sabato 18 luglio 2009

Giuseppe Berta: I deboli soffrono di più

Da La Stampa

14/7/2009

I deboli soffrono di più





GIUSEPPE BERTA

Da più parti si è detto in questi mesi che l’Italia ha retto meglio di altri Paesi all’urto con la crisi globale. Merito, si è aggiunto, di alcune delle nostre specificità nazionali, che ci differenziano dalla struttura economica predominante nelle grandi realtà occidentali. Un sistema del credito non ancora uniformemente concentrato e legato invece ai circuiti locali, da un lato, e, dall’altro, un mondo della produzione articolato soprattutto in imprese di dimensioni ridotte sono apparsi come elementi capaci di assorbire almeno parzialmente l’onda di piena della crisi. Man mano che la recessione prolunga i suoi effetti nel tempo, tuttavia, questi stessi fattori rischiano di subire un danno crescente. Si avverte il fondato pericolo che i tempi lunghi della crisi aggravino lo stato di difficoltà della nostra economia e facciano emergere dei motivi di fragilità difficili da contrastare.

È questo il senso che si trae dalle parole di preoccupazione pronunciate ieri dal presidente della Consob Lamberto Cardia, tendenti a mettere in risalto la precarietà della situazione dei conti delle imprese minori. Cardia ha parlato del rischio di «asfissia finanziaria» che corrono le «imprese medio-piccole», «trama fondamentale del tessuto imprenditoriale italiano». La minaccia concreta è che la massa di queste imprese si trovi penalizzata dalla mancanza di credito. Ciò finirebbe col colpire indiscriminatamente le aziende di tutti i tipi, le più virtuose - quelle che si sono aperte alla concorrenza internazionale - come le più tradizionali, con una conseguenza di livellamento tale da indebolire complessivamente il nostro mondo della produzione industriale. Come lamenta Cardia, così «si sta interrompendo un processo di ristrutturazione aziendale che negli anni scorsi aveva iniziato a produrre risultati incoraggianti in termini di produttività e competitività internazionale».

Succede spesso che i riconoscimenti giungano postumi. Quando quattro o cinque anni fa era di moda parlare del «declino industriale» dell’Italia, pochi si accorgevano come in realtà i nostri produttori avessero avviato una profonda metamorfosi dell’organizzazione produttiva. L’attenzione era allora troppo focalizzata sui fenomeni di crisi che interessavano le imprese maggiori, coinvolgendo marchi che avevano fatto la storia industriale del nostro Paese. Viceversa, numerose imprese - che uscivano dall’esperienza dei distretti industriali, spesso esempi del capitalismo familiare all’italiana - erano impegnate in un’opera di ammodernamento dei loro prodotti e dei loro processi. Esse hanno preso allora a guardare sempre più fuori dei confini nazionali, con una nuova capacità di presenza in segmenti significativi del mercato mondiale. La «questione dimensionale», sovente indicata come il limite della nostra esperienza industriale, cominciava a non essere più percepita come il problema dirimente dello sviluppo.

La crisi è arrivata come una gelata per i nostri produttori più dinamici. In primo luogo, perché la contrazione del commercio mondiale ha colpito proprio coloro che si erano spinti di più sul versante dell’internazionalizzazione. E poi, perché molte delle imprese che si erano date più da fare per espandersi si sono trovate catturate nella morsa della liquidità insufficiente. Oggi sono in affanno anche aziende che erano additate come i fiori all’occhiello della nostra industria, quelle «multinazionali tascabili» che avevano rappresentato negli ultimi anni la componente più vivace della nostra imprenditorialità. Non è raro ascoltare imprenditori che, posti dinanzi all’urgenza di un aumento di capitale, dicono di non riuscire a raccogliere dall’esterno le risorse finanziarie loro necessarie, nonostante abbiano storie aziendali di successo alle spalle e un indubitabile potenziale di crescita nel futuro.

Nella sua relazione di ieri, Cardia ha rimarcato come, nel clima attuale di incertezza, siano «i soggetti più deboli» a essere «esposti ai rischi maggiori». Sul mercato dei capitali, le grandi imprese riescono ad approvvigionarsi delle risorse occorrenti mediante prestiti obbligazionari che collocano senza gravi difficoltà. Sono gli altri soggetti imprenditoriali che stentano, sebbene - come testimoniano gli operatori bancari - i depositi siano in aumento. È chiaro che, in un frangente di crisi acuta, i risparmiatori tendono ad astenersi da investimenti considerati rischiosi. Proprio per questo, oggi, il nodo della crisi è costituito dagli strumenti per assicurare credito alle imprese. Di qui passa l’innovazione nella gestione della crisi. Quanto prima si riuscirà a ridare credito all’ala marciante della nostra economia, tanto prima si getteranno le condizioni per il rilancio dell’Italia industriale.

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