lunedì 31 agosto 2009

Giovanni Scirocco: Marino, Fini e la dignità della politica

"Ricordiamoci che Fini era a Genova nel 2001, in quei giorni vergognosi, quando i giovani furono massacrati di botte". Ignazio Marino, nel suo intervento di ieri alla festa democratica di Genova, ha dato un esempio di dignità (e autonomia) della politica che purtroppo i suoi plaudenti compagni di partito nei giorni scorsi avevano dimenticato

Paolo Franchi: Prodi e quella severa analisi degli anni del riformismo

L' EX PREMIER E IL RIFORMISMO
Prodi e quella severa analisi degli anni del centrosinistra

Non sarà la bomba di cui ha scritto, commentandolo sull' Altro, Piero Sansonetti. Ma certo l' ultimo intervento di Romano Prodi (Messaggero, 15 agosto) avrebbe meritato e merita più attenzione di quanta, complice il Ferragosto, gliene sia stata dedicata. Riassumendo. Per oltre un decennio Prodi è stato il leader (contestato e dimidiato quanto si vuole: ma comunque il leader) del centrosinistra. A lui si attribuiscono molte responsabilità della sconfitta, ma sarebbe bene anche ricordare che è stato l' unico a vincere: si è imposto in due campagne elettorali, seppure la seconda volta, nel 2006, di un soffio, e anche meno, incarnando prima l' Ulivo, poi l' Unione. Ha guidato due volte il governo. Non è un politico a tutto tondo, almeno nell' accezione classica del termine, è vero, e si è visto. Ma pochi leader della sinistra e del centrosinistra europei hanno un curriculum così prestigioso. Colpisce dunque (o dovrebbe colpire) il fatto che sia proprio lui, ripercorrendo nell' ora più difficile gli anni dei successi italiani, europei e mondiali del riformismo, a sottoporli a una critica tanto spietata; e a individuare nelle politiche allora perseguite una delle ragioni, e anzi la ragione principale, non solo della sconfitta, ma dell' afasia politica e intellettuale di cui oggi visibilmente soffrono le forze di ispirazione progressista. Come se di quella stagione che ora bolla con tanta durezza non fosse stato un indiscusso e indiscutibile protagonista. In Italia e non solo in Italia. Come se (ma non vorremmo essere maliziosi) intendesse segnalare, ora che è fuori dall' agone politico propriamente detto, che, se fosse stato per lui, se i suoi partner e il clima politico dell' epoca non lo avessero condizionato, ben altre strade avrebbe battuto il riformismo. Ma queste sarebbero, nel caso, polemichette italiane (i famosi sassolini da cavare prima o poi dalle scarpe) che non appassionano davvero nessuno. Più interessante, semmai, è soffermarsi sulla natura delle critiche mosse da Prodi. Che notoriamente non è un socialdemocratico, né tanto meno un esponente della sinistra socialdemocratica, e che però sembra ragionare proprio come quest' ultima. Bill Clinton, Tony Blair, l' Ulivo più o meno «mondiale» di cui si dibatteva, o si favoleggiava, negli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo? All' apparenza, quella messa in campo era «una fucina di novità». Nella realtà, nuovo era solo il linguaggio, perché nella sostanza ci si limitava a imitare le politiche economiche e sociali sino ad allora perseguite dalle forze conservatrici, fondate sul «dominio assoluto del mercato», nella convinzione, o nell' illusione, di saperle gestire meglio. O, quanto meno, da questa ispirazione e da questa pratica (si trattasse della distribuzione del reddito o delle politiche europee, della pace e della guerra o dell' uso della leva fiscale) non ci si discostava. Dunque, argomenta Prodi, non c' è nulla da stupirsi se, di fronte a una crisi che dovrebbe fare in tutta Europa delle forze di centrosinistra una risorsa e una speranza, queste forze vengono sconfitte e sembrano balbettare assai più dei conservatori. Altro che riscoprire le virtù del centro. Se davvero si vuole rilanciare il riformismo, occorre uscire da questa subalternità e battere strade ben diverse, potremmo dire, in una parola, ben più radicali. E per trovare nuovi interlocutori nella società bisogna correre coscientemente il rischio di perdersi dei pezzi per strada. Su una parte almeno di una simile diagnosi chi ricorda l' entusiasmo da parvenu con cui una certa sinistra (non solo in Italia; e in Italia, va riconosciuto, non certo Romano Prodi) celebrava le magnifiche sorti e progressive del turbo capitalismo fatica a non convenire. Ma il giudizio di Prodi su quella stagione (e quei colleghi) suona ugualmente ingeneroso, al di là dell' assenza di ogni autocritica, anche per l' assenza dei necessari distinguo tra Paese e Paese, partito e partito, leader e leader; e la prospettiva che indica al centrosinistra italiano e europeo per ritrovare, con l' anima, il popolo, alquanto vaga. Ben difficilmente l' ex presidente del Consiglio diverrà, se non il leader, il padre nobile di qualcosa di simile a una nuova sinistra. E probabilmente non ha alcuna intenzione di candidarsi a un simile ruolo. Resta però da riconoscergli il merito di aver introdotto in un dibattito sin qui liquido al pari del partito che lo ha promosso in vista del suo congresso un tema cruciale e finora del tutto disatteso dai contendenti: senza una riflessione e un giudizio comune (non necessariamente il suo, si capisce) sul recente passato ben difficilmente si può costruire qualcosa di simile a un futuro comune. RIPRODUZIONE RISERVATA

Franchi Paolo


Pagina 8
(22 agosto 2009) - Corriere della Sera

domenica 30 agosto 2009

Barbara Spinelli: la coscienza orfana della legge

La coscienza orfana della legge
La Stampa, 30.08.2009

Autore: Spinelli, Barbara

“Dal core business della coscienza degli italiani di oggi il senso della legge viene scacciato”. La Stampa, 30 agosto 2009

Stando a un sondaggio di SkyTg24, sono molti gli italiani convinti che i cinque eritrei sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo vadano processati per reato di immigrazione clandestina: il 71 per cento. Su quel barcone sono periti 73 fuggiaschi, tra il 18 e il 20 agosto, eppure non sembra esserci emozione di fronte al naufragio ma solo famelica ansia di allontanare gli alieni dalle nostre terre, con ogni mezzo. Erano uomini di troppo i sommersi, e lo sono anche i salvati. I ministri di Berlusconi ne approfittano per ricordare che i respingimenti funzionano, che si fan rari gli intrepidi che tentano le traversate: nessuno porta il lutto per i sommersi né immagina quel che hanno vissuto i salvati. Se ci son colpe, è l’Europa a commetterle. La miseria del mondo non può addensarsi sul Sud del continente. Non siamo buoni al punto da esser fessi: questo fanno capire Maroni, Calderoli, e gli italiani sembrano sostenerli.

Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).

Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.

Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».

Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).

La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.

La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.

È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.

Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».

E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.

David Bidussa: Il nucleare? basta fanatismi

Da L'Altro
IL DIBATTITO: SCIENZA/SINISTRA, Il Nucleare? Basta fanatismi, non è il demonio
società
di David Bidussa
Intorno alla questione degli Ogm, se questi rappresentino il futuro, o viceversa se essi costituiscano un serio pericolo, si è sviluppata un discussione accesa, certamente sentita.
Vorrei preliminarmente dichiarare una cosa: non sono uno scienziato; non ho condotto studi né specifici né mirati sulla questione del biologico; non ho né le competenze professionali, né quelle curriculari per argomentare intorno alla questione specifica.

Per riprendere Luzzatto «dubito che il problema risieda solo in una scarsa conoscenza da parte della sinistra (o dei suoi rappresentanti più infl uenti) delle nozioni scientifi che. C’è sicuramente anche questo, purtroppo, ma se le cose stessero unicamente in questi termini sarebbe suffi ciente un corso accelerato di fi sica e biologia alla dirigenza politica e tutto si risolverebbe in breve tempo. Troppo facile. Io temo, al contrario, che Io temo, al contrario, che la sinistra in Italia non abbia storicamente inteso il metodo scientifi co, il suo modo di ragionare e di procedere per approssimazioni successive alla conoscenza del reale, il suo sistema costitutivamente refrattario ad ogni principio di autorità, e il suo sforzo di rimettere in gioco, continuamente, quanto è già stato acquisito nel quadro di una determinata teoria nel momento in cui nuovi dati empirici mettono in crisi quella certa concezione e ne fanno insorgere una nuova.» Proprio per superare questa condizione del resto, forse in modo un po’ ellittico, concludevo auspicando a “essere scozzesi”. Correttamente Gilberto Corbellini lo ricorda. Non è l’unico punto con cui concordo con lui. Complessivamente mi convincono maggiormente le argomentazioni proposte alla discussione da Gilberto Corbellini che non quelle presentate dai suoi critici. Vorrei provare a spiegare perché e con ciò chiarire il senso dell’intervento pubblicato su questo giornale l’11 giugno in cui provavo – spero non in forma oscura – a porre alcune questioni. Ovvero: 1) se il rapporto problematico e critico tra sinistra e scienza sia un problema specifi camente italiano? 2) se ci sono questioni e parole su cui la sinistra ha un’immagine antropizzata; 3) quali sono i campi di maggior frizione e come sono vissuti a sinistra; 4) Come si discute del nucleare? O meglio quando si discute del nucleare di che si discute? 5) quando parliamo di cultura scientifi ca e di scuola di che parliamo? Sono dell’avviso che alle domane 1 e 2 la risposta sia affermativa e che complessivamente le questioni specifi che 3-5 (ma altre si potrebbero indicare, semplicemente erano le prime che mi venivano ), costituiscano un punto nevralgico scoperto della cultura diffusa a sinistra in Italia. Tutto questo, tuttavia oggi per quanto urgente e per certi aspetti improrogabile, mi sembra costituire un dettaglio. Ci sono scelte che vengono compiute non in relazione a un convincimento argomentato in sé, ovvero non per la fondatezza argomentativa che contengono, al contrario, proprio perché il tempo a disposizione non è una variabile indipendente. Gran parte delle scelte che oggi ci riguardano, a mio avviso, è segnata da questa condizione. Vorrei considerare un esempio che credo costituisca un paradigma anche per molte altre questioni, compresa la questione degli Ogm. Alla domanda quanto tempo abbiamo a disposizione di fronte a noi per allestire, avviare, testare e mettere a regime una possibilità di produzione energetica non più esclusivamente fondata sugli idrocarburi, la risposta media è circa 25 anni, forse 35 a voler essere generosi. La stessa distanza temporale che ci separa dal primo shock petrolifero nell’ottobre 1973. Proviamo a fare un bilancio del tempo trascorso. Quante inerzie hanno fatto in modo che in questi 35 anni la ricerca e la sperimentazione abbiano avuto o non abbiano avuto la possibilità di procedere oltre il modello petrolifero? Ed è solo dovuto al fatto che ci sono dei fondati dubbi sullo smaltimento delle scorie nucleari? Quanto questi dubbi hanno infl uito sul rallentamento della ricerca, sulla persistenza di un senso comune antinucleare, o ancora sui luoghi comuni che lo connotano? In quei luoghi comuni tuttavia non stanno solo quelli propri di chi è convinto antinuclearista, ma anche di chi è nuclearista convinto, proprio perché propagandando il nucleare come la soluzione a tutti i problemi oltre i quali la questione era solo amministrare la quotidianità non solo ha contribuito – come coloro che hanno opinioni opposte – a trasformare in metafi - sica un’ipotesi, ma non ha cercato di convincere i proprio avversari rimuovendone in forma argomentate le obiezioni o le incertezze. Il risultato è che superato il panico intorno all’ “effetto Chernobyl” in una congiuntura politica al cui interno il “conflitto di civiltà” è divenuto il paradigma che motiva molte scelte, il ritorno del nucleare è accolto come la soluzione di un problema che invece rimane invariato e su cui la ricerca di ipotesi alternative è ancora per molti aspetti “in alto mare”. Cosa ricaviamo da questa storia? Non esistono risposte tecniche in sé capaci di darci una risposta priva di questioni. Esistono soluzioni “a tempo” a patto però che si abbia consapevolezza del tempo utile, di ciò che quella soluzione temporanea consente di rispondere, dei margini di tempo che quella ipotesi ci lascia per poter trovare una soluzione più effi cace. Non c’è tempo né per convincere gli antinuclearisti che quella soluzione fornisce delle opportunità, né i nuclearisti che il nucleare non è una soluzione ultima. Occorre “riprendere tempo”: per cui la scelta alla fi ne è il nucleare e allo stesso tempo l’investimento in ricerca per superarlo. Non c’è una soluzione già costruita oggi. Lo stesso mi sembra essere presente nella questione sugli Ogm. Noi abbiamo il problema della fame, lo abbiamo oggi e dobbiamo risolverlo con gli strumenti possibili di oggi. Possiamo, così come per l’energia, educare a un consumo consapevole; favorire un diverso modo di consumare e di produrre. Ma questo è un processo che da solo non è suffi ciente a risolvere in tempi brevi il primo enorme problema che abbiamo davanti: quello della sottoalimentazione, talora, in alcune aree consistenti del pianeta, quello della denutrizione. Problema a cui è da aggiungere, peraltro, una condizione di incremento demografi co fondato su un rapporto tra insediamento, risorse, e territorio completamente fuori registro (come, per esempio, ha richiamato recentemente Hervé Le Bras nel suo Addio alle masse, Eleuthera). Anche in questo caso noi dobbiamo ora dare risposte per ora. Di nuovo avendo la consapevolezza che la scelta di oggi non è la soluzione del problema, ma un modo per “riprendere tempo”, per costruire un’ipotesi diversa. E’ una visione scarsamente entusiasmante, me ne rendo conto. Forse anche demotivante. Ma se dovessi fare un bilancio della storia del Novecento che abbiamo ereditato, non è anche grazie all’entusiasmo debordante (una condizione mentale con cui Anthony Shaftesbury all’inizio del ‘700 denominava ciò che noi oggi indichiamo come fanatismo) che ci troviamo a fare i conti, in mestizia, sul tempo scarso che abbiamo di fronte a noi?

sabato 29 agosto 2009

Nencini: Non lasciamo a Fini l'esclusiva sul biotestamento

dal sito di Sinistra e libertà

NENCINI: NON LASCIAMO A FINI ESCLUSIVA SU BIOTESTAMENTO

“Non possiamo lasciare a Fini la bandiera e il ruolo di capofila delle modifiche da fare alla legge sul testamento biologico“.

Lo afferma, in una nota, l’esponente di Sinistra e Libertà, Riccardo Nencini.

Per il leader socialista ”quelle di Fini sono posizioni rispettabili e benvenute, ma è la sinistra nel suo complesso che deve trovare una posizione e una strategia condivise e unanimi su una delle più importanti battaglie di libertà e tutela dei diritti umani che tutte le forze politiche, presenti o no in Parlamento, si trovano a dover combattere in nome di uno Stato laico e moderno”.

venerdì 28 agosto 2009

Monica Cerutti: Neanche Sinistra e libertà vuole giocare a perdere

Dal sito di SD


Neanche Sinistra e Libertà vuole giocare a perdere nelle regioni del nord
di Monica Cerutti
Mer, 26/08/2009 - 10:07
Dopo che la questione meridionale ha monopolizzato l’attenzione mediatica, facendo balenare la possibilità di giungere a una lobby o a un partito del Sud, all’interno del centrodestra o trasversale, la Lega ha alzato il tiro con una serie di provocazioni, dai dialetti nelle scuole alle fiction regionali, passando attraverso le gabbie salariali.
Uno dei suoi obiettivi è mantenere vivo quel malcontento diffuso che la stessa Lega alimenta in modo fittizio, facendo sentire il bisogno di ribadire la propria identità di fronte al presunto nemico, rappresentato di volta in volta dagli immigrati o dagli abitanti del sud Italia.
Ma la vera posta in palio è la definizione dei candidati alle presidenze delle regioni del nord, in particolare il Veneto e la Lombardia, e in subordine il Piemonte. La Lega non ci sta a non avere nessuno dei candidati alla presidenza, dato il consenso che sta man mano consolidando.
Dal canto suo, il PdL sembra non avere una chiara strategia, dovendo rincorrere le intemperanze del proprio premier e giocare sempre di rimessa rispetto alle uscite leghiste.
Così in Lombardia si è posta la questione del limite al numero di candidature consecutive alla presidenza, estromettendo di fatto Formigoni, e nel Veneto è iniziato un fuoco di fila leghista che ha come bersaglio il presidente Galan. Tanto che nelle altre forze politiche è partita una sorta di gara a “salviamo il soldato Galan”, nel centrodestra come nel centrosinistra.
Il segretario regionale dell’Udc veneta, Antonio De Poli, ha lanciato a Galan a metà agosto un appello perché non cada scacco della Lega Nord e si metta a capo di una coalizione che raggruppi tutte le forze moderate venete, dal Pdl all'Udc, dai “moderati” del Pd a liste civiche. Auspica “un nuovo laboratorio che salvaguardi le peculiarità venete e che non sia una finta scatola vuota come ha dimostrato di essere la Lega, che si preoccupa più di avere fiction in dialetto che di togliere dal patto di stabilità i nostri comuni”.
E questa sollecitazione non cade nel vuoto, ma viene accolta da Piero Fassino che afferma che per vincere in regioni come la Lombardia e il Veneto non basta riproporre il centrosinistra classico, e, pur escludendo in modo esplicito un’alleanza fra Pd e Pdl, apre a Galan, chiedendogli di fare il primo passo. Ciò provoca la reazione di Filippo Penati, coordinatore della mozione Bersani, che nella dialettica precongressuale risponde che la strategia vincente non può essere quella di rincorrere Galan.
Giustamente il Pd non sottovaluta la questione settentrionale. Sconcertanti sono infatti i dati del sondaggio realizzato da Ipr Marketing nelle scorse settimane. Il consenso alla proposta di adeguare i salari al costo della vita nelle singole regioni d'Italia è trasversale in relazione all’appartenenza politica degli intervistati, mentre è fortemente influenzato dall'area di residenza. Dall'analisi disaggregata per area geografica, emerge una netta polarizzazione delle opinioni: tre cittadini su quattro al nord si dicono favorevoli, al sud si dichiarano contrari. Insomma un'Italia divisa in due, in maniera netta.
Manca però la capacità di elaborare una proposta programmatica che metta insieme le esigenze del nord e del sud. La risposta è invece quella di pensare ad alleanze diverse a seconda delle regioni.
In quest’ottica, il Pd guarda con grande attenzione all’Udc che è al governo con il Pdl in Lombardia e Veneto, e all'opposizione del centrosinistra in Piemonte.
Questa situazione permette a quel partito di alzare il prezzo, ora che anche Berlusconi gli ha offerto esplicitamente la candidatura in Piemonte per Michele Vietti in cambio di un’alleanza in tutte le regioni.
L’Udc prende tempo. Finora si è mossa in un’altra direzione: prospettando un laboratorio politico inedito nel Veneto, pensando a Tabacci come candidato alla presidenza della Lombardia per il centrosinistra e dettando le condizioni di chi sta dentro e chi sta fuori alla coalizione in Piemonte.
In particolare, proprio Vietti, vicesegretario nazionale dell’UdC, ha recentemente affermato che l’alleanza dell’Udc con il Pd in Piemonte può avvenire solo a patto di tenere fuori sinistra radicale e Italia dei Valori, con toni tipici di chi vuole alzare la posta, proprio perché comunque, come lui dice, per le regionali “il matrimonio si avrà da fare”.
Non fa alcun riferimento ai programmi, accenna alle questioni, ma solo come titoli per brandirli contro l’una o l’altra forza politica. Contro la sinistra radicale, usa il trito e ritrito argomento delle infrastrutture, vedi Tav, che abbiamo visto avere un’importanza del tutto marginale nell’attuale governo regionale, e quello dei servizi sociali come ambito di scontro, con lo scopo probabilmente di affermare il sostegno alla sanità privata. I temi che invece identifica come propria bandiera, l’inizio e il fine vita, il matrimonio eterosessuale, la libertà di educazione non possono essere posti come degli aut-aut, sapendo che non solo la sinistra, ma anche il Pd non può rinunciare tout court alla laicità. Ci sono valori non negoziabili, che la Presidente Bresso ha ben difeso e non deve essere preteso alcun passo indietro, come Vietti chiede. Egli tuttavia considera l’UdC radicalmente alternativa rispetto alle posizioni della Lega. Allora, il suo partito non dovrebbe giocare su più tavoli, come in realtà sta facendo, sapendo benissimo di non essere un alleato intercambiabile per il Pdl rispetto alla Lega nelle regioni del Nord.
E in questo dibattito, in Piemonte, come nelle altre regioni, Sinistra e Libertà deve poter esercitare un ruolo, che non può essere quello di differenziarsi semplicemente dal partito della Rifondazione Comunista come alleato fedele del Pd, pronto ad accettare qualsiasi sua scelta nelle alleanze, indipendentemente dai programmi. Sui beni pubblici, sulle politiche sociali e ambientali, sulla laicità dobbiamo fare sentire la nostra presenza. E' una strada tutta in salita, ma è fondamentale provare a spostare il dibattito dalle alleanze a geometria variabile ai programmi.
Neanche noi, come sostiene il Pd, vogliamo giocare a perdere, ma non possiamo accettare che per paradosso si arrivi ad ipotizzare che per vincere contro Berlusconi possa essere il caso di allearsi con lui.

giovedì 27 agosto 2009

Gramsci sul liberalismo: risposta ai vari Panebianco, Ostellino e co.

l’età del liberalismo è l’età dell’eroismo individuale borghese e dell’eroismo di partito. Liberali erano i borghesi che da soli, senza chiedere sostegno se non al sentimento della loro responsabilità, senza chiedere altra difesa che la libertà, creavano un nuovo mondo economico e morale, spezzando i limiti di ogni precedente schiavitù. Liberali erano i partiti che facevano della libertà la premessa di ogni programma e quasi esaurivano in questa affermazione ideale ogni loro virtù. Chiamare liberali i borghesi di oggi, che del valore morale della libertà hanno perduto la coscienza è perciò assai peggio che stranezza (...) Una classe che si difende e fa della difesa l’unico principio suo di governo cessa, per questo solo fatto, di essere una classe liberale, cessa di avere la capacità di mantenere nel proprio seno l’aspirazione allo sviluppo di ogni energia senza altro limite che non sia la stessa libertà (...) Lo spirito del liberalismo vive in coloro che lottano, soli, non avendo altro sostegno che la realizzazione delle loro idee, per una sempre più profonda liberazione del mondo

Liberalismo e blocchi, L'Ordine Nuovo, 14 maggio 1921

Nadia Urbinati: Il coraggio di una nazione

Il coraggio di una nazione
Data di pubblicazione: 26.08.2009

Autore: Urbinati, Nadia

Che cosa realmente significa quella parola, “nazione”, in nome della quale si dicono tante sciocchezze. La Repubblica, 26 agosto 2009



A partire dalla Rivoluzione francese, la nazione è stata concepita come il corpo sovrano rappresentato nell´assemblea costituente e poi nel Parlamento. La nazione, prima ancora di assumere connotazioni etniche o culturali, è stata concepita come l´unità giuridica e politica delle donne e degli uomini che risiedono stabilmente in un paese e sottostanno alle leggi dello Stato (per i rivoluzionari francesi un anno di residenza era sufficiente ad acquisire il diritto di voto). Anche se non tutti i costituenti francesi concepirono l’inclusione nel corpo nazionale come un diritto universalmente distribuito, tuttavia dal momento in cui l’imputazione individuale di responsabilità di fronte alla legge e il consenso espresso con il voto sono diventati i criteri legittimanti, la lotta per il diritto di voto e l’inclusione nella cittadinanza ha segnato la storia della democratizzazione nei paesi moderni.

A questa tradizione appartiene Giuseppe Mazzini, la cui idea di nazione è stata squisitamente politica (egli ha radicalmente distinto la nazionalità, che concepiva come autodeterminazione democratica, da nazionalismo che criticava come un’ideologia non politica e pericolosamente egoistica), ma anche pensatori moderati cattolici come Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo e soprattutto teorici liberali-federalisti come Carlo Cattaneo e Carlo Pisacane. La differenza tra loro riguardava essenzialmente l’interpretazione dei criteri e dell’estensione dell’inclusione: per Mazzini, Cattaneo e Pisacane questi criteri erano idealmente universali e democratici, per Rosmini, Gioberti e Balbo invece, come per molti liberali moderati dell’Ottocento, valeva la capacità censitare come condizione per l’inclusione politica.

Comunque sia, da allora la questione dell’inclusione nel corpo della nazione (e per questa ragione la definizione dei requisiti e dei criteri che denotano la nazione) è diventata oggetto fondamentale delle distinzioni ideologiche e della stessa lettura della storia italiana e ora anche di quella europea. Un tema che è ancora oggi in primo piano. A partire dalle lotte risorgimentali, e soprattutto dall’unità nazionale, le forme di appartenenza alla nazione sono state l’oggetto di conflitti e di trasformazioni. La storia dell’unità italiana può essere interpretata come la storia delle battaglie per l’inclusione nel corpo politico ovvero per l’estensione dei diritti politici oltre che di quelli civili e, poi, sociali: nell’Ottocento furono le classi lavoratrici e contadine a rivendicare l’appartenenza alla nazione politica; nei decenni della democratizzazione che ha vinto sul fascismo, sono state le donne, i giovani e coloro che appartenevano a minoranze linguistiche e religiose; oggi, nell’Italia post-industriale sono gli immigranti che giungono nel nostro paese per vivere e lavorare a chiedere l’inclusione.

Il tema dell’inclusione non riguarda semplicemente il diritto di voto. Esso concerne tanto l’interpretazione dei diritti individuali fondamentali e della tolleranza quanto la stessa riformulazione dell’identità del corpo sovrano e degli individui che chiedono di farne parte. L’inclusione è una rivendicazione di dignità e di responsabilità, ovvero di cittadinanza in senso pieno e non solo giuridico; è una rivendicazione di rispetto e riconoscimento del diritti di ciascuno di praticare la propria religione, vivere la propria scelta sessuale, coltivare la propria tradizione culturale (l’Italia è essa stessa uno straordinario esempio storico di unità nella differenza culturale).

La definizione della cittadinanza, i suoi caratteri e la costellazione di diritti che la qualificano, sono l’oggetto del contendere nelle questioni di inclusione. Per questa ragione, ogni studio sulla nostra storia nazionale dovrebbe diventare anche uno studio sulle trasformazioni di questa identità e delle forme di appartenenza ad essa. La lotta delle minoranze (pensiamo in primo luogo alle minoranze nazionali tedesche e francesi o a quelle sarde e siciliane, ma anche alle minoranze religione, come gli ebrei, gli evangelici o i valdesi, e oggi i mussulmani) ha non solo portato a ridefinire in maniera non intollerante la nazione italiana, ma ha anche contribuito a consolidare quel processo di autonomie regionali che ha cambiato radicalmente l’ordine politico e amministrativo del nostro paese. Egualmente: la lotta dei lavoratori e delle donne per l’inclusione nel corpo politico ha aperto la strada alla rivendicazione e conquista di diritti prima sconosciuti (la terza generazione di diritti, ovvero i diritti sociali e sindacali) e cambiato la stessa identità dello Stato da semplice sistema legal-coercitivo a Stato sociale. Infine, la natura democratica dello Stato nazionale così come è emersa da queste lotte ha inaugurato la sfida che ci è più vicina: quella di una politica democratica delle frontiere e quindi dell’ospitalità e della tolleranza; infine, e soprattutto, dell’inclusione degli immigrati nella nazione italiana.

Non è esagerato dire che la messa in moto con il Risorgimento della politica di autodeterminazione nazionale e democratica ha avuto e ha effetti trasformativi della nostra identità collettiva che vanno ben oltre gli eventi storici ottocenteschi e le stesse intenzioni dei protagonisti che li hanno animati, promossi e guidati. La nazione quindi come trama della storia politica e civile passata e presente – un’occasione per ripensare criticamente a quello che siamo e vogliamo, o non vogliamo, essere. Come ha scritto Adriano Prosperi sulla Repubblica di qualche giorno fa, «è sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e piú coraggiosa integrazione».

Leo Sansone: la fiaccola riformista accesa da Obama

Da Aprile

"La fiaccola riformista" accesa da Obama
Leo Sansone, 25 agosto 2009, 18:16

L'intervento Dialogo internazionale, difesa dell'ambiente, sanità pubblica per tutti, lotta all'evasione e ai "paradisi fiscali", sono le quattro battaglie con le quali il presidente Usa sposta a sinistra l'America. In Italia non si vede una mano in grado di prendere questa "fiaccola". L'America va a sinistra e l'Italia a destra


"Il cambiamento è arrivato in America. Sarò il presidente di tutti gli americani". Barack Obama è stato di parola. Il 4 novembre 2008, appena eletto presidente degli Stati Uniti, prese dei solenni impegni che sta mantenendo. Basta con "la guerra preventiva", rispetto dell'ambiente, assistenza sanitaria universale e lotta all'evasione fiscale, sono le quattro importanti carte che ha giocato in questi primi mesi della sua presidenza.
Programmi chiari, netti, basati su antichi principi come: l'uguaglianza dei cittadini, la difesa delle minoranze (dagli immigrati agli omosessuali) e il rispetto delle altre culture, diverse da quelle occidentali.
Il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti ha compiuto quattro mosse chiave.
Islam. Ha fatto "gli auguri" ai musulmani impegnati nel ramadan, il mese di digiuno previsto dalla religione islamica. E' una dichiarazione conseguente al discorso svolto al Cairo, nel quale ha sollecitato la collaborazione con i paesi musulmani, mettendo fine alla politica di chi puntava allo "scontro di civiltà".

Ambiente. Barack Obama ha indicato la strada di una riconversione ecologica dell'industria statunitense, per superare la drammatica recessione economica provocata dalle speculazioni finanziarie dei mutui subprime. Ha fatto approvare dal Congresso americano una legge per la riduzione delle emissioni di gas inquinanti dell'83% entro il 2050. Ha capovolto l'impostazione di George Bush, non solo impedirà un ulteriore degrado del territorio, ma permetterà agli Usa di conservare la leadership tecnologica del mondo, allargandola ai processi produttivi puliti nei quali ora è all'avanguardia la Germania.

Evasione fiscale. Il presidente americano è deciso a far pagare le tasse a tutti, cominciando dai grandi evasori che hanno trasferito ingenti capitali nei cosiddetti "paradisi fiscali". I successi cominciano ad arrivare: l'Ubs, il più grande gruppo bancario svizzero, ha accettato, dopo un lungo braccio di ferro, di fornire i conti di 4.450 clienti americani sospettati di evasione dal ministero del Tesoro di Wasghton. La paura ha provocato già una valanga di autodenunce, anche se il fisco americano pretende comunque il pagamento di tutte le imposte dovute, limitando lo "sconto" all'abolizione delle conseguenze penali. In Italia, invece, ci sarà di fatto un condono. Chi farà rientrare i capitali illegalmente esportati all'estero dovrà pagare solo il 5% d'imposte, secondo la legge fatta approvare da Giulio Tremonti). Per Obama "è inaccettabile" l'evasione, soprattutto quando i cittadini americani sopportano forti sacrifici per superare la crisi economica causata dalla "bolla" dei subprime..

Sanità. Il presidente Usa vuole estendere a tutti i cittadini una copertura sanitaria fornita dal sistema pubblico o privato. Ora sono oltre 40 milioni i cittadini, gran parte del ceto medio, che non hanno una copertura fornita né dall'assistenza pubblica né da un'assicurazione privata: circa 14 mila persone ogni giorno sono nella drammatica situazione di non saper come pagare il conto dell'ospedale. Questa battaglia d'uguaglianza e di civiltà, incredibile a dirsi, ha sollevato un'ondata di dure proteste nel paese: si oppongono le lobby delle assicurazioni sanitarie, c'è chi teme di dover pagare più tasse per allargare l'assistenza sanitaria pubblica e chi, tra i ceti più poveri, ha paura di perdere le garanzie garantite alle famiglie indigenti. Ma il presidente americano non si lascia spaventare dalle proteste e sta andando avanti in questa battaglia, anche mettendo in gioco la sua popolarità.
Il figlio dello studente keniota vissuto con i nonni materni nelle isole Hawaii sta portando gli Usa a sinistra, come già fece Franklin Delano Roosevelt, il presidente che combattè il nazifascismo e la Grande Depressione del 1929. Il presidente democratico vuole mettere "le briglie" al capitalismo statunitense, lasciato libero di scorrazzare senza controlli dai repubblicani Ronald Reagan e George Bush, padre e figlio.
Obama sposta a sinistra l'America, offrendo un modello di nuovo riformismo, propulsivo, d'ispirazione liberale e non certo socialista (anche se la sanità pubblica e gratuita per tutti è stata una battaglia storica dei partiti socialdemocratici e socialisti europei). Il presidente afroamericano può costituire un importante punto di riferimento per i partiti socialdemocratici e socialisti del vecchio continente, in profonda crisi.

Tuttavia Obama non sa a chi passare la "fiaccola riformista" che ha acceso. La crisi è tanto profonda che né l'Internazionale Socialista né il Partito Socialista Europeo (Pse) sono stati in grado di elaborare un progetto contro la recessione internazionale. Ogni partito e ogni paese europeo si sono mossi per proprio conto con risultati deludenti.
In Italia la situazione è ancora peggiore. Il Partito Democratico va verso il congresso di ottobre dopo gravi sconfitte e in una stato di confusione. Non solo. Sia la sinistra radicale sia quella riformista sono state cancellate perfino dal Parlamento. Nel frattempo Silvio Berlusconi, sia pure tra varie difficoltà, guida da 15 mesi il suo quarto governo di centrodestra. L'America vira a sinistra mentre l'Italia e l'Europa vanno a destra.

Vediamo cosa succederà a settembre. Cosa diranno Dario Franceschini, Pierluigi Bersani e Ignazio Marino? I tre candidati alla segreteria del Pd riusciranno a far decollare un progetto di società diverso da quello del centrodestra? Riusciranno a raccogliere "la fiaccola" di Obama, l'uomo che ha sconfitto Bush? Per ora manca una mano in grado di prendere "la fiaccola" accesa dal presidente americano.
Pietro Nenni e Giuseppe Saragat nel 1962 inaugurarono il primo governo di centrosinistra (quello vero) chiedendo "case, scuole ed ospedali". Era la richiesta dei segretari del Psi e del Psdi al presidente del Consiglio Amintore Fanfani, cavallo di razza della Dc, considerata la premessa di uguaglianza per emancipare i lavoratori, i ceti più deboli e per far avanzare la democrazia in Italia. Ci riuscirono. L'istruzione e la sanità pubbliche e gratuite per tutti furono una grande scelta di civiltà, conquiste di cui ancora oggi godiamo. Certo parliamo di grandi strutture un po' ammaccate che reclamano riparazioni urgenti.

mercoledì 26 agosto 2009

Pascal Lamy: La mort du PS? Est possible

"La mort du PS ? C'est possible"
LE MONDE | 26.08.09 | 14h45 Réagissez (16) Classez Imprimez Envoyez Partagez
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Directeur général de l'Organisation mondiale du commerce et membre du Parti socialiste, Pascal Lamy estime que la gauche doit davantage critiquer le capitalisme, notamment en analysant ses limites anthropoliques.


Comment expliquez-vous le recul presque général de la social-démocratie lors des européennes de juin ?


Recevez dès 9 heures les titres du journal à paraître dans l'après-midi
Abonnez-vous au Monde.fr : 6€ par mois + 30 jours offerts Pascal Lamy,62 ans, est directeur général de l'Organisation mondiale du commerce depuis 2005. Membre du PS depuis 1969, il a été l'un des proches de Jacques Delors, au ministère de l'économie et des finances (1981), puis à la présidence de la Commission européenne (1984). Directeur général du Crédit lyonnais (1994), il a été commissaire européen au commerce entre 1999 et 2004.

Il est l'auteur, notamment, de La Démocratie monde : pour une autre gouvernance globale (Seuil, 2004).


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Cet échec est paradoxal en temps de crise, mais il est indiscutable. Pour deux raisons. En dépit de la réflexion engagée par le Parti socialiste européen, son analyse du capitalisme de marché n'était ni assez approfondie ni entendue, faute d'être suffisamment partagée et promue par les partis nationaux. On a dit pendant des années que les socialistes français étaient plus malades que les autres. Non seulement ils ne sont pas guéris, mais la faiblesse idéologique dont ils souffrent s'est plutôt étendue aux autres socialistes européens.

Le paradoxe est que les sociaux-démocrates avaient, pour la première fois, un manifeste commun...


Oui, mais c'était un travail du haut vers le bas, qui n'a pas été porté par les différents partis. Le Parti socialiste européen est un beau concept, mais qui n'a pas encore de réalité politique. La meilleure preuve est qu'il n'admet pas les adhésions directes. Au Parlement européen, le groupe socialiste est une juxtaposition de groupes nationaux. Ni le SPD allemand ni le Labour britannique ne s'y intéressent vraiment. Quant au PS français, cela dépend des individus. Résultat : il n'y a pas d'homogénéité idéologique au sein du PSE.

L'Europe a longtemps été, selon vous, le lieu du compromis social-démocrate. L'échec des socialistes n'est-il pas la traduction de la faiblesse de l'UE ?


Le problème est plus fondamental. Il porte sur les valeurs et l'analyse, mais aussi sur les instruments et la tactique politiques à mettre en oeuvre. Sur le terrain des valeurs, la gauche mondiale doit remettre à jour sa critique du capitalisme de marché. Les termes dans lesquels se pose la question sociale - qui reste la question centrale pour la gauche - ont fondamentalement changé sous l'effet de la mondialisation : l'espace dans lequel elle doit être pensée et traitée est l'espace mondial. Bien sûr, elle continue de se poser à l'échelon local et national, comme le montrent les succès de la gauche au Brésil ou en Inde. Mais persister à ne pas partir d'une analyse à l'échelle mondiale est une impasse.

De plus, les espaces idéologiques à l'intérieur desquels on doit situer une approche de gauche sont devenus plus complexes. L'axe traditionnel est celui qui va de la liberté à l'égalité. La gauche donnant la préférence à l'égalité, une notion plus collective, et la droite à la liberté, plus individuelle. A cet axe s'est ajouté un deuxième : l'axe marchand-gratuit. Et un troisième émerge : l'axe économie-anthropologie. Autrement dit, le bonheur est-il lié à la richesse ? Quelles sont les limites anthropologiques à la pression consumériste sur le statut des personnes ? La gauche doit réfléchir aux limites du capitalisme de marché dans des termes à la fois plus sophistiqués et plus critiques. Aussi longtemps qu'elle ne fera pas ce travail approfondi de rénovation des concepts, elle passera à côté d'une grande part de la réalité sociale d'aujourd'hui, et restera donc inaudible.

Et l'écologie ?


Elle est évidemment une préoccupation majeure, mais désormais bien identifiée. Alors que la concurrence est le concept fondamental de la droite comme la solidarité est celui de la gauche, je pense que l'écologie est une dimension de la solidarité.

Comment penser la solidarité au niveau mondial ?


C'est évidemment le problème essentiel. Le résoudre implique un énorme changement culturel, car les instruments de solidarité sont forcément des instruments d'organisation et de contrainte collectives, ce qui soulève immédiatement la question de leur légitimité : jusqu'à présent, les seuls outils collectifs légitimes sont ceux qui résultent de processus démocratiques dont l'espace par excellence est celui de la nation. Ces outils restent donc stato-nationaux. Nous devons partir à la recherche d'une démocratie-monde capable de légitimer une solidarité globale.

Au-delà des valeurs, quels sont les instruments et la tactique à adopter ?


Il y a deux instruments possibles pour développer la solidarité : la redistribution et la régulation. Cette dernière est souvent plus facilement acceptée, même si je suis bien placé, à l'OMC, pour savoir que la mise en place de règles suppose des négociations parfois aussi complexes que celles des mécanismes de redistribution.

Quant à la tactique, c'est l'éternelle question : faut-il favoriser le rassemblement à gauche, quitte à ne pas trop insister sur la plate-forme, ou au contraire privilégier la rénovation du contenu idéologique. De Mitterrand à Jospin, la gauche française a toujours fait le premier choix. Je pense que c'est mettre la charrue avant les boeufs ; mais sur ce point je suis minoritaire au sein du PS depuis longtemps.

Quelle est votre analyse sur la situation du PS ?


Le PS est prisonnier des institutions et de sa culture parlementaire. Il est en porte-à-faux par rapport au système présidentiel et à la sacralisation du pouvoir. Il est peuplé d'élus locaux de qualité accaparés, à juste titre, par leur travail de gestionnaires et d'administrateurs et qui savent que l'incantation politique ne guérit pas les écrouelles. Je comprends le malaise du PS face aux institutions mais on ne reviendra pas, hélas, sur l'élection du président au suffrage universel. Il faut donc l'accepter et s'y adapter. Mais ce n'est pas le seul handicap. Il faut que ce parti propose une véritable plate-forme idéologique. Ça ne se résume pas à trois formules ; c'est un énorme travail intellectuel. Or le PS est devenu une grosse bureaucratie politique, qui consacre 80 % de ses ressources à son fonctionnement interne.

Comment le remettre au travail ?


1 | 2 | suivant Propos recueillis par Gérard Courtois et par Frédéric Lemaître

martedì 25 agosto 2009

Gian Enrico Rusconi: Quale Unità d'Italia celebriamo?

25/8/2009

Quale unità d'Italia celebriamo





GIAN ENRICO RUSCONI

Assisteremo alla monetizzazione della celebrazione dell’anniversario dell’unità d’Italia. «Quanto ci costerà?» - è la domanda-chiave del governo. Non si chiede «che cosa esattamente dovremo celebrare?». Questa domanda infatti rischierebbe di mettere in crisi il governo, ben più seriamente dei comportamenti del premier. Il leghismo, sicuro della propria impunità, continuerà la sua recita anti-italiana grazie anche ad un sistema mediatico senza spina dorsale.

Nell’attuale clima politico la Lega non ha più nulla da temere, neppure dai rappresentanti dell’ex Alleanza nazionale, che si limitano a fare battute imbarazzate, pur di non mettere in difficoltà il governo cui sono attaccatissimi.

Sono passati quindici anni da quando ci siamo interrogati se non fossimo sul punto di «cessare di essere una nazione». Da allora, apparentemente non è successo nulla. In realtà il processo è andato avanti sotterraneamente, ma la questione di fondo è stata congelata, elusa. Certo: il linguaggio pubblico «politicamente corretto» ha adottato un tenue vocabolario patriottico. E’ tornata in onore la bandiera nazionale. Ma niente di impegnativo.

In tutti questi anni la cultura politica ha mancato di affrontare alla radice il problema storico della nazione italiana - a dispetto del lavoro fatto dalla storiografia che è rimasto sostanzialmente chiuso nel circuito accademico. La classe politica e i suoi rappresentanti intellettuali non hanno saputo elaborare un punto di vista storico-politico attuale da cui rivisitare in modo innovativo la storia nazionale. L’importante concetto di «patriottismo costituzionale», messo a fuoco quindici anni fa, è stato annacquato in una retorica nominalistica oppure criticato con toni di sufficienza per la sua presunta astrattezza. Così oggi siamo al punto di prima, anzi peggio di prima. Culturalmente immiseriti e profondamente divisi sul piano politico.

Ma che cosa si deve «celebrare» nel 150ª dell’Unità d’Italia? La dinamica politico-diplomatica (anche internazionale) con cui si è arrivati nel 1861 all’unificazione, per altro incompleta per le significative assenze di Venezia, Roma e naturalmente Trento e Trieste? Dobbiamo festeggiare le decisioni immediatamente prese in tema di centralizzazione statale anziché di decentramento amministrativo? O chiederci perché si è scartata l’opzione federalista che pure era stata presa in considerazione? Non è il caso di rivedere seriamente il pensiero di Carlo Cattaneo per sbugiardare Bossi e i suoi che lo citano? Dobbiamo ripercorrere criticamente la politica sociale e culturale adottata per «fare gli italiani»? O riaprire ancora una volta la questione della piemontesizzazione o, viceversa, della meridionalizzazione dell’apparato statale? O la piaga del brigantaggio? Dobbiamo ignorare la sconsiderata, irragionevole opposizione della Chiesa che ancora oggi la storiografia clericale si ostina a presentare in termini di «persecuzione laicista» della Chiesa?

Come si vede, i motivi di riflessione sono innumerevoli. Non sono per niente nuovi, ma arricchiti di materiali documentari sempre più ampi. Ciò che manca è la capacità di sintesi che sappia offrire anche una proposta o un’ipotesi di «educazione civile» per una nuova identità collettiva oggi, in una società tentata come mai da rotture centrifughe. E’ solo incapacità della classe politica nel suo insieme? Oppure siamo davanti ad una disgregazione profonda della società civile stessa? In questa situazione chi deve tentare la sintesi di cui parliamo?

Ricordo anni fa il tono deciso con cui un noto storico, oggi attivamente coinvolto in prima persona in questa problematica, respingeva come inaccettabile l’idea che dovessero essere gli storici ad assumere il ruolo di interpreti della nuova coscienza nazionale democratica (nell’ottica ad esempio del «patriottismo costituzionale»). Il compito degli storici - mi è stato replicato - è quello di analizzare e criticare, non di proporre forme di educazione alla nazione democratica. Era una risposta apparentemente ineccepibile, in realtà dettata dal timore di nuove «egemonie culturali» (di sinistra). Di fatto non c’è stato alcun tentativo egemonico né da sinistra né da destra né dal centro. Il risultato è lo strazio attuale. Una storia-fai-da-te con un impressionante impoverimento culturale generale.

Tornando alle celebrazioni dell’Unità, non so quali siano i compiti specifici del Comitato istituito ad hoc. Non potrà certo limitarsi a fare un elenco di manifestazioni, di incontri, di conferenze di alto livello o di iniziative mediatiche e artistico-letterarie connesse. Nel clima politico odierno non potrà dare per scontato il senso dell’anniversario. Generiche e solenni dichiarazioni di circostanza sarebbero fuori luogo. D’altro lato non ci si può aspettare in quella sede una rivisitazione storica approfondita a tutto tondo dell’evento celebrato, sia pure accompagnato dalle necessarie considerazioni critiche e problematiche. Questo è un tipico lavoro che attendiamo venga fatto in sede scientifica adeguata. Ma ritengo che il Comitato debba esprimere comunque un chiaro orientamento che tenga conto dei quesiti ricordati sopra: che cosa celebriamo esattamente? Quale valore specifico ci trasmette oggi quell’evento storico, al di là della ricorrenza del calendario? Quali sono le buone ragioni per continuare ad essere oggi una nazione unitaria?

E’ facile prevedere che un testo che tentasse di rispondere a queste domande si presterà a critiche da tutte le parti. Ma non è questo il punto. Trovo importante che in sede responsabile non si faccia finta di nulla, ma si abbia il coraggio di offrire una interpretazione che risponda agli interrogativi che si pongono gli italiani più sensibili. Anche se non taciterà i cattivi italiani.

lunedì 24 agosto 2009

Fidel Romano: Puglia, questione morale e sinistra

La sanità è da anni il più rilevante capitolo di spesa per le Regioni. Quello dove quindi si possono più annidare i rapporti non trasparenti affari-politica. Ricordo ad esempio nella mia esperienza di politica regionale, che nella scelta dei direttori generali e sanitari, non solo c’era la lottizzazione politica ma una quota di nomine, sia col centrodestra che col centrosinistra, era riservata ai “potenti della sanità”, imprenditori, manager e interessi vari. Ricordiamo, soprattutto noi in questa regione, la gestione del Governatore Storace e qualche miliardo di deficit. E dobbiamo ricordare però che nelle regioni governate dal centro-sinistra, la maggior parte oggi e speriamo anche l’anno prossimo, succede più o meno lo stesso.

Direttori, primari ed appalti sono decisi in gran parte nelle segreterie di partito e spesso, anche peggio, fuori da tali sedi.

L’ex Governatore Fitto era già stato implicato in indagini su questi temi. Vendola aveva vinto le Regionali del 2005 anche spingendo per una diversità su questi temi. Però poi l’assessore lo faceva Tedesco già altre volte amministratore della sanità e con affari nella sanità, vedi pure quanto uscito riguardo i figli.

Però rimane strano tutto questo can-can, è evidente un interesse del centrodestra, ma anche di una parte importante del centrosinistra che non vuole ricandidare Vendola e punta all’alleanza con l’UDC.

Quello che però mi stupisce ora, per modo di dire, è l’atteggiamento di Vendola e anche del Direttore Sansonetti. Il primo che qualche giorno fa ancora incensava Berlinguer come fa oggi a scrivere contro i giudici. Ripeto ancora una volta una frase, che è diventata davvero profetica di Nenni: C’E’ SEMPRE UN PURO PIU’ PURO CHE TI EPURA”. Vendola inoltre si scaglia contro l’aggressività e la spettacolarizzazione dell’inchiesta. Ma come Tangentopoli è stata solo spettacolo 1200 imputati 1150 assolti, l’On.Carra portato in tribunale con le manette, le monetine etc, ora di cosa ci lamentiamo?????

Sansonetti, invece pone dubbi, sulla giudice e sul fatto che è sposata ad un politico del centrodestra. Si sa i magistrati sono una casta, come tutto in italia, medici, notai, farmacisti etc.. Il nonno ed il padre di DeMagistris, ad esempio, erano in magistratura. Capisco Sansonetti e so che già in Rifondazione sia lui che Bertinotti esprimevano perplessità sulla deriva moralista della sinistra e sullo strapotere politico, dovuto alla subalternità della politica, dei giudici. Molto bello l’articolo su l’Altro che “difendeva” la lussuria e la libidine rispetto alle accuse di Repubblica al Premier di libidine geriatrica.

Però capite che questo è quello che a destra dicono da tempo, basta vedere il caso Berlusconi-Gandus.

Quello che serve a distanza di anni è una dura autocritica del Berlinguerismo e del moralismo che tanto male ha fatto alla sinistra e che purtroppo ne continua a fare.

Franco Astengo: terza via andata e ritorno

Dal sito di SD

Terza via andata e ritorno
di Franco Astengo
Dom, 23/08/2009 - 23:31
L'esigenza insopprimibile di ricostituire un soggetto politico rappresentativo della sinistra italiana, di quella che c'è e della sua tradizione storica che affonda le radici nei grandi partiti di massa del '900 e che non è stata ripresa da coloro che hanno tentato e stano tentando avventure diverse, necessita anche di punti di rifermento sul piano teorico e di obiettivi concreti da perseguire.
Il dibattito, almeno fino a questo punto, si è incentrato – senza eccessivi esiti, per la verità, date le responsabilità forti di un “ceto politico” che punta essenzialmente all'autoconservazione – su di una idea di metodo, richieste di congressi, volontà di espressione nella partecipazione dal basso.
Proviamo adesso ad alzare il tiro, cercando di guardarci intorno.
E' stato detto: la sinistra è in crisi in tutta Europa.
Da dove arriva questa crisi?
Rimaniamo convinti che le difficoltà più forti, per la sinistra italiana e per quella europea, nascono dall'errata risposta fornita ai fatti seguiti alla caduta del Muro di Berlino, alle rivoluzioni (più o meno, se pensiamo alla Romania) di “velluto” dell'Est, allo scioglimento dell'URSS.
Una risposta errata che ha colpito, più che in altre situazioni, la sinistra operante in Italia per via dei rapporti di forza, in allora ancora esistenti e che favorivano largamente il Partito Comunista, mentre il Partito Socialista aveva abbracciato la logica del potere, il decisionismo, la personalizzazione della politica, l'idea della riduzione nel rapporto tra politica e società attraverso il “taglio” della domanda sociale.
Non si comprese, come scrive oggi Stefano Bianchini nel suo “Le sfide della modernità”, il riecheggiare, nelle proposte di Gorbaciov, delle idee della Primavera di Praga, del tentativo di dimostrare come il socialismo fosse in grado di sostenere la modernità, di adattarsi alla sfida internazionale dell'interdipendenza e cioè della globalizzazione.
Siamo convinti anche noi che il disastro di Cernobyl, rimanga testimonianza emblematica della fragilità della situazione, probabilmente irrecuperabile, ma si dimostrò, anche in quel frangente così drammatico, la volontà di incentivare la partecipazione attiva alle istituzioni economiche e sociali, cambiando anche quelle politiche: per l'appunto quello che si era tentato di fare, in una breve stagione, nel'68 a Praga.
Si trattava di riconoscere la diversità degli interessi sociali e di inserirli in un processo di graduale democratizzazione.
Rimane la domanda: si era ormai in ritardo rispetto alle trasformazioni sociali in atto, alle resistenze di chi non voleva perdere potere e privilegi e alle obsolescenze tecnico-scientifiche?
Ovviamente con i se e con i ma non si costruisce la storia: l'esito di quella vicenda lo conosciamo benissimo.
Rimane il dato, incontrovertibile, che la sinistra europea, quella italiana innanzi tutto, non riuscirono a presentare un progetto politico in grado di comprendere la realtà, offrendo soluzioni: si trattò di una vera e propria “rotta”, una ritirata senza meta e senza fine (vale la pena di consultare il bel libro di Luca Telese, “Qualcuno era comunista”, uscito in questi giorni per Sperling e Kupfer), abbracciando la tesi del Fukuyama della “fine della storia”, e rifugiandosi nella “correzione” del liberismo selvaggio, attraverso idee assolutamente irrealistiche, come la “Terza Via” di Giddens che ha portato alla fine il Labour al minimo storico, il “Nuovo Ulivo Mondiale”che bombardava la Serbia, lo “sblocco del sistema politico”che in Italia ha portato dritto, dritto, ad un regime populistico – televisivo che Giovanni Sartori ha brillantemente definito “sultanato”.
Eppure la risposta possibile c'era, verificando con grande attenzione molto della produzione teorica della sinistra europea e della sinistra italiana: vado soltanto per titoli, limitandomi alla tradizione socialdemocratica dell'intervento pubblico in economia, dello stato sociale, della centralità di una produzione industriale ad alta densità tecnologica, all'attenzione all'ambiente, ad un progetto di democratizzazione dell'Unione Europea che non fa più passi avanti almeno dalla prima elezione diretta del Parlamento nel 1979, e riferendomi anche all'idea di “Terza Via” elaborata dalla sinistra comunista italiana (in questo “Terza Via” andata e ritorno: dal viaggio verso quella disastrosa di Giddens, al ritorno verso quella di Ingrao e Rossanda delle “conversazioni di fine secolo”) incentrata soprattutto su di un diverso rapporto tra masse e potere.
Senza considerare, in quel momento storico, quanto si era realizzato sul terreno della modifica dei rapporti sociali, del costume, della capacità di integrazione tra soggetti diversi.
Tutto è stato messo da parte, per far posto alle logiche di un liberismo che si è dimostrato, come da pronostico, senza speranza e senza futuro.
Oggi, quel ciclo appare concludersi, anche se le difficoltà non mancano (come dimostrano abbondantemente i primi passi della nuova amministrazione americana, che non paiono proprio delineare una “nuova frontiera”).
Dall'Europa può partire una diversa risposta, a livello unitario ed anche a livello delle forze politiche di ogni singolo stato, in un momento in cui la crisi delinea scenari, non soltanto di ritorno all'intervento statale con richiami- anche impropri – al keynesismo, ma anche di recupero di ruolo da parte del soggetto “Stato-Nazione”.
Segniamo punti di arretramento pauroso, nel rapporto tra pubblico e privato, nella vita quotidiana e nella politica: la questione di genere, così prepotentemente venuta fuori nelle cronache italiane di questi mesi appare paradigmatica, assieme al tema della personalizzazione della politica, in nome della quale abbiamo sacrificato, vogliamo ricordarlo ancora, la realtà dei grandi partiti di massa.
Dunque: in questo quadro, con i riferimenti che molto faticosamente abbiamo cercato di accennare, un nuovo partito della sinistra italiana.
Un nuovo partito che deve dotarsi di un obiettivo ben preciso: che non riguarda il mantenimento di piccole fette di potere ( fa impressione leggere, nel documento di Sinistra e Libertà, al primo punto il tema della presentazione alle elezioni regionali: boh! Che reale importanza ricoprono queste elezioni, di semplice spartizione del potere se intese come fin qui è stato fatto ad esempio da Rifondazione Comunista nel 2005 com'è nell'esempio della Liguria, nel momento in cui va portato avanti uno sforzo di grande portata?).
L'obiettivo deve essere quello del rientro in Parlamento della sinistra italiana: ma un rientro che non significhi semplicemente il superamento dell'ostacolo tecnico dello sbarramento al 4%, ma un rientro che significhi ripresa di presenza, di incisività, di radicamento.
Dovrà essere un partito a rientrare in Parlamento: con tutto ciò che questo significa, eliminando nella fase di costruzione, personalismi, leaderismi, assessorati vari, più o meno chiacchierati.
Come muoverci, allora, nel quadro politico italiano di oggi?
L'intervista di De Rita, rilasciata il giorno di Ferragosto al “Corriere della Sera” indica l'avvio di una fase di superamento del regime in atto: vi si parla di “sfarinamento” e di possibile implosione in divenire ( e basta analizzare i movimenti del Presidente della Camera per comprendere al meglio, queste affermazioni: parodiando, ci vorrà un 25 Luglio, non arriverà certo il 25 Aprile dell'alternativa).
Così come appare evidente la crisi del bipartitismo, mentre regge una anomalia di tensione “bipolare”, che non trova però corrispondenza, almeno per adesso, nei processi in atto.
Naturalmente non parliamo di domani, ma il traguardo va fissato alla fine della legislatura.
Apparirà necessaria una soluzione di transizione, che può trovarsi di fronte un fatto nuovo: quello della assunzione di centralità del tema dell'unità nazionale; della riduzione, cioè, della contraddizione Nord/Sud (riedizione aggiornata della contraddizione Centro/Periferia analizzata da Rokkan) ed emblematizzata dalla nascita di un Partito del Sud da contrapporre alla Lega Nord (tutto questo in un Paese dove larghe fette dell'economia sono in mano a soggetti illegali: ed è proprio per questo che il tema dell'unità nazionale potrebbe presentarsi come centrale).
Quale soluzione, allora, alla crisi del regime e al presentarsi del tema della disunità d'Italia?
Il “Corriere della Sera” sostiene, da tempo, una linea precisa che è anche quella che divide il PD (attorno al tema, occulto ma non troppo, come è stato fatto notare da osservatori ben più autorevoli di noi; della legge elettorale): la linea che chiameremmo del “taglio delle ali”, con la sconfitta della Lega Nord, l'emarginazione di Di Pietro, la riduzione all'impotenza del “ridotto della Valtellina” dell'attuale Presidente del Consiglio (si sono notate, ovviamente, le prese di distanza del Ministro dell'Economia sul terreno – proprio – del liberismo, e le posizioni della Banca d'Italia) e la formazione di un concerto di solidarietà nazionale poggiante su tre pilastri: AN, UDC, PD, sul modello tedesco (che potrebbe anche essere adottato sul piano elettorale).
Non crediamo di dilettarci di fantapolitica: tutto questo sarà all'ordine del giorno in un futuro nemmeno troppo lontano: la sinistra è chiamata, da subito, a ricostituirsi in partito (cercando anche un colloquio con Rifondazione Comunista, nel tentativo di tracciare una analisi comune), progettare un “programma comune della sinistra”, partendo dall'idea di una “terza via” davvero possibile posta al di là del liberismo sfrenato e dal puro e semplice tentativo di mitigarlo, trovarsi preparata ad un possibile avvio del meccanismo di scomposizione/ricomposizione della sinistra italiana.
Non serve in questo momento la ricostituzione di un nuovo centro-sinistra: serve l'affermazione, autonoma e importante, di una “nuova sinistra” alternativa che, per questa via, ritrovi la capacità di essere presente al più alto livello istituzionale, ricostituisca un radicamento sociale alla propria organizzazione politica, offra una idea di futuro alle generazioni che verranno.

Paola Meneganti: Il mondo è estraneo

che pena, che rabbia ...
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Il mondo è estraneo

Dopo una settimana trascorsa in campagna, nella mia amata casa di Castellina, dove la connessione è però talmente lenta e improbabile che scoraggia l’uso del web – e chissà che non sia un genius loci a volerlo … - sento il bisogno di dire alcune cose, e, per prima, l’immensa, la cocente vergogna di far parte di un Paese che permette – da anni - stragi come quella di pochi giorni fa, che di nuovo ha ucciso poverissimi, disperati, diseredati, persone in fuga, esseri umani ultimi tra gli ultimi, ma li vediamo quegli occhi ? ma li vediamo, con la paura il dolore lo smarrimento? Ma come ci si sente, cantava Bob Dylan, with no direction home/like a complete unknown”, una pietra che rotola, un corpo senza storia, senza significato, buono solo per affondare nel Canale di Sicilia? Chi, mai, potrà raccontare le loro storie?

E abbiamo un ceffo, che si fa fotografare in canotta nera da tamarro, ma che è ministro, che spara parole crasse ed ignoranti e nel far questo offende e umilia certamente i migranti ma anche noi, noi che siamo ahimè suoi concittadini e che viviamo nella Repubblica di cui lui è, appunto, ministro del governo alla cui guida c’è il lenone d’Italia - questo ceffo che si rivolge con arroganza al quotidiano della Cei, il quale, magari su questo argomento, parla e denuncia forte e chiaro, che parla con ignoranza della nostra emigrazione, della nostra storia, della nostra scuola, della nostra lingua.

Dobbiamo riappropriarci dell’umanità, riscoprire in noi il senso dell’umanità, della concretezza e dell’infinità che stanno in ciascun essere umano e tornare lì, a quella radice, alla prima radice del nostro stare nel mondo; altrimenti anche la nostra umanità ne soffrirà, altrimenti, scrive Pessoa, “abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto,/ma ci svegliamo ed esso è opaco,/ci siamo alzati ed esso è estraneo”.

P.M. 23.08.09



"Il nostro quotidiano parla all'anima

e improvvisamente la convince.

Questo è il ricordo.

Ogni giorno nuovo"


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L’unica radice che ho mi fa male Alda Merini

“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria” Faber

There was a big high wall there that tried to stop me
sign was painted, it said private property;
but on the back side it don't say nothing
that side was made for you and me

domenica 23 agosto 2009

Segnalazione: Summer camp FGS

5° Summer Camp FGSCondividi
Oggi alle 7.52
Salerno Lungomare Tafuri 4/5/6 Settembre 2009


PROGRAMMA

Venerdi 4 settembre

Sede Provinciale di Sinistra e Libertà

ORE 12.00 Conferenza stampa di presentazione del 5° Summer Camp FGS

Luigi Iorio Segretario Nazionale FGS
Enzo Maraio Assessore al Turismo del Comune di Salerno
Interverranno:
Gennaro Mucciolo, Fausto Corace, Michele Ragosta


Grand Hotel Salerno



Ore17.00 “Qualcuno era comunista” di Luca Telese
Ne discutono con l'autore



Roberto Biscardini
Marco Fumagalli
Umberto Guidoni

Conduce Gaetano Amatruda

Lido La Conchiglia



Ore 18.00 Accredito dei partecipanti, e sistemazione in tende



Ore 19.00 “La scuola e la società del futuro”
Assemblea aperta ai movimenti e associazioni politiche e studentesche



Alessandro Battilocchio
Brando Benifei
Arturo Scotto
Andrea Pellegrino
Matteo Tarolli
Luca De Zolt




Ore 21.30
Partita di Calcio tra i partecipanti

Sabato 5 Settembre

Lido LaConchiglia



Ore 11.00 Summer school

“Socialisti nel presente”



Nicola Colonna
Luigi Covatta
Gianvito Mastroleo
Carlo Sorrentino
Mario Patrono
Daniela Brancati
Vincenzo Iacovissi





ore 16.00 Presentazione del sito www.giovanisocialisti.it



Silvano Del Duca
Peppe Potenza



Ore 19.00 Reinventare il centro-sinistra



Gianni Pittella
Marco Di Lello
Marco Pannella
Paolo Cento
Claudio Fava

Conduce Aldo Torchiaro

Ore 23.30 Festa sulla spiaggia


Grigliata organizzata dalla FGS Napoli e Ass.ne Pool Napoli

Domenica 6 Settembre



Grand Hotel Salerno
Ore 10.00 “Libertà. Sostantivo femminile”

Introduce: Sara Pasquali

Pia Locatelli
Maria Rosaria Manieri
Pasqualina Napolitano
Federica Mariotti
Claudia Bastianelli
Rita Bernardini
Souad Sbai



Ore 12.00



Conclusioni
Riccardo Nencini Segretario nazionale del Partito Socialista


INFO E ORGANIZZAZIONE:


Il Campeggio della gioventù socialista si terrà dal 4 al 6 settembre 2009, presso il Lido "La Conchiglia" sul Lungomare Tufari di Salerno a 100 metri dalla stazione ferroviaria.Il pernottamento in tenda è gratuito.Le tende verranno sistemate in spiaggia nei pressi del Lido La Conchiglia. Chi vorrà pernottare in camera, potrà rivolgersi al Grand Hotel di Salerno - struttura 4 stelle a 20 m. dal Lido - ad un costo di € 35, prima colazione inclusa, grazie alla convenzione preventivamente effettuata. Il ristorante convenzionato è "La Sirenetta", situato a pochi metri dalla spiaggia, dove sarà possibile consumare un pranzo completo a 12 euro. Il costo giornaliero per usufruire dei servizi della spiaggia (lettini,piscina,doccia,ecc.) è di € 8.
In attesa delle vostre prenotazioni auguriamo a tutti voi buone vacanze.
Per Info:
Silvano Del Duca 3494769258
Mattia Di Tommaso 3395810492

organizzazione@giovanisocialisti.it

sabato 22 agosto 2009

Carla Ravaioli: Uscire dalla crisi, con una sinistra ecologista e sociale

Uscire dalla crisi, con una sinistra ecologista e sociale
Data di pubblicazione: 10.08.2009

Autore: Ravaioli, Carla

In due articoli su Liberazione (26 luglio e 9 agosto 2009) l’opinionista di eddyburg indica una strada per superare la crisi senza ripristinarne le radici

26 luglio 2009
Uscire dalla crisi? No, è il momento di
cambiare il sistema

Uscire dalla crisi. Non c’è soggetto di sinistra - partito, associazione, sindacato - che non affermi la necessità di questo obiettivo. Proprio come le destre, anche se certo con finalità diverse. Nella convinzione che solo rimettendo in moto l’economia, sia possibile (tentare di) salvare l’occupazione, difendere salari e pensioni, aiutare i lavoratori a superare la durezza del momento. Inascoltate, dalle sinistre come dalle destre, le voci sempre più numerose di personaggi peraltro alieni da ogni estremismo (vedi Stiglitz, Krugman, Morin, Guido Rossi, e molti altri) che affermano la necessità, sociale non meno che strutturale, di un diverso ordine economico. Mentre auspicare l’uscita dalla crisi equivale ad accettare il mondo così com’è.

Un mondo ricco, ma in cui esiste un miliardo di affamati, e l'1% della polazione detiene il 50% della ricchezza. Un mondo tecnologicamente in grado di produrre ampiamente il necessario con sempre meno lavoro umano, che invece insiste ad aumentare gli orari fino a proporre l’insensatezza di novanta ore a settimana. Un mondo che per la sua stessa razionalità usa la guerra come risorsa: oggi, in piena crisi mondiale, la produzione delle armi è in ottima salute. Un mondo che ancora tenta di credere all’inesistenza di una seria minaccia ecologica, continua a dilapidare la natura e a piegarne a fini economici i processi, stravolgendone senso e funzioni nella bulimia della crescita. Appropriandosi dello stesso impegno ecologista nella creazione di energie rinnovabili e forme produttive meno inquinanti, per piegarle alla logica della crescita nell’invenzione del “green business”. Davvero le sinistre possono accettare e di fatto - impegnandosi al suo recupero - legittimare questa realtà?

E’ comprensibile, certo, e forse anche utile nell’immediato, la lotta per la sopravvivenza della fabbrica a rischio, per la regolarizzazione di qualche gruppo di precari, per la difesa di categorie destinate al prepensionamento, ecc. Ma può la sinistra limitarsi a questi obiettivi? Non è necessario (nel mentre stesso che per essi ci si batte, e se ne ottiene il possibile) domandarsi se siano una risposta sufficiente oggi, in un mondo in cui precarizzazione, prepensionamenti, delocalizzazioni, sono strumenti obbligati di competitività sul mercato globale, dove l’economia (cioè la forma capitale) impera e la politica ad essa puntualmente s’inchina? Non è doveroso riflettere sulla irripetibilità di quel felice trentennio in cui la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica era parsa la risposta alla povertà? E ricordare come però negli ultimi decenni, mentre il prodotto continuava a crescere, anche la disoccupazione cresceva, e il precariato diventava regola, e i salari non facevano fronte all’inflazione, e insomma si produceva quella drammatica realtà che Halimi ha chiamato “Il grande balzo all’indietro”? Già allora solidi cervelli critici parlavano di crisi irreversibile del capitale: alcuni di loro, come Wallerstein, indicandone le cause nei limiti del pianeta, che non offre più spazi al connaturato espansionismo del capitale, altri, come Gorz, esplicitamente parlando della crisi ecologica come insuperabile barriera alla continuità del “sistema”.

E in fatto di ambiente sarebbe il caso che le sinistre facessero un sano esame di coscienza. Problema a lungo rifiutato, attribuito a interessi estetizzanti delle classi privilegiate, mentre si ignorava il fatto che a pagare le conseguenze del dissesto ecologico sono sempre i più poveri (operai, contadini, pescatori, profughi da inondazioni, cicloni, tornado). L’accumulazione capitalistica, come causa di distruzione della natura non è mai stata considerata da sinistra, e mai le masse lavoratrici sono state indotte a riflettere sulla materia. Dimenticando che solo su “pezzi” di natura, minerale vegetale animale, il lavoro esercita la propria fatica e la propria intelligenza. E che solo dalla natura la gran macchina dell’industria mondiale ricava la massa di prodotti di cui inonda i mercati. “Le merci sono natura trasformata”, già lo diceva Engels. Dunque se la natura continua ad essere saccheggiata, inquinata, cementificata, è lo stesso mondo di cui il lavoro vive ad essere messo a rischio. Non dovrebbe essere impegno delle sinistre difenderlo?

Un proposito del genere m’era parso di cogliere quando Rifondazione, per la voce dello stesso segretario, ha ripetutamente asserito: “Noi siamo per una società anticapitalista e ambientalista”. In questo abbinamento dei due obiettivi m’era parso di leggere una felice indicazione al programma elettorale, con la consapevolezza che una vera politica ambientale non può non essere anticapitalista, in quanto è il capitalismo il responsabile dello squilibrio del pianeta; e che per salvarlo occorre contenere la produzione, cioè pensare un’altra economia. Ma nel dibattito elettorale questo tema è praticamente sparito. Fatalmente - si sa - in prossimità delle elezioni il discorso politico, concentrato sulla cattura del voto, si rattrappisce, si limita a pochi temi supposti largamente condivisi, evita ogni azzardo.

Ora è nata la Federazione, e si appresta a “un nuovo inizio”. Bene. Non so però se ciò che si propone in prima istanza, cioè “ripartire dal lavoro”, sia il modo più utile di affrontare i problemi che ci sovrastano. Certo, il lavoro è tema sociale di rilevanza primaria, non solo oggetto della più pesante iniquità, ma base imprescindibile di continuità vitale della specie. E però non so se basti assumerlo come materia da cui “ripartire”, senza dichiarare l’esigenza di riflettere a fondo su come, quanto e perché il lavoro è cambiato e continua a cambiare. Vedi appunto la sempre più paurosa crisi ecologica; e la rivoluzione scientifica e tecnologica che ha sconvolto tempi e modi delle comunicazioni di ogni tipo, che ha radicalmente cambiato e continua a cambiare il nostro quotidiano, che nella forsennata corsa capitalistica alla crescita ha trasformato il produrre in tutte le sue forme, investendo e proiettando su dimensione mondiale anche i problemi di sempre.

Temo che isolare un problema, sia pure decisivo come il lavoro, rischi di allontanarci dal proposito di “un nuovo inizio”: che non può essere “l’uscita dalla crisi”, sia pure “da sinistra” (e in che modo poi?), ma solo l’ipotesi di un nuovo ordine economico. Difficile? Difficilissimo. Ma dopotutto la storia è fatta di cose che prima non c’erano.

9 agosto 2009
Sì ad una sinistra sociale ed ecologista…

“Noi vogliamo una sinistra sociale, ecologista, femminista, pacifista, anticapitalista e antipatriarcale”. Questo è l’obiettivo che un nuovo gruppo di lavoro si è dato, e che due suoi membri, Imma Barbarossa e Ciro Pesacane, hanno annunciato con un intervento su Liberazione del 1 agosto.

Può parere l’ingenuità di un “vogliamo tutto e subito” privo di conseguenze possibili, o un’accozzaglia di istanze disomogenee, allineate casualmente in un momento di irresistibile rifiuto del reale. A me pare invece un apprezzabile tentativo di aggregare in un unico progetto istanze solitamente programmate e vissute separatamente: l’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo, ecc. qui proposti invece in un unico discorso. Il difetto sta semmai in una insufficienza di sintesi, quasi il progetto fosse frutto di una spinta inconscia più che di una meditata riflessione. Perché, se ognuna di queste istanze viene assunta in tutta sua portata e nella complessità delle sue possibili ricadute, ci si avvede come sempre i loro oggetti obbediscano a una medesima logica; e (quali ne siano gli antefatti e la specifica vicenda storica) tutti operino oggi come agenti decisivi di un unico sistema: il capitalismo. Ed è facile convincersene se appena si ci sofferma a considerarle.

Tralasciando il “sociale” (qualità imprescindibile, anzi ragione fondativa, di ogni “sinistra”, l’unica d’altronde che bene o male tutte le sinistre tentano di perseguire) occupiamoci di temi meno consueti: l’auspicio “ecologista” innanzitutto. E qui ci imbattiamo (come ho detto più volte) in uno dei più gravi “peccati” della sinistra; la quale a lungo ha negato la stessa esistenza del rischio ambiente, facendo proprio il paradigma dello stesso ordine economico che diceva di combattere, puntando sull’accumulazione capitalistica nella speranza di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e - alla pari dell’intero mondo politico - ignorando ciò che da sempre l’ambientalismo più qualificato afferma: cioè l’impossibilità di perseguire una produzione in crescita illimitata su un pianeta che illimitato non è, ed è pertanto incapace sia di fornire alla produzione quantitativi via via crescenti di risorse, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano; e pertanto la necessità di contenere la moltiplicazione del superfluo, la corsa all’iperconsumo e allo spreco, la santificazione del Pil.

Dunque lo squilibrio ecologico che va devastando il mondo e che nessuno può più ignorare, entra di diritto e d’autorità in un programma come quello che il gruppo propone: programma anticapitalista in ogni sua proposta, anche se la natura delle diverse istanze perseguite può sollevare qualche interrogativo.

Ad esempio una sinistra femminista e antipatriarcale (non credo scorretto affrontare insieme i due obiettivi, che nelle rispettive specificità obbediscono a esigenze analoghe) difficilmente di primo acchito può ritenersi necessariamente su posizioni anticapitalistiche. Si potrebbe addirittura sostenere il contrario, ricordando che proprio nei secoli di massima affermazione capitalistica le donne hanno conquistato diritti civili e sociali, e raggiunto livelli di libertà senza precedenti. Ma pronta, e sacrosanta, sarebbe l’obiezione femminista, a ricordare come il lavoro familiare e domestico, dovunque ritenuto dovere delle donne anche con regolare impiego, si ponga di fatto come “produzione e manutenzione di forza lavoro” fornita a costo zero all’industria capitalistica. E si potrebbe aggiungere come le conquiste femminili risultino limitate e in qualche misura deformate dalla cultura della società attuale, tutta giocata tra produzione e consumo, cioè dominata da una categoria la quale (secondo la millenaria divisione delle funzioni sessuali, che attribuisce al maschio la produzione e alla femmina la riproduzione) comporta il trionfo del “maschile”: e dunque iperattività, aggressività, violenza, guerra in qualsiasi forma, a definire ogni realtà e ogni rapporto, e poco o tanto a contaminare anche le donne che in questa realtà cercano di esprimersi. Senza dire (ma questo vorrebbe ancora un lungo discorso) della mercificazione imperante che della donna - da sempre ridotta a merce lei stessa - ha fatto strumento di invito alla merce.

E il pacifismo. Le guerre ci sono sempre state, con solerzia ci viene ripetuto. Vero. Ma non è meno vero che il capitalismo, oltre a usare la guerra come sempre per la conquista di nuove terre e di risorse pregiate, l’ha eletta a strumento regolatore del proprio equilibrio economico; e soprattutto a partire dal secolo scorso (come ampiamente argomentato da grandi economisti ) “una nuova alleanza tra industria e forze armate” (Galbraith) è stata stipulata a garantire la prosperità del sistema.

Agli amici impegnati in questo nuovo gruppo di lavoro, se saranno fedeli all’impianto dell’enunciazione, non mancherà materia su cui riflettere e faticare. Ma la strada imboccata credo sia quella buona: sapendo che, come sempre - ma più che mai oggi, in un mondo globalizzato - “tutto si tiene”, e proprio nelle connessioni e nella reciprocità di determinazione tra fenomeni apparentemente dissimili, è possibile leggere per intero i problemi che urgono e le battaglie che si impongono.

Giuseppe Casarrubea: Le ceneri del socialismo

Dal suo blog

Le ceneri del socialismo
8 Luglio 2009 di casarrubea




"O socialismo o morte" (da stefanominguzzi.com)
In molti si chiedono quali siano le differenze tra destra e ciò che resta della sinistra. L’interrogativo se lo pongono le persone che incontriamo ogni giorno per strada ma anche quelle che un tempo avremmo collocato dentro i confini della cultura egemonica. Gli iscritti ai partiti e soprattutto i militanti di sinistra che si trovano, all’improvviso, come sfrattati senza un tetto, una fissa dimora, ritengono invece di stare al sicuro dentro la nicchia del loro orticello che collocano al centro o a sinistra, o in un vago centrosinistra, a seconda dei casi.

I nuovi vincitori sono una stirpe silenziosa e agguerrita, abituata da tempo a giocar di sciabola e, al momento opportuno, capaci persino di fare saltare qualche testa. Enzo Biagi è stato per tutti l’emblema della spregiudicatezza di questa nuova classe al potere, fatta di militi pronti a ubbidire e sensibili al potere attrattivo delle poltrone. Hanno molto a cui pensare perchè per loro la cultura è tutta nella materia del loro agire, del loro immediato interesse. Nudo e crudo. E questo fa parte del gioco. Così sappiamo che non solo le guerre possono vincersi o perdersi, ma anche le forme dell’egemonia culturale. Quello che ci dobbiamo augurare è che, questa volta, non ci siano solo scorze vuote, ma che ciò che buttiamo nella spazzatura abbia dei precedenti contenuti di dignità, cioè dei punti concettualmente vulnerabili. Se ci fossero solo pattumiere, avremmo poco da discutere. Consumiamo e via. Costi quel che costi. E’ la grande palude universale in cui nuotiamo.



Vauro 2002 03 28

Dunque, alla domanda che ci siamo posti, potremmo rispondere sbrigativamente che la destra è la forza gravitazionale dei modelli del libero mercato e della loro sperimentazione su scala planetaria; l’invasione produttivistica degli spazi materiali e mentali delle persone, delle città, dei gruppi. La sinistra è il controllo della spregiudicatezza, delle voglie edonistiche del consumo e del piacere senza limiti naturali. E’ l’attenzione a evitare lo schiacciamento della persona e dei suoi diritti fondamentali, a cominciare da quelli dei più deboli. E’ la politica degli investimenti per lo sviluppo armonico possibile. Contro ogni forma di emarginazione. L’assurdo è che ci voleva un Obama pronto a farcelo ricordare al G8 dell’Aquila.

Ora non ci pare che a sinistra le grandi questioni che interessano la nozione del popolo, siano sufficientemente considerate e, soprattutto, che ci sia una lettura del valore del lavoro adeguata ai bisogni dei tempi che stiamo vivendo. Registriamo divisioni, battibecchi, personalismi e attacchi moralistici. Riflessi dell’involuzione generale. In altri tempi non si sarebbe neanche posto il problema di sapere se un tipo come Berlusconi avrebbe potuto continuare a fare il premier dopo quello che ha combinato. E mentre si svolge uno dei più grandi appuntamenti dei potenti della Terra, giusto in Italia, Franceschini pianta i suoi paletti in vista del futuro congresso del Pd; Bersani alza le sue bandiere liberal e cambia look; Marino si mette di traverso e D’Alema continua a giostrare, facendo l’eterno sornione dei cattivi giochi altrui.

Ridotti a considerare con amarezza i tempi che viviamo, dobbiamo perciò prendere atto del fatto che uomini come Moro, La Pira e persino Fanfani oggi sarebbero più statalisti e rivoluzionari di qualsiasi militante o dirigente del Pd e che l’avvenuta riduzione a zero della politica pone a tutti, destra compresa, il compito di fare i conti con la propria identità e col modello di democrazia nel quale ciascuno è vissuto e vuole vivere.

Al contrario assistiamo ad una gara di nuoto dopo un naufragio; ciascuno si è acchiappato al suo scoglio o alla sua scialuppa di salvataggio. Il massimo della politica a sinistra che oggi registriamo. Qui, alcuni hanno già preso gli opportuni provvedimenti, costruendosi una casa tutta per loro, magari senza fondamenta e senza tetto. Altri sono ancora spaesati e increduli. Non hanno bussole e perciò navigano a vista, come naufraghi. Improvvisamente emarginati dagli avversari, resi ridicoli, pezzi da museo.

Appare naturale che il trauma del processo a centrifuga che hanno subito, per il venir meno della cultura di sinistra, sia ben misera cosa rispetto al crollo del cosiddetto “socialismo reale” di un ventennio fa, quando iniziò una diaspora senza precedenti. I più duri si sono attaccati alle antiche certezze simboliche, fatte di falci, martelli, stelle e bandiere rosse, i meno duri, hanno scoperto il valore unificante della democrazia e si sono adunati nel Pd. Non c’è dubbio, però, che tutta la sinistra anche quella più nostrana e socialdemocratica, ha avuto inferto un primo duro colpo col precipitare degli eventi, con la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Urss e dei Paesi dell’Est, la morte della prima Repubblica e la nascita del berlusconismo. Un mutamento progressivo che ha visto i gruppi dirigenti della sinistra incapaci di leggere il futuro, sempre più ipercritici, incazzati neri, disorientati e ridotti con le spalle al muro.

Costretti ora a dover credere che lo scontro politico in Italia sia tra il berlusconismo e il Pd, pensano realmente che non ci sia alternativa alla vera questione: la tendenza indotta, a un livello ipogeo e silente, del sistema bipartitico, con la cancellazione di tutte le altre voci dissonanti. Dunque la questione non è l’esistenza di Berlusconi e del suo popolo della libertà da un lato e l’opposizione del Pd dall’altro. Ma la democrazia nella sua reale consistenza e storicità, così come è stata costruita dall’antifascismo. Cosa che appare legittimo considerare per una intelligenza di medio livello, e per un comune buon senso.

Nessuno è infatti in grado di spiegare le ragioni della rimozione della tradizione socialista e laica dell’Italia, da Gramsci e Labriola ai nostri giorni, o del pensiero liberale e anticlericale che tanta parte ha avuto nella storia politica dell’Italia e nell’affermazione delle sue prerogative di autonomia rispetto al potere temporale della Chiesa, e via dicendo. Valori che un tempo avrebbero provocato delle vere e proprie guerre e che oggi, al contrario, sono i campi della sudditanza politica dello Stato al Vaticano.

Da sinistra si attribuisce alla destra il carattere distintivo di un disfacimento etico cementato da una dozzinale materialità consumistica, fanghiglia paludosa priva di risorse vitali, il connotato dell’amoralismo non disgiunto da una forte carica antistatale e antisociale priva di senso politico.



Vauro 2005
Il fatto è che la sinistra cosiddetta “radicale”, o socialcomunista, non troverebbe più neanche collocazione concettuale, come se fosse una negazione di senso. E’ la propaganda occulta della “comunicazione” massmediale. Persino nel lessico degli italiani ciò che è condiviso è normale. Ciò che non lo è si definisce “radicale”. Le fattispecie di questa radicalità sono molteplici: si manifesta in Di Pietro e Beppe Grillo, in Diliberto e Ferrero, in Vendola e Fava, e via dicendo. Certamente tutti hanno i loro difetti. Sono soprattutto nomi e sigle; vorrebbero che le cose andassero per il verso giusto in direzione di una democrazia reale. Non un “socialismo reale “ come ai tempi in cui per le strade, nei cortei, si gridava “Lenin, Stalin e Mao Tse Tung”. In Italia non credo si sia mai posto neppure ai tempi di Stalin. Tutte queste voci critiche, dunque, sono espressione di un’Italia che tiene, che rivendica il diritto a esprimere le proprie diversità.

*

Al contrario, da un lungo tempo ormai si è sancita la fine delle ideologie e si sono vanificati strutture e scopi finali della politica. Perciò a qualcuno può anche piacere l’orgoglio di un Diliberto o di un Ferrrero di attestare la persistenza e il senso dell’essere comunisti italiani, oggi. Italiani, appunto, non coreani, o cinesi, eredi dello stalinismo o del leninismo. Posizioni, queste, che, incredibile a dirsi, sono proprie della maggioranza che governa il Paese. A fronte del decisionismo di Berlusconi, Lenin (nel cui nome i sovietici diedero vita all’omonimno premio per la pace) sarebbe un chierichetto. L’anticomunismo del premier risulta paragonabile agli eserciti dell’Oberkommando della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale, di cui egli stesso potrebbe essere capo supremo.

Cambiato l’ordine degli addendi la somma non cambia. Perciò il primo stalinista in Italia oggi è sempre Berlusconi. Non manda gli avversari nei campi di lavoro forzati in Siberia, ma li elimina criminalizzandoli, attraverso il processo tipico dell’etichettamento, dell’additamento.

Ma il problema non è solo questo. Rispetto alla centrifuga cui è sottoposta la sinistra tradizionale, la spremitura a secco di ciò che resta della sua, un tempo corpulenta, umidità, costituisce un vero problema.

E’ vero che tutti i ragionamenti vertono nel sapere se il bipartitismo che miracolosamente ci siamo trovati tra i piedi sia l’unico schema di riferimento della politica nazionale vulgata attraverso media compiacenti al gioco della riduzione ai minimi termini della politica italiana. Ma stupisce che tutti stanno al gioco e giocano come se il mazzo di carte che ci siamo trovati tra le mani sia quello giusto, con le carte contate secondo le regole e con giocatori di rispetto seduti al tavolo da gioco. I due signori sono entrambi intenti alla vittoria, ognuno con le sue carte. Non credo che abbiano le stesse intenzioni nel non barare. Magari l’uno è più leale, l’altro, anche se fa l’impressione di arrangiarsi come può, infonde più sicurezza. Cosa che gli italiani hanno sempre cercato nei loro governanti, a cominciare dal fondatore del fascismo e dell’Impero. Ne parlava Leonardo Sciascia che descrivendo l’immagine che i contadini siciliani avevano di Stalin, scriveva che a loro giudizio egli era come un grande giocatore, pronto a tirare sempre la carta vincente. Da qui il fascino di Baffone. Ma il popolo degli italiani non assomiglia per nulla ai contadini del Sud e ai siciliani in particolare. Perciò non aveva torto Curzio Malaparte, il “maledetto toscano” , quando scriveva del “culo bifronte” di certi italiani. Sono sempre quelli, pronti a diventare ora clericali, ora berlusconiani, e chissà cos’altro.

Così i giocatori sembrano credibili, e molti degli spettatori nell’assistere allo spettacolo confermano con cenni di assenso che la partita è corretta. E giustamente ognuno applaude la sua parte, sa che vince il giocatore che ha più soldi e più potere; che persuade meglio, che mostra sicurezza, che domina lo scenario. Anche le sue sparate o le carte che getta sul tavolo definiscono la scenografia. Agli italiani poco importa se bara o meno. E non vanno per il sottile sulle questioni dell’amoralismo politico e sulle passioni mascoline di chi gioca bene la sua partita.

Entrambe le posizioni, a destra e a sinistra, hanno proprie ragioni d’essere. La prima sta nella virtù delle cose concrete, dell’andare avanti, del fare, anche a prescindere dai risultati. E’ il pragmatismo della tronfietà parossistica e dell’autosufficienza, una sorta di idiozia dell’ottimismo capace di smuovere le cose in avanti. E’ l’ottimismo delle idee, secondo una visione quasi hegeliana. E difatti sono le idee che, secondo gli idealisti, muovono la storia. Solo che questa volta le idee sono scorze vuote e il popolo non sa di non essere più popolo (G.C.).

venerdì 21 agosto 2009

David Bidussa: La sinistra e la scienza

Da l'Altro, 11 giugno 2009

L'anniversario della conferenza di Charles Snow tenuta a Cambridge nel '59, "Le due culture e la rivoluzione scientifica", è l'occasione per riflettere sull'opposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica che ha caratterizzato la storia della sinistra.
E' il momento di voltare pagina e di aprire una discussione, perché questo ritardo ha inficiato la capacità della sinistra di leggere il presente.
Ecco allora quattro questioni per aprire il dibattito:
1)Quanto pesa la tradizione religiosa? E quale cultura filosofica ha influito di più?
2) Esistono questioni e parole a proposito delle quali la sinistra conserva un'immagine antropizzata?
3) Come si discute del nucleare? O meglio di che cosa si discute quando si discute di nucleare? Parlarne non significa fare i conti con la storia della paura?
4) Quando parliamo di cultura scientifica, parliamo di scuola. Al centro della questione, cioè, sta il problema della riforma della cultura scolastica. Le diverse riforme che si sono susseguite invece di aumentare la conoscenza scientifica la hanno marginalizzata.
In occasione del cinquantenario della conferenza tenuta da Charles Snow a Cambridge nel maggio 1959, dal titolo “Le due culture e la rivoluzione scientifica”, Enrico Bellone è tornato a riflettere, su Repubblica del primo giugno scorso, sulla scissione del sapere e sulla persistenza - altri direbbero sulla eternità – del blocco mentale intorno al confronto tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Ovvero, per riprendere il discorso di Snow, invitando a riflettere sui due canoni fondamentali del sapere: 1) sul fatto che mentre gli scienziati, come tutte le persone acculturate, frequentano la letteratura, la musica, l’arte e la filosofia, gli umanisti hanno una conoscenza a voler essere generosi approssimativa del sapere scientifico; 2) sul fatto che il senso comune qualifica come ignoranza imperdonabile il non conoscere Dante, Beethoven, Michelangelo o Aristotele, mentre considera un dato tecnico il non conoscere Einstein, Galileo, Lavoisier o Darwin.
Per Snow, nel testo di quella conferenza, essenzialmente umanisti e scienziati vivono in mondi separati, disconoscendosi e disprezzandosi gli uni con gli altri. Ma con questo atteggiamento, che si forma in pieno romanticismo e viene mantenuto anche nel cuore del Novecento, non fanno che denunciare la propria ignoranza. E la propria irresponsabilità, perché, secondo Snow, è proprio a causa di questa separazione che il fossato tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri, si va progressivamente allargando, rendendo i secondi sempre più dipendenti dai primi e non favorendo il loro sviluppo. In breve, alludeva al controllo del sapere scientifico come strumento per l’esercizio dell’egemonia.
Si tratta in realtà di una lunga storia, che riguarda tutta la nostra vicenda nazionale e non solo il problema del sapere scientifico. Così come una lunga e travagliata storia caratterizza la pubblicazione del volume che unisce il testo di quella conferenza a quello di una seconda, del 1963, centrata sulla stessa questione, nella quale Snow corregge in parte ma sostanzialmente conferma quanto aveva sostenuto a Cambridge nel 1959. “Le due culture” esce in edizione italiana nel 1964, pubblicato da Feltrinelli con una appassionata prefazione di Ludovico Geymonat. Viene più volte ristampato negli anni successivi (l’ultima edizione è del 1977), ma scompare nei primi anni ‘80 per poi riapparire in tutt’altra stagione: nel 2005 (per Marsilio, a cura di Alessandro Lanni e con tre interventi critici di Giulio Giorello, Giuseppe Longo e Piergiorgio Odifreddi).
Quel vuoto di un quarto di secolo indica numerose questioni. In mezzo, passa un pezzo di storia italiana sul quale è importante riflettere, perché quella vicenda non parla solo di un passato ma pesa in maniera rilevante sull’intera fisionomia della cultura italiana e sul modo stesso in cui, oggi, la cultura viene vissuta nel nostro paese. E riguarda anche, direttamente, le sfide che attengono allo sviluppo possibile, oltre la crisi che stiamo traversando.
Se il profilo della prima conferenza è l’invito a superare la divisione tra le due culture, la seconda contiene un’accusa esplicita rivolta all’inadeguatezza di chi ha la responsabilità di decidere. «La rivoluzione scientifica - scrive Snow - è il solo metodo in virtù del quale la maggioranza degli uomini può raggiungere cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli), quelle cose di primaria importanza che noi consideriamo ovvie e naturali, ma che in realtà abbiamo conquistato attraverso la nostra rivoluzione scientifica da tempo non poi così immemorabile». Ciò comporta, prosegue Snow, che i politici non riescono valutare in modo corretto l’immensità del progresso che i paesi ricchi potrebbero, con il loro impegno, indurre e veicolare nei paesi più poveri.
È radicalmente cambiata la situazione rispetto a quel 1963? Non mi pare. E tuttavia, se noi volessimo oggi, non tanto riprendere in mano quel testo, ma porci alcune domande sul senso dello sviluppo possibile che ci chiede di operare scelte e assumere decisioni, scopriremmo di non essere in grado decidere alcunché. E non lo siamo non solo per l’inadeguatezza della classe politica ma anche per una sorta di vuoto culturale che segna l’intera opinione pubblica, sai quella che vota per la destra o il centrodestra, sia quella che vota per la sinistra o per il centrosinistra. Questo vuoto culturale si concentra particolarmente intorno a quattro gruppi di questioni, di carattere contemporaneamente specifico e generale.
Prima di affrontarle, è tuttavia necessaria una considerazione di carattere preliminare. Credo che esista un rifiuto del sapere scientifico e una sua riduzione a “tecnica” che nella storia della società italiana è strutturale e data almeno dagli inizi del Novecento. Credo anche che esista una sovrapposizione tra organicismo di destra e organicismo di sinistra grazie alla quale oggi molte parole e molti concetti sono del tutto interscambiabili tra sinistra e destra. A lungo parlare di scienza, a sinistra, ha voluto dire misurarsi con i ritardi culturali del Paese, con le insufficienze del sistema educativo, formativo e culturale. Con il peso che la cultura dell’antiscienza ha avuto sul percorso culturale italiano almeno dagli inizi del XX secolo. Con la progressiva marginalizzazione della scienza nella storia culturale italiana.
È un atteggiamento culturale che si articola essenzialmente intorno a due questioni: da un lato quella che attiene alle scienze sperimentali, al fatto cioè di affrontare e discutere di scienza misurandosi su dati e su ipotesi di ricerca e di sperimentazione. In breve, in una dimensione che intrattenga con il sapere un rapporto non spiritualistico. Sotto questo profilo, a partire dagli anni Settanta, la dimensione della ricerca scientifica sul campo è stata nella sinistra lentamente abbandonata. La scienza diventa “sapere scientifico”. Non se ne parla più in relazione a ciò che fa ma in quanto “discorso”, termine che allude a molte cose ma soprattutto indica la definizione di un rapporto con le scienze del tutto a-scientifico. Dall’altra parte, si afferma l’idea che il sapere scientifico sia una sorta di codice per iniziati, privo di riscontri e dunque in sé pericoloso, comunque “infido”.
La somma di questi due percorsi fa sì che discutere di scienza, o di questioni aventi rapporto con la scienza, richieda uno schieramento aprioristico, che chiama in causa l’identità delle persone e non il sapere delle cose. Il risultato è che oggi, in Italia, una discussione sulle scienze e sul sapere scientifico nello spazio pubblico somiglia molto alla disputa intorno alla prova ontologica dell’esistenza di Dio. Un approccio che rende impossibile qualsiasi discussione non solo che approdi a un risultato pratico e misurabile ma anche che si proponga un innalzamento della consapevolezza scientifica.
Ciò detto, credo che non sia inutile porsi delle domande di carattere non solo tecnico sul nostro sapere (quello nazionale e quello della sinistra), sul come si è formato, sulle risposte che è in grado di offrire e su quelle che invece non può dare. Si tratta delle quattro questioni insieme specifiche e generali a cui accennavo prima.
1. Quali sono i campi di maggior frizione e come sono vissuti a sinistra? Per esempio, quanto pesa la tradizione religiosa a sinistra? Qual è l’immagine che, a sinistra, abbiamo dell’evoluzione? E, più in generale, quale formazione culturale e filosofica ha pesato nella formazione della sinistra italiana negli ultimi trent’anni? Dopo i francofortesi e dopo Geymonat, in Italia, chi ha inciso nella cultura diffusa della sinistra? Quanto e come hanno pesato Foucault e Heidegger? Cosa ha significato il pensiero debole? Che parte riveste la scienza nel sapere post-moderno (un ingombro? un incidente di percorso? Una “provocazione”?
2. Esistono questione e parole a proposito delle quali la sinistra conserva un’immagine antropizzata e nei confronti delle quali rifiuta a priori un’analisi non legata all’antropologia. Per esempio: quando parliamo di ambiente (parola che nasconde spesso un gergo organicistico) cosa intendiamo? E quando parliamo d tendenze o preferenze sessuali? Quando parliamo di produzione industriale nel settore agro-alimentare, in che modo ne parliamo?
3. Come si discute del nucleare? O meglio, quando si discute del nucleare, di cosa si discute. La questione nucleare, in Italia, non è conseguente a Chernobyl. Risale agli anni ‘60, allo scandalo e al processo a carico di Felice Ippolito. Ma noi del caso Ippolito e del mancato sviluppo italiano negli ultimi quarant’anni, ne abbiamo discusso con cognizione di causa oppure no? In che modo abbiamo affrontato il problema della costruzione dei siti e di una cultura dell’impatto che non c’è? Parlare di nucleare non comporta forse una stretta relazione con la storia della paura? E allora perché non parlarne esplicitamente? O, ancora, perché non parlare di una scelta energetica che punta su un sistema di scambio con altre economie nazionali? Con quali? Con quali idee di politiche internazionali?
4. Infine, quando parliamo di cultura scientifica, in realtà parliamo di scuola. Al centro del problema sta certamente la questione della riforma scolastica: quaranta anni di abbozzi di riforme non hanno prodotto una maggiore conoscenza, al contrario hanno spesso determinato una crescente marginalità della scienza.
Non è solo questione di quante ore si dedichino alla fisica, alla biologia o all’informatica. Il nodo è se il modello culturale sul quale si costruisce il sapere scolastico italiano medio sia o no in grado di affrontare la questione della scienza. Informatizzare il sistema scolastico italiano non sarebbe certo privo di significato, e tuttavia il problema centrale è quello di definire cosa venga ritenuto “sapere”. Una cultura che non si oppone alla scienza significa acquisire una mentalità in cui pensare equivale a dubitare, in cui lo scetticismo è superiore alla cultura dell’a priori: dove la linea Bacone-Spinoza-Shaftesbury-Hume-Berkeley-Ferguson-Smith sia considerata sapere e non una mera curiosità. Dove lo sperimentalismo abbia tanti spazi quanti l’idealismo e dove il dubbio e il sapere sperimentale godano della stessa considerazione dell’ “idea” della fede. Dove discutere di religione non sia discutere di teologia ma di sociologia della religione, inserendo infine Max Weber tra quel che bisogna sapere quando si tratta di religione e modernità. Dove il paradigma che fonda il sapere scientifico sia acquisito con la stessa dignità del sapere umanistico, e Darwin cessi di essere visto come un signore stravagante.
Parafrasando Croce, il problema che oggi i moderni hanno davanti non è perché non possiamo non dirci cristiani, ma perché i moderni non possono non dirsi scozzesi. Ne vogliamo parlare o continuiamo a fare spallucce?

David Bidussa