Islam sciita ­ di qui partì la rivoluzione khomeinista ­ vive una classe sacerdotale che nella stragrande maggioranza avversa il presidente. Non più di tre, quattro ayatollah lo sostengono, anche se i loro uomini occupano i principali centri di potere (Pasdaran, servizi, giustizia). I massimi teologi del Seminario di Qom hanno scritto una lettera aperta, dopo il voto, in cui dichiarano i risultati «nulli e non avvenuti». Viene da Qom ed è figlio di un ayatollah il presidente del Parlamento Larjiani, ostile a Ahmadinejad. (...) Il Consiglio degli esperti nomina la Guida suprema a vita, ma può destituirla se essa non mostra saggezza. Sembra che Rafsanjani abbia già convinto 40 capi religiosi, sugli 86 che compongono il Consiglio. Nella città religiosa di Mashhad, molti sacerdoti musulmani hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime. Non trascurabile è infine il simbolo della resistenza: verde è il colore dell’Islam. Questo significa che non siamo di fronte a una sollevazione contro lo Stato religioso. Per il momento, siamo di fronte a un’insurrezione fatta in nome dell’Islam contro un gruppo dirigente considerato blasfemo e nemico del clero. (...) Quel che è avvenuto sotto Ahmadinejad è una sorta di colpo di Stato modernista, che ha intronizzato l’élite formatasi nella guerra contro l’Iraq. È il potere di quest’élite che Ahmadinejad protegge, e esso non coincide con il potere religioso.(...) È dunque il nazionalismo militarizzato, il regime che oggi vacilla e sta riducendo al silenzio i riformatori. È il nazionalismo che si è abbarbicato all’atomica, e fatica a negoziare su di essa. Ma l’atomica è al tempo stesso la risposta dell’Iran intero ai tanti errori di valutazione dell’Occidente e alla cecità delle amministrazioni Usa, che mai hanno capito le riforme di cui questo paese aveva bisogno (non lo capirono con il Premier Mossadeq, che spodestarono nel 1953 per tutelare lo Scià e le vie del petrolio; non lo capirono quando minacciarono Teheran nonostante al governo ci fossero riformatori come Rafsanjani o Khatami). La sfida atomica iraniana non verrà meno, il giorno in cui vincessero i riformatori. Ma almeno non sarà al servizio del più tremendo dei nazionalismi: quello che sceglie come maschera l’Apocalisse."

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