sabato 18 luglio 2009

Riccardo Brizzi: Il naufragio della socialdemocrazia

Da Europress

Italia maggio - giugno 2009


di Riccardo Brizzi
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IL NAUFRAGIO DELLA SOCIALDEMOCRAZIA EUROPEA
Nel corso delle ultime settimane, come prevedibile, la stampa italiana ha dedicato ampio spazio alle analisi relative alle elezioni europee del 6 e 7 giugno. A un mese dal voto la composizione del nuovo euro-parlamento appare ormai definita (salvo qualche possibile cambiamento legato ai non iscritti, alcuni dei quali potrebbero andare a infittire le fila di altri gruppi) dei 736 seggi della nuova assemblea di Strasburgo, 264 saranno a disposizione del Ppe, 184 dell'Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (Apsd), 84 dell'Alleanza dei democratici e dei liberali europei (Adle), 54 dei Verdi, 54 degli euroscettici dei Riformatori e conservatori europei (Ecr), 35 della Sinistra unitaria europea (Gue), 30 degli eurofobi dell'Europa per la libertà e la democrazia (Efd) e 31 dei non iscritti. Il quadro complessivo, a prima vista non parrebbe poi così differente da quello dell'ultima legislatura, rispetto alla quale è stato confermato tanto il numero totale degli euro-gruppi (sette) quanto il gruppo di maggioranza relativa uscente (il Ppe). Tuttavia il voto ha espresso anche verdetti inappellabili. All'indomani dello scrutinio l'attenzione dei maggiori organi di stampa italiani si è così concentrata principalmente su tre temi: l'elevato tasso di astensionismo; la pesante sconfitta patita dai partiti socialdemocratici e, da ultimo, la corsa alle poltrone per la prossima euro-legislatura, a partire dalla più prestigiosa, quella di presidente della Commissione.

1. L'Euro-apatia e l'astensionismo
Il primo dato forte emerso dalle elezioni è stato l'incremento dell'astensionismo, che ha raggiunto il 57%, una percentuale superiore di tre punti percentuali a quella - già preoccupante - registrata in occasione della consultazione del 2004. Se a Bruxelles e Strasburgo nessuno si è stracciato le vesti di fronte a un evidente segnale di disaffezione dell'opinione pubblica del Vecchio continente nei confronti del progetto europeo (e la mancata riflessione da parte dei vertici Ue è quantomeno scoraggiante), sulla stampa italiana non è passato sotto silenzio.Questa crescente euro-apatia - apparentemente paradossale se si considera che il Parlamento europeo ha conquistato progressivamente competenze nel corso degli anni e che l'euro si è dimostrato come la più stabile delle valute nella crisi attuale - è stata ricondotta a un triplice ordine di ragioni. La prima è legata al progressivo esaurimento dei parametri di legittimazione che a lungo hanno contribuito a creare consenso attorno al progetto comune. L'urgenza della riconciliazione franco-tedesca, la necessità di costruire un argine contro il totalitarismo comunista e la minaccia militare sovietica sono ormai un lontano ricordo. Scomparsa la possibilità di vivere di rendita sulla frattura generata dalla guerra fredda, emersa l'esigenza di creare nuovi equilibri con l'altra sponda dell'Atlantico (fattore che apre un interrogativo sul significato e sul futuro geopolitico dell'Europa), esaurita la funzione virtuosa dello Stato sociale (almeno nelle forme in cui è sorto e si è affermato nei paesi dell'Europa occidentale), il percorso europeo è apparso privo di una direzione di rotta. Di fronte a un simile sconvolgimento di orizzonti le culture politiche (socialiste e democratico-cristiane in primis) e i gruppi sociali egemoni in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale non sono stati in grado di proporre un progetto alternativo ma, al contrario, hanno preferito fare alla maniera degli struzzi, continuando a proporre parole d'ordine sempre più anacronistiche e scolorite (1).Questo evidentemente ha avuto un ruolo non soltanto nel calo di popolarità delle istituzioni europee - sempre più incomprensibili agli occhi dei cittadini (2) - ma ha favorito l'emergere di movimenti populisti di estrema destra, apertamente eurofobi (in Olanda, Austria, Ungheria e Gran Bretagna questi partiti hanno conquistato successi importanti), che sono così usciti dalla carboneria culturale nella quale erano stati confinati. La seconda ragione di questo disinteresse è riconducibile a un declino antropologico dell'assemblea di Strasburgo che si è progressivamente trasformata in una sorta di buen ritiro per i falliti delle scene politiche nazionali (non è un'abitudine solo italiana quella di riciclare a Bruxelles e Strasburgo politici non più spendibili sul teatro interno) e di palcoscenico per le forze estremiste emarginate in occasione delle elezioni politiche (3). La terza motivazione è relativa al fatto che l'allargamento a tappe forzate registratosi negli ultimi anni - in una congiuntura economica e sociale via via più difficile, che ha favorito l'emergere di ripiegamenti in chiave localistica - è parso cancellare quel consenso identitario progressivamente creatosi nel mezzo secolo di storia comune (4). A fare da collante al progetto europeo sarebbe oggi soltanto una burocrazia occhiuta lontana dalla reali preoccupazioni dei cittadini (5). L'Europa avrebbe cioè perduto l'anima riducendosi a un «condominio dove si decide in base ai "millesimi" di potere di ogni partner» (6) o, al massimo, a un consiglio di amministrazione nel quale si vota a seconda degli interessi contingenti (7).

2. Il declino della socialdemocrazia
All'alba del 2009 molti osservatori avevano scommesso sulla riscossa della sinistra europea. Dopo un decennio piuttosto complicato, caratterizzato dal ripiegamento della socialdemocrazia su pressoché tutto il continente (eccezion fatta per la Spagna, tra i medio-grandi dell'Ue), due fattori lasciavano pensare a un capovolgimento della situazione. Da un lato la vittoria del democratico Barack Obama negli Stati Uniti ha entusiasmato gli spiriti di molti a sinistra, convinti che il vento del cambiamento avrebbe attraversato l'Atlantico. Dall'altro la grande crisi economica pareva segnare il definitivo tramonto del neoliberismo imperante, obbligando sulla difensiva le destre, che della deregulation finanziaria erano state le principali portabandiera. L'ex premier danese Poul Nyrup Rasmussen, presidente uscente del Partito socialista europeo, in un'intervista rilasciata sul finire del 2008 aveva dichiarato che la crisi rappresentava «l'opportunità del secolo» per le socialdemocrazie europee che avrebbero potuto finalmente tornare a essere considerate «come coloro che anticipano il cambiamento, come era avvenuto al momento della costruzione delle nostre società del benessere» (8). E invece dalle urne esce paradossalmente rafforzata la destra, che è stata premiata su due fronti: nei paesi in cui è al governo (Germania, Francia, Italia) è scampata al voto sanzione, dimostrandosi capace di controllare e disinnescare le paure dell'elettorato; laddove è all'opposizione (Spagna e, soprattutto, Gran Bretagna) è riuscita a intercettare il voto di protesta contro governi ritenuti incapaci di affrontare con piglio sufficientemente deciso la crisi economica. I principali organi di stampa italiani hanno dedicato grande spazio al severo voto-sanzione che gli elettori europei hanno espresso nei confronti dei partiti socialdemocratici, usciti con le ossa rotte pressoché dappertutto in Europa (eccezion fatta per alcuni piccoli paesi: Grecia, Danimarca, Slovacchia), avanzando sostanzialmente tre ipotesi per spiegare questa débâcle. La prima è probabilmente la più evidente: la sinistra non è parsa in grado, laddove è al governo, di gestire la crisi meglio della destra. Le difficoltà attraversate da Spagna, Gran Bretagna e Portogallo ne sarebbero la prova lampante. Di fronte a partiti di sinistra (vedi in Gran Bretagna, ma non solo) che negli ultimi anni, per cosmesi ideologica o aporia intellettuale, erano stati conquistati dalla legge del mercato, le destre di governo si sono dimostrate in grado di prendere di petto più rapidamente e meglio la crisi con politiche dirigistiche di intervento, sottratte al tradizionale ricettario socialista (9). La seconda è riconducibile al progressivo esaurimento del dibattito sul Welfare State, giudicato dalle classi medie europee - quelle che in misura maggiore si sono recate al voto - come uno strumento ormai anacronistico. Non ci si interroga più sulla sua utilità o sui suoi effetti collaterali, sugli effetti positivi in termini di coesione sociale o sulle derive assistenzialistiche che esso produce. In quasi tutti i paesi dell'Ue il dibattito sul Welfare è ormai uscito dalla scena pubblica, dal momento che tutti hanno compreso che non c'è più il denaro per finanziarlo, a meno che non si decida di bendarsi gli occhi, aumentando il già insostenibile indebitamento (10).La terza riguarda la maggiore capacità delle destre di sintonizzarsi con lo Zeitgeist - lo spirito del tempo - e di offrire risposte operative a questioni troppo a lungo trascurate ideologicamente dalla sinistra, ma oggi percepite come cruciali: l'immigrazione clandestina, la sicurezza, la difesa identitaria nazionale e regionalistica (11). Quello che, in definitiva, è parso mancare alle forze di sinistra europee, troppo preoccupate di mantenere rendite di posizione sempre meno fruttuose (12), è il contatto con la realtà. Il voto del 6 e 7 giugno, più ancora che un trionfo delle destre (in Francia Sarkozy ha incassato un 28% ma sottraendo voti sostanzialmente a Le Pen; in Germania il 38% della Merkel segna comunque un calo di 6 punti percentuali per la Cdu-Csu; in Italia l'affermazione del centro-destra segnala uno spostamento di voti tra il PdL e la Lega Nord) sancisce la crisi dell'orizzonte politico socialdemocratico. Il naufragio laburista in Gran Bretagna è accompagnato dal tracollo dei socialisti francesi (raggiunti al 16% dagli ecologisti di Daniel Cohn-Bendit e José Bové), dalla disfatta dell'Spd, scesa al minimo storico e in carenza di ossigeno in vista delle politiche di settembre, dal ridimensionamento del Pse spagnolo (superato dal Ppe) e dall'arretramento del Pd italiano. Alla sinistra europea, al di là di qualche segnale incoraggiante proveniente dalla Grecia e dai paesi scandinavi, non resterebbe insomma che guardare al di là dell'Oceano dove il riformismo, impersonato dall'autorevole leadership di Barack Obama, pare nuovamente capace di dar voce alla speranza e al cambiamento (13).

3. L'opaco Barroso verso la riconferma
Esito inevitabile del voto è stata l'apertura del dibattito sulle euro-poltrone. Se la stampa italiana ha seguito con interesse la corsa (che appare piuttosto compromessa) di Mario Mauro alla presidenza dell'Euro-parlamento (14), il dibattito si è concentrato ovviamente sullo scranno più ambito, quello di presidente della Commissione. Nonostante qualche ritardo sui tempi previsti (da luglio si slitterà probabilmente a settembre), per via delle titubanze dei governi francese e svedese (entrambi di centro-destra), la riconferma di Barroso alla testa della Commissione appare poco più che una formalità (15). Benché scontato questo esito ci pare decisamente inopportuno, per almeno tre ragioni. La prima è di natura istituzionale e attiene alla scelta di Barroso di privilegiare il dialogo con le 27 capitali rispetto a quello con l'Europarlamento. Giuridicamente la strategia è inattaccabile. La Commissione non è investita a Strasburgo ma è nominata dai governi nazionali. Politicamente però il ragionamento è miope. E' infatti proprio questa realtà giuridica che alimenta la disaffezione dell'opinione pubblica. La Commissione rappresenta l'esecutivo europeo, ma un esecutivo non democratico: indipendentemente dal voto dei suoi cittadini, essa non muta né di composizione né di politica. Barroso, che già alla vigilia delle europee si era garantito il sostegno dei principali governi di centro-destra e di quattro a guida socialista (Inghilterra, Spagna, Portogallo e Bulgaria) rappresenta l'emblema di questa Ue sempre più intergovernativa e democraticamente balbettante. La seconda considerazione è di ordine procedurale ed è legata alla scarsa opportunità istituzionale di far eleggere d'urgenza il presidente della Commissione in base al trattato di Nizza mentre il resto della Commissione lo sarà probabilmente sotto quello di Lisbona, nell'ipotesi della sua ratifica da parte dell'Irlanda. La terza considerazione, la più rilevante, è di natura politica e attiene al profilo personale di Barroso che - candidato dell'ultima ora nel 2004 - è parso nei cinque anni successivi decisamente più impegnato ad assicurare la propria rielezione che a guidare la nave europea. Senza scomodare Delors, il contrasto è stato notevole rispetto all'era Prodi. Nel corso della sua presidenza la Commissione - ossia l'organo di garanzia dell'interesse generale europeo - lungi dal fornire impulso politico al progetto comune è parsa un semplice centro di mediazione alle dipendenze dei contrastanti interessi dei Grandi dell'Ue. L'arrendevolezza dell'esecutivo comunitario è stata senza precedenti. Basti pensare al fallimento nella liberalizzazione del mercato dell'energia, per il timore di Barroso di confrontarsi con Parigi e Berlino, gelose delle prerogative dei propri giganti del settore. Oppure all'arrendevolezza con cui Barroso, per non indisporre il premier britannico Blair, nel dicembre 2005 ha accettato un rinnovo del bilancio Ue che stanziava un budget ridicolo, pari a circa l'1% del Pil europeo. O, infine, alla sua riluttanza nell'affrontare il governo italiano relativamente al mancato rispetto della normativa europea relativa all'immigrazione.Barroso è l'emblema di un'Ue priva di ambizioni, ai limiti dell'autolesionismo. Sarà ricompensato con la poltrona politicamente più importante non per quello che ha realizzato nel corso del suo mandato, ma piuttosto per quello che non ha fatto, riuscendo così a imporsi come minimo comune denominatore tra le 27 capitali di un'Europa sempre più apatica (16).

(1) E.Galli della Loggia, Europa, la fine di un ciclo, Il Corriere della Sera, 11-06-2009.
(2) P. Ostellino, Il messaggio del non voto, Il Corriere della Sera, 13-06-2009.
(3) E. Bettiza, L'anima perduta dell'Unione, La Stampa, 07-06-2009.
(4) S. Romano, Le radici del malessere europeo, Aspenia, n°45, 2009, pp. 160-165.
(5) A. Cardia, Tenuta lontana l'Europa suscita freddezza, Avvenire, 10-06-2009.
(6) P. Pombeni, Quando l'Europa è solo un condominio, Il Messaggero, 21-06-2009.
(7) E. Bettiza, L'anima perduta dell'Unione, La Stampa, 07-06-2009.
(8) M. Lazar, La sinistra in Europa tra speranze e paure, Il Mulino, 1/2009, pp. 76-87.
(9) E. Bettiza, A destra le ricette socialiste, La Stampa, 13-06-2009; B. Spinelli, Se Marx seduce la destra, La Stampa, 14-06-2009.
(10) R. Girard, Les trois raisons de l'échec de la gauche européenne, Le Figaro, 09-06-2009.
(11) F. Venturini, Le risposte non date su insicurezza e crisi, Il Corriere della Sera, 08-06-2009.
(12) A. Cerretelli, La sinistra tradita dal suo popolo, Il Sole 24 Ore, 09-06-2009.
(13) C. Martinetti, La speranza non è più socialista, La Stampa, 08-06-2009.
(14) M. Zatterin, Nuovo Europarlamento, l'asse franco-tedesco frena le nomine italiane, La Stampa, 24-06-2009.
(15) I. Caizzi, Dai leader europei un primo sì al Barroso-bis, Il Corriere della Sera, 19-06-2009.(16) R. Brizzi, Tre volte no a Barroso, Europa, 11-06-2009. versione stampabile

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