sabato 30 aprile 2016

DOVE STA ANDANDO L'ECONOMIA USA?

DOVE STA ANDANDO L'ECONOMIA USA?

L'ABUSO DEL VOUCHER - C.Saraceno, R.Mania - articoli inchiesta - | Sindacalmente

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Due modelli di "nazione " si sfidano in Gran Bretagna

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What Happened in New York | Jacobin

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How to Think About (And Win) Socialism | Jacobin

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Per una sinistra laica, ma non disincantata - Il Ponte

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venerdì 29 aprile 2016

Fabian Society » England and Labour

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Continuano a chiamarla flessibilità - Eddyburg.it

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Il documento di 50 costituzionalisti sulla riforma costituzionale - CRS - Centro per la Riforma dello Stato

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La congiuntura internazionale n.4 – aprile 2016 | CER – Centro Europa Ricerche

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Le disuguaglianze in Germania - Sbilanciamoci.info

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Crisi brasiliana: perché non è tutta colpa di Dilma | M. Lossani

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Le parole non dette nel Migration compact | M. Ambrosini

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Bce: se la vigilanza non è uguale per tutti | A. Baglioni

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Andrea Ermano: Se le politiche di austerità continueranno

Dall'Avvenire dei lavoratori EDITORIALE Se le politiche di austerità continueranno di Andrea Ermano Trionfante (ma non ancora eletto), il neo-heideriano Hofer, con il suo 35,05% dei voti ha portato aria di gran festa nella casa austriaca della "destra di destra". La "destra di sinistra" (o di centro-sinistra, o di centro: insomma i socialisti e i democristiani al governo di quel paese) ha subito, invece, una cocente sconfitta. Si conferma la regola per cui le forze democratiche vengono battute ogni qual volta s'illudano di poter contrastare il populismo imitandone toni e temi. Così, la blindatura del Brennero portata avanti dal governo di Vienna non ha salvato per nulla la "destra di sinistra", e anzi ha agevolato una sorta d'ipnosi propagandistica ai danni dell'opinione pubblica austriaca, ora in piena trance xenofoba (l'Austria, dati alla mano, "esporta" in Italia più immigrati di quanti non ne "importi"). Ciò premesso, è lecito chiedersi se una sinistra che avesse il coraggio di dire e fare cose di sinistra potrebbe vincere là dove la "sinistra di destra" invece perde. Non è detto. Sperare di risalire la china è possibile, per le forze "sinceramente democratiche", solo se queste, finché stanno al governo, attuano politiche sociali volte a risollevare i ceti medi demoralizzati dall'attuale miseria, dopo un Ventennio durante il quale l'idrovora anarco-capitalista ha sistematicamente derubato i poveri per dare ai ricchi, un po' come nelle grottesche e ridanciane avventure di Superciuk, eroe negativo partorito dal genio di Max Bunker nei primi anni Settanta. Un recente quaderno di "Alan Ford" dedicato alle avventure di Superciuk Se le politiche di austerità continueranno, allora continuerà a salire complessivamente anche la disoccupazione, e in particolare quella giovanile. Stiamo perdendo un'intera generazione, come diceva anche Draghi. E questo è il problema dei problemi di fronte al quale la middle class non può che perdere la trebisonda iniettando nel corpo sociale paura e instabilità. Di fronte a ciò i populisti della "destra di destra" giocano (ovviamente) al rialzo della paura buttando la croce addosso agli immigrati. I moderati della "destra di sinistra", come detto, si barcamenano e perdono. Non resta che da chiedersi: che cosa propongono i populisti di sinistra? Molti di loro, seguiti e affiancati in Italia dal M5s, reputano che l'unica via d'uscita da questa situazione comporti l'introduzione del Reddito di Cittadinanza. Proprio su questo tema, su un'iniziativa popolare federale "Per un reddito di base incondizionato", si voterà in Svizzera il prossimo 5 giugno. L'iniziativa referendaria prevede un emendamento costituzionale che affiderebbe allo Stato l'obbligo di versare "a tutti i residenti sul territorio elvetico" un certo importo in denaro (il "reddito di base", appunto), svincolato da qualunque pre-condizione attinente al reddito e al patrimonio, cioè tale da consentire a chiunque un’esistenza dignitosa anche senza l'esercizio di attività lucrative. I promotori non precisano né l’importo del "reddito di base incondizionato" né le modalità di finanziamento che l'eventuale modifica costituzionale richiederebbe, sicché questi aspetti dovrebbero essere disciplinati o dal Parlamento elvetico o, eventualmente, nell’ambito di una successiva consultazione referendaria qualora, caso assai improbabile, l'iniziativa passasse l'esame delle urne. Secondo i calcoli del Consiglio Federare elvetico, il governo di Berna, un'eventuale fissazione del reddito al minimo esistenziale genererebbe costi annui per la Confederazione di poco inferiori ai 200 miliardi di euro, parte cospicua dei quali potrebbe anche essere coperta da prelievi su redditi da attività lucrativa e da trasferimenti di prestazioni sociali. Ma per il fabbisogno residuo, calcolato in Svizzera intorno ai 25 miliardi di euro (che in Italia si moltiplicherebbero per cinque o per otto), bisognerebbe ricorrere a cospicui tagli di bilancio combinati con un sensibile aumento della pressione fiscale. Sul piano delle dinamiche sociali è facile prevedere che aumenterebbe il lavoro nero e, per intere categorie di lavoratori a basso reddito, risulterebbe assai poco interessante esercitare un’attività lucrativa. La rarefazione dell'offerta sul mercato del lavoro favorirebbe i processi di delocalizzazione produttiva, comunque in atto, e le conseguenze di tutto ciò sul Welfare sarebbero tendenzialmente devastanti perché una serie di prestazioni sociali (quelle medico-sanitarie in testa) subirebbero un'ulteriore impennata e potrebbero risultare non più sostenibili a causa del progressivo indebolimento economico del Paese. Fin qui le valutazioni sul reddito di cittadinanza nell'opulenta Confederazione Elvetica. In qual modo iniziative analoghe potrebbero ipotizzarsi nel nostro Paese è un enigma grillino avvolto in un mistero a cinque stelle, sempreché si voglia tenere fermo al principio astratto di un reddito di base incondizionato e cioè di un sistema di diritti totalmente dissociato da qualsiasi nozione di dovere. Il discorso cambierebbe radicalmente se ipotizzassimo, invece, un reddito di base non "a pioggia" e non incondizionato, ma al contrario collegato a certe prestazioni obbligatorie che ogni cittadino/a sarebbe tenuto/a a fornire nella misura del possibile e del ragionevole. Discorsi di questo genere hanno come loro archetipo l'"Esercito del Lavoro" di cui ragionava Ernesto Rossi nel suo celebre saggio Abolire la miseria, scritto nelle carceri fasciste intorno all'anno 1942 e dato poi alle stampe nel 1946. Ma è ovvio che, per scelte di questa portata, occorrerebbe compiere quanto meno sul piano delle idee un passettino oltre il pensiero unico dominante, occorrerebbe cioè riconcepire il ruolo dello Stato al di là della sua dimensione nazionale e al di là dei dogmi liberisti che pretendono di affidare la gestione dell'economia, dell'ecologia, della società e della vita umana al cosiddetto "mercato", ridotto a sua volta a una logica angustamente unidimensionale: la logica del massimo profitto nel minimo tempo. Ernesto Rossi Oggi nessuno si occupa di drenare i fiumi, imbrigliare i torrenti, curare i boschi, ripopolare la fauna ittica… Sarebbe lunghissima la lista delle cose che il "mercato" non fa perché non producono massimizzazione a breve. E al "mercato" non importa nulla se, poi, i danni conseguenti all'incuria comporteranno gravi oneri per la società. Lo stesso valga per i costi socio-previdenziali in continuo aumento strutturale a causa della denatalità e dell'invecchiamento della popolazione. Ma argomenti analoghi si potrebbero sviluppare sul tema della legalità, su quello della conservazione dei beni artistici e sui mille altri ambiti dello "sgoverno" anarco-capitalista contemporaneo. Va da sé che di fronte a fatti eclatanti tutti poi reclamino a gran voce l'intervento dello Stato: piove governo ladro! E allora si pretende che lo Stato risolva una sequela di emergenze rispetto alle quali per interdetto ideologico liberista gli è però vietato adottare gli strumenti idonei a farlo sia sul piano locale, sia nazionale, sia transnazionale. E così rischiamo di vederci lentamente ma inevitabilmente sommersi tutti quanti da uno "sgoverno" sempre più caotico e quindi sempre più foriero di ondate populiste e quindi sempre più esposto all'autodistruzione dell'unica realtà istituzionale, l'Unione Europea, che sola potrebbe ancora in ipotesi offrirci una sponda di governabilità. Ecco, è proprio questo, la governabilità, il punto cruciale di tutta la sfida politica che il futuro ci lancia. Perché, mentre il lavoro produttivo si assottiglia a causa di mille processi di automazione e informatizzazione, noi abbiamo grande difficoltà a vedere l'evidente, dum patet latet, e cioè: che dobbiamo governarci, riorganizzarci e svolgere un grandissimo lavoro sociale e politico su noi stessi, se vogliamo riacquisire una minima capacità di gestione delle dinamiche che noi stessi abbiamo messo in moto.

martedì 26 aprile 2016

Joseph Halevi: Europa e "Mezzogiorni"

Joseph Halevi: Europa e "Mezzogiorni"

Se sarà Brexit, un prezzo (incerto) da pagare anche per l’Italia | A. Goldstein

Se sarà Brexit, un prezzo (incerto) da pagare anche per l’Italia | A. Goldstein

No-triv o no-Renzi? Le risposte del referendum | M. Bordignon e F. Sobbrio

No-triv o no-Renzi? Le risposte del referendum | M. Bordignon e F. Sobbrio

Luciano Belli Paci - IL POPOLO HA PARLATO … ma Renzi non l’ha ascoltato.

Fondazione Critica Liberale - IL POPOLO HA PARLATO … ma Renzi non l’ha ascoltato.

Franco Astengo: Chernobyl

CERNOBYL: A TRENT’ANNI DI DISTANZA UNA PROPOSTA DI RIFLESSIONE STORICO – POLITICA di Franco Astengo Ricorrono trent’anni dalla tragedia del disastro nucleare di Cernobyl: uno dei fatti che possono essere considerati tra i più importanti del ‘900. Un vero e proprio punto di svolta storica del significato e del valore dei momenti di conclusione dei conflitti mondiali o dell’esplosione di rivolgimenti politici di enorme portata come la Rivoluzione d’Ottobre o lo smembramento dei grandi imperi coloniali. La tesi che intendo sottoporre all’attenzione di chi avrà la compiacenza di leggere queste note è quella del significato complessivo che quella vicenda assunse proprio al riguardo dello sviluppo storico successivo rispetto alla stessa logica che aveva retto, per molti decenni, l’equilibrio politico del Pianeta. Si può dire, prima di tutto, che quella tragedia assunse il valore e l’importanza di “reincatenare Prometeo”. Nel senso che quel fatto rese evidente come risultasse errata l’idea, per molto tempo dominante, dell’incomprimibilità dello sviluppo della forze produttive. L’idea dello sviluppo illimitato fino a quel momento era, infatti, apparsa assolutamente egemone nella torsione tecnico – scientifica che nel ‘900 si era verificata nell’espressione del pensiero filosofico. E’ stato con Cernobyl che il concetto di “limite” s’introdusse nel dibattito quale elemento reale. E’ stato da Cernobyl in avanti che il confronto a livello planetario sui destini del comparto industrial – militare è cambiato di segno ed è mutata complessivamente la qualità della contesa bipolare che aveva retto per tutto il periodo seguente la seconda guerra mondiale. Cernobyl mostrò i limiti di fondo dell’URSS nell’inseguire lo sviluppo tecnologico riservandone appunti gli effetti al solo settore industrial - militare com’era avvenuto negli anni dell’industrializzazione forzata e poi della ricostruzione post-bellica, fino alla “gara spaziale”. Quell’URSS che proprio a partire dallo slogan leniniano “soviet più elettrificazione uguale socialismo” rappresentava davvero il mito della liberazione di Prometeo, prima ancora dell’affermazione di quello di Spartaco della liberazione degli schiavi. La dimostrazione del presentarsi di un vero proprio punto di blocco del meccanismo di sviluppo così come questo era stato fino a quel momento concepito consentì di elaborare il concetto di “fine della storia” sulla base del quale la destra occidentale ha fondato l’idea di un’egemonia imperitura di un capitalismo capace di liberare i suoi “spiriti animali” e del mondo come di un immenso mercato da conquistare e sfruttare. Concetto di “fine della storia” che non riguardò soltanto la fine dell’URSS intesa quale inveramento statuale di quei fraintendimenti della filosofia marxiana che avevano attraversato il ‘900 ma anche le forze politiche sorte in altre parti del mondo sulla base del portato della Rivoluzione d’Ottobre. Ciò avvenne in particolare in Occidente, dove saltò definitivamente in aria lo schema determinatosi attraverso la rottura avvenuta negli anni’20 con una socialdemocrazia impregnata anch’essa di sviluppismo indefinito commisto con l’idea di “moderare” rapacità capitalista. Furono coinvolte, nell’affermazione dell’idea di “fine della storia” anche i vari tentativi di mediazione del tipo “terza via” (non quella di Giddens, beninteso che restava di là da venire) o di policentrismo. L’arresto della prospettiva di un’illimitatezza dello sviluppo tecnologico (di cui il nucleare era stato per tanto tempo l’asse portante) portò via con sé anche gli elementi sovrastrutturali che ne avevano definito l’istituzione di una sovranità e la stessa centralità sociale del soggetto portante, nel socialismo, della costruzione dello sviluppo : la classe operaia. La contesa militare e industriale si trasferì così soltanto sul terreno della razionalità e dell’efficienza al di fuori dal perseguimento di qualsiasi finalità di riscatto sociale e politico e di “liberazione dei popoli”. Cernobyl ha rappresentato addirittura il punto d’approdo e non di partenza della fine dell’URSS come soggetto della competizione bipolare tra le superpotenze. Ciò che accadde nei 5 anni successivi, fino alla formalizzazione di questo fatto, fu questione semplicemente di sovrastruttura. Questione nella quale si posero per intero gli irrisolti problemi della forma – stato e del rapporto tra democrazia economica e democrazia politica. Il dato di crisi strutturale era, infatti, già emerso definitivamente il 26 aprile 1986 dopo tanti scricchiolii avvertiti in precedenza. I nodi della relazione tra economia e politica furono in seguito, nel campo del cosiddetto “socialismo reale” affrontati dalla Cina attraverso la scissione tra stretta centralizzatrice del Partito e l’articolazione e decentramento della produzione, in nome dell’assunzione di un modello di capitalismo consumistico dominato dal motto individualistico dell’“arricchitevi”. Ignorando però il tema della limitatezza delle risorse e della qualità dello sviluppo attraverso la messa in campo della semplice forza dei numeri. E’ stato questo del rapporto tra idea dello sviluppo economico e realtà del sistema politico il punto effettivo su cui si è incentrato un declino sistemico del modello post – rivoluzionario sovietico (che era stato definito di “socialismo reale”) dopo le accelerazioni poste sul terreno industriale negli anni ’50 e ’60 e i ritardi accumulati durante lo stesso periodo nella pianificazione dell’agricoltura (al riguardo della quale furono comunque sbagliate analisi di fondo e coltivate pericolose illusioni). Non tutto comunque risultò riducibile alla questione delle liberalizzazioni economiche e politiche, come poi abbiamo visto nel post -’89. Proprio da Cernobyl iniziò da allora un’altra storia, che oggi sta già modificando nuovamente – attraversata la fase del “solo gendarme del mondo” e della globalizzazione - una nuova curvatura sulla quale andrebbe aperta una riflessione di grande valenza storica, filosofica e politologica. Una riflessione non riducibile semplicemente al tema da non ridurre a una mera visione avveniristica della difesa del pianeta dalla febbre della distruzione ambientale. Il tema della distruzione ambientale complessiva deve essere affrontata come priorità tenendo conto dell’intreccio tra la diversità delle contraddizioni emergenti tra materialiste e post-materialiste, nel modificarsi dei termini della globalizzazione imposta dall’innovazione tecnologica e, di conseguenza, del modificarsi nel rapporto tra struttura e sovrastruttura. Non sono reperibili modelli di riferimento e l’assolutismo capitalista non garantisce certo un equilibrio accettabile ed è questo il punto di ricerca intorno al quale risulta assolutamente indispensabile esercitarsi avendo ben chiaro come i tre punti della guerra, dello sfruttamento, della sopraffazione a tutti i livelli restano del tutto irrisolti in una storia della quale rimangono intatte pagine bianche da scrivere.

La rivista il Mulino: La questione dei profughi e l’Europa

La rivista il Mulino: La questione dei profughi e l’Europa

venerdì 22 aprile 2016

Franco Astengo: Il buco nero e il mondo del lavoro

IL BUCO NERO E IL MONDO DEL LAVORO di Franco Astengo Il mondo del lavoro è sempre più avvolto nel buco nero della sopraffazione e dello sfruttamento. Da un lato emergono raccapriccianti analisi riguardanti i giovani e le nuove forme d’ingaggio e di retribuzione, attraverso i cosiddetti “voucher”: i buoni dei pagamenti a ore. In Lombardia questa forma estrema di precariato e di mobilità all’indietro è stata utilizzata nel 2015 per 8,25 milioni di unità; in Sicilia (tanto per muoverci verso l’altro estremo della penisola) l’aumento dei voucher venduti nel primo semestre dell’anno è stato dell’88,7%. I ragazzi sono assunti, pagati fino all’ultimo voucher disponibile, si licenziano e se ne assumono altri così via in una giostra infinita di umiliazione, sotto pagamento, declassificazione del lavoro. Intanto il Job Act mostra la corda: esaurita la fase degli incentivi comincia quella dei licenziamenti, una curva in discesa senza fine, che potrà essere interrotta soltanto dalla creazione di un’altra bolla illusoria. Intanto mostra la corda la bufala dei nuovi lavori: Almaviva licenzia 3.000 operatori dei call center, quella che doveva essere la nuova frontiera dei servizi che, nella logica della delocalizzazione della più vieta “fabbrichetta”, sposta il proprio confine verso Est, Balcani o Centro Europa. Sull’altro versante, quello della mobilità sociale, il blocco delle pensioni tiene inchiodati al posto di lavoro ultrasessantenni logore/i impedendo l’accesso a nuove leve: un assioma molto semplice, che si era capito da tempo da parte di tutti pur non essendosi, la maggior parte, laureati alla Bocconi. Intanto oltre il 50% delle pensioni erogate dall’INPS si colloca al di sotto della soglia dei 1.000 euro il mese. Diminuiscono sì cassa integrazione e infortuni sul lavoro per la semplice ragione che diminuisce il lavoro in quanto tale. Un gigantesco buco nero quello del mondo del lavoro in Italia, più nero di quello che pure si trova a livello europeo, e che si situa all’interno di una situazione drammatica sul piano globale con al primo punto i temi delle guerre, delle migrazioni, dell’impoverimento generale. Intanto l’Europa delle finanza sviluppa i suoi giochi che tra BCE e Bundesbank non tiene minimamente conto della realtà: il QE serve a rifinanziare chi è già finanziato (non si è fin qui accennato al tema delle Banche, in Italia e fuori d’Italia, che rappresenta un altro tasto davvero dolente per i comuni cittadini, ma molto remunerativo per i banchieri). E la politica che ruolo gioca in tutto ciò? Mai come in questo momento appare coerente con ciò che accade il vecchio motto: “Il governo qualunque esso sia è sempre il comitato d’affari della borghesia”. Il governo Renzi appare come il campione assoluto di questa logica e il quadro politico italiano appare percorso soltanto da vecchi residui populistici, da proposte di destra spacciate per proposte di sinistra (come il salario di cittadinanza): addirittura arretrano presenze che si richiamavano al vecchio keynesismo da rivisitare, e si continua a spingere nell’assurdità di improbabili liberalizzazioni in ispecie nel campo dei servizi pubblici e del welfare, senza tenero conto della tragica lezione venuta avanti nel corso di questi anni. Salgono di quota, per contro, lobby e conflitti d’interesse: fenomeni addirittura presenti in maggior dimensione che non nella fase infelicemente definita “berlusconiana”. Cresce a dismisura la corruzione, nel pubblico e nel privato. In fabbrica si impone il modello del comando accentrato e della diffusione del verbo del capo, senza resistenza di sorta: il “modello Marchionne”, per l’appunto preso a misura dal governo Renzi per la fase di passaggio verso l’incremento della tecnologizzazione produttiva, ormai assurto a nume tutelare di questo futuro colmo di precarietà, sfruttamento, dominio. Un vero “buco nero” insomma. Tutto questo avviene in un Paese che, nel quadro europeo e mondiale, è privo da decenni di una politica industriale, arretrato quanto mai nel rapporto tra modello di sviluppo e ambiente, con il territorio ultra – logorato dalla speculazione e reso fragilissimo alle intemperie e alla vetustà degli impianti industriali, con infrastrutture del tutto insufficienti. Un Paese privo di siderurgia, chimica, agroalimentare . Un Paese che si avventa sulle briciole e si illude di Expo e di (“speremo de no”) Olimpiadi. Un Paese pessimamente governato ormai da decenni, dove la spesa pubblica corrisponde all’incremento dei privilegi di più o meno potenti ma sempre pronti a “legare l’asino dove vuole il padrone”. Un paese classificato al di sotto della media sul terreno della libertà di stampa e dove TV e nuovi mezzi di comunicazione appaiono assolutamente al servizio di questo perverso sistema di dominio. Arretrano paurosamente i corpi intermedi presuntamente rappresentative di impallidite dimensioni sociali. Il Sindacato, messo fuori combattimento dall’aver adottato la logica della concertazione, appare ormai un vero e proprio fantasma di Banquo e, molto sinceramente, non pare proprio decollare l’idea di ricostruire un sindacato di classe nonostante rimangano presenti focolai di resistenza importanti, anche alimentati da una crescita a dismisura delle diseguaglianze. Sarebbe necessaria un’idea di costruzione d’alternativa politica: ma appunto “sarebbe”. Altro che difesa della Costituzione !

Onda su onda, così cambia la disuguaglianza | R. Targetti Lenti

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Passato il referendum, resta la questione energetica | M. Galeotti e A. Lanza

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What Will Bernie Supporters Learn from New York? - The New Yorker

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giovedì 21 aprile 2016

Andrea Ermano: Le politiche “disumanitarie” non servono a niente

Dall'Avvenire dei lavoratori EDITORIALE Le politiche “disumanitarie” non servono a niente di Andrea Ermano Negli ultimi tempi anche sulla grande stampa s'è incominciato a discutere delle scelte politiche, ormai incalzanti, che dovranno essere assunte su una base abbastanza ampia di consenso, pena la loro insostenibilità. Ci si è chiesti che cosa dovrebbe fare l'Italia se un'eventuale Brexit innescasse la scissione dell'UE in due velocità, con l'Europa dei ventotto (abbastanza rissosa) da una parte e un nucleo di cooperazione franco-tedesca rafforzata dall'altra parte. Da una siffatta riconfigurazione dell'Europa a due velocità, riconfigurazione che verosimilmente avrà luogo comunque, conseguirebbe un aumento della pressione politica sul nostro Paese affinché esso perimetri con maggior severità le "frontiere esterne" dell'Unione. Senza di che assisteremmo a una chiusura del cordone sanitario ormai predisposto al Brennero, a Ventimiglia e in altre località di confine. Di qui si dipartono alcuni problemi di varia natura. Anzitutto dobbiamo domandarci se una "perimetrazione delle frontiere esterne" possa essere la strada giusta di fronte alle epocali ondate migratorie che vediamo profilarsi all'orizzonte della Storia. A nord delle Alpi non mancano gli opinionisti di rango – primo fra tutti Peter Sloterdijk – che svolgono argomentazioni a favore d'indurimenti “disumanitari” sostenuti da un "quid di crudeltà". Non stupisce perciò che poi gli opinionisti di rango si ritrovino nell'imbarazzante compagnia di loro sedicenti seguaci populisti. Esempio: la Alternative für Deutschland (AfD), il noto movimento di destra emerso dalle recenti elezioni regionali tedesche è capeggiato da Marc Jongen, ex assistente di Sloterdijk. Sicché, mentre nel Mediterraneo annegano i migranti africani a centinaia, i due accademici tedeschi baruffano sul fatto di essere o non essere l'uno allievo e l'altro maestro, con l'allievo populista che tenta l'abbraccio e il maître à penser che tenta un suo flebile divincolarsi, mentre entrambi, tanto il genio quanto lo sciocco, sostengono però la stessa posizione sul punto dirimente e cioè che Grecia e Italia avrebbero il compito di razionalizzare i “respingimenti” cioè, in ultima analisi, gli annegamenti. Peter Sloterdijk A parte il carattere francamente inaccettabile di queste aspettative sul piano morale, la domanda è anche se un eventuale ruolo “disumanitario” assunto dai Paesi meridionali si configurerebbe come compito possibile sul piano dei fatti e se una tale "possibilità di fatto" converrebbe infine in termini politici all'Italia o all'Europa. La povera gente che accorre verso le nostre spiagge ci interpella nel senso di un trattamento umano. Compito di un Paese di antica civiltà non potrebbe essere quindi quello di mettere in atto politiche che contraddirebbero i Diritti generali sanciti alla fine della Seconda guerra mondiale e recepiti in vari accordi internazionali. A quelli che sognano di trarre profitto populista da un tralignamento su questo punto fondamentale basti rispondere che la scelta tra accoglienza e respingimento non sussiste, perché di fatto nei prossimi trent'anni le migrazioni dall'Africa avranno luogo in ogni caso: o in forma pacifica o in forma bellicosa. C'è quindi solo da scegliere tra pace e guerra. Non tra migrazione e non-migrazione. E ci sarà pace se sapremo sviluppare una sufficiente capacità d'integrazione. Altrimenti assisteremo all’escalation: stato di emergenza, d'eccezione, di guerra. Vogliamo davvero andare incontro a un grande conflitto come prezzo da pagare perseguendo un obiettivo irrealizzabile oltreché vergognosamente immorale? <> Poniamo per ipotesi che l'Italia non sia l'Italia – per ben tre volte una grande potenza mondiale sotto il segno del pluralismo delle culture, con la humanitas romana, con l'Umanesimo delle Repubbliche Marinare e con l'universalismo della Chiesa di Roma – poniamo quest'ipotesi assurda, e immaginiamo, dunque, di voler fare qualcosa che non vogliamo fare perché contraddice alla nostra natura migliore nonché alle dure lezioni della storia che sempre sono seguite alle epoche buie dell'imperialismo militare, della decadenza civile e dell'oscurantismo religioso. Di più: poniamo che nei prossimi decenni sia pensabile, sul piano tecnico-militare, buttare letteralmente a mare milioni di persone in cerca di una vita degna del nome. E poniamo – in ipotesi sempre più assurda – che questa immane carneficina non produca alcun effetto né di ostilità del mondo verso di noi né di disgregazione civile interna… Ebbene, sorgerebbe pur sempre la domanda, se a queste condizioni pur ipotetiche, potrebbe davvero in qualche modo convenire all'Italia una politica di respingimenti-annegamenti che ci viene chiesta oggi sulla base di irrazionalismi folli e dal corto respiro. La risposta è no. Il futuro demografico, quindi economico, quindi socio-previdenziale e quindi politico del nostro Paese dipende dalla nostra capacità di realizzare accoglienza e integrazione nei riguardi dei migranti. E quel che – in termini di politiche migratorie – vale per l'Italia, vale per tutta l'Europa, perché ovunque sul nostro continente la denatalità ha raggiunto livelli analoghi al nostro. La popolazione era dapprima cresciuta con il crescere del benessere, fino al punto in cui il progresso materiale si è tradotto nell'evoluzione delle condizioni di vita delle donne. A quel punto abbiamo assistito a una forte decrescita della natalità. Ed è bene così, sul piano globale, perché il nostro obiettivo "in quanto umanità" non può che puntare a una diffusione del benessere che – giunto allo stadio dell'emancipazione femminile – possa riassorbire l'esplosione demografica Novecentesca, a sua volta insostenibile per l’ecosistema Terra. Questo processo di denatalità (e d’invecchiamento della popolazione) ha finora interessato i continenti americano, europeo e in parte asiatico. L'Africa si trova ancora nella fase dell'esplosione demografica, che dovrebbe recedere con l'avanzamento dell'istruzione e della condizione femminile. È dunque di per sé sol che ragionevole predisporsi ad assorbire gli effetti dell'evoluzione demografica africana. Di certo le ragazze europee non sarebbero disponibili ad affrontare, come le nostre nonne o bisnonne, dieci-quindici gravidanze, aborti inclusi, allo scopo di ripristinare il bilancio demografico delle nazioni. Qualunque tentativo di riesumare le politiche mussoliniane ("figli alla Nazione, soldati alla Patria!") si colloca assolutamente fuori dalla realtà e dalla storia. Questo vale per l'Italia, ma anche per l'intero continente. Non è quindi un caso che il governo condotto dalla cancelliera Merker insieme alla SPD abbia avviato in Germania politiche migratorie molto interessanti, nelle quali viene proposto un percorso di diritti e doveri, volto all'integrazione dei migranti nella società e nel mondo del lavoro. È un abbozzo di quel “Servizio civile migranti” (chiamiamolo così) di cui abbiamo talvolta ragionato su queste colonne negli ultimi anni, richiamandoci per altro all'idea di un "Esercito del lavoro" delineata da Ernesto Rossi nel suo saggio Abolire la miseria. Chapeau, dunque, alla Grosse Koalition in quest'ambito. Ma ci vorrebbero due ampliamenti delle politiche migratorie tedesche: da un lato occorrerebbe estendere a livello europeo l'esperimento avviato a Berlino, dall'altro lato occorrerebbe inaugurare, accanto al "Servizio civile migranti", un "Servizio civile giovani". Perché? Perché – se non provvederemo a prosciugare la grande piaga della disoccupazione giovanile, fattore determinante dell’insicurezza generale, la allgemeine Verunsicherung che scuote i ceti medi (e Sloterdijk queste cose le sa meglio di chiunque altro) – risulterà presto impossibile contenere e respingere il populismo. E allora perderemmo la base di consenso necessaria a svolgere politiche ragionevoli e umane e pacifiche anche in ambito migratorio.

La disuguaglianza fa male all’economia e alla democrazia | Keynes blog

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Slovakia Needs an Alternative | Jacobin

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Italia: di fronte all’inevitabile ritorno dei rifugiati, Renzi si gioca la sua sopravvivenza politica

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martedì 19 aprile 2016

Europa e flessibilità: la resa dei conti | Economia e Politica

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Il dibattito su Brexit: opportunità politica e segno dei tempi | Aspenia online

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La riforma del Senato, strappo alla Costituzione

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Paolo Bagnoli: m5s tra populismo ed e-democracy

Da Critica liberale, 18 aprile 2016 m5s tra populismo ed e-democracy paolo bagnoli I commenti sulla morte di Gianroberto Casaleggio hanno, quasi tutti, rispettato due binari: il primo sulla novità politica che egli, con il movimento da lui creato e diretto con mano ferma, ha oggettivamente rappresentato e, il secondo, su cosa accadrà adesso dei “Cinque stelle” e sulle manovre intestine per la leadership già, peraltro, in atto se pur si tenti, un po’ maldestramente, di negarle. In fondo si tratta della seconda formazione politica italiana; l’unica in grado di dare, piaccia o non piaccia, la spallata a Matteo Renzi. Vediamo. Pur non sapendo con precisione cosa sia Rousseau, ossia il nuovo sistema messo a punto da Casaleggio poco prima di morire per gestire il movimento e ritenuto il suo vero testamento, come è stato detto, appare plausibile che esso sia stato ideato per governare un soggetto che potrebbe trovarsi a governare l’Italia. In ogni caso significa che gli strumenti adottati fino ad oggi dovevano, comunque, essere innovati per conferire al movimento stabilità e durata. Un’esigenza che si capisce se andiamo a vedere tutti gli scostamenti registrati tra il dire e il fare nel il movimento dagli esordi fino a oggi; la costituzione del “direttorio” lo testimonia. Si tratta, naturalmente, di vedere cosa succederà. Noi crediamo che, alla lunga, il M5S finirà per implodere – quando non è dato saperlo – ma siamo altresì convinti che sia sbagliato definire visionario il disegno di Casaleggio per la fascinazione che esso emana. È un disegno che affonda le proprie radici nella crisi della democrazia moderna; vi entra dentro modificandola geneticamente. È l’effetto di un populismo razionale che, per essere al passo con il mondo globalizzato, inventa una “democrazia” alla sua altezza segnando, di conseguenza, un nuovo modo di intendere e di praticare la democrazia medesima. Da qui sorgono una serie di domande. La prima riguarda il populismo. Al contrario di quanto molti credono, il populismo non è un fenomeno che si colloca fuori della politica, quanto l’espressione ultima della crisi della medesima. Senza star qui a tratteggiarne le caratteristiche, ma limitandoci a un giudizio generale, esso ha sempre avuto un profilo di destra, di ordine extraistituzionale e, là dove si è affermato come in Brasile –il primo Paese a fare bibliografia in materia - o in Argentina, si è sempre realizzato 044 18 aprile 2016 12 in forme di autoritarismo politico in un mix tra una falsa demagogia partecipativa e una vera corruzione oligarchica. La seconda riflessione è più problematica poiché riguarda la dimensione della e-democracy, ossia dello scioglimento delle strutture classiche della politica, sovranità e partecipazione comprese, in nuove forme rappresentate dall’uso di uno strumento, di una macchina creata dalla scienza, che si chiama computer. Qui la questione si fa più complicata e complessa in quanto non riguarda solo una questione tecnicoprocedurale, bensì sostanziale. Essa consiste nel negare il portato storico dello Stato moderno e dei suoi sviluppi, dei meccanismi che lo hanno condotto a essere “ democratico” e, quindi, animato da una lotta politica tra diverse visioni della realtà e dei valori che si hanno e che dovrebbero governarla – le ideologie – per reimpostare la questione su un, questo sì visionario, concetto distorto di “comunità”. In esso, infatti, finiscono per essere riassunti quelli di popolo, patria, identità nazionale , strumenti del “politico”, forme e modalità della sovranità e della rappresentanza, assolutizzando la categoria dei cittadini quale esclusivo ambito castale della sovranità e della democrazia che ne consegue. Nell’ideologia dei cittadini si sciolgono tutte le altre ideologie e, con esse, le forme politiche della democrazia dei moderni e, quindi, delle partitizzazioni presenti nella società; viene cancellata l’idea stessa della rappresentanza; i cittadini ,attraverso gli strumenti della rete, si esprimono e decidono. Se tale ragionamento lo portiamo al suo estremo logico si comprende come venga superata l’impalcatura istituzionale degli Stati moderni, i quali hanno a fondamento primario la procedura della democrazia. Non si capisce, cioè, come il meccanismo perseguito da Casaleggio possa realizzarsi nel concreto. Infatti, anche senza essere filosofi del diritto, si comprende che la garanzia della procedura non è sufficiente a garantire la democrazia medesima se viene a cadere l’elaborazione istituzionale che la politica democratica deve avere a monte. Questa ci sembra la sostanza dell’e-democracy concepita dal compianto Casaleggio. Egli, facendo prevalere il metodo sovrano e procedurale della rete, l’ha testato coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti e solo lo sfascio del sistema e l’improbabilità politica di Renzi ha fatto sì che il M5S sia arrivato dove è arrivato. Inoltre, l’innovativo pensiero di Casaleggio, in contraddizione con tutta la logica del suo ragionamento, palesa un elemento che la dice lunga: vale a dire, che sulla piramide di tutto, rete compresa, stava lui nella cui persona tutto si riassumeva: dalla sovranità, al partito, alla legittimazione della rappresentanza in quanto padrone del vapore; un vapore, peraltro, redditizio se si pensa ai blog che la sua ditta gestisce con privativa politica assoluta. La rete, che è tale perché non ha un punto centrale di riferimento, stavolta lo aveva e – ci sia passato un paragone marinaro - più che una rete assomiglia a una sciabica che il capo-pesca orienta e manovra. È, cioè, uno strumento di manovra, capace anche di buone pescate, ma la qualità del 044 18 aprile 2016 13 pescato non è intrinseca al prodotto, sanzionata dal solo capo-pesca. Il fatto – come appare –che l’erede designato da Casaleggio al vertice gestionale e direzionale del movimento, ossia il padrone delle chiavi di accesso alla rete pentastellata e ai blog, sia suo figlio si commenta da sé. Chissà: forse si tratta di una rete, ma coreana; del nord, s’intende! Infine un’ultima osservazione. Il fenomeno rappresentato dal M5S altro non è, se pur in chiave di attualità, che il ripresentarsi di una tendenza ben presente nella cultura occidentale: vale a dire, porre il dato scientifico al di sopra di quello umano; una testimonianza della crisi dell’umanesimo che, spostando l’uomo dal centro di riferimento di ogni azione pubblica per meri fini di supremazia e dominanza, ha solo prodotto conflitti e inferto ferite profonde allo spirito di civiltà dell’Occidente. Intendiamoci, lungi da noi ritenere, nemmeno per scherzo, che da Rousseau possa scaturire un processo di guerra, ma certo anche tutta questa storia è una prova della profonda crisi dello spirito europeo. Che produca qualcosa di buono lo riteniamo assai improbabile.

domenica 17 aprile 2016

Sanders in Vaticano | Mario Del Pero

Sanders in Vaticano | Mario Del Pero

Franco Astengo: Guerre

CHIASSO MEDIATICO, PROFUGHI, GUERRE di Franco Astengo In queste ore sta salendo di tono il chiasso mediatico attorno al drammatico tema dei profughi. Un chiasso mediatico che pare però aver dimenticato, nella consueta superficialità dei media, due importantissime questioni: a) Il fenomeno dei profughi, fuggiaschi dalle guerre e dalle dittature, non è fenomeno riservato a una sola area del mondo, quella mediterraneo e centro europeo, posta a diretto contatto con i conflitti mediorientali (rammentando sempre l’origine di questi conflitti dall’esportazione della democrazia). Si tratta di un fenomeno globale di dimensioni planetarie: i mari dell’Asia sono solcati da milioni di disperati in fuga che non trovano asilo in alcun luogo e – prima di tutto - sono seccamente respinti dall’Australia, meta agognata. L’Etiopia sta ospitando 800.000 profughi della guerra siriana. E gli esempi potrebbero continuare a lungo; b) L’origine di queste tragedie sta nelle guerre: anche in questo caso non è possibile riferirci semplicisticamente soltanto all’ISIS, alla Siria e alla Libia. Si calcolano in questo momento, tra guerre “classiche” e guerre civili, 49 teatri bellici nel mondo. Perché si fanno le guerre? La risposta è semplice ed è quella di sempre: perché le grandi potenze e le lobby dominanti al loro interno debbono vendere armi e tecnologia bellica. Elenchiamo alcuni dati che provengono dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) già riportati nel numero di Aprile de “Le monde diplomatique”. Andando per ordine. Il 2014 ha registrato più guerre da ogni altri anno dal 2000 in poi. Invece di ridursi le spese militari nel mondo sono aumentate di un terzo in dieci anni, raggiungendo i 1.700 miliardi di dollari (un po’ più di 1.520 miliardi di euro) nel 2014. Le spese militari sono più che raddoppiate nell’Africa del Nord e nell’Europa dell’Est, e sono aumentate dei due terzi in Medioriente come nell’Est asiatico. Gli Stati Uniti che avevano iniziato a ridurre il bilancio militare con il ritiro delle truppe nell’Iraq nel 2011 e dall’Afghanistan (che dovrebbe concludersi quest’anno) nel 2014 lo hanno riportato al livello del 2007, ovvero a 610 miliardi di dollari (547 miliardi di euro): un terzo dell’intera spese militare mondiale. Negli ultimi cinque anni, precisa il SIPRI, la vendita di armi è stato il più importante dalla fine della guerra fredda. Gli Stati Uniti sono al primo posto con il 32,8% del mercato mondiale seguiti dalla Russia con il 25,3%. Le due superpotenze sono in grado di proporre dei sistemi d’arma testi in teatro di guerra (il cosiddetto “combat proven”: la ragione vera per la quale le guerre sono alimentate di continuo e l’ISIS è del tutto funzionale a questo disegno, come vedremo in seguito. L’ISIS se non ci fosse bisognerebbe inventarlo e così probabilmente è stato fatto). A grande distanza la Cina (5,9%), la Francia (5,6%) e la Germania (4,7%). Attenzione alla graduatoria degli acquirenti: al primo posto l’India, seguita da Arabia Saudita ( principale finanziatore dell’ISIS), Cina, Emirati Arabi Uniti, Corea del Sud. Sono soltanto alcune cifre molte indicative al riguardo delle mistificazioni pacifiste portate avanti dalla propaganda dei diversi governi: propaganda particolarmente odiosa nel caso del governo italiano, che vive sostanzialmente in tutti i suoi atti sulla mistificazione propagandistica, unica cifra possibile per la sua esistenza.

Bernie Sanders indica l’esigenza globale di una nuova sinistra - Bernard Guetta - Internazionale

Bernie Sanders indica l’esigenza globale di una nuova sinistra - Bernard Guetta - Internazionale

sabato 16 aprile 2016

Sorpresa, la “Terza via” ci ripensa - Sbilanciamoci.info

Sorpresa, la “Terza via” ci ripensa - Sbilanciamoci.info

Livio Ghersi: Votiamo sì

Votiamo SI perché l'Italia non è una colonia Nel luglio del 1988 ci fu incidente gravissimo su una piattaforma che estraeva prima petrolio, poi gas, nel Mare del Nord, a circa 200 chilometri da Aberdeen (Scozia). La compagnia petrolifera era statunitense. Incidente gravissimo in termini di perdita di vite umane (gli operai che lavoravano nella piattaforma) ed in termini di inquinamento ambientale. Chi cerchi su Internet per saperne di più sulla vicenda di quella piattaforma, denominata Piper Alpha, leggerà che, a partire da allora, gli standards di sicurezza degli impianti hanno fatto progressi notevolissimi. Questa sicurezza, però, non deve essere assoluta, posto che, cercando cercando, si può facilmente constatare che nel mese di agosto 2011 ci fu un'altra importante fuoriuscita di petrolio da un'altra piattaforma, a circa 180 chilometri da Aberdeen (la medesima città scozzese). L'incidente più spettacolare, ben impresso nella nostra memoria, si è verificato nel Golfo del Messico nel mese di aprile del 2010. Stavolta la compagnia petrolifera era britannica. Il petrolio continuò a bruciare in mare per 106 giorni consecutivi, dal 20 aprile al 4 agosto 2010, senza che si riuscisse a spegnere l'incendio. Il Mediterraneo è un mare relativamente piccolo, con due soli canali di collegamento con gli oceani: Gibilterra (tra Spagna e Marocco) e il Canale di Suez (in Egitto). L'Adriatico, partizione del Mediterraneo, è un mare chiuso fra terre (costa italiana e costa dei Paesi balcanici), con una sola significativa apertura in direzione Sud-Est. Quanto scritto finora porta ad alcune prime conclusioni: non è vero che gli attuali standards tecnologici consentano di estrarre petrolio e gas dal mare in assoluta sicurezza. Un incidente in un mare lungo e stretto, con limitate possibilità di ricambio d'acqua, qual è l'Adriatico, avrebbe un impatto ambientale tanto più dirompente. L'accusa che normalmente si muove alle persone preoccupate di tutelare l'ambiente è di muovere da una cultura anti-industriale. Per quanto mi riguarda, voglio preliminarmente ricordare quanto si legge nell'articolo 41 della Costituzione della Repubblica italiana: «1. L'iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Programmare è una responsabilità propria dei decisori politici (del Governo nazionale e delle Amministrazioni locali interessate, secondo le rispettive attribuzioni ed i rispettivi ambiti di competenza). Controllare è una responsabilità che coinvolge organi tecnico-amministrativi (Aziende sanitarie locali, Agenzie che operano a tutela dell'ambiente, eccetera), che si esercita anche per il tramite di appartenenti alle Forze dell'Ordine, che, in ultima analisi, quando si configurino reati, porta ad un processo e ad un giudizio pronunciato dai Giudici competenti. Perché parlamentari, uomini di governo, amministratori regionali e locali, non dovrebbero incorrere in rapporti di scambio improprio con faccendieri e rappresentanti di compagnie che estraggono petrolio e gas? Lo scambio è facile da immaginarsi: da un lato si può concedere che si ponga in essere un'attività a forte impatto ambientale e, nel contempo, si può fare in modo di non essere troppo invadenti e pressanti con le attività di controllo; dall'altro lato si possono elargire vantaggi personali (non soltanto denaro, ma le più varie utilità) a quanti, ai diversi livelli, consentono che la data attività a forte impatto ambientale prosegua indisturbata. I vantaggi personali che politici, amministratori, pubblici funzionari, corrotti ed infedeli, potranno trarne saranno tanto più cospicui, quanto più importante e duraturo è il giro d'affari legato a quella data attività a forte impatto ambientale. Qual è l'unico fattore che può fare la differenza, che può indurre parlamentari, amministratori regionali e locali, pubblici funzionari, a stare molto attenti ed a pensarci bene prima di cedere alle "pressioni" di faccendieri e imprenditori privi di scrupoli? Quest'unico fattore è la pressione dell'opinione pubblica. In un ordinamento democratico, ciò che pensa l'opinione pubblica conta, eccome. Il mare, le acque dolci, le falde idriche, le piante, non possono difendersi da soli: spetta a noi, semplici cittadini, difenderli. I credenti chiamano l'impegno in questo campo: salvaguardia del Creato. E, difendendo questi beni, difendiamo anche la nostra salute ed il nostro vivere in armonia con l'ambiente naturale. E, dimostrando in ogni occasione utile la nostra ferma volontà di difendere il mare, l'ambiente naturale, le bellezze paesaggistiche, aumentiamo il nostro "peso", anche in termini brutalmente economici, agli occhi dei faccendieri, dei petrolieri senza scrupoli, eccetera. Questi comprenderanno che non possono trattare l'Italia come una volta si trattavano le colonie, perché si può corrompere questo o quel politico, questo quel funzionario, ma non si può tenere testa ad un intero popolo che, compattamente, pretende di sapere, chiede garanzie, è pronto a mobilitarsi alla minima irregolarità riscontrata. A proposito di "colonie", ho trovato molto significativo apprendere che le normative oggi vigenti in Italia accordano royalties di assoluto favore alle industrie che estraggono petrolio e gas, nel territorio statuale e nel mare territoriale. Questo è il paradiso dei petrolieri; in nessun altro Paese del mondo industrializzato le ditte che estraggono petrolio e gas pagano così poco allo Stato ospitante. Ci sarà una ragione? Sarebbe questa una dimostrazione di cultura industriale? O non è, invece, l'ennesima conferma di una vera e propria subordinazione del nostro ceto politico agli ambienti economici che contano nel mondo, industriali e finanziari, con una conseguente svendita di beni comuni italiani? Non abbiamo davvero bisogno di governanti che siano più realisti del Re, ossia che aspirino al primato fra i servi. Immaginatevi se i SI al Referendum del 17 aprile fossero tanti, milioni e milioni. Immaginate cosa succederebbe se addirittura si raggiungesse il quorum ed il SI prevalesse legalmente. Io penso che questo comporterebbe una prima grande conseguenza: gli ambienti economici che contano nel mondo dovrebbero imparare a rispettare di più il popolo italiano. Palermo, 16 aprile 2016 Livio Ghersi

Dal fordismo concentrato al fordismo individualizzato - Sbilanciamoci.info

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Penna: “RIDARE PRIORITA’ AL LAVORO E ALLA DEMOCRAZIA ECONOMICA” | LABOUR

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QUELLO CHE C'E' DA SAPERE - Referendum 17 Aprile - per votare informati - | Sindacalmente

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La scienza economica dominante come religione pubblica – Associazione Paolo Sylos Labini

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La politica energetica e la vicenda “Guidi” – Associazione Paolo Sylos Labini

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"Quando è troppo è troppo!" di Bernie Sanders. Recensione - Pandora Pandora

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Senza governo. L'impasse della Spagna - micromega-online - micromega

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Il confine del Brennero e il futuro dell’Europa

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Fabian Society » Future Left

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Fabian Society » The spirit of revisionism

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venerdì 15 aprile 2016

Franco Astengo: Uomini delle istituzioni, custodi dell'ortodossia

UOMINI DELLE ISTITUZIONI, CUSTODI DELL’ORTODOSSIA di Franco Astengo Il proditorio intervento dell’ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a favore dell’astensione, così come lanciata dal Presidente del Consiglio Renzi, in occasione del referendum di domenica prossima 17 Aprile, è stato accolto dalla gran parte dei mezzi di comunicazione di massa come il richiamo di un autorevolissimo “uomo delle istituzioni”. In realtà il Presidente emerito nella sua lunghissima vita politica ha svolto anche la funzione di “guardiano dell’ortodossia” e non certo della migliore: in tempi davvero burrascosi l’allora segretario della federazione di Caserta del PCI (in parlamento dal 1953, quando la regola interna al partito era ben diversa, se si pensa che Berlinguer fu eletto alla Camera dei Deputati nel 1972) svolse più volte la funzione di contrasto per tutte le posizioni di dissenso che emergevano nel partito, attorno essenzialmente al delicatissimo nodo dei rapporti con l’Unione Sovietica. Abbiamo tratto dal primo volume di memorie redatto da Luciano Barca “Con Togliatti e Longo” questo passaggio estremamente significativo. Lo scenario è quello dell’VIII Congresso del PCI, che si svolse a Roma tra l’8 e il 14 dicembre 1956: all’indomani del XX congresso del PCUS (quello del rapporto segreto di Kruscev che denunciava i crimini di Stalin) e nel pieno della bufera scatenatasi con l’intervento delle truppe sovietiche in Ungheria. La voce di dissenso più autorevole che si levò in quel Congresso rispetto alla sostanziale acquiescenza del PCI verso la repressione militare sovietica verso la rivolta ungherese fu quella di Antonio Giolitti che, alla fine, lasciò il partito. Si tratta di vicende complicate e difficili, non sicuramente analizzabili – come del resto è stato nel tempo – con l’accetta della distinzione del bene e del male. Ciò premesso e acclarato è il caso però di soffermarsi su questo passaggio, preso integralmente dal testo di Luciano Barca. “Antonio Giolitti svolge un discorso ben costruito con un avvio moderato e concreto legato all’esperienza cuneese, un forte richiamo a Gramsci e, collegandosi a Diaz ma andando oltre, con un forte attacco alla “doppiezza” cui lo stesso Togliatti aveva accennato. La doppiezza di cui parla Giolitti è quella di chi da una parte riafferma il valore permanente delle libertà democratiche e dall’altra scrive che gli errori e i delitti denunciati dal XX congresso non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista (dico potere e non sistema) e che il governo di Budapest è legittimo. L’intervento è ascoltato con silenziosa attenzione e alla fine salutato dagli applausi di una maggioranza di congressisti. La curiosità si sposta ora sul compagno cui, secondo la prassi del centralismo democratico, sarà affidato il compito di replicare a Giolitti. Si fanno parlare dalla tribuna i rituali tre compagni che nessuno segue e poi sale alla tribuna Giorgio Napolitano. Bastano le prime parole del suo intervento (“la migliore prova della libertà che c’è nel partito è che Antonio Giolitti abbia potuto esprimere il suo dissenso”) per capire che il designato dal “centro” è lui. Del resto non è nuovo al compito. Lo ha già assolto a Napoli contro la Lapiccirella. Anche questa volta non ci va leggero. Ritorce su Giolitti l’accusa di doppiezza per dirgli che senza tante ipocrisie avrebbe fatto meglio a dire ciò che pensa e cioè che l’intervento sovietico si giustifica solo dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche dell’Unione Sovietica. Fortunatamente non riceve applausi. Incredulità per l’intervento di Amendola che conclude il suo discorso contro il riformismo liquidatore e il massimalismo inneggiando ai partiti comunisti che sono al potere in tanta parte del mondo e “prima di tutto al glorioso Partito comunista dell’Unione Sovietica”. A scegliere Napolitano deve essere stato proprio lui”. Testo di facile comprensione e non abbisognevole di ulteriori commenti.

Bernie Sanders Takes Greenwich Village - The New Yorker

Bernie Sanders Takes Greenwich Village - The New Yorker

giovedì 14 aprile 2016

Felice Besostri: Riforme in stile Tempa rossa

Dall'Avvenire dei lavoratori Politica RIFORME IN STILE “TEMPA ROSSA” di Felice Besostri *) Nella mia prima e unica esperienza parlamentare nella XIII legislatura fui assegnato alla Prima Commissione “Affari Costituzionali” del Senato in quanto ricercatore confermato di diritto costituzionale italiano e comparato. Con l’entusiasmo del neofita quando presentavo in commissione emendamenti aggiungevo la motivazione, cioè a cosa serviva e quali problemi intendeva risolvere. Nella stampa degli atti, però la motivazione scompariva. Ho chiesto spiegazioni ai funzionari e mi spiegarono che si era sempre fatto così. Poi mi fu fatto capire che avrei messo in imbarazzo i miei colleghi e che non stava bene darsi delle arie. La mia fonte di ispirazione era stata la Spagna democratica dove a ogni testo di legge era premesso Motivos de la ley, così che la cosiddetta volontà del legislatore fosse chiara a tutti e non solo agli esperti costituzionalisti. Col senno di poi avrei dovuto insistere, così chi avesse voluto presentare emendamenti del tipo “Tempa Rossa” avrebbe dovuto motivarli: forse ci sarebbe stato da ridere, perché le motivazioni vere non sarebbero mai state scritte. Sono stato relatore di disegni di legge importanti, per cinque anni ho avuto la responsabilità della legge comunitaria che doveva dare attuazione alle direttive comunitarie. Poco alla volta cominciai a capire il ruolo di essere relatore: si doveva tener conto degli equilibri politici complessivi e della posizione del governo. Sia chiaro anche che un emendamento non poteva passare se il relatore dava parere contrario. Un emendamento ha bisogno di avere a disposizione un progetto di legge di sicura approvazione, tipo il mille proroghe o, una volta, la legge finanziaria. Non basta che un emendamento sia “giusto”, occorre che sia anche “tempestivo”. A distanza di anni devo confessare che approfittai del mio potere di relatore, quando si trattò di dare attuazione alla direttiva sull’igiene alimentare. Amo i prodotti tipici della nostra Italia e mi resi conto che se la direttiva passava così com’era, i formaggi di fossa e il lardo di Colonnata sarebbero stati condannati alla sparizione, come tanti altri prodotti lavorati non in contenitori inox in laboratori senza pavimenti in linoleum. Allora introdussi un emendamento per cui, quando determinati metodi di conservazione e lavorazione fossero essenziali per le qualità organolettiche di un prodotto, si potesse derogare ad alcune prescrizioni. Passò senza problemi, si continuò a fare formaggi nelle malghe di alta montagna anche se non avevano due bagni eccetera. In un sistema bicamerale bisognava sapere in quale ramo del Parlamento presentarlo. Una volta, quando i presidenti erano più esperti, la loro struttura vigilava sugli emendamenti respinti da un ramo del Parlamento affinché non rispuntassero nell’altro: con Tempa Rossa non è successo. In una assemblea di presentazione delle ragioni del NO al referendum costituzionale, un cittadino anziano mi ha chiesto di spiegargli cosa significasse l’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 39 che recita: “Restano validi ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi”. Ho risposto che una norma del genere non c’entra nulla con una Co­sti­tuzione sia pure come norma transitoria e finale. Siamo all’as­sur­do. Sono sicuro che l’ex ministro Guidi non c’entra con questo emen­da­men­to (costituzionale!): non sento in quelle parole odor di petrolio, ma c’è sicuramente una responsabilità del governo e della ministra Boschi. Non è mai passato un emendamento senza il consenso del Governo, visto che è suo il ddl costituzionale. Qualcuno che se ne intende mi ha sussurrato che se quella norma ve­nisse stralciata, io mi sarei giocato il vitalizio… Io dico che a mag­gior ragione questa “deforma costituzionale” va combattuta e battuta. E la battaglia in difesa della Costituzione vale per me più del vitalizio. È un grave scandalo. Non ho approfondito chi abbia introdotto la norma, non presente nel testo iniziale, ma intendo qui lanciare un appello alla decenza. E, ciò facendo, mi richiamo agli artt. 54 e 67 della Costituzione per i quali “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” e “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”.

mercoledì 13 aprile 2016

INTERVISTA A RINO FORMICA SU RADIO RADICALE

INTERVISTA A RINO FORMICA SU RADIO RADICALE

Le variazioni del PIL e la specificità della nostra crisi | Economia e Politica

Le variazioni del PIL e la specificità della nostra crisi | Economia e Politica

L'anniversario della Liberazione alla Casa della Memoria | Casa della Memoria

L'anniversario della Liberazione alla Casa della Memoria | Casa della Memoria

Paolo Bagnoli: L'impotenza dell'Europa

Da Critica liberale, 4 aprile 2016 la biscondola l’impotenza dell’europa paolo bagnoli L’impotenza dell’Europa a fronte del doppio attacco dell’Isis a Bruxelles, poco prima di Pasqua, atti che equivalgono a una esplicita dichiarazione di guerra all’Europa, è stata bene e drammaticamente rappresentata da due immagini: la prima dalle lacrime di Federica Mogherini ad Amman,la seconda da Jean Claude Junker chiuso nella sua stanza in maniche di camicia e bretelle a parlare coi suoi collaboratori ; lì costretto perché impossibilitato a lasciare il palazzo della Commissione. In due immagini quella di un’Europa impotente, piangente e messa all’ angolo. Naturalmente non sono mancate le dichiarazioni di fermezza dei leader europei. Le chiacchiere, però, se le porta il vento; ciò che rimane è l’inazione rispetto a tutto quanto dichiarato dopo i fatti di Parigi. Paradossalmente l’Europa è caduta in uno spicchio urbano della sua capitale; a forza di occuparsi di mercati e di banche ha perso se stessa, il suo senso nonché la capacità di ragionare su quanto sta succedendo. Dirlo produce un brivido, ma nascondersi dietro giri di parole non serve a nulla: la civiltà liberaldemocratica è sotto attacco e, non solo, risponde poco, male e in ritardo, ma soprattutto sembra preferire stare in difesa; quasi sterilizzata in una grande paura senza speranza. E senza politica, soprattutto affossando pure la speranza. Non c’è capo di governo europeo che non abbia detto “siamo in guerra”, ma la risposta dov’è se nemmeno i servizi dei vari Paesi sono collegati? Loro “sono in guerra”; l’Islam politico è in guerra; un conflitto di tipo nuovo rispetto a quelli del passato, con modalità di azione conseguenti. Non è che non si sappia dove è il nemico – si è addirittura definito “stato”- cosa voglia e per cosa combatta, quasi che fosse arrivata la resa dei conti tra due parti del mondo, due culture, due fedi; due civiltà, appunto. Che di civiltà si tratti lo conferma il diverso modo di intendere il ruolo della donna! Dobbiamo però essere precisi e parlar chiaro: quella dell’islamismo terroristico non è una civiltà, ma un demoniaco progetto di distruzione, sottomissione e morte; vi sarà fino a che vi sarà l’entità politica che lo ispira, lo foraggia, gli dà un motivo per gettare l’Occidente nell’impotenza e nel caos. Se è vero che “siamo in guerra” cerchiamo di esserlo intelligentemente e sul serio 043 04 aprile 2016 5 perché, al di là di tutte le analisi – e in questi giorni se ne sono lette e sentite di ogni tipo – il vecchio detto francese à la guerre comme à la guerre, alla fine, esprime la sostanza della questione e di quanto ne consegue: piaccia o non piaccia. Occorre, quindi, parlare senza giri di parole. Siamo convinti che l’Occidente esprima, al meglio di come la storia del mondo dimostra, un valore fondante: il valore della libertà. Senza di esso non ci sarebbe nemmeno quello della democrazia; senza la libertà e la democrazia il significato concreto dell’umanità formata da persone, ossia da tanti mondi morali, non esisterebbe e, con ciò, i dati altrettanto concreti della libertà e della democrazia, compresa la sua intrinseca nozione sociale che ha nella giustizia un sostanziale elemento costitutivo. L’Occidente, intendendo cioè quell’arco storico che inizia con il mondo classico, esprime un’ identità che non nega la molteplice diversità delle sue società comprese quelle interne. Essere deboli a fronte di tale identità vuol dire smarrire pure il significato e il valore delle nostre libertà e delle nostre democrazie. Di conseguenza, vuol dire rischiare di perdere le une e le altre che esistono se sono congiuntamente operanti. Oggi sull’Europa pesa questa responsabilità poiché essa sta divenendo il campo di uno scontro di cui la Storia ci ha già dato qualche assaggio drammatico. Avere devirilizzato il potere degli Stati per sostituirvi il “vuoto” dei mercati e delle banche non solo ci dice dell’inadeguatezza della classe politica europea, ma, soprattutto, ci conferma di come non ci si renda conto della scontro in atto; di come occorra un ampio fronte di alleanze le cui forze siano disponibili a collocarsi nel campo anti l’Islam politico rappresentato dallo “stato” del califfo. Quindi, muoversi di conseguenza. Una volta sbaragliato il campo avversario anche le varie centrali criminali che abbiamo in casa cadranno. Seguirà anche il tempo per le disquisizioni culturali, religiose, sociali e sociologiche; quando questo dopo sarà conquistato. Avere paura della realtà è il modo peggiore per fare politica; ma chissà se la lezione da cui nasce la moderna concezione della politica, quella di Niccolò Machiavelli per capirsi, è presente a chi si trova a doverci guidare in uno stato di emergenza qual è quello in cui si trova di questi tempi il mondo? Che sulla libertà occorra “tenerci le mani sopra” è forse l’ammonizione più forte che ci viene dal segretario fiorentino. Il richiamo all’Europa dei padri fondatori è solo retorica. Essi hanno avuto il merito di aver avviato un processo nelle condizioni allora date; invece della retorica perché non sviluppare quanto era implicito in quel disegno e nell’intenzione di fondo che lo muoveva? Essere venuti a sapere che dopo i 043 04 aprile 2016 6 130 morti di Parigi ancora manca una sinergia tra gli Stati europei la dice lunga sul vuoto d’intenzione nel quale l’Europa è caduta. D’altronde, se usciamo dallo specifico del terrorismo, la grande questione dei cosiddetti “migranti” e le modalità stesse della trattativa con la Turchia dimostrano a quale punto di abiezione siamo giunti. La liberazione di Palmira ci dice che l’Isis sta perdendo terreno nonostante la forte rete europea che giorno dopo giorno emerge con sempre più evidenza; emerge la fonte per la buona riuscita degli attacchi terroristici che il califfato ispira e attua. Dobbiamo, tuttavia, ai combattimenti dei curdi siriani e delle forze armate di Assad sostenute dai russi la liberazione di Palmira che apre la strada alla riconquista di Raqqa. Non solo, ma anche l’esercito iracheno, che non brilla per spirito combattivo ed efficienza, dopo l’intervento russo è apparso più efficace e, con esso, operano bene le milizie sciite-iraniane e quelle curde irachene, supportate dall’aviazione della coalizione guidata dagli Stati Uniti che, a loro volta, si dirigono verso Mosul in un lungo percorso che ne prevede la liberazione entro l’anno. Ne consegue che, se le azioni assassine dell’Isis in Occidente sono la conseguenza della stretta nella quale l’Isis si trova, ciò vuol dire che il califfato sta vacillando. Significa che il jihadismo è al tramonto? Proprio no; il fuoco non si spenge in una volta poiché ciò comporta che i Paesi arabi vicini alla Siria e all’Iraq taglino coi jihadisti ogni rapporto. Vogliamo dire che non pensiamo che il rischio terroristico sia cancellato d’un botto, ma certo lo scenario cambierebbe e una coordinata ed efficace azione di intelligence farebbe il resto. In tale drammatico scenario notiamo l’assenza delle grandi comunità islamiche che vivono nei Paesi europei; non abbiamo udito voci ferme e d’insieme. A Lahore si è consumata l’ennesima strage di cristiani; possibile che non si alzi nemmeno un urlo, non solo forte, ma significativo in Europa? Limitarsi a dire che il Corano non prevede cose dei genere è certamente importante, però non basta: nel campo della fede esistono differenze e divisioni, non infedeli da uccidere! Che integrazione vi può essere se non c’è certezza su quanto sopra. Multiculturalismo è unità tra diversi; è il nocciolo delle società fondate sul pluralismo. Chi viene in Europa deve saperlo e se non lo sa deve essere istruito a modo; chi vive in Europa fa parte di società pluralistiche e gli islamici non possono considerarsi parti separate da esse e legate solo ai rispettivi Paesi d’origine. Nell’Occidente non possono esistere società parallele nelle quali, peraltro, il reclutamento terroristico è facilitato. Massimo D’Alema ha sostenuto che la questione si risolve costruendo più moschee; sarebbe troppo semplice ed è un non sense. Tutto ciò che va contro la Costituzione deve essere combattuto con la 043 04 aprile 2016 7 legge, con la durezza della legge dello Stato democratico. Ha ragione chi ha scritto che in Italia, o negli altri Paesi europei, non si può essere mussulmani come lo si è là dove l’Islam predomina; lo si può essere e si ha il diritto di esserlo entro le leggi del regime democratico e le norme non scritte della civiltà occidentale; quelle del rispetto reciproco e della tolleranza. I popoli occidentali devono difendersi; sono nelle condizioni di farlo e con successo. Bisogna volerlo, però con una politica realistica e intransigente. Ancora non solo non l’abbiamo, ma non si vede nemmeno un qualcosa che le assomigli.

Renewal | Panama, Corbyn and Piketty

Renewal | Panama, Corbyn and Piketty

Franco Astengo: Nell'occasione del voto sulle riforme costituzionali

NELL'OCCASIONE DEL VOTO SULLE RIFORME COSTITUZIONALI di Franco Astengo In una situazione di grande complessità generale stretti tra globalizzazione, sovranazionalità, potere residuale degli Stati che pure restano sempre in grado di provocare le guerre, la gestione delle diseguaglianze epocali congenite al ciclo dello sfruttamento capitalistico sta ormai scivolando verso forme neppure troppe inedite di governo autoritario nel combinato disposto tra “democrazia del pubblico”, dialogo diretto tra il capo e le masse (un vecchio arnese da Le Bon in avanti che viene sempre buono al momento opportuno), svuotamento dei corpi politici erroneamente assegnati ad una inesistente categoria dell’ arcaismo novecentesco. Il “pensiero unico” della fine della storia giudica superata ormai la stessa democrazia liberale. Il referendum costituzionale che si svolgerà in Italia si inserisce appieno in questo discorso e dobbiamo avere piena consapevolezza della posta in gioco. Dobbiamo esserne coscienti e collocare questa scadenza al primo posto della nostra agenda muovendoci, nell’elaborazione di una efficace line di contrasto, ben oltre la semplice difesa e/o richiesta di piena applicazione di quella che retoricamente è stata definita Costituzione nata dalla Resistenza.

lunedì 11 aprile 2016

Basic Income And Social Democracy

Basic Income And Social Democracy

Franco Astengo: UNA RIFLESSIONE TRA GLOBALIZZAZIONE E SOVRANAZIONALITA’ : ETICA E CRITICA CONNUBIO INSCINDIBILE

UNA RIFLESSIONE TRA GLOBALIZZAZIONE E SOVRANAZIONALITA’ : ETICA E CRITICA CONNUBIO INSCINDIBILE di Franco Astengo Mario Vegetti, in una intervista collettiva rilasciata alla “Lettura” del Corriere della Sera indica: “tocca alla filosofia cercare di mettere ordine nel caos del dibattito politico”. Queste poche righe sono dunque finalizzate non tanto (naturalmente) a fornire una risposta all’interrogativo posto da Vegetti ma a porne altri sui quali potrebbe essere sarebbe bene ci si soffermasse nell’intento di costruire un adeguato retroterra di pensiero politico. Un passaggio che dovrebbe risultare utile per realizzare un’ipotesi di concreto affrontamento delle nuove contraddizioni emergenti nell’oggi che si intrecciano fortemente con le tradizionali “fratture” operanti a livello della società moderna. Lo stesso Vegetti infatti indica: “La giustizia diventa l’utile del più forte se non si individuano valori universali che vengono prima della legge. Ma oggi il problema è definire che cos’è buono e giusto”. Nel momento in cui la caduta delle ideologie ispirate alla contrapposizione sociale ha lasciato lo spazio all’ideologia dell’unico vincente e della fine della storia è forse il caso di riprendere il filo proprio da questa affermazione svolta dal filosofo studioso del pensiero antico. Il ritorno alla filosofia morale e l’intreccio tra questa e la filosofia politica dovrebbe quindi rappresentare un obiettivo partendo dalla valutazione del concreto di ciò che è avvenuto e sta avvenendo nell’attualità della politica e, insieme, appunto ( e contraddicendo i politologi della destra americana) nello svilupparsi inesorabile della storia. Ci troviamo, infatti, in una fase di inedita dislocazione nel rapporto tra globalità e strutture economico – sociali della sovranazionalità, dovute in particolare al processo di esasperata finanziarizzazione dell’economia che è risultata alla base del procedere del ciclo di crisi capitalista nell’ultimo ventennio. Processo di finanziarizzazione causa principale di due fenomeni fortemente presenti nell’attualità: il primo rappresentato dall’acuirsi dei meccanismi di diseguaglianza a tutti i livelli, con la creazione di una nuova casta di supermiliardari collocata – appunto a livello sovranazionale – che è rimasta a lungo intoccabile e impunita al di là degli atti compiuti costituendo davvero la nuova “super intesa” del capitalismo moderno, in luogo della massoneria e – successivamente - delle varie Trilateral, Billdeberg e quant’altro (fenomeno largamente studiato da Piketty, Atkison, Stiglitz e altri). Il secondo fenomeno rappresentato dalla crisi complessiva dello “stato – nazione”: una crisi verificatasi soprattutto a livello militare, avendo come concausa la fine della logica dei blocchi e l’avvento – fragile e contraddittorio – della sola superpotenza “gendarme del mondo” e, in secondo luogo, sul piano fiscale provocando una clamorosa sottrazione di risorse dal possibile utilizzo pubblico verso l’egoismo accumulatore e insieme “compradoro” del privato. Tutti i tentativi di creazione (e assestamento) di strutture sovranazionali sono falliti, in primis l’Unione Europea ma anche il collegamento tra i cosiddetti BRICS i vari trattati commerciali, ecc: il tutto schiacciato dalla logica imperante della gestione autoritaria del ciclo. A livello di ciò che è rimasto di Stato – Nazione questi fenomeni hanno causato, prima di tutto, un vero e proprio dissesto della democrazia liberale – parlamentare e lo scivolamento verso nuovi tipi di forma – stato e di forma di governo basati su di un autoritarismo veicolato dall’assunzione di un ruolo di centralità della detenzione del potere al riguardo dell’uso dei mezzi di comunicazione di massa: è questo il vero nodo della trasformazione dalla democrazia partecipata alla democrazia del pubblico. Soprattutto però, in conclusione, è venuta a mancare – a tutti i livelli fin qui indicati – l’etica pubblica secondo la dicotomia tra concetto e concezione. Si tratta di ricostituire, a livello di riflessione nel campo della filosofia politica e rivolgendosi all’insieme delle dimensioni fin qui analizzate della globalizzazione, della sovranazionalità e dello “Stato – Nazione”, il principio che i decisori abbiano a disposizione in linea di principio le necessarie informazioni attualmente rilevanti per decidere in maniera razionale le questioni collettive. La politica deve rientrare nella sfera più ampia dell’etica, poiché si suppone che la seconda debba tornare a tracciare le linee direttive se non tutti i comportamenti concreti per la prima. L’etica deve quindi essere deputata a valutare le ragioni della politica? Questo appare come l’interrogativo di fondo da porci nel momento in cui avvertiamo l’evolversi di contraddizioni forse mai affrontate in precedenza nella storia. Etica da stringere in un connubio inscindibile con la critica, intesa proprio attraverso il rilancio dell’idea kantiana dell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità sconfiggendo così l’idea prevalente della retorica della decadenza. Su queste basi il rilancio dell’idea internazionalista della rivoluzione sociale, superando quel “mundialismo” del tutto interno al pensiero unico che ha caratterizzato, per decenni, l’iniziativa di quello che fu definito “popolo di Seattle” e i connotati di apparente contestazione presentati nell’occasione delle manifestazioni sul G8 di Genova nel 2001 e che ha causato il tracollo della sinistra a livello sovranazionale, come ha ben dimostrato la fallimentare esperienza di governo in Grecia e il ritorno – necessitato - al keynesismo così come presente nelle istanze portate avanti da Jeremy Corbin con il Labour e da Bernie Sanders nel corso delle primarie democratiche degli USA. Etica e critica per uscire, come già detto, dallo stato di minorità ricostruendo un pensiero alternativo di effettiva contrapposizione di sistema : la valutazione concreta delle contraddizioni operanti nella costruzione dell’insopportabilità delle diseguaglianze economiche e culturali della modernità potrebbe rappresentare la chiave di volta per costruire quella scala di valori che oggi è sfuggita completamente al pensiero dell’immediatezza del cannibalismo sociale e politico.

sabato 9 aprile 2016

La congiuntura italiana n.2 – marzo 2016 | CER – Centro Europa Ricerche

La congiuntura italiana n.2 – marzo 2016 | CER – Centro Europa Ricerche

Aldo Penna: Parigi, Bruxelles

Le bombe di Bruxelles a pochi mesi dagli attentati di Parigi e a poco più di un anno dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, ricordano all’Europa che non esistono zone immuni dal male e dalla violenza e che gli ingenti apparati di sicurezza poco possono quando un’intera comunità è nel mirino e tutti i luoghi di riunione sono obiettivi sensibili. Ma l’Europa non è sola a subire gli attacchi suicidi. In Iraq c’è un attacco quasi settimanale, la Turchia due nelle ultime settimane, l’Egitto, l’Iran, l’Afghanistan, il Bangladesh, l’India, lo Sri Lanka, l’Indonesia, il Kenia, il Pakistan contano vittime a migliaia di ogni razza e religione. A quanti pensano agli scontri di civiltà solo perché gli attentatori si ammantano di giustificazioni religiose, occorre ricordare che negli ultimi decenni si sono contati migliaia di attacchi suicidi che hanno provocato molte più vittime nelle comunità islamiche o di altre religioni che in quella cristiana. Se gli anni posti sotto osservazione diventano trenta o quaranta o addirittura un secolo, si nota che il metodo oggi chiamato dei kamikaze era in atto prima ancora che la definizione conoscesse la sua tragica fortuna a seguito degli assalti dei piloti giapponesi durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale. E se oggi appare appannaggio del mondo islamico e dei suoi gruppi oscurantisti e radicali, ieri era un metodo utilizzato dagli scintoisti giapponesi, dai buddisti, dagli induisti e perfino dai cristiani. La carneficina in atto in Iraq e in Siria con lo scontro tra due anime del mondo islamico, sciiti e sunniti, ricorda il conflitto lunghissimo, su base etnica e religiosa, che ha coperto di sangue lo Sri Lanka per trenta anni. O lo scontro violento e sanguinario che ha visto i nazionalisti serbi di religione ortodossa attaccare e provare ad annientare l’antichissima comunità islamica della Bosnia. Quando dialogo e cooperazione lasciano la parola alle fazioni violente e integraliste inizia prima lo scontro violento tra le sette, poi gli assalti armati, infine le politiche di sterminio con l’inevitabile corollario degli attacchi suicidi. L’occidente che da secoli ha fissato nelle sue carte fondamentali il principio dell’eguaglianza novanta anni fa fu percorso da un furore razzista i cui orrori si sono impressi per sempre nella nostra memoria ma non hanno impedito venti anni fa che si ripetessero a pochi passi da noi. I fautori di contrapposizioni e intolleranza, religiosi o laici, capi politici o predicatori, giornalisti o scrittori, sanno che il terreno su cui cadono i loro semi infetti assicura piante violente e assassine che si propagano come un’epidemia infestante distruggendo ogni cosa sul loro cammino. Eppure, sempre sicuri della superiorità delle loro convinzioni su quelle che finiscono per criminalizzare e poi perseguitare, continuano a soffiare sul fuoco del conflitto. I kamikaze impiegati per portare la distruzione dove i normali attentati non possono arrivare sono un’arma che nel passato è stata spesso utilizzata e persino finanziata anche da stati sovrani. E gli uomini e le donne che si lasciano esplodere non sono sempre fanatici che si immolano dietro promessa del paradiso. Come dimostrano numerose testimonianze di persone sfuggite al loro destino, spesso sono individui che in questo modo preservano la loro famiglia da una minaccia di persecuzione oppure sono istigati alla vendetta per un loro caro ucciso. Chi evoca la superiorità del cristianesimo sull’Islam auspicando epocali controesodi che preservino la pace in Europa, usa gli stessi toni e i medesimi argomenti dei fanatici buddisti o induisti o islamici, tutti convinti di praticare la giusta dottrina, tutti certi che il mondo sarebbe migliore se le diversità venissero cancellate, tutti immemori dei genocidi che questo punto di vista ha provocato, tutti incapaci di distinguere quali rovine provoca o forse attratti da questo mortifero sentimento che vede nella guerra una salvifica igiene del mondo, purché non riguardi se stessi, la propria casa, i propri cari. Aldo Penna

Tempesta sulle banche, il governo naviga a vista | A. Baglioni

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Di cosa parliamo quando parliamo di trivelle e referendum | M. Galeotti e A. Lanza

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Aspettando il Def | M. Bordignon

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Sanders e i Panama papers - Sbilanciamoci.info

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Il fantasma della Brexit - Sbilanciamoci.info

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Così l’austerità ha distrutto l’Europa - Sbilanciamoci.info

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Petrolio, che cosa sta succedendo? - Sbilanciamoci.info

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mercoledì 6 aprile 2016

Un nuovo illuminismo per un nuovo socialismo – la Sinistra quotidiana

Un nuovo illuminismo per un nuovo socialismo – la Sinistra quotidiana

6 domande sulla sparizione degli investimenti in Italia | Gustavo Piga

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Politiche espansive e crescita debole. Siamo in una stagnazione secolare? | Economia e Politica

Politiche espansive e crescita debole. Siamo in una stagnazione secolare? | Economia e Politica

Pia Locatelli. Camera intervento su comunicazioni Gentiloni caso Regeni | Avanti!

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The Fight for Bernie’s Political Revolution Is Not Over | The Nation

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martedì 5 aprile 2016

Ezio Mauro: Come innaffiare la rosa appassita del riformismo

La Repubblica, 5 aprile 2016 COME INNAFFIARE LA ROSA APPASSITA DEL RIFORMISMO EZIO MAURO Il riformismo — che significa poi semplicemente sinistra con cultura di governo — ha sorprendentemente le carte più in regola per affrontare le esigenze della fase, e ha nel suo zaino gli strumenti più propri per riuscire: responsabilità, opportunità, solidarietà, la nuova triade di valori che può collegare la tradizione con la modernità e portare il guscio socialdemocratico (nelle sue diverse colorazioni e denominazioni) a ricostruire un legame sociale di soggetti capaci di pretendere e realizzare un cambiamento che consenta alla cultura politica occidentale di superare la crisi salvando se stessa. Sapendo che esiste un modello economico europeo di cui siamo scarsamente consapevoli: è l’economia sociale di mercato, che da Bad Godesberg in poi libera pienamente l’iniziativa economica capace di crescere e produrre lavoro e ricchezza, con la mano pubblica incaricata di mantenere con discrezione l’equità del sistema, realizzando così quel “capitalismo con correzioni sociali” che è stato una risposta concreta alle vicende del fascismo e del comunismo. C’è dunque ancora qualcosa da fare, prima di disarmare. Anche perché dall’altra parte del giardino europeo, il pensiero liberale è oggi attaccato frontalmente come il principale nemico dai populismi xenofobi che stanno scalando il cuore del continente, nei Paesi che arrivano dall’Est. È il giardino stesso d’Europa che va difeso, dunque. E se infine provassimo ad annaffiarla, quella rosa? ©RIPRODUZIONE RISERVATA “ Il consenso elettorale dei socialisti si è ridotto Faticano dove hanno vinto ” C’È una rosa appassita nel giardino d’Europa. Sfiorisce e avvizzisce sulle pagine del’”Economist”, che dedica un lungo servizio al declino del centrosinistra in tutti (o quasi) i Paesi del continente, come se il riformismo invece di essere l’esito compiuto e finalmente risolto di una vicenda secolare travagliata fosse in realtà la moderna malattia senile del socialismo. Cifre e mappe sono implacabili. Là dove all’inizio del secolo, dice il settimanale inglese, si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta: i socialisti governavano in Scandinavia, guidavano la Commissione Europea, se la giocavano per la preminenza nel Parlamento di Strasburgo, mentre ora il loro consenso elettorale si è ridotto ad un terzo, faticano dove hanno vinto le elezioni come in Francia, rischiano in Italia, si riducono a junior partner nel governo altrui in Olanda e nel Paese più importante dell’Europa, la Germania. La rosa perde i petali, dunque, l’uno dopo l’altro. E quei petali, comunque, hanno via via perduto il loro colore e certamente il profumo. SEGUE A PAGINA 31 FORTUNATAMENTE numeri e grafici non dicono tutto, altrimenti ci sarebbe da consegnare le chiavi della modernità a qualcuno in grado di governarla, rinchiudendosi in casa. La destra tradizionale — in Francia la chiamano repubblicana — soffre infatti di una crisi parallela e simmetrica, mangiata viva dal radicalismo xenofobo che non sa arginare e che s’ingozza delle paure dei cittadini convertendole in una falsa moneta politica, tuttavia redditizia. Crescono soltanto gli opposti populismi, a destra come a sinistra, e la rabbia che non si appaga nello specchio di questa semplificazione qualunquista antisistema ingrossa le fila del “partito del sofà”, dove siedono i delusi che si rifiutano di partecipare e di votare, ritirandosi con la bassa marea politica da ogni discorso pubblico. Quel che le cifre non dicono è il contesto. Quando questa vicenda è cominciata, nel 2007, sulle democrazie dell’Occidente si sono abbattute tre crisi concentriche, crisi delle banche, del debito, dunque della crescita. Negli ultimi anni si sono aggiunte due emergenze epocali: l’onda lunga dei migranti che cercano nell’Europa salvezza, sopravvivenza e futuro, dunque l’unica speranza, e la sfida del Califfato che dopo le Torri Gemelle ha annunciato la guerra all’Occidente e porta la morte direttamente nelle città del nostro continente. Ciò che ne deriva è un sentimento politico di insicurezza e dunque di sfiducia, la ricerca di protezione in identità primitive di chiusura, la solitudine repubblicana, lo smarrimento di ogni senso di cittadinanza. È la fine del “sociale”, il venir meno dei legami collettivi che non siano quelli di sangue e di clan contrapposti agli “invasori”, il ribaltamento del welfare visto non più come una conquista da estendere ma come un egoismo da difendere, la consumazione della politica che nel sistema occidentale era nata proprio per organizzare tutto ciò, la società, il nesso tra l’individuale e il collettivo, la sicurezza dello “Stato- benessere” come strumento di coesione e soprattutto come proiezione del lavoro e del suo valore sociale. Scopriamo terrorizzati che tutta l’impalcatura — culturale, istituzionale, politica — che ci siamo costruiti nel dopoguerra per difendere e garantire l’incrocio tra la nostra vita e le vite degli altri è entrata in crisi. Diciamo la verità: scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. È insediata ma non ci protegge, tanto da farci venire il dubbio che funzioni veramente soltanto negli anni della crescita e della redistribuzione, mentre quando cambiano i tempi si fa da parte, cede il governo del sistema e contempla l’azione della crisi. Siamo a un passo dal pensare che la società stessa, il suo concetto, non siano esportabili dentro il territorio universale della globalizzazione, quasi come se fossero creature dello Stato nazionale. Verrebbe da dire che tutto questo segna per forza di cose la fine del “secolo socialdemocratico”. Anzi, di più, perché tutto congiura affinché il pesce socialista non possa nuotare in un eco-sistema di questo tipo. Ma non abbiamo ancora aggiunto l’ingrediente fondamentale: il lavoro. Basta leggere i dati sulla disoccupazione, e quelli sul lavoro giovanile, per capire che il vero attore sociale colpito dalla crisi è il lavoro, che la nostra Costituzione codifica come un diritto e che dunque per molti è un diritto negato, uno strumento impossibile per affermare la propria dignità personale e pubblica, sapendo che senza libertà materiale non c’è una vera libertà politica. Non è un problema economico soltanto, che si può rinchiudere nelle statistiche del Pil. Perché il legame tra la democrazia, l’Occidente e il lavoro è intrinseco. Non solo perché il ciclo virtuoso delle democrazie europee si è basato sempre sul rapporto tra crescita, lavoro, occupazione, benessere, consenso. Ma perché la democrazia in Europa è nata come democrazia del lavoro, col lavoro e il reddito che ne deriva il cittadino provvede alla sua famiglia ma anche ai diritti politici e sociali di tutti. Se salta questa consapevolezza, salta ciò che tiene insieme capitalismo, Stato sociale, democrazia rappresentativa e pubblica opinione. Cioè cambia la fisionomia del sistema democratico occidentale così come lo abbiamo fin qui conosciuto. Sono meccanismi che fino all’insorgere della crisi erano ormai accettati da tutti, destra di governo, sinistra riformista. Diciamo che in più la socialdemocrazia trovava in questo dispositivo politico-culturale la propria ragion d’essere. Qui infatti, proprio qui, ha operato per anni il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti delle diverse congiunture, legando il ricco e il povero — nella diversità dei loro percorsi e nella sproporzione dei loro destini — in un vincolo di responsabilità almeno in parte comune. Finché il vento della globalizzazione non ha rinchiuso anche quel tavolo e il moderno ricco che vive nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione non ha più nessun bisogno — nemmeno territoriale, neppure fisico — di sentirsi vincolato al moderno povero che vive nel sottosuolo degli Stati nazionali e che ha preso una nuova configurazione: è l’escluso che non si vede più, e di cui quindi si può fare a meno. Una buona parte della sinistra non ha più un vocabolario autonomo perché ritiene che queste parole e questi concetti facciano parte del Novecento e non meritino di passare la dogana del secolo post- ideologico, perché suonerebbero retoriche. Così si parla con parole altrui e la neolingua della neodestra è l’unica che risuona. Ma proviamo a ribaltare il discorso per non rimanere prigionieri del luogo comune dominante: quali sono gli indici fondamentali della modernità, oggi, se non i diritti civili, la sicurezza sociale, la ricostituzione di una effettiva autonomia dell’individuo e di una reale libertà del cittadino, anche dalle paure che imprigionano la parte più debole e più esposta della popolazione? Perché la sola questione che valga oggi a sinistra, come dice il premier francese Manuel Valls, è appunto «come orientare la modernità per accelerare l’emancipazione degli individui, e dunque di ciascuno». Creando una nuova ragione sociale capace di tenere insieme gli esclusi, i salvati e gli emergenti, quei fabbricatori e manipolatori di simboli, come li chiama Alain Touraine, che comprano e vendono il moderno quotidiano di cui viviamo.

Franco Astengo: Referendum

LA TRASVERSALITA’ DELL’OPINIONE di Franco Astengo L’esito del referendum sulle cosiddette “trivelle” (accettiamo la denominazione giornalistica ormai diventata “vulgata”) rappresenterà un’occasione molto interessante per poter valutare le novità che stanno presentandosi i in tema di capacità d’aggregazione e di espressione di consenso all’interno del sistema politico italiano. Com’è noto, infatti, perché il referendum (trattandosi di “abrogativo”) per essere valido richiede il raggiungimento di un quorum di partecipanti pari al 50% più uno degli aventi diritto: di conseguenza sarà necessario si rechino alle urne oltre 25 milioni di elettrici ed elettori. Soglia superata, per l’ultima volta, il 12 – 13 giugno 2011 nel caso del referendum sull’acqua come bene pubblico (tralasciamo il giudizio sulla concretizzazione effettiva di quell’esito referendario). Il prossimo 17 Aprile vedrà, però, la competizione referendaria svolgersi in modo del tutto diverso dalle precedenti, ed è in questo che sta l’interesse degli analisti. Tra il 2011 e oggi, infatti, sono cambiate molte cose nel rapporto tra sistema politico, elettorato, ruolo dei mezzi di comunicazione rispetto alla possibilità di espressione pubblica del consenso e del dissenso. Andiamo per ordine: prima di tutto si è stabilizzata l’astensione dal voto, sia per le elezioni politiche sia per quelle amministrative, al di là di una dimensione molto alta: il raggiungimento del 65% dei partecipanti al voto appare già una quota ragguardevole. Insomma, almeno il 35% dell’elettorato appare composto da astensionisti stabili. In secondo luogo è aumentato il peso della “rete”: ovverosia la formazione dell’opinione attraverso i social network, i siti, i blog, nell’insieme della comunicazione virtuale. Il secondo “partito” (virgolette d’obbligo) italiano usa stabilmente la via della virtualità quale strumento di comunicazione e di scelta politica al proprio interno e quando si muove per “scendere in piazza” lo fa soltanto attraverso il mezzo della mobilitazione dei vertici, com’è stato nel caso dei tour di Beppe Grillo o nelle adunate dei parlamentari, come nel recentissimo caso della Basilicata. Ci troviamo dunque di fronte a tre elementi di novità, che in questo caso emergeranno con forza quali elementi fondativi della concretizzazione del risultato elettorale: la quasi totale sparizione del voto di appartenenza ormai ridotto ad aree assolutamente minoritarie; all’affermarsi di una trasversalità nell’espressione del voto d’opinione perché saranno molteplici le posizioni degli elettori dei maggiori partiti, sia del PD sia del centrodestra, con la novità (relativa) del partito di maggioranza relativa e di governo che indica la via dell’astensione; il peso del voto di scambio. Voto di scambio beninteso che si avrà in forma diversa da quella clientelare normalmente adottata in questo caso e che riguarderà le elettrici e gli elettori delle regioni maggiormente interessante all’oggetto del contendere, quelle del versante adriatico, stretti tra il peso della questione ambientale e di quella – pur rilevante nell’interesse di molti – dei posti di lavoro. Inutile aggiungere che il merito è assai poco conosciuto, quasi impossibile da far conoscere meglio, e che l’immaginario collettivo si misura con questo tipo di questioni: l’indicazione degli opinion – makers più importanti attraverso l’utilizzo delle varie specie di mezzi do comunicazione di massa e i temi ambientali, della qualità dello sviluppo, dell’occupazione. Si tratta, per certi versi, di una situazione inedita: nel già ricordato referendum sull’acqua pubblica del 2011 infatti i DS, pur tra contorcimenti vari, diedero comunque indicazione di voto e questo elemento ebbe il suo effetto: oggi, come già accennato la maggioranza del PD e il governo forniscono, invece, l’indicazione di astensione, in una situazione che genererà sicuramente una “trasversalità di opinioni” che verificheremo quanto consistente. Non è la prima volta che il governo indica, in un’occasione referendaria, la via dell’astensione: anzi, in quell’occasione fu annunciato il famoso “andate al mare”. Era il 1991, il referendum in questione era quello sulla preferenza unica e Andreotti e Craxi puntarono sul “non voto” restando clamorosamente smentiti. Ma in quel frangente gli eredi del PCI, che si erano appena separati, fornirono l’indicazione opposta utile per costituire la base per il superamento del quorum. Quelli erano tempi però nei quali l’astensione “strutturata” non superava il 15%, in un paese nel quale dal 1948 al 1987 i votanti alle elezioni politiche avevano sempre regolarmente superato il 90% in presenza del forte richiamo al voto di appartenenza esercitato dalla presenza dei grandi partiti di massa e dal muoversi nell’ottica del partito a integrazione di massa anche di quelli numericamente “minori”. Certo che molta acqua è passata sotto i ponti dal 1974, referendum sul divorzio, quando gli schieramenti erano molto netti e precisi e l’analisi del voto poteva essere sviluppata confrontando i dati dei partiti nelle elezioni politiche per verificare, appunto, quanto il voto di appartenenza fosse stato rispettato. Oggi l’intreccio è tra voto d’opinione, in gran parte raccolto per via “virtuale” senza un minimo di partecipazione e presenza diretta e un mutevole voto di scambio. L’interrogativo rimane questo: quanto potrà reggere un sistema politico fondato sulle sabbie mobili di una “trasversalità” non riconducibile all’identità di opzioni di fondo e di un sistema di valori? Si profila una micidiale “contraddittorietà di sistema” fondata sull’individualismo e su di una “democrazia del pubblico” che ci riconduce al populismo personalistico. Un insieme di egoismi e di presunzioni pressappochistiche: la cifra insomma sulla quale si è formato il governo Renzi. Un quadro negativo e fortemente preoccupante che reclama una riflessione sulla fragilità di un sistema politico esposto a tutti i rischi del populismo autoritario. La sconfitta dell’astensione il 17 Aprile prossimo potrebbe rappresentare, al di là del merito puro importantissimo, un buon viatico per aprire una stagione diversa dal considerare l’agire politico come mero fattore di soddisfacimento dell’opportunismo più deteriore come sta, proprio, nell’indicazione di non voto del cosiddetto “Partito della Nazione” presuntamente a vocazione maggioritaria e governativa ma in realtà scudo di una somma di interessi particolari da nascondere attraverso il più basso livello di propagandiamo spicciolo.