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Povertà
di Chiara Saraceno*
“working people are just as human as those with more money. They cannot live ‘on a fodder basis’. They crave for relaxation and recreation just as the rest of us. But … they can only get these things by going short of something which is essential to physical fitness, and so they go short.” (Rowntree 1937, pp. 126-7)
Definire la povertà è sempre un atto di valutazione. Comporta infatti una valutazione su quale sia il livello di disuguaglianza economica, di mancanza di risorse materiali che è insostenibile non solo per chi la sperimenta sulla propria pelle, ma per la società nel suo complesso. Le controversie sulla povertà non sono quindi solo controversie tecniche – ovvero su quali siano gli indicatori e gli strumenti di misurazione più adeguati. Sono innanzitutto controversie culturali e politiche, che a loro volta rimandano a visioni del mondo, a modelli di giustizia, e anche a “spazi valutativi” diversi nel ragionare sul benessere o malessere delle persone. E’ una questione che non posso sviluppare qui, ma che va tenuta presente, anche per comprendere come mai paesi diversi mostrino una sensibilità differente nei confronti della povertà.
La scelta valutativa, per altro, non avviene solo a livello di definizione. Si ripropone anche quando si tratta di individuare indicatori e mettere a punto strumenti di misurazione. Sia che si adotti una definizione assoluta di povertà economica, ovvero la si definisca riferendosi ad un paniere di beni definito come essenziale, o invece una definizione relativa, ovvero in rapporto al tenore di vita medio, la soglia sotto la quale si è definiti o ci si definisce poveri è sempre l’esito di una scelta rispetto a ciò che è definito adeguato o minimo. Lo aveva già detto Rowntree, allorché, nel definire il paniere di beni essenziali in Inghilterra all’inizio del Novecento, vi aveva incluso un po’ di tabacco e un po’ di tè, ed anche la possibilità di pagarsi una pinta di birra al pub: tutti beni non essenziali certo dal punto di vista della sopravvivenza fisica; ma necessari, perché un uomo (letteralmente) si sentisse parte della comunità, mantenesse il senso del decoro ed anche avesse la possibilità di mantenere quelle relazioni sociali che erano indispensabili per rimanere inserito nel circuito del mercato del lavoro. Anni dopo, Peter Townsend (1979), cui si deve la prima e più impegnativa definizione di povertà relativa, disse che una persona o una famiglia doveva essere considerata povera “quando le sue risorse sono così al di sotto di quelle disponibili alla media degli individui o delle famiglie da escluderla di fatto dai modi di vita, abitudini e attività comuni”. Pur adottando una definizione rispettivamente assoluta e relativa di povertà, Rowntree e Townsend concordano sul fatto che il riferimento non è alla semplice sussistenza fisica, ma alla sussistenza sociale. Per questo, tra l’altro, sia i panieri di beni che gli standard medi di riferimento cambiano, nel tempo ed anche da un paese all’altro: per tenere conto non solo o tanto del diverso costo della vita, ma della diversa composizione di ciò che fa essere “adeguati” nei vari contesti. I processi di globalizzazione, inclusi quelli comunicativi, stanno per altro facendo sì che i termini di riferimento non possano più essere agevolmente identificati con i confini nazionali, come testimoniano anche le masse di migranti che si riversano nei paesi ricchi.
Quella della comunità di riferimento è una questione che si pone anche all’interno dell’Unione Europea. La UE, infatti, per valutare la diffusione della povertà economica nei paesi membri, utilizza il criterio relativo di Townsend, ma circoscrive lo spazio del confronto all’ambito nazionale. Più specificamente, viene definito povero (dizione recentemente modificata in “a basso reddito”) chi ha un reddito familiare equivalente pari o inferiore al reddito mediano del suo paese1. Utilizzando questa definizione, molti paesi dell’Europa orientale presentano tassi di povertà più contenuti di quelli dei paesi dell’Europa occidentale. Ad esempio nel 2000 l’incidenza della povertà nella Repubblica Ceca risultava pari al 9%, inferiore quindi all’11% della Germania e al 19% dell’Italia che pure hanno un tenore di vita molto più alto. Se adottasse un unico standard di riferimento europeo, in virtù del fatto che i diversi paesi appartengono a un comune spazio politico e sociale, governato da regole e aspettative comuni, la situazione risulterebbe drammaticamente differente, con una diffusione della povertà del 61% tra i cechi, del 23% tra gli italiani e del 7% tra i tedeschi (Brandolini 2007). Distribuzioni simili, anche se di entità più contenuta, si avrebbero se si adottasse un parametro intermedio (per una discussione più distesa di questi problemi si veda Brandolini e Saraceno 2007). Aver scelto il riferimento nazionale implica la valutazione che i cechi si confrontano solo con i cechi e i tedeschi solo con i tedeschi. Ma la direzione dei fenomeni migratori intra-UE segnala che le cose non stanno esattamente così. Il mantenimento stretto dei confini nazionali in questo campo, mentre si abbattono i confini tra mercati, tra monete ed anche si propongono forme di regolazione e standard di comportamento comuni, è per lo meno paradossale.
Uscendo dalla alternativa “riferimento nazionale/riferimento UE”, ed anche “misura assoluta/misura relativa”, Whelan e Maitre (2007) suggeriscono di adottare una prospettiva multidimensionale, che tenga conto della deprivazione materiale in varie dimensioni: del reddito, ma anche di altri beni e consumi, quali l’adeguatezza dell’abitazione, la possibilità di avere un pasto regolare almeno una volta al giorno, e così via. Tale approccio consente di cogliere sia le rilevanti differenze tra paesi nello standard di vita complessivo, sia le caratteristiche della povertà nei paesi più affluenti. Suddividendo i paesi UE in tre gruppi sulla base del PIL, questi autori mostrano che nel gruppo dei 12 paesi più ricchi, tra cui l’Italia, la povertà non supera il 23%. Sale al 31% nel gruppo dei paesi intermedi e al 41% nel gruppo dei paesi più poveri (di cui fanno parte tutti i paesi dell’Est europeo, ad eccezione di Repubblica Ceca e Slovenia che fanno parte del gruppo intermedio). Se la diffusione della deprivazione è più alta nei paesi più poveri, la sua intensità è tuttavia maggiore in quelli più ricchi.
Questo approccio (in Italia ad esempio Lucchini, Pisati, Schizzerotto 2007) consente inoltre di vedere come la deprivazione multipla sia un fenomeno relativamente circoscritto, anche tra chi è economicamente povero. Alcune persone sperimentano tutte le forme di deprivazione, o un gran numero, di esse, e altre, invece, solo poche o una sola. Ciò significa anche che le politiche contro la povertà non possono basarsi su una concezione univoca dei poveri. Mentre chi soffre di deprivazioni multiple ha bisogno di molto più che un sostegno al reddito, quest’ultimo può bastare a chi ha “solo” un reddito inadeguato. Talvolta basta risolvere il problema dell’abitazione per fare uscire dalla condizione di povertà una famiglia; mentre perdere l’abitazione – per sfratto, divorzio, impossibilità di pagare il mutuo – può innescare un circolo vizioso di perdita di risorse e capacità complessiva.
Non mancano, quindi, neppure in Italia, le informazioni sulla cui base operare scelte politiche in tema di contrasto alla povertà. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, fin dal 1984 le Commissioni di indagine sulla esclusione sociale che si sono succedute e l’ISTAT hanno presentato stime sulla povertà relativa basate sui dati sui consumi (cfr. anche Freguja e Pannuzi 2007). Da quest’anno, dopo un primo periodo sperimentale seguito da una interruzione e da un perfezionamento dello strumento, esiste anche una misura per la stima della povertà assoluta (ovvero l’impossibilità di consumare un paniere di beni ritenuti essenziali per vivere ad un livello minimamente adeguato nella Italia di oggi). Essa, tra l’altro, tiene conto sia dei diversi bisogni di persone che hanno età diverse, sia delle differenze nel costo della vita tra le varie aree geografiche e tra zone metropolitane, urbane e i piccoli comuni. A seconda che si usi il criterio relativo o quello assoluto, le stime italiane danno una incidenza della povertà attorno all’11-12% in un caso, al 4-5% nell’altro. Essa è fortemente concentrata territorialmente (nel Mezzogiorno) e presso alcune figure sociali: gli anziani, soprattutto le anziane che vivono sole, a motivo di una storia contributiva pregressa frammentaria o inesistente, che dà luogo a pensioni proprie o di reversibilità basse; famiglie numerose con figli minori (è povero circa un quarto delle famiglie con tre o più figli minori), famiglie monoreddito, specie se monoreddito e con due o più figli. Mentre l’incidenza della povertà è relativamente stabile nel corso degli ultimi venti anni circa, con fluttuazioni minime, ne è cambiato in parte il profilo: fino a metà degli anni Ottanta la povertà aveva soprattutto il volto dei vecchi. Oggi, anche se la tendenza alla diminuzione della povertà tra gli anziani sembra essersi interrotta negli ultimi anni, sono soprattutto i minori e le famiglie numerose con figli minori a rappresentare un gruppo a rischio, tanto più se vivono nel Mezzogiorno.
Infine, indagini longitudinali a livello europeo hanno segnalato come l’Italia sia uno dei paesi in cui chi è povero corre un più elevato rischio che altrove di rimanerlo a lungo o ricorrentemente, in particolare se minore.
Si possono valutare troppo alte o troppo basse le soglie utilizzate per definire la povertà. Ma certo non mancano le informazioni sulle quali i politici possono basare le proprie scelte politiche. A fronte di questo corpus sostanzioso di informazioni, il dibattito politico e le iniziative di policy sulla povertà continuano a latitare nel nostro paese, anche solo a livello di misure riparative. So bene che la povertà si contrasta innanzitutto riducendo il rischio che le persone e le famiglie vi cadano: con buone politiche del lavoro e salari decenti, sostenendo l’occupazione femminile (se la mamma è occupata il rischio di povertà dei minori si riduce a un quarto), investendo in formazione, istituendo assegni per i figli universalistici e consistenti, mettendo a punto un sistema di ammortizzatori sociali più universalistico, meno categoriale e frammentato di quello attuale, soprattutto in considerazione che una quota crescente di lavoratori non vi ha diritto. Tuttavia, quando la povertà c’è occorre mettere mano anche a politiche riparative, assistenziali, che consentano un tenore di vita decente mentre si cerca una via di uscita e impediscano l’innescarsi di circoli viziosi: indebitamenti, sfratti, conflitti, abbandono scolastico e così via.
In tutti i paesi europei, inclusi quelli dell’Europa centro-orientale, ad esclusione dell’Italia e della Grecia, esiste una qualche misura di sostegno al reddito dei poveri a livello nazionale, anche se può essere amministrata e talvolta regolata localmente. Tali misure possono variare anche parecchio per livello di generosità. Un documento della Commissione Europea di due anni fa così sintetizzava i risultati derivanti dall’analisi dei rapporti nazionali in argomento (Commission of the European Communities, 2007, pp. 17-18) : “i paesi membri differiscono notevolmente nella rete di protezione minima che offrono alle famiglie senza lavoro anche tenendo conto dei livelli di povertà calcolati in relazione allo standard di vita nazionale. Solo alcuni paesi garantiscono a queste famiglie un reddito minimo e risorse di altro tipo (ad esempio l’abitazione) sufficienti a superare il 60% del reddito medio procapite e ciò solo per alcuni tipi di famiglie.” L’Italia non include, tra i diritti sociali, il diritto ad un sostegno in caso di povertà. Solo per gli anziani vi è una misura di reddito minimo, la pensione sociale. Per tutti gli altri, inclusi i bambini, dipende da dove vivono. L’esistenza di misure di sostegno è infatti lasciata totalmente alla discrezionalità dei governi locali, per lo più a livello municipale. Di più, due successivi governi di centro-destra (il Berlusconi 2 ed ora il Berlusconi 3) hanno dichiarato per bocca dei ministri competenti (rispettivamente prima Maroni e ora Sacconi nel libro Bianco sul Welfare) che di reddito minimo per i poveri non si parla proprio; che è una misura sbagliata, controproducente; che rischia di minare la fibra morale dei poveri inducendoli all’inerzia. In compenso, sollecitati dalla crisi che ha fatto ammettere anche a Tremonti che i poveri esistono, hanno messo in campo due misure non solo irrisorie per entità, ma del tutto fuori bersaglio: il bonus fiscale una tantum per i contribuenti a basso reddito e la social card (quaranta euro al mese) per anziani poveri e bambini sotto i tre anni. E’ vero, come detto sopra, che gli anziani in Italia sono sovra-rappresentati tra i poveri, ma meno delle famiglie numerose con figli minori. E’ povero rispettivamente il 14 e il 22 per cento delle coppie con due e con tre o più figli, rispetto al 12% degli anziani soli e al 13,5% delle coppie anziane. Non è l’età dei figli, ma il loro numero che fa la differenza, anche se la presenza di almeno un figlio minore, a parità di numero complessivo, aggrava ulteriormente la situazione. Anche sorvolando sull’importo ridotto della social card e sull’assunto implicito del legislatore, secondo cui un bambino piccolo costa meno di un settantenne e soprattutto cessa di mangiare appena compie tre anni, è chiaro che questo disegno della social card manca quasi totalmente il bersaglio e ignora totalmente le evidenze empiriche che pure sono largamente disponibili all’interno degli stessi ministeri competenti. Non stupisce quindi che siano state richieste molto meno social card del previsto (non si sa su quale base). Il triste paradosso è che ciò non ha convinto il governo a rivedere i propri criteri. Al contrario, dopo aver suggerito che forse ci sono meno poveri di quanto non si denunci da più parti, i fondi non spesi sono stati dirottati altrove.
Per saperne di più
Brandolini, A. (2007), Measurement of Income Distribution in Supranational Entities: The Case of the European Union”, in S.P. Jenkins e J. Micklewright (a cura di), Inequality and Poverty Re-examined, Oxford, Oxford University Press.
Brandolini, A. e C. Saraceno (a cura di) (2007), Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze economiche in Italia, Bologna, il Mulino.
Brandolini, A. e C. Saraceno (2007), Introduzione in Id. [2007, 9-22].
Commission of the European Communities (2007), Joint Report on Social Protection and Social Inclusion, Supporting Document, Commission Staff Working Document, Brussels, 6.03.2007, SEC 329.
Freguja, C. e N. Pannuzi (2007), La povertà in Italia: che cosa sappiamo dalle varie fonti?, in Brandolini e Saraceno [2007, 23-60].
Lucchini, M., Pisati M. e A. Schizzerotto (2007), Stati di deprivazione e di benessere nell’Italia contemporanea. Un’analisi multidimensionale, in Brandolini e Saraceno [2007, 271-304].
Rowntree, B. S. (1937), The human needs of labour, London, Longmans Green.
Saraceno, C. (a cura di) (2002), Commissione di indagine sulla esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. 1997-2002, Roma, Carocci.
Whelan, C. T. e B. Maitre (2007), Poverty, Deprivation and Economic Vulnerability in an Enlarged Europe, in J. Alber, T. Fahey e C. Saraceno (a cura di), Handbook of Quality of Life in Enlargement Europe, London, Routledge, pp. 201-217.
Townsend, P. (1979), Poverty in the United Kingdom, Harmondsworth, Penguin.
* Chiara Saraceno già professore di sociologia della famiglia all’Università di Torino, attualmente è professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino.
1 Ci si riferisce al reddito famigliare e non a quello individuale, perché si assume che in una famiglia si condividano sia costi che risorse. Il reddito familiare equivalente è calcolato sommando tutti i redditi che entrano in una famiglia e poi dividendolo per un coefficiente ("scala di equivalenza") che tiene conto sia della numerosità della famiglia che delle economie di scala che si realizzano quando si condividono i consumi, in particolare quelli relativi alla abitazione.
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