venerdì 31 agosto 2012

«Sinistra vuol dire uguaglianza»,intervista a Francois Hollande, dal libro "Le ragioni della sinistra" - l'Unità del 31.08.2012.





«Sinistra vuol dire uguaglianza»,intervista a Francois Hollande, dal libro "Le ragioni della sinistra" - l'Unità del 31.08.2012.


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«Sinistra vuol dire uguaglianza»

intervista a Francois Hollande, dal libro "Le ragioni della sinistra" (Castelvecchi editore)





Possiamo parlare della sua appartenenza alla sinistra, della sua visione della sinistra e del socialismo che descrive?



«Il socialismo è una bella idea. Il partito che lo rappresenta da più di un secolo si è battuto per l’uguaglianza, ilprogresso, l’emancipazione e ha partecipato alle più grandi conquiste della Repubblica: quelle dei diritti sociali e delle libertà. Oggi continua a farlo. Finché la dignità umana sarà minacciata, rimarrà quella volontà di denunciare l’ordine apparentemente immutabile delle cose e il disordine insopportabile delle ingiustizie, ci saranno sempre delle donne e degli uomini che si ribelleranno...».



Il socialismo però oggi sembra in crisi, almeno in Europa...



«Il socialismo è in affanno e questo è legato anche all’impasse dell’ideale europeista. La socialdemocrazia deve ridefinire il suo modello. Bisogna però essere coscienti che la lotta resta fondamentalmente la stessa. Possiamo riassumere così: fare il possibile va bene, ma estendere il possibile è meglio. È evidente che il socialismo del Ventunesimo secolo non ha più la magniloquenza luminosa di JeanJaurès, l’ombrosa intransigenza di Jules Guesde o le intuizioni generose di Leon Blum! Sarebbe grave se il socialismo confondesse il proprio aspetto, dovuto all’età, con il contenuto della propria lotta e se, alla fine fosse così legato al presente da dimenticare il suo tempo storico. Il socialismo non deve cancellare la propria personalità, ma rimetterla al suo posto: quello di un anello in un percorso evolutivo e di un punto in un insieme. In questo senso, appartiene alla nostra epoca più di quanto una storia già lunga potrebbe far credere».



Che cosa ha da dirci oggi la storia del socialismo?



«Siamo rivolti al futuro,ma sappiamo da dove veniamo. In effetti, facciamo parte di una storia che è cominciata ben prima delle nostre stesse vite. Limitiamoci al Ventesimo secolo. Ci siamo avvicinati al potere per diversi decenni. L’abbiamo occupato furtivamente per qualche mese, per qualche anno, esercitandolo pienamente senza mai restarci per più di una legislatura. Ogni volta abbiamo realizzato delle riforme, cambiato profondamente la ripartizione del potere, costruito dei diritti ormai acquisiti rispetto ai quali la destra per fortuna fatica a tornare indietro, anche se ci mette tutta la sua volontà revanscista. Ma ogni volta abbiamo lasciato il posto perché così è la democrazia equella che deve essere oggi la sfida per i socialisti non è semplicemente di vincere in modo trionfale, ma di governare in modo durevole. In questa lunga storia, ogni generazione è stata portata ad affrontare dei problemi ricorrenti che fanno senza dubbio la singolarità del socialismo francese: l’aspirazione all’unità e la tentazione della diversità; il desiderio del potere e la delizia della protesta. Queste coppie (unità/diversità, potere/protesta),come si direbbe nel linguaggio della fisica parlando dei rapporti tra forze diverse, sono ancora attive oggigiorno. Sta alla nostra capacità collettiva di superare questa tensione, cioé di andare al di là, e da questo dipenderà il futuro del Partitosocialista e l’alternanza in Francia, così come le sue strutture».



Soffermiamoci un po’ su questa nozione di «diversità». Fin dalle origini del Partito socialista, la diversità è inseparabile da quello che è la famiglia socialista, con le sue diverse anime.



«Non si può negare che la «diversità» è inseparabile dai socialisti. Ciò può essere un punto di forza, un segnale di vitalità, mentre tanti altri partiti costituiscono dei blocchi in cui non si discute. Ma bisogna constatare che questa pluralità di sensibilità e di personalità, quando è stata gestita male, anche in periodi recenti, ha sempre prodotto la sconfitta e a volte peggio: ha portato a delle separazioni senza futuro per coloro che si sono allontanati. L’esperienza lo prova: non c’è futuro fuori dal Partito socialista. Saremo fedeli al nostro elettorato solo restando noi stessi. Non è seguendo questo o quel movimento d’opinione, questo o quel credo, questo o quel pronostico,che possiamo raggiungere i nostri obiettivi, ma essenzialmente essendo socialisti, in funzione degli impegni che abbiamo preso e degli orientamenti che ci siamodati. È il modo migliore per unire il maggior numero di elettori fin dal primo turno elettorale. Bisogna dunque farla finita con una mitologia che vede la conquista del potere come una cosa pura, ma non così il suo esercizio. Il compromesso con la realtà non comporta la compromissione dell’ideale».



Ora possiamo procedere con un’altra parola: identità. Se dovesse definire l’identità del Partito socialista, cosa menzionerebbe?



«Il Partito socialista è un partito di go-verno, non solo un partito dell’alternanza. La sinistra non esiste per gestire al meglio gli affari,ma per cambiare nel modo più profondo possibile il cosiddetto ordine delle cose. Il Partito socialista riconosce l’economia di mercato ma in economia è antiliberista, perché fa prevalere i valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della reciprocità rispetto ai criteri di redditività, di immediatezza o di recessione. Ilmovimento socialista ha la vocazione di rappresentare una larghissima parte della società: non deve scegliere tra ceti popolari e ceti medi. Porta in sé delle idee federative: educazione, casa, lavoro, ambiente, sanità, che garantiscono appunto la convivenza. Ed esprime delle aspirazioni individuali che vanno al di là degli ordinamenti sociali: libertà, diritto delle donne, lotta contro le discriminazioni, laicità, cultura, ecologia. Allo stesso tempo la sua lotta ha cambiato dimensione, perché è su scala mondiale che bisogna cercare di raggiungere il rispetto dei diritti, la redistribuzione delle ricchezze, lo sviluppo sostenibile».



Questa visione della sinistra è anche una proposta valida della Repubblica di oggi?



«Non bisogna confondere la Repubblica con la sinistra, che le ha comunque portato in dote una visione coraggiosa delle libertà e un forte ancoraggio rispetto alla questione sociale. Ilsocialismo democratico s’intreccia con il realizzarsi dei valori repubblicani. Ciò significa essere capaci di far avanzare l’umanità in una stessa direzione e di garantire a ciascuno l’uguale diritto di realizzarsi nella propria vita e di trasmettere ai propri figli la prospettiva di una vita migliore. A volte dimentichiamo che essere socialista significa credere nella fondamentale uguaglianza tra tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro origine, il loro colore, il loro sesso o il loro stato sociale,significa voler trasformare la società appoggiandosi sullo Stato o, in un senso più largo, sui pubblici poteri, perché vi includo le collettività territoriali e le grandi istituzioni sociali. Per uguaglianza non intendiamo solo l’uguaglianza dei diritti, ma soprattutto l’uguaglianza reale,che concerne la possibilità di aver successo nella società. Significa molto di più dell’uguaglianza delle possibilità, significa avere la possibilità dell’uguaglianza. Torniamo ancora a Jean Jaurès, il quale ha scritto: “Man mano che l’uguaglianza politica diventa un fatto compiuto, è la diseguaglianza sociale a urtare maggiormente gli animi”. I socialisti hanno lavorato per raggiungere quest’obiettivo, perché, come ricordava Léon Blum,“il socialismo è nato dalla coscienza dell’uguaglianza umana”» (...)



I valori di sinistra, ad oggi, sono quindi dei valori di unione?



«Certo, senza esitazioni. Per l’universalità che li caratterizza, per il fatto che sono nati dalla storia della Francia, possono contribuire a una maggiore democratizzazione della Repubblica e contribuire alla convivenza».



Fonte: L'Unità del 31 agosto 2012, pag. 9




Social Democracy after the Cold War — Social Europe Journal

Social Democracy after the Cold War — Social Europe Journal

giovedì 30 agosto 2012

Felice Besostri: Silone e Zizek

Rivoluzionari e riformisti, comunisti e socialisti nei tornanti del XXI° secolo: una riflessione partendo da Silone e Žižek
di Felice Besostri, Circolo LA RIFORMA*, Milano
Slavoj Žižek cita Alain Badiou (Introduzione a Logiken der Welten. Das Sein und das Ereignis2,Diaphanes, Zurigo, 2010, 17 ss) , per il quale una politica rivoluzionaria, che parte dagli antichi cinesi” Legalitari” fino a Lenin e Mao attraverso i Giacobini contiene 4 punti: 1)Volontarismo ,la convinzione, cioè che. si possono, “Spostare le montagne”, ignorando le leggi e gli ostacoli ”obiettivi”. 2)Terrore, la volontà senza riguardi di annientare i “nemici del popolo” 3) Giustizia ugualitaria, la immediata e brutale attuazione del diritto senza riguardo “alle complesse circostanze”, che ci costringerebbero a procedere piano e un passo alla volta 4)Fiducia nel popolo, ad esempio la “Grande verità” di Robespierre: “Un governo popolare deve avere fiducia nel popolo ed essere severo con se stesso” o la Critica di Mao all’opera di Stalin “Problemi economici del Socialismo nell’URSS”, al punto di vista staliniano, ritenuto “quasi completamente falso. L’errore principale è la sfiducia nei confronti dei contadini”(“die bösen Geister des himmlischen Bereich. Der linke Kampf um das 21. Jahrhundert”, Fischer, Francoforte s. M.,2011, 94).
Per Ignazio Silone(reprint dell’”Avvenire dei Lavoratori” a cura dell’Istituto Europeo di Sudi Sociali, Milano, 1992, 62,) quattro erano le questioni in forza delle quali si consumò la scissione tra comunisti e socialisti: “a)difesa nazionale o disfattismo; b) partecipazione ministeriale o opposizione sistematica; c)legalità o insurrezione; d) dittatura o democrazia.”( citazione in Felice Besostri, Silone e la visione europea del Socialismo, saggio dell’opera AA.VV., Zurigo per Silone. Le idee, Atti delle Giornate Siloniane in Svizzera ,vol. 2, L’Avvenire dei Lavoratori, Quaderni, Zurigo, 2011, 48).
La prima distinzione attiene alla divisione teorica tra rivoluzionari e riformisti, mentre la seconda a quella politica, in un momento dato, tra comunisti e socialisti e, pertanto, soltanto parzialmente sovrapponibili e/o coincidenti, ma tuttavia entrambi dimostrano la persistenza di atteggiamenti mentali, oltre che di comportamento politico, anche in assenza dell’esistenza concreta di proposte e programmi contingenti alternativi. Parlando dell’Italia e dell’Europa sicuramente, ma vale anche per la gran parte dell’America Centrale e Meridionale, non esistono movimenti di una minima consistenza che si definiscano rivoluzionari o che, comunque teorizzino la conquista del potere con la violenza per poter esercitare il terrore contro i nemici della Rivoluzione. Le uniche forme( ma con obiettivi ben poco attinenti con l’instaurazione di una giustizia sociale ugualitaria)rivoluzionarie ancora in atto sono quelle nazionaliste secessioniste( in Europa gli unici focolai sono nel Caucaso, dalla Cecenia, all’Ossezia del Sud e all’Abkazia, oltre che nel Kurdistan turco, dopo la cessazione della lotta armata nell’Irlanda del Nord e nei Paesi Baschi) e quelle integraliste religiose islamiche .In Italia non esistono eredi diretti della tradizione comunista e socialista, in grado di polarizare il dibattito a sinistra(Rifondazione Comunista e PdCI da un lato e PSI dall’atro non hanno la consistenza del PCI e del PSI d’antan Tuttavia esistono divisioni profonde a sinistra, che non sembrano ricomponibili, a meno che nasca un progetto comune dalla critica al sistema economico e sociale esistente e da una proposta di un suo superamento, anche come uscita dalla crisi economica e finanziaria. L’ordine capitalista sta, infatti erodendo, anche le conquiste tradizionali della socialdemocrazia come il welfare state, cioè del compromesso tra movimento dei lavoratori e capitalismo. Di più il liberismo economica prima e ora le ricette per uscire dalla crisi, minacciano l’esistenza stessa della democrazia, come forma di governo, sia come critica dell’incapacità democratica di risolvere problemi complessi in un mondo interdipendente e globalizzato, che della convinzione della necessità di passare dal consenso democratico alla coercizione e repressione sociale, per imporre le politiche richieste dai “mercati” e, quindi, con la sospensione quantomeno temporanea, delle garanzie e procedure tipiche della democrazia. Il nodo della dimensione nazionale dello Stato democratico è quello principale che deve essere sciolto, ma non da solo perché vi è anche quello tra capitalismo, specialmente nella sua fase di massima espansione finanziaria e pertanto svincolato da un territorio e politica delle istituzioni, che, invece, ad un territorio sono indissolubilmente vincolate. In attesa di un governo mondiale c’è un terreno nel qual si possono compensare le diverse esigenze, cioè in uno Stato di dimensione continentale, che sia anche attore primario nelle organizzazioni internazionali e sovranazionali. Resta tuttavia aperto il problema della natura di questo stato se democratico federale o autoritario confederale. Quanto è lontano il dibattito nelle istituzioni e nei singoli partiti da questi temi centrali, ad illustrare la distanza tra mondo politico e interessi concreti del popolo bastano gli scenari creati dalle elezioni anticipate siciliane Si deve, tuttavia, riconoscere un merito agli attori politici siciliani, quello di aver rinunciato ad ogni forma di ipocrisia, che come si sa è, comunque, un omaggio del vizio alla virtù, la lotta politica è lotta pura di potere di uomini contro altri uomini: le ragioni ideologiche o politiche di questa lotta sono secondarie e comunque sullo sfondo. Alleanze o rotture di alleanze sono subordinate ad una logica di vantaggio per la propria formazione, soprattutto del suo gruppo dirigente e negli ultimi tempi, addirittura del suo capo: da qui il disinteresse per i programmi e persino per le stesse regole del gioco( legge elettorale). La forza del porcellum e delle idee che l’anno ispirato è tutta qua: il potere assegnato alle nomenklature di comporre il Parlamento attraverso le liste bloccate e di predeterminare gli assetti prima delle elezioni, che in assenza di etica politica, non possono che fondarsi su meccanismi legali, quali i premi di maggioranza collegati ad un’elezione diretta o semidiretta del capo dell’esecutivo, a prescindere dalle forme di governo delineate nella Costituzione, che nel nostro caso è una forma di governo parlamentare a prevalenza assembleare. In nome del mito della scelta del governo da parte degli elettori, li si espropria del potere vero di scegliere i propri rappresentanti, legati ad un progetto politico ben preciso: il voto libero, uguale e diretto si trasforma in una camicia di Nesso, in cui partiti, non soggetti ad alcuna legge e a statuti democratici con controllo giurisdizionale, predeterminano il risultato indipendentemente da un consenso maggioritario, in voti o in seggi come risultato di diretta espressione elettorale( quindi indifferentemente che si voti con sistemi elettorali proporzionali o maggioritari), che è l’essenza della democrazia. Certo c’è la libertà di votare per una proposta bloccata o per l’altra o di non votare, ma in tale ultimo caso, di lasciare la scelta ai votanti, anche se fossero la minoranza del corpo elettorale: per le elezioni politiche non c’è la clausola della nullità del risultato elettorale, se non partecipa la maggioranza degli elettori, come nelle elezioni comunali o come era previsto nelle elezioni sovietiche( in tal caso con la sicurezza che l’ipotesi non si sarebbe verificata). Nel nostro sistema elettorale, benché tardivamente previsto nella legge delega n. 69/2009(art. 44) agli elettori è persino sottratto, caso unico in Europa, il diritto di opporsi all’ammissione e di liste o di candidati o, come semplici iscritti alle liste elettorali, di concorrere al finanziamento di liste avversarie, anche se fossimo stati candidati o ci fossimo astenuti dal partecipare alle elezioni o avessimo votato bianco o nullo ( anche in questo siamo un caso unico nei paesi che prevedono un rimborso elettorale. Ciliegina: a dispetto dell’art. 51 Cost.( concorrere in condizione di uguaglianza alle cariche elettive) una serie di norme favoriscono le forze già presenti nelle istituzioni, rispetto a nuovi soggetti politici potenzialmente concorrenti, sia con le formalità per la presentazione di candidature e/o liste sia con le norme sui rimborsi elettorali, poiché si tenta di estendere il modello europeo e regionale, per cui il diritto al rimborso spetta unicamente se si ha un eletto ( pensare che la norma era stata adottata per finanziare chi non avesse raggiunto almeno l’1%), che con l’introduzione di una soglia di acceso fa coincidere soglia per l’elezione e soglia per aver diritto ad un rimborso, altra unicità italiana. Per esempio in Germania con una Sperrklausel del 5% il rimborso spetta, in seguito ad una sentenza di quella Corte Costituzionale, più vigile della nostra nell’applicare la stessa norma del voto libero, uguale e diretto, a chi abbia conseguito lo 0,5%. In conclusione una forza politica, che si sia presentata senza successo ad un turno elettorale, è esclusa dalla possibilità di ripresentarsi, se a capo non c’è un uomo ricco di suo( p.es. Montezemolo) o perché comico di successo(Grillo). Non c’è un dibattito pubblico sulla nuova legge elettorale, ma nemmeno tra i partiti e nei partiti, appena si esce dalla ristrettissima cerchia degli esperti PD, PdL e UDC, che stanno tentando, con estrema difficoltà, di trovare un’intesa: parafrasando Ciu en Lai su USA e URSS, dormono nello stesso letto, la maggioranza della fiducia a Monti, ma fanno sogni differenti e per di più è un menage a trois. Come unico correttivo ci sono le Primarie, che, a parte casi come Milano e Genova, sono un rito collettivo di investitura, più che di scelta del miglior competitore e su una base privata e volontaristica dei singoli partiti, senza una base legale e senza efficaci controlli giurisdizionali, a prescindere dal fatto che quando non sono interne ad un partito, come negli USA, hanno una funzione equivoca di scelta di candidato e di programma: il rispetto dei risultati è per di più aleatorio, come il caso di Palermo ha dimostrato. Tanto che non si sono neppure pensate in vista dell’elezione anticipata dell’Assemblea Regionale Siciliana, dove sarebbero state necessarie per evitare una divisione esiziale per una prospettiva di vittoria della Sinistra.
Una difficoltà ulteriore è che non ci sono luoghi, sia nel senso di spazi fisici o di riviste, comuni di discussione, in cui confrontare anche progetti alternativi per una sinistra non subalterna, da qui l’idea di un contenitore come gli Stati Generali della Sinistra, anche se i risultati di quelli del febbraio 1998 a Firenze sono stati deludenti rispetto alle intenzioni. Di fondo c’è l’idea che confronti non precostituiti diano comunque un impulso di rinnovamento, sia di idee, che di gruppi dirigenti, di cui si avverte la necessità.
TILT CAMP, Marina di Grosseto, 30 agosto 2012
*Il Circolo LA RIFORMA è affiliato al Gruppo di Volpedo(www.gruppodivolpedo.it) e al Network per il Socialismo Europeo(www.melogranorosso.eu )

Publications | Levy Economics Institute of Bard College

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mercoledì 29 agosto 2012

"Grecia, basta con la speculazione" | EU Progress

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L'Olanda alle elezioni, le ragioni dei socialisti anti-austerità / globi / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

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lunedì 27 agosto 2012

Nerio Nesi: Le banche della crisi

Le banche della crisi
di Nerio Nesi

Si discute molto se e in quale misura il sistema bancario internazionale sia responsabile della tremenda crisi che sta sconvolgendo il mondo, o se, al contrario, sia esso stesso vittima di questa crisi. Si pone in sostanza il problema del rapporto tra economia "monetaria" e economia "reale", al quale - durante la Grande Depressione - John Maynard Keynes dedicò riflessioni ancora attuali.

Sta di fatto che, per ora, l'intervento simultaneo di tre grandi banche centrali - la Banca Centrale Europea, la Banca Centrale Inglese e la Banca Centrale Cinese - non è stato sufficiente a ridare fiducia. Resta ancora la speranza nell'intervento della Banca Centrale più potente del mondo - la Federal Reserve americana. Ma se anch'esso dovesse apparire inutile? Il pensiero corre alla economia reale come base di una politica radicalmente diversa da quella basata sulla finanza.

. Parole sacrosante, di cui feci tesoro quando, molti anni dopo, divenni presidente di quella che era allora la più importante banca italiana.

Le responsabilità delle banche
Ma allora, quali sono le responsabilità delle Banche? Bisogna partire da lontano. Il 16 giugno del 1933, il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, promulgava la legge bancaria nordamericana, che portò il nome di Glass-Steagall Act. Essa decretò la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Tre anni dopo, nel 1936, la legge bancaria italiana stabilì regole pressoché identiche. Quelle regole furono successivamente abolite, sia negli Stati Uniti sia in Italia e le conseguenze sono evidenti.

Negli anni Settanta i governi della destra nordamericana, durante le presidenze Reagan e Bush, modificarono profondamente la concezione stessa del credito, una deregulation finanziaria radicale. Negli anni successivi, gli stessi governi, ma anche quelli di diverso colore, smantellarono la regolamentazione dei prezzi amministrati, ed in particolare quella dei prodotti energetici (gas ed elettricità). Fu in quegli anni che si verificò la più grande truffa nella storia americana contemporanea: il caso "Enron", il gigante texano, che era stato considerato l'emblema di un uovo modello di gestione. Enron, nata nel 1986, fallì il 2 dicembre 2001, trascinando nel disastro decine di migliaia di operai, di tecnici e di piccoli azionisti.

Enron fu l'epilogo di una deriva nata da una disinvolta deregolamentazione, che portò la liberalizzazione totale nel mondo della finanza, sganciandola dall'economia reale. Entrano in questo quadro anche l'involuzione delle società di auditing, la cui etica professionale è stata "distratta" dai conflitti di interessi; il venir meno di un rigoroso controllo esterno degli analisti finanziari, anch'essi distolti dal loro ruolo da interessi divergenti delle investment bank per le quali lavorano; la leggerezza con la quale il mondo accademico e la stampa anche specializzata hanno seguito vicende che contenevano i germi della successiva involuzione.

Nel 2008, si verificò un secondo caso: il fallimento del colosso finanziario “Lehman Brothers”, clamoroso non solo per la sua portata, ma anche perché le autorità nord americane - nonostante la fortissima pressione del mondo finanziario - non intervennero in suo soccorso. Le stesse autorità intervennero - al contrario - per salvare le due grandi agenzie di prestiti immobiliari “Freddie Mac” e “Fannie Mae”. A proposito di quel salvataggio, Mario Monti dichiarò (Sole24Ore del 22 agosto 2008): ed aggiunse

Nel frattempo, la Morgan Chase e la Goldman Sachs pagarono - per evitare una inchiesta su frodi ai propri clienti - multe rispettivamente di 285 e 550 milioni di dollari.
A sua volta, nello stesso periodo, JPMorgan denunciò la perdita di due miliardi di dollari per scommesse temerarie sui famigerati "prodotti derivati". I derivati, appunto, saliti oggi a un volume di 650 mila miliardi di dollari: circa 14 volte - è stato calcolato - la capitalizzazione delle Borse mondiali: cifra gigantesca, che indica, con la prepotenza dei numeri, che, nella gerarchia dei più gravi fattori di instabilità finanziaria, emerge proprio l'incontenibile attrazione delle banche, in particolare quelle americane, verso gli azzardi speculativi più avventati.

Finalmente, siamo nel 2010, il governo degli Stati Uniti decide una riforma globale del sistema finanziario che assume il nome di Wall Street Reform Act. Questa riforma, nelle intenzioni del Presidente Barack Obama, dovrebbe riformare un sistema finanziario evidentemente marcio, instaurare regole di trasparenza sui derivati, impedire alle banche di fare scommesse arrischiate con i soldi dei risparmiatori e con la garanzia dei contribuenti. Purtroppo, in due anni, solo 123 dei 398 regolamenti previsti da quella legge sono entrati in vigore, perché la reazione degli interessi colpiti è stata ed è talmente forte da bloccare - con ogni mezzo - una riforma tenacemente voluta dal Presidente degli Stati Uniti. Il che dimostra che il Parlamento di Washington non ha molto da insegnare a quello di Roma e se questa è la situazione del sistema bancario nordamericano, non meglio si presenta quella europea.

Banche inglesi
Cominciamo dalla City inglese, una volta tempio della finanza mondiale, anche sul piano etico, ora in preda alla deregulation del 1984, voluta dalla Signora Thatcher. E partiamo dallo scandalo della Barclays Bank, seconda banca inglese per ammontare delle attività, con oltre trecento anni di storia, grande protagonista della finanza internazionale, fino a ieri, simbolo della rispettabilità bancaria della City dove vige il motto (la mia parola è il mio impegno). L’affare Libor (cioè la scoperta della contraffazione sistematica della documentazione dei parametri con i quali si stabiliscono i tassi base dei rapporti interbancari) ha mandato in frantumi la credibilità della Banca stessa,, ma ha anche minato la fiducia del mondo verso Londra e verso la amministrazione britannica, evidentemente incapace di esercitare anche i più semplici controlli. In molte parti del mondo lo scandalo ha comportato la necessità di una revisione del modo in cui vengono fissati i tassi interbancari: dalla “Hong Kong Association of Banks”, alle autorità di Singapore, all'associazione bancaria giapponese.

Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea ha dichiarato:

Banche spagnole
E veniamo alla Spagna. Il caso del sistema bancario spagnolo è impressionante, tenendo conto che si tratta di uno dei grandi Paesi d'Europa. Il governo spagnolo ha chiesto 100 miliardi di euro per colmare il deficit patrimoniale dell'intero sistema (Casse di Risparmio e Banche regionali), con esclusione dei due colossi, il Banco di Santander e il Banco di Bilbao. Queste cifre mettono in chiara evidenza la responsabilità dell'intera classe dirigente spagnola: quella politica, quella imprenditoriale e quella finanziaria. Troppi denari prestati a pioggia all'unico vero settore produttivo del Paese, quello delle costruzioni. Il miracolo spagnolo di fine anni 90 e primi anni Duemila era tutto derivante dal mattone, da quella corsa a costruire case, alberghi, infrastrutture, tutto con soldi a prestito.

Lo scoppio della bolla immobiliare ha scoperchiato un gioco pericoloso e fin troppo facile. Quei prestiti con i prezzi a cadere a piombo e la massa di residenze invendute si sono trasformati in perdite per le banche. Gran parte degli analisti ritiene che almeno la metà dei 300 miliardi dati ai costruttori immobiliari diventeranno perdite secche per il settore del credito. A questi 150 miliardi andranno ad aggiungersi con ogni probabilità circa 90 miliardi di sofferenze legate a mutui, credito al consumo e prestiti alle imprese. Cifra approssimata per difetto con la recessione che morde e la disoccupazione alle stelle. Il miracolo spagnolo era in realtà un castello di sabbia tutto costruito sul debito e crollato alle prime avversità.

Banche italiane
E il sistema bancario italiano? Le nostre banche non presentano finora situazioni drammatiche come quelle di altri grandi Paesi. Ma sono accaduti in questi anni, in Italia, alcuni episodi che ne caratterizzano la natura: il caso Ligresti, il caso Banca Popolare di Milano e il caso Monte Paschi di Siena. Il caso Ligresti è una dimostrazione della inefficienza del sistema di controllo delle autorità statali italiane, politiche e monetarie. Nel caso specifico, la Consob e l'Isvap hanno permesso per anni alla famiglia Ligresti di fare esattamente quello che le conveniva. A loro volta, alcune banche hanno concesso alla stessa famiglia crediti di varia natura, molto al di là dei famosi criteri del "buon padre di famiglia". Debbo a questo proposito riconoscere alla dirigenza della Banca Nazionale del Lavoro, di avere avuto, negli anni `80, la capacità professionale e la dignità civile di opporre dei motivati "no" alle domande di credito presentate dal signor Ligresti, che avevano uno sponsor allora potente, Bettino Craxi. Il caso della Banca Popolare di Milano è la prova della estrema difficoltà - per non dire della incapacità - del Sindacato interno di gestire una grande banca.

Il caso del Monte dei Paschi di Siena (la terza - si dice - Banca italiana) è il più complesso, perché in esso si intrecciano, si scontrano, si ricompongono gli interessi di un insieme di potenti organizzazioni, di varia e talvolta oscura natura e di un gruppo di personaggi locali - per nascita e valore - che si alternano in ruoli apparentemente diversi: fondazione - banca - amministrazione cittadina - parlamento - varie. E' molto indicativo il fatto che uno dei suddetti personaggi sia diventato, recentemente, il Presidente della Associazione che comprende tutte le Banche italiane. E' infine singolare il fatto che le autorità politiche e monetarie nazionali non abbiano esitato a correre in soccorso di quella banca: e ciò senza esigere nulla. Ha ragione Massimo Mucchetti quando osserva: chi salva una impresa ha il diritto-dovere di esprimere i nuovi amministratori della medesima. Perché questa regola fondamentale non è stata applicata in questo caso

Conclusioni
La situazione attuale tra origine dalla incapacità o dalla non volontà di governare la finanza globale, e dal comportamento che il sistema del credito ha tenuto, per contagio, quando in Europa si sono cominciati a recepire alcuni dogmi - a mio avviso nefasti - importati dall'America: macinare profitti spostando la attenzione dalla economia delle imprese, dei servizi, dell'artigianato e delle famiglie, alla speculazione finanziaria. L'errore clamoroso degli americani fu la decisione di liberalizzare senza controlli. , era lo slogan. Che funziona finché l'economia va bene, ovvero in condizioni di normalità. Mentre è ormai dimostrato che in periodi di forte stress - soprattutto se indotto da una folle speculazione - il mercato non è assolutamente capace di autoregolarsi.

Proprio quel mercato senza controlli, irrorato di liquidità abbondante, a tassi via via calanti, ha portato agli eccessi che oggi purtroppo conosciamo. grandi operatori hanno esaltato l'utilizzo della leva finanziaria, costruito e commercializzato prodotti strutturati poco comprensibili e poco trasparenti: strumenti finanziari con alti rendimenti perché connessi a un rischio artificiosamente reso non percepibile per gli acquirenti. Hanno puntato tutto sulla finanza, sugli swap, sulle cartolarizzazioni. Analisti finanziari e investitori hanno enfatizzato la necessità di obiettivi di rendimento elevati, ed hanno spinto le imprese finanziarie ad accelerare la produzione di ricchezza nel breve. Le grandi banche d'affari si sono indebitate fino al 30,40 persino 50 volte il patrimonio. Finanza facile e senza controllo, cui si è aggiunta l'esplosione della domanda di mutui, favorita dalla crescita delle quotazioni immobiliari. Si è incentivato l'acquisto della casa anche da parte di persone con basso reddito e con scarsa capacità di rimborso. Sono stati abbassati gli standard per la concessione del credito ed è così cominciata la stagione dei mutui subprime.

Che fare?
Nel fascicolo The World in 2008 edito alla fine del 2007, The Economist dedicava un articolo intitolato: Ritorno ai fondamentali, con il significativo sottotitolo E' il tempo che il sistema bancario impari di nuovo a fare il proprio mestiere. . L'appello della più autorevole pubblicazione economica del mondo è finora rimasto inascoltato. Le banche di tutti i Paesi hanno continuato a indirizzare le proprie gestioni aziendali sul versante della finanza piuttosto che su quello della economia reale, più sull'immediatezza dei risultati che sulla durata degli investimenti, più sull'espansione dei bisogni che sulla valorizzazione e la tutela del risparmio, più sulla internazionalizzazione degli affari che sulle esigenze del proprio radicamento, più sull'accorpamento tra banche che non sulla loro crescita, più sull'esaltazione delle specializzazioni professionali esterne che sul valore intrinseco del proprio personale interno. La strada da percorrere è la graduale revisione di questa strategia. Carlo Salvatori, uno dei più autorevoli banchieri italiani, ha scritto recentemente: . Non aggiungo nulla a queste previsioni.

DEBITO E QUEL DECALOGO DI FASSINA - politica, economia. governo - | Sindacalmente

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"Troppo di sinistra": per la Bbc la statua di Orwell non s'ha da fare - LASTAMPA.it

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Dom Mintoff : Gennaro Carotenuto – Giornalismo partecipativo

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Fabian Society » For the Public Good: Our vision for public services

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Peppe Giudice: I limiti di PD e Sel

I limiti del PD e di SEL

Come ho già detto, credo che solo su un asse PD-SEL oggi si possa ricostruire in Italia un centrosinistra in grado di dare un minimo di risposte alla gravissima crisi che attraversa il nostro paese e che rappresenta la sintesi e l’intreccio della crisi politica determinata dalla putrefazione della II Repubblica con la crisi internazionale del capitalismo che attraversa tutti.
Ho anche detto che se, realisticamente, un patto PD-SEL è la migliore soluzione possibile nelle condizioni date, sono consapevole dei limiti e delle contraddizioni non risolti che attraversano entrambi i soggetti (ovviamente più il PD che SEL).
Pertanto, se da un lato dobbiamo operare perché questo asse non venga meno, al tempo stesso dobbiamo rimarcare quei limiti che sono ancora forti e presenti verso una evoluzione della sinistra di governo verso il socialismo democratico. Questa almeno è la mia posizione personale. Io sono stato un intransigente e radicale critico sia della III via di Blair che della “Neue Mitte” di Schroeder. Lo sanno tutti. E quindi non mi dilungo. Però ho l’impressione che spesso Blair e Schroeder, in una fase in cui sono entrambi fuori gioco e il socialismo europeo in larga parte ha preso da tempo le distanze da quelle posizioni, vengano usati strumentalmente contro il PSE in genere. Sulla presa di distanza dal blairismo basta leggere il Manifesto per una Europa Sociale del 2007 (5 anni fa) scritto da Delors ed approvato dal PSE. Oggi anche la parte moderata della SPD (che certo non convince su alcune cose) punta sulla patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, separazione tra banche di deposito e banche d’affari: tutte cose che con Blair e Schroeder c’entrano molto poco. Poi naturalmente ci sono le posizioni della Kraft che sono molto più radicali. Quindi, in questa continua giaculatoria sul blairismo io sospetto la suddetta strumentalità. Per non affrontare di petto i nodi irrisolti della sinistra italiana. Uno dei quali è certamente l’assenza di una chiara scelta di quadro in cui operare e senza la quale non esiste un elemento normativo che orienti le scelte politiche. Fuor di metafora: sono giuste le critiche al socialismo europeo quando opera delle derive che lo allontanano dai suoi principi, ma tale critica ha valore se avviene all’interno di quella precisa scelta di quadro di cui ho detto. Altrimenti temo serva per altri scopi: credo soprattutto per screditare la socialdemocrazia in quanto tale (quante volte in questi anni è stata chiamata in causa la povera Rosa Luxembourg che Stalin definì come la sifilide del marxismo). Del resto se la critica alla socialdemocrazia (utilizzando il fantasma ideologico del blairismo) deve giustificare una posizione di euroscetticismo radicale come quella dell’economista postsessantottino Cesaratto (a mio avviso esponente di un marxismo strutturalista e determinista che poco c’entra con il socialismo democratico) , beh non ci siamo proprio. Non perché mi piaccia l’europeismo ipocrita e di maniera (speculare nel suo fondamentalismo all’euroscetticismo) ma perché sono convinto che solo in una dimensione sovranazionale si possa impostare un progetto di socialismo democratico nel XXI Secolo. Con tutte le difficoltà oggettive, Ma preferisco mille volte Hollande a Chavez.
Per quanto riguarda gli economisti, ricordo sempre che l’economista Giorgio Ruffolo, ricordava spesso che Keynes diceva di non prendere gli economisti troppo sul serio. Del resto proprio Keynes e Sraffa , secondo pareri autorevoli, sono quelli che hanno dimostrato la limitatezza stessa della scienza economica, che ha bisogno di essere integrata da altre discipline come l’antropologia economica di Polanyi e la psicanalisi della società di Fromm. Insomma gli economisti possono fornire un quadro descrittivo delle dinamiche in corso e dei rapporti di forza, ma non possono delineare un progetto che solo la politica può offrire ( a meno di un cadere in un cupo fatalismo economico).
Ma torniamo ai limiti del PD, su cui spesso mi sono dilungato. Quindi sintetizzerò. Il PD nasce su un esplicito rifiuto del socialismo, sulla pretesa provinciale (Massimo Salvadori lo mise in luce impietosamente) di unificare indeterminati riformismi e soprattutto nel voler unificare gli eredi del bipartitismo imperfetto che ha impedito la democrazia dell’alternativa in Italia. Se andiamo a scavare in profondità vedremo che quel bipartitismo imperfetto è la radice della crisi della I Repubblica (che comunque ha costruito la democrazia). Quindi il PD è il luogo di incontro di post-dc e post-pci con poche idee. Paolo Borioni dice che nel PD si deve più spazio alla cultura socialista. Concordo ovviamente. Ma temo che per fare questo bisognerà mettere in discussione le basi fondative stesse del PD. La esclusione della cultura socialista non è ovviamente frutto della distrazione e non avviene per caso. E’ che essa è elemento di conflitto con l’idea di compromesso storico postmoderno su cui si è fondato il PD. E sulla pretesa della separatezza dell’Italia rispetto alla politica europea. Del resto i più provinciali sono stai proprio Berlinguer e De Mita (i quali entrambi svalutavano il ruolo dei socialisti in Italia). Molti avranno notato, come in questo ultimo anno io abbia accentuato la mia posizione critica verso il comunismo italiano. Non è un problema di pregiudizio anticomunista (i miei nonni sono stati nel fronte Popolare) ma di un serio interrogarsi sul fatto di come i post-PCI abbiano sempre rifiutato un approccio serio alla socialdemocrazia. Parliamoci chiaro: l’89 ha dimostrato il pieno fallimento del comunismo. Ovviamente anche i partiti comunisti revisionisti come il PCI hanno dovuto prendere atto che venendo a mancare l’Unione Sovietica saltava la ragione fondativa del PCi stesso. E di conseguenza non c’era altra via che fare un nuovo partito. Diciamo pure che il crollo dell’URSS e dei suoi satelliti in quel modo rapido ha colto di sorpresa un po’ tutti a destra e sinistra. Si sapeva che quei regimi erano in profonda ed irreversibile crisi da tempo ma immaginare un crollo simultaneo come castelli di sabbia nessuno lo avrebbe previsto. Ma il nuovo partito non approdava al socialismo democratico. Ci si arrampicò sugli specchi per dimostrare che il 900 era finito ed insieme al comunismo crollava anche la socialdemocrazia (questa tesi, guarda caso, fu ripresa da Giddens il teorico di Blair). Si cercò nel nuovismo americanizzante, nel giustizialismo, nel togliattismo senza comunismo di D’Alema le ragioni d’essere del nuovo partito. Ma mai nel socialismo europeo (a cui si diede una adesione burocratica). In realtà il PCI è sempre stato molto lontano dal socialismo democratico. Non confondiamo i paradigmi organizzativi con la cultura politica. Non condivido l’eccesso di critica ai miglioristi (negli anni 80 cercarono di non far rompere i fili unitari a sinistra) ma non c’è dubbio che dietro la loro vicinanza alla socialdemocrazia c’era piuttosto l’ammirazione per una versione debole e governista della socialdemocrazia intrecciata con un certo liberalismo einaudiano (il presidente Napolitano ne è testimone vivente) ed addirittura (in Amendola) con il filo-sovietismo! Berlinguer rifiutava esplicitamente la socialdemocrazia e la democrazia dell’alternativa. Non riuscì ad uscire fuori della democrazia organicista di Togliatti che per me è la variante italica della “democrazia popolare” della Polonia. Del resto anche in Polonia c’era un pluralismo formale (partito agrario , ecc) ma era un fatto larvale e guidato dall’alto. Se si nega l’aspetto conflittuale della democrazia e quindi la possibilità delle alternative si ha solo una democrazia addomesticata e totalizzante. Senza contraddittorio, senza autonomia dei gruppi sociali dal partito , non c’è democrazia vera. Alla fine l’unica vera anima socialista che stava nel PCI era quella sindacale di Di Vittorio, Lama e Trentin, ma questa ha sempre contato poco nel partito e nella gestione della linea politica. Con questo ragionamento non voglio certo dire che i socialisti italiani hanno avuto sempre ragione. Anzi hanno fatto errori gravi (come quello del Fronte Popolare che causò la scissione del 1947 e poi il Pentapartito). Però è il PSI degli anni 60, l’unico a sviluppare una cultura ed un progetto di socialismo democratico forte con Lombardi, Giolitti, Santi, Brodolini. Questa cultura tramite l’incontro con la sinistra DC (prima Fanfani, poi Sullo e Donat Cattin) che determinò il più forte processo riformatore mai avuto nell’Italia repubblicana. Un processo parziale per effetto del narcotizzante moroteo, ma comunque il più importante.
Non si comprendono i limiti del PD senza questa lunga premessa. Naturalmente Bersani qualche novità positiva l’ha immessa rispetto a Veltroni. Ma è lunga la strada, perché tra i postcomunisti non si sono mai affrontati sul serio i nodi irrisolti. Sulla questione socialista, la difficoltà ad assumerla come parte integrante di se stesso, come ho già detto, dipende dal fatto che la cultura socialista è confliggente con le ragioni su cui è nato il PD, perché è configgente sia con il nuovismo sia con il compromesso storico che diventa partito. Nel momento in cui la si assumerà il PD va in pezzi. Di questo credo dobbiamo essere consapevoli. Per quanto riguarda SEL il suo limite è il residuo di postessantottismo che si porta appresso. Ma al tempo stesso c’è una maggiore apertura alla cultura socialista. Più da Vendola, che dal berlingueriano-veltroniano di sinistra Mussi.
Io credo che la rivalorizzazione della cultura socialista, non è semplicisticamente un risarcimento dovuto ad una ingiusta demonizzazione. Io sono personalmente convinto che essa serva a ricostruire la sinistra. Soprattutto se essa assume il socialismo europeo come scelta di quadro. Non basta un generico progressismo.

Peppe

Sergio Ferrari: Alcune postille per abbattere il debito e rilanciare lo sviluppo

Circolo Rosselli Milano Attualità politica: Sergio Ferrari: Alcune postille per abbattere il debito e rilanciare lo sviluppo

domenica 26 agosto 2012

Appello di Livorno

Appello di Livorno
Noi della LdSL, a conclusione del convegno che abbiamo tenuto a Livorno il 5-8 scorso sulla scadenza politica degli stati generali lanciati da Nichi Vendola e approvati dall’ assemblea nazionale di SEL del 27-05-12, riteniamo in primo luogo che tale appuntamento debba essere concretizzato al più presto, nella forma di Stati Generali del futuro della sinistra, con ciò intendendosi non tanto un’ iniziativa scaturente da accordi tra “stati maggiori” di partiti, ma piuttosto un indispensabile momento politico in cui sia data voce essenzialmente al popolo di tutta la sinistra.
L’ obiettivo non può che essere quello di verificare i caratteri identitari della nuova sinistra, a partire dal superamento dell’idea delle cosiddette due sinistre e che sia sinistra di popolo, consapevole e sensibile anzitutto alle condizioni di vita sempre più precarie che riguardano la maggioranza dei cittadini ed a cui il governo dei tecnici non è stato in grado di fornire una risposta soddisfacente, essendosi limitato a gravarli di sacrifici.
Siamo coscienti che una siffatta impostazione pone immediatamente il problema della natura stessa del più rilevante partito del centrosinistra, il PD.
D’ altra parte siamo convinti che questo partito, che pure deve sciogliere dei nodi, debba necessariamente essere un importante interlocutore di tale appuntamento, tanto più in un contesto di intese politiche che preludono ad un’ alleanza elettorale sull’asse preferenziale PD-SEL e nella quale appare acquisito un ampio raccordo comprensivo di parte significativa della FED e anche dallo stesso PSI. Gli Stati Generali della sinistra non devono escludere a priori nessuna forza o movimento di sinistra, che voglia partecipare ad una proposta di governo del paese e non confinarsi in una testimonianza o sterile protesta
Riteniamo peraltro, per lo stesso successo del percorso intrapreso, che sia indispensabile andare ad una verifica popolare anche delle intese sin qui intercorse, avendo il coraggio di sfidare le consuete logiche della politica politicante, ribadendo la validità del progetto di una vasta Sinistra organizzata, per l'inequivocabile alternativa all'egemonia della finanza globale.
Noi vogliamo, come indicato nello stesso documento di SEL del 27-05 scorso, che la politica ritorni ad essere un bene comune, a disposizione di tutti quelli che vogliano contribuire con il loro personale e disinteressato impegno al cambiamento.>
Orbene, nel richiamare i contenuti programmatici di un altro documento di SEL “ E’ ora di cambiare”, ci sembra fondamentale che venga anzitutto chiarito in quale coerente contenitore tali contenuti possano inquadrarsi e in quale famiglia politica europea collocarsi.

Tale famiglia non può che essere quella del Socialismo europeo, che abbiamo il compito di stimolare, soprattutto con l’ affermarsi delle politiche di Hollande come riferimento per molti, perché definisca con chiarezza un modello economico alternativo a quello di stampo monetarista, formulando un adeguato programma di governo nel senso contrario, cooperativistico, solidaristico, ecologista e basato sul principio di sviluppo sostenibile, che parta dalla indicazione di voler modificare in tal senso gli attuali Trattati di segno mercantilista e di totale predominio di organismi non eletti democraticamente.
Si tratta di contrapporvi in alternativa l’Europa dei popoli, politica e federalista
Il tempo d’ altronde stringe, anche le Elezioni europee sono oramai alle porte.
Il secondo carattere identitario deve essere quello di rimettere al centro il valore del lavoro, il suo peso costituzionale, la dimensione costitutiva del patto di cittadinanza e le alleanze sociali che esso implica tra tutti coloro che vivono del proprio lavoro.
Il terzo carattere identitario, in presenza della realizzazione del disegno di destra che ha sostituito l'impianto economico e le finalità sociali dell'economia previste dalla Costituzione italiana con quelle liberiste della imperante globalizzazione governata da multinazionali e istituti finanziari sovranazionali non può che essere un forte richiamo ai principi costituzionali.
Porre al centro del “profilo identitario” della sinistra italiana il legame alla famiglia del Socialismo europeo, il Lavoro e la Costituzione italiana, diventa fondamentale per un realistico progetto di alternativa.
Pertanto riteniamo che gli Stati Generali annunciati ci devono essere, anche in quanto necessari per determinare lo spostamento a sinistra dell’asse programmatico di qualunque accordo si ritenesse di confermare con il PD.
Nel nostro Paese in ogni caso una sinistra seriamente in cerca d’identità deve prendere coscienza, che non c’è sinistra senza una critica dell’ordine economico e sociale esistente e senza la volontà e la capacità di proporre un modello economico alternativo, peraltro già previsto nella parte economica della Costituzione, e con valori dominanti diversi da quelli del mercato e del profitto ad ogni costo: altrimenti sarà sempre sconfitta dovesse anche vincere le elezioni.
Su queste basi, e non su richiami puramente nominalistici al passato, chiamiamo le associazioni e i circoli socialisti impegnati per un’ alternativa politica e culturale al sistema esistente, a dare unitariamente il proprio contributo affinché gli Stati Generali del futuro della sinistra ci siano, dichiarandosi disponibili a partecipare alla loro progettazione e organizzazione e affinché vengano qualificati da un progetto di trasformazione sociale e di governo, certo all’ altezza delle sfide dei nostri tempi ma soprattutto dei bisogni concreti che salgono dalla gente.
Chiediamo pertanto ampia adesione a questo appello, in primo luogo ai partecipanti del convegno, ma anche a quanti altri circoli e associazioni nazionali e territoriali condividano i contenuti di tale nostro appello.
Livorno, 24 agosto 2012


LEGA DEI SOCIALISTI DI LIVORNO

CIRCOLO "Guido Calogero-Aldo Capitini" GENOVA




Sergio Cesaratto: Politica&EconomiaBlog: Un'agenda per l'autunno. Un articolo su il manifesto

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Perché Monti preferisce l’IMU e non la Patrimoniale - Inchiesta : Inchiesta

Perché Monti preferisce l’IMU e non la Patrimoniale - Inchiesta : Inchiesta

Renzo Penna: Ilva: ambiente, Costituzione, sindacato e politica subordinata

ILVA: AMBIENTE, COSTITUZIONE, SINDACATO E POLITICA SUBORDINATA

di Renzo Penna

Nei confronti dei giudici di Taranto che si sono occupati dell’Ilva e hanno disposto il blocco della produzione sino a quando l’impianto non sia dotato di adeguate tecnologie antinquinamento, l’atteggiamento del governo e delle principali forze politiche è stato, almeno nella prima fase, di irritazione se non di aperta ostilità. L’esecutivo pareva seriamente intenzionato a impugnare la decisione del Gip sollevando un conflitto di competenze e a preoccupare il governo - sosteneva un po’ a sorpresa il ministro dell’Ambiente Clini - non erano tanto i tassi di inquinamento e i rischi per la salute di lavoratori e cittadini, ma il fatto che le decisioni del tribunale potessero scoraggiare i possibili investitori stranieri dal venire a produrre in Italia. Anche alcune sigle sindacali, per fortuna non tutte, hanno scioperato e manifestato, in nome del lavoro, contro le decisioni della magistratura.
Le notizie emerse nei giorni seguenti, evidenziando in maniera inequivocabile le responsabilità dell’azienda nel continuare ad inquinare dentro e fuori dei suoi cancelli e i comportamenti dei responsabili della società, come minimo, poco trasparenti e lineari, hanno contribuito a cambiare un po’ il clima e ad attenuare l’iniziale isolamento dei magistrati. Che hanno trovato un crescente sostegno tra gli abitanti di Taranto.

Comprendere le ragioni delle posizioni del governo, della maggioranza delle pubbliche amministrazioni e dei principali partiti, nella sostanza, più disponibili e indulgenti nei confronti delle inadempienze delle grandi imprese e meno attente e rigorose verso l’affermazione di un lavoro capace di non compromettere la salute dei lavoratori e dei cittadini, mette in luce nel Paese la distanza che oggi esiste, su questo come altri aspetti, tra i comportamenti concreti e i principi contenuti nella nostra Costituzione. I quali, nella convergenza fra la tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32), affermano la difesa dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini; di una Repubblica democratica che si vuole “fondata sul lavoro” (art. 1). A proposito degli avvenimenti che hanno riguardato l’importante impianto siderurgico Luciano Gallino ha scritto che la funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole, constatando che nel caso in questione i giudici di Taranto hanno dato attuazione a tale funzione. Del tutto coerente, specie nel nostro Paese, con le norme e i principi costituzionali. Dal che si dovrebbe dedurre che oggi è la politica e non la magistratura che più di sovente, nei comportamenti e nelle decisioni, si discosta dai contenuti della Costituzione.

Così quello che dovrebbe sorprendere non sono certo le disposizioni dei giudici, doverose e pienamente giustificate dalla legge di fronte alle responsabilità gravissime dell’impresa, ma le insufficienze se non, in alcuni casi, le connivenze delle istituzioni competenti, degli organismi deputati al controllo e dei politici. Si afferma astrattamente la necessità di contemperare il lavoro e la salute, ma in pratica non si fa nulla affinché ciò accada. E il ricatto delle imprese viene subito con eccessiva condiscendenza. A pesare, si dice, sono le nuove condizioni imposte dalla “globalizzazione”. La verità e che a destra, ma sovente anche a sinistra a fare scuola sono le teorie neo-liberiste che, in ossequio al mercato, pretendono l’eliminazione dei diritti dei lavoratori e praticano lo smantellamento dello stato sociale. E poco importa se le stesse sono le principali responsabili della attuale gravissima crisi economica e sociale. Vero è che quando la politica non ha una propria autonoma strategia finisce per subire più facilmente le condizioni dettate dai grandi interessi economici, se non dipendere dai medesimi. Così, come nel caso Ilva, quando dagli organismi di controllo sono state segnalate gravi inadempienze, un peggioramento delle condizioni ambientali o documentati rischi per la salute, invece di utilizzarle per imporre all’azienda miglioramenti strutturali e bonifiche, si è preferito non intervenire. Salvo poi invocare lo scandalo se un’autorità terza, per fermare inquinamento e danni alla salute, impone il blocco delle produzioni.

Quando, poi, anche importanti dirigenti del sindacato affermano, banalmente, che se manca il lavoro non esistono neppure i diritti, nella sostanza si acconsente ad un lavoro nel quale i diritti e le tutele si possono limitare e mettere in discussione. Quindi più facilità per l’impresa a licenziare e minori garanzie per la salute e l’ambiente di chi lavora. Il risultato è un lavoro sotto ricatto e un sindacato indebolito nella sua funzione di contrattare le condizioni e le conseguenze della produzione. Un sindacato che non riesce più ad avere voce in capitolo su temi come l’inquinamento e la salute. Ad ascoltare le dichiarazioni di alcuni rappresentanti sindacali dell’Ilva, comprensibilmente preoccupati per la loro occupazione e la continuità delle produzioni, le giustificazioni per il comportamento dell’azienda si manifestano però in tutta la loro evidenza. Certo è che quando per disciplinare l’attività delle imprese nel campo delle tutele ambientali e della salute la magistratura è costretta ad intervenire si registra, in primo luogo, il fallimento o l’impotenza di tutti gli altri soggetti a vario titolo coinvolti. I titolari delle aziende, ma anche i governi, i soggetti delegati ai controlli e, insieme al sindacato, gli stessi lavoratori. In questi casi più che denunciare occorre fare autocritica. In primis da parte delle imprese e dei governi. E’ del tutto vero che se si ferma la produzione diviene molto più difficile se non impossibile il risanamento e la bonifica, ma per evitare che ciò accada occorre che l’inquinamento sia costantemente sotto controllo, le aziende non considerino più l’uso dei beni ambientali a costo zero e si cessi la pretesa di scaricare su altri: il territorio, lo stato, i cittadini, i danni causati all’ambiente. E l’autonomia degli amministratori e dei tecnici impegnati con i grandi gruppi nella definizione delle “Autorizzazione integrate ambientali” (Aia) deve essere garantita, difesa e sostenuta senza ambiguità dalle Amministrazioni centrali e locali e dalla politica. Da parte delle società il mettere in conto una quota dei profitti (nel caso dell’Ilva le stime degli utili degli ultimi anni parlano di miliardi) per garantire il rispetto dell’ambiente e della salute deve anche rappresentare un adeguamento in fatto di cultura e di rispetto nei confronti delle generazioni future. E che sia possibile produrre in maniera compatibile anche per la siderurgia è dimostrato in Europa dagli impianti di Duisburg in Germania.

Per quanto riguarda il sindacato la straordinaria vertenza dell’Eternit di Casale sta a dimostrare che quando ha saputo porre il tema della salute come un diritto “non negoziabile” è diventato anche il protagonista riconosciuto delle situazioni. Certo quello era il sindacato della “non delega” in tema di salute che contrattava la riduzione dei rischi e la prevenzione nei posti di lavoro e nel territorio. Un sindacato forte e unito, con alle spalle la conquista dello Statuto dei lavoratori e in grado di favorire, nel 1978, l’approvazione della riforma del Servizio Sanitario Nazionale. Oggi, con un sindacato più debole per effetto della crisi e della precarietà del lavoro, positivi segnali in controtendenza arrivano dalla società; dalla maggiore sensibilità che in Europa i cittadini pongono all’inquinamento ambientale - considerato dal 60% al primo posto tra i fattori di rischio - e in Italia dal successo, politicamente trasversale, del movimento per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni.

Alessandria, 24 agosto 2012

sabato 25 agosto 2012

Peppe Giudice: Perché sono a favore del patto PD-Sel





Giuseppe Giudice



Perchè sono a favore del patto PD-SEL. Intanto perchè l'alternativa sarebbe fatale. Scartata l'ipotesi che SeL si presenti da sola, essa verrebbe risucchiata non tanto da Ferrero (poverino non conta nulla...) ma dal dipietrismo, cioè dal fascismo postmoderno (con un pizzico di pecoreccio e pecorino). Conosco bene i limiti del PD (di cui apprezzo sul serio le posizioni marginali di Epifani e Ghezzi) comprese quelle di Fassina (che parla di indistinto progressismo e non di socialismo). Ma meglio Fassina di Letta .....E comunque la timida discontinuità espressa da Bersani verso il montismo è un passi avanti. Il problema grosso di una certa sinistra condizionata da un certo postsessantottismo è l'esaltazione acritica di ogni movimento di protesta. Così non si accorgono che Monti ed il Fatto sono perfettamente speculari, nel senso che il loro obbiettivo è la espusione della politica come attività autonoma dall'economia e dai poteri mediatici, dal pano
rama. Del resto basta vedere la storia della II Repubblica e come giustizialismo e tecnocrazia privatizzatrice siano stati intimamente connessi nello scardinare le basi materiali della costituzione. Un nuovo centrosinistra deve essere contestualmente in discontinuità con Monti ma anche con la esperienza dell'Ulivo. Su questo dobbiamo insistere noi socialisti per la sinistra. Così come dobbiamo interrogarci sul perchè il postcomunismo italiano abbia avuto una così forte difficoltà ad approdare al socialismo democratico. Con i miglioristi a metà strada tra una variante debole di socialdemocrazia ed il liberalismo di Einaudi, e la pervicace ostilità di Berlinguer verso il socialismo europeo (che poi ha prodotto nuovismo e giustizialismo). O con il postogliaatismo di D'Alema e Reichlin. Insomma solo Bruno Trentin è stato intellettualmente in sintonia con un progetto forte di socialismo democratico. Per chi vede nel socialismo democratico il proprio orizzonte politico e culturale è necessario rivalutare la cultura del socialismo autonomista di Lombardi, Giolitti, Santi e Brodolini che ha espresso la migliore sintesi afavore di una variante forte di socialismo democratico. Esso non potrà nascere se non in profonda discontinuità con il movimentismo velleitario postsessantottino, con il neo.togliattismo opportunista di D'Alema e con il nuovismo neoliberale

giovedì 23 agosto 2012

How Keynes can help us solve the Eurozone Crisis — Social Europe Journal

How Keynes can help us solve the Eurozone Crisis — Social Europe Journal

Felice Besostri: Senso dello Stato e buon senso nelle intercettazioni del capo dello stato

SENSO DELLO STATO E BUONSENSO NELLE INTERCETTAZIONI DEL CAPO DELLO STATO
di Felice Besostri, Circolo LA RIFORMA, Gruppo di Volpedo-Network per il Socialismo Europeo
Siamo in un paese dove la decisione del capo dello Stato di rimettere alla Corte Costituzionale l’ipotetico conflitto di attribuzione tra la Presidenza e la magistratura ha sollevato un dibattito politico e giuridico di alto livello, dimostrato dall’intervento nello stesso di ¾ presidenti emeriti della Corte Costituzionale, con opinioni diverse qundo non opposte. In un paese normale di fronte a norme non chiare o confliggenti avrebbe dovuto esserci un coro unanime di approvazione dell’iniziativa, ma l’Italia non è un paese normale.
Innanzi a tutto c’è la distorsione della lettura politica di vedere la promozione del ricorso come uno strumento “obiettivamente”( nessuno finora ha detto con chiarezza che quello fosse lo scopo di Napolitano, ma lasciamo tempo al tempo) delegittimante la Procura di Palermo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ovvero che esiste un complotto per arrivare alla caduta del Governo, elezioni anticipate e incriminazione del Capo dello Stato per attentato alla Costituzione. Si dubita persino della terzietà della Consulta, causa la sua natura “politica”. E’ vero ma da sempre le Corti Costituzionali rientrano nella giustizia politica, perlomeno nei sistemi, come il nostro, analogo a quelli degli altri paesi europei continentali, che ha scelto la strada di affidare il controllo di costituzionalità ad un organo ad hoc, con monopolio in materia, a differenza di altri paesi che assegnano il compito in modo decentrato alla magistratura ordinaria. Quanto sta avvenendo è una conferma, che siamo in piena crisi istituzionale, che si aggiunge a quella politica ed economica. Ci sono cause lontane come la mancata attuazione della Costituzione per quanto riguarda i partiti politici e di conseguenza tutto il sistema elettorale, con la ricaduta non solo sula composizione degli organi elettivi, ma anche delle cariche e degli organi, che sono nominati, in tutto o in parte dagli organi elettivi. Il Presidente della repubblica è eletto da un’assemblea composta dal Parlamento, a Camere riunite, e dai rappresentanti dei Consigli Regionali. Tuttavia cause più recenti hanno determinato il degrado dei valori costituzionali, tra esse determinanti, secondo la mia opinione, i cambiamenti delle leggi elettorali dal mattarellum al porcellum, specialmente l’ultimo che ha cambiato la forma di governo delineata dalla Costituzione. Soltanto il caso ha impedito che la legge, che assicura un premio abnorme di maggioranza, senza nessun soglia minima in seggi o voti per la sua attribuzione, affidasse ad una maggioranza artificiale di eleggere il Capo dello Stato e di contribuire ad una modifica più pregnante della composizione della Corte Costituzionale, per non parlare del CSM. Premio di maggioranza, liste bloccate ed indicazione del nome del Capo politico sulla scheda( si badi bene il solo nome che compare: i nomi dei candidati sono solo sui manifesti elettorali), hanno accentuato il potere dei padroni dei partiti o delle loro oligarchie nel migliore dei casi, in assenza di controlli sulla loro attività e fonti di finanziamento. Se si aggiunge la personalizzazione della politica, incentivata da elezioni dirette e primarie, di norma plebiscitarie, stupisce che il conflitto di attribuzione proposto dal Presidente Napolitano abbia suscitato tanto clamore e passioni in assenza di una decisione della Consulta, mentre la gran parte dei costituzionalisti italiani, dei mezzi di informazione di qualsivoglia natura e tendenza politica, esponenti di partito, abbiano passato sotto silenzio due sentenze(TAR LAZIO e CONSIGLIO di STATO del 2008, estremi in Mondo Iperaio n. 7/8 del 2012, in un mio articolo) che dicono che non ci sono rimedi giurisdizionali contro una legge elettorale incostituzionale prima delle elezioni e che dopo i ricorsi vanno esaminati dalle Camere elette con la legge elettorale di sospetta costituzionalità!!! Non solo la sentenza del Tar Lazio afferma che il decreto presidenziale di convocazione dei comizi elettorali, altro che le telefonate, è atto inimpugnabile, quindi anche se prevedesse le elezioni ben oltre il termine massimo di 70 giorni previsto dalla Costituzione decorrenti dallo scioglimento delle precedenti. Una maggioranza, con un Presidente complice, può quindi approvare una legge elettorale, che porti il premio di maggioranza, attribuito nazionalmente sia alla Camera dei Deputati, che al Senato della Repubblica dal 54% al 66% dei seggi, modificare i collegi con tecniche di raffinato gerrymandering, stabilire arbitrarie ineleggibilità per i concorrenti più pericolosi, e poi modificare anche la Costituzione per modificare la Costituzione senza rischi di referendum confermativi. Soltanto grazie ad un pugno di cittadini ad elezioni non convocati si è riusciti a far stabilire la competenza del giudice ordinario su diritto del cittadino in modo conforme a Costituzione, anche questo nel più assoluto silenzio, anche a fronte di scandalose sentenze con le quali i giudici ordinari hanno usurpato le funzioni della Corte Costituzionale. Lo stupefacente è che né Libertà e giustizia, né il suo Presidente Gustavo Zagrebelski abbiano mai trovato il tempo di occuparsene, benché richiesti. Dunque di sono scelte di altra natura che precedono l’interesse ad occuparsi di un tema piuttosto di un altro. Per tornare all’ intercettazioni, trovo specioso per far ricadere le intercettazioni di cui si parla nel regime ordinario, la distinzione tra intercettazioni dirette ed indirette. Poiché è evidente per tutti dell’illegittimità di un provvedimento che disponesse l’intercettazione di una linea diretta del Presidente, ma già sarebbe discutibile se di mettesse sotto controllo il centralino nell’ambito di un procedimento a carico di funzionari della Presidenza della Repubblica, che se decido di mettere sotto controllo l’utenza del Capo della Segreteria del Presidente, o la moglie del Presidente, ovvero suoi amici come Gianni Cervetti ed Emanuele Macaluso, per avere una messe di registrazioni indirette da poter usare in qualsivoglia modo.
Ameno 23 agosto 2012

mercoledì 22 agosto 2012

Peppe Giudice: Un'idea forte di socialdemocrazia





Giuseppe Giudice


UNA IDEA FORTE DI SOCIALDEMOCRAZIA

Credo che se non si abbandonino le subculture confuse della II Repubblica difficilmente si uscirà dalla fase di rofondo disorientamento che coinvolge quella che non so fino a che punto è definibile come sinistra.
Ho detto che a mio avviso, sul piano sia storico che politico sono esistite due varianti di socialdemocrazia: una variante debole ed una forte. La prima, minimalista, che riduce la socialdemocrazia al capitalismo più il welfare (schematizzo ovviamente). La seconda caratterizzata da maggiore organicità di pensiero che vede nel socialismo democratico una critica appunto organica al capitalismo che si esprime sul terreno della democrazia e della libertà senza pretese di costruire società perfette ma costantemente perfettibili. In questa versione forte il welfare è essenziale come strumento di emancipazione dei lavoratori e dei cittadini, ma non esaurisce affatto il progetto socialista. Sono essenziali l'economia mista e la programmazione (planismo), la democrazia economica , lo sviluppo di forme di economia sociale non riconducibli nè allo stato nè al mercato. I socialisti francesi e la sinistra SPD sono quelle che oggi meglio si approssimano a questa seconda idea di socialdemocrazia. IN Italia mi pare la Camusso la più vicina. Il progtto di socialdemocrazia forte si distingue sia dalle derive neoliberali del blirismo, sia da una sinistra antagonista e protestataria che, nell'attuale fase si situa pericolasamente vicina al populismo antipolitico. Lo testimonia i suo euroscetticismo radicale per molti aspeetti in sintonia di propsta con quello di Le Pen o dei partitixenofobi. Anche in Italia abbiamo economisti di formazione postsessantottina che sposano l'euroscetticismo radicale. Giorgio Ruffolo che è un economista diceva spesso di non prendere mai troppo sul serio gli economisti stessi, i quali non sono in grado di costruire un progetto poltico. Gli economisti migliori ci possono descrivere una dinamica , rappresentativa di rapporti di forza e di possibili scenari, ma non ci offrono una soluzione organica che solo la politica è in gradi di fornire. A meno che non si cada in un cupo determinismo strutturalista ed economicista. Naturalmente io penso che sia sbagliato (e simmetrico) l'eurottimismo di maniera ed un pò paraculo. Quello che ha portato all'allargamento ad est dell'Europa a tutto vantaggio della Germania ed a svantaggio dell'Europa e che ha permesso un forte dumping sociale. Ed ha reso più difficile la costruzione di una Europa politica. La variante debole della socialdemocrazia è stata corresponsabile. Ma ad essa si deve contrappore una variante forte e non una sinistra velleitaria o che non ha ancora digerito l'89. Venendo all'Italia, il pessimismo è d'obbligo. Noi abbiamo un PD che è diviso tra socialdemocrazia debole e centro liberista e clericale con piccole venature di socialdemocrazia forte. Ed una SEL divisa fra socialdemocrazia forte ed un movimentista indeterminato. Non è una bella situazione. Tuttavia per realismo poitico io sono per un asse PD-SEL . L'alternativa sarebbe un PD completamente risucchiato dal montismo, ed una SEL che si infetterebbe con l'antipolitica qualunquista e giustizialista di Di Pietro, Travaglio ed il Fatto . E' questo il vero fascismo postmoderno. Su questo asse PS-SEL dobbiamo lavorare perchè in esso si affermino le idee di una socialdemocrazia forte. Ed il punto di riferimento più importante è la CGIL e non la Fiom (o meglio lo è solo in quanto parte della CGIL

Peppe

Claudio Bellavita: Dieci punti per un programma

in caso di pubblicazione sul blog preferisco questo testo con qualche arricchimento dal dibattito di oggi in rete


dieci punti per un programma

dico dieci perchè se no non li legge nessuno: potrebbero essere 60 come quelli di Hollande, però sintetici e non sbrodolosi come le 300 pagine di Prodi che nessuno ha letto (tanto la sostanza era che lui aveva già svenduto le autostrade) Sono aperto alle aggiunte, un po' meno alle cancellazioni, il primo punto è irrinunciabile.

1-democrazia nei partiti, in Italia e in Europa.
- i partiti che non fanno un congresso ordinario almeno ogni due anni, e quelli che li fanno ma gli iscritti non sono chiamati a votare delle mozioni politiche, o che li fanno, gli iscritti sono chiamati a votare le mozioni , ma i nomi dei dirigenti e dei delegati al livello superiore vengono acclamati e non votati su scheda segreta, non ricevono un euro di finanziamento pubblico e la motivazione viene pubblicata su tutti i giornali, a loro spese , eventualmente da scontare sulla ripresa dei contributi. Vuol dire che se non si introduce la democrazia nei partiti personali si fa un bel risparmio. E un po' di chiarezza (quanti sanno che nello statuto del PD sta scritto che il congresso ordinario si fa una volta all'anno?)
-in Italia vuol dire che i parlamentari sono scelti dagli elettori, o col metodo della preferenza o con quello del collegio unico. Una classe politica screditata come la nostra, all'interno come all'estero, non ha alcun diritto morale di fare delle cooptazioni di recupero a livello nazionale. anzi, è un tumore da combattere, conmetastasi nella formazione dei gruppi dirigenti.
-in Europa vuol dire elezione popolare del presidente della UE e parlamento con gli stessi poteri di quello federale degli USA. Solo a questo punto è accettabile che abbia il potere di interferire con i poteri degli stati, altrimenti, la UE figura come un irragionevole Moloch che impone sacrifici a tutti i poveri e sperpera le risorse dei ricchi e finirà travolta dai referendum o dalle elezioni nazionali.

2-promuovere le iniziative di riforma dal basso: le autorità di governo e il nuovo parlamento devono promuovere un movimento di "cahiers de dolèance" in cui i vari livelli locali e nazionali della burocrazia e dei corpi sociali associati propongono le modifiche a normative e regolamenti che fanno del nostro paese la barzelletta del mondo civile per l'enorme difficoltà di avviare delle iniziative e di ottenere i propri diritti.Non siamo un paese occupato dallo straniero, ma solo da una casta che purtroppo abbiamo votato e non è capace di autoriforme, ma solo di affidare la gestione pratica del governo agli avvocaticchi


3- La regola della democrazia interna va applicata anche ai corpi sociali organizzati che ricevono contributi dello Stato, per esempio per la formazione o per l'adempimento di pratiche burocratiche: nessun contributo a chi non si autogoverna nel modo democratico sopra descritto. Pur nel rispetto dell'autonomia sindacale, si esortano gli elettori che condividono il programma a operare perchè il sindacato crei collegamenti stabili con gli altri sindacati dell'unione europea, per determinare un minimo welfare comune, e per per sollevare davanti alla commissione europea la questione del "dumping sociale", interno ed esterno alla UE. Se la UE funziona a senso unico, contro i lavoratori, non è colpa della UE, che è nata come strumento neutro, è colpa dell'assenteismo dei sindacati e dell'impreparazione e sudditanza culturale delle sinistre.Si auspica anche che i sindacati si diano carico di difendere i diritti dei lavoratori stranieri in regola e di denunciare gli imprenditori di quelli che non lo sono: anche questa è evasione e dumping.

4- nell'utilizzo degli aiuti europei e di quelli di stato deve prevalere il criterio del settore economico su quello del territorio. nel senso che tutti gli aiuti vanno alle regioni che sviluppano progetti credibili e puntuali nei settori prioritari: peggio per quelli che si ostinano a eleggere faccendieri che non riescono neanche a mettersi d'accordo sui nomi dei progettisti, in genere incompetenti. Lo Stato renderà pubblico l'elenco edelle regioni rimaste senza contributi e le motivazioni.
Nei progetti nazionali, spazio programmato (la parola programmazione va ripristinata alla faccia dei sacerdoti del libero mercato dei baroni ladri del finanzcapitalismo) alle fonti di energia, alla ricerca di petrolio, e minerali preziosi (pazienza per gli ambientalisti),all'innovazione tecnologica e produttiva, alle comunicazioni di un paese lungo, montuoso e stretto che ospita il doppio della popolazione che dovrebbe e con troppe case a seguito delle migrazioni. Un progetto di risanamento edilizio nelle aree terremotabili cioè un secondo piano Fanfani- casa. Ripensare se è giusto ricostruire dove il terremoto ha colpito.
Quando gli aiuti di stato , di regione o di UE vanno direttamente a un'impresa, questa deve aprirsi a forme di cogestione contrattata con i dipendenti

5- Università: basta coi contributi alle università private che non rispondono a criteri qualitativi minimi secondo norme internazionali. Basta anche con le università locali private fabbriche di stipendi per professori di scarso livello ma di forte appoggio politico. Basta coi contributi a CEPU. Le tasse universitarie devono anche servire da orientamento per le scelte dei giovani: tasse basse per le facoltà scientifiche, normali per quelle economiche, mediche e linguistiche, altissime per giurisprudenza: l'eccessivo numero di avvocati (il doppio dei professionisti della Francia) e la mentalità giuridica prevalente nella PA sono un cancro che paralizza e divora il nostro paese

6-un progetto speciale per la scuola media inferiore, il buco nero del nostro sistema scolastico, dove si perdono le migliori intelligenze dei giovani poveri delle periferie e li si avvia alla criminalità, attraverso la scuola della microdelinquenza giovanile. E' un problema sociale ma anche di ordine pubblico. Occorre avviare una sperimentazione in alcune periferie critiche per estendere poi in un progetto nazionale ed europeo. Fondamentale introdurre come requisito per la docenza alle medie inferiori la preparazione psicopedagogica. Non ne hanno bisogno e non li chiedono, ma darei contributi al boy scout..

7-legalizzazione di tutte le droghe per ridurre il danno, combattere per davvero il traffico , aumentare le entrate e ridurre le spese per una guerra che è già perduta. Non è una guerra di religione, è un problema sociale che affrontato con isteria anzichè con raziocinio, distrugge dei giovani per arricchire la delinquenza, e istituire uno stato di polizia. Occorre intervenire prima che corrompa la polizia, come è già successo da tempo in USA, creando un meccanismo infernale col record mondiale di detenuti rispetto alla popolazione. Una decisone del genere svuota le nostre carceri e si pensi a quanti uomini delle forze dell'ordine si possono rendere liberi per funzioni di protezione civile e ambientale, di tutela del patrimonio artisitico, di risanamento edilizio.


8-giusto vendere gli immobili inutilizzati dello stato e degli enti, ma si potebbe anche fare una vendita straordinaria del 5% dei depositi dei nostri musei, preparato con una mostra mondiale itinerante dei nostri tesori. In pagamento di queste vendite si accettano a prezzo pieno i nostri titoli di stato. Stesso discorso per la vendita dei beni mafiosi, resa difficile dall'interminabile durata dei nostri processi. Per frenare questo malcostume giudiziario, di cui è maestro Berlusconi, occorre introdurre delle norme fortemente penalizzanti per i ricorsi a vuoto, le assenze e i rinvii. Tornando ai beni dei mafiosi, basta con le gestioni fai-da-te delle onlus e peggio ancora dei comuni più o meno infiltrati: fare un corteo antimafia non da titolo per una gestione economica complessa. Se ne occupi la guardia di finanza col controllo dei carabinieri di altre regioni, e, magari, in qualche regione, si fa il viceversa. Pubblicità dei risultati.

9-giusto ridurre il numero e i privilegi dei parlamentari, ma in contemporanea un governo non composto da alti burocrati ne riveda numero, le funzioni e privilegi dei burocrati stessi. Una spending review fatta come si deve, magari da una società internazionale di revisione organizzativa, dovrebbe anche considerare quante funzioni dello Stato sono state trasferite alle regioni e alla Unione Europea. Eppure il numero dei direttori generali di ministero è enormemente aumentato e determina un incredibile rallentamento delle decisioni che richiedono il "concerto" di più direzioni: tipico l'emanazione di regolamenti applicativi delle leggi che impongono il termine ultimativo di 6 mesi entro i quali è già tanto se si riesce a fare una prima riunione di tutte le direzioni interessate. Come non bastasse, a ulteriore schiaffo dell'incapacità di leghisti, molte direzioni generali si sono moltiplicate per 20: per alcune funzioni, qualcuna anche di competenza regionale, lo stato ha mandato un suo direttore genrale in ogni regione. Nessuno dei nostri audaci parlamentari ne ha mai chiesto il numero, ma i direttori generali sono ormai più numerosi dei parlamentari, costano di più e han diritto all'auto blu.

10- Le società a partecipazione statale in settori strategici non devono essere svendute, ma devono dare l'esempio rinunciando a parte degli utili per combattere l'aumento dei prezzi e così ampliare la loro quota di mercato. Fu una follia dell'Ulivo immetterle nella confindustria, a tessere trame di potere e di monopoli. . Fu una follia sindacale pensare che il ruolo delle società a partecipazione pubblica serva a tenere in vita aziende decotte per tutelare un'occupazione più dannosa che inutile, come i forestali della Sicilia. Anche le Coop dovrebbero fare la loro parte , per dare credibilità alla parte poltica di riferimento: meglio ampliare la presenza anche industriale nel paese e combattere l'aumento dei prezzi che farsi derubare da Mediobanca e Li Gresti per essere ammessi a servire il tè nel salotto buono...

La proposta Astrid. Abbattere il debito e rilanciare lo sviluppo : PANEACQUA

La proposta Astrid. Abbattere il debito e rilanciare lo sviluppo : PANEACQUA

Publications | Levy Economics Institute of Bard College

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Gli ultimi fuochi del populismo italiano - Laboratorio di politica - ComUnità - l'Unità

Gli ultimi fuochi del populismo italiano - Laboratorio di politica - ComUnità - l'Unità

martedì 21 agosto 2012

I meccanismi della democrazia e il caso italliano Il Blog di Alessandro Ceci | Glocal University Network

Il Blog di Alessandro Ceci | Glocal University Network

Why Social Democrats should embrace a Democratic Mixed Economy — Social Europe Journal

Why Social Democrats should embrace a Democratic Mixed Economy — Social Europe Journal

Carmilla on line ®: Acciaio e dintorni

Carmilla on line ®

Dissent Magazine - Online Features - Occupy Wall Street, Flash Movements, and American Politics -

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Franco Astengo: Praga '68

PRAGA '68 E LE CONTRADDIZIONI ANCORA OPERANTI NELLA SINISTRA ITALIANA

21 Agosto 1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando l'esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal Partito Comunista di Dubcek.

1968: l'anno dei portenti, l'anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino svolta verso il dramma.

Si chiude bruscamente un capitolo importante nella storia del '900.

Come mi accade ogni anno, e a rischio di apparire assolutamente ripetitivo, mi permetto di disturbare un certo numero d’interlocutrici e interlocutori per ricordare i fatti di Praga.

Una riflessione sui risvolti che quell'avvenimento ebbe sulla sinistra italiana: si compirono, in quel frangente, scelte che poi avrebbero informato la realtà politica della sinistra italiana per un lungo periodo e, ancor oggi, si può ravvisare la presenza di “contraddizioni operanti”.

Prima di tutto l'invasione di Praga spezzò lo PSIUP: a distanza di tanti anni possiamo ben dire che si trattò di un fatto politico importante.

Il partito, rappresentativo dell'esperienza della sinistra socialista che aveva rifiutato nel 1963 l'esperienza di governo con la DC, aveva appena ottenuto (il 19 Maggio) un notevole risultato alle elezioni politiche (il 4,4% dei voti con 24 deputati) e su di esso si era appuntata l'attenzione di molti giovani che avevano cominciato a ritenerlo l'espressione di un avanzato rinnovamento a sinistra: lo PSIUP si spaccò in due, da un lato il vecchio gruppo dei “carristi” approvò incondizionatamente l'invasione con toni da antico Comintern (come nessun altro settore della sinistra italiana, usando un’enfasi non adoperata neppure dalla corrente del PCI vicina a Secchia); dall'altra esponenti di spicco del “socialismo libertario”, epigoni della lezione di Rosa Luxemburg, come Lelio Basso e Vittorio Foa, si misero da parte; ma soprattutto furono i giovani, al momento protagonisti del '68, a ritrarsi. Lo PSIUP iniziava così la china discendente, che sarebbe culminata nell'esclusione dal Parlamento con le elezioni del 1972: un evento ripetiamo di un peso rilevante sulle future sorti della sinistra, in particolare al riguardo delle possibilità di aggregazione, iniziativa politica, capacità di rappresentanza di quella che sarebbe stata la “nuova sinistra” di origine sessantottesca.

Il peso più importante, però, della drammatica vicenda praghese ricadde, ovviamente, sul PCI.

Il più grande partito comunista d'Occidente si trovava, in quel momento, in una fase di forte espansione elettorale (il 19 Maggio aveva raccolto 1.000.000 di voti in più rispetto all'Aprile 1963) ma in difficoltà organizzativa, in calo d'iscritti, non avendo ancora superato il trauma dell'aver svolto un congresso inusitatamente combattuto come l'XI del 1966, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti, e contrassegnato dallo scontro (ovattato, ovviamente, com'era costume dell'epoca, ma vissuto intensamente in una larga fascia di quadri) tra le ragioni di Amendola e quelle di Ingrao.

Inoltre il quadro europeo appariva alquanto problematico: il PCF appariva scosso dall'impeto del Maggio e si rinchiuse in una rigida ortodossia, PCE e PCP erano piccoli partiti ancora clandestini, la Lega dei Comunisti Jugoslavi obbedì, ovviamente, alla ragion di stato.

La notizia dell'invasione piombò su di una deserta Roma agostana: i principali dirigenti del PCI erano in ferie, tutti al di là della cortina di ferro. Unico componente della segretaria presente in sede era Alessandro Natta che, in tutta fretta e con i mezzi dell'epoca, contattò gli altri compagni, per varare un documento che suonò immediatamente come un punto molto avanzato di condanna dell'invasione.

Tralasciamo, per brevità, la narrazione del fortissimo dibattito che si scatenò subito, alla base del partito, nelle sezioni, nei comitati federali di tutte le province: un dibattito dove si registrarono anche elementi di netta contrapposizione e di insofferenza, da parte dei settori più arretrati del partito, verso quelle che sembravano le scelte del vertice.

Inoltre il PCI era chiamato a difendere le posizioni di apertura tenute verso il nuovo corso cecoslovacco: qualche mese prima si era svolto, infatti, un incontro tra Longo e Dubcek.

I problemi maggiori, come era prevedibili, vennero dall'esterno e, più precisamente, dall'URSS: la pressione del PCUS per un arretramento nelle posizioni dei comunisti italiani e, semplificando al massimo un vigore di dibattito che ripetiamo risultò altissimo e del tutto inedito per la vita del partito, si arrivò, dopo un incontro Cossutta- Suslov avvenuto a Mosca a una sorta di rientro nell'alveo.

Di quale alveo si trattava?

Il PCI, nella sostanza, si assestò all'interno dei confini della linea tracciata da Togliatti, dopo il XX Congresso del PCUS e l'invasione dell'Ungheria del 1956.

Alla base di tale linea c'era la convinzione secondo cui il modello staliniano, essendo collegato alle condizioni di arretratezza e di accerchiamento in cui si era sviluppata la rivoluzione russa, era destinato a evolvere verso la democratizzazione nella misura in cui si fosse compiuto il processo di industrializzazione, urbanizzazione e alfabetizzazione e nella misura in cui fosse avanzato il processo di distensione internazionale.

Ancora più a fondo, c'era la convinzione che l'autoritarismo politico e la centralizzazione amministrativa, nei paesi dell'Est, fossero fenomeni prevalentemente istituzionali, rappresentassero un ritardo e un’incongruenza della sovrastruttura rispetto alla struttura.

Il gruppo dirigente sovietico rimase così l'interlocutore, come protagonista necessario di una riforma graduale.

Nessun altro soggetto, anche del dissenso comunista, seppe rispondere adeguatamente su questo terreno: né trotzkisti, né maoisti, né terzomondisti. Forse soltanto in alcuni settori della socialdemocrazia di sinistra (cui si accostarono, in seguito, esuli della primavera praghese riparati in Occidente) si registrarono fermenti rivolti nel senso di una ricerca più avanzati.

Nel PCI si registrò, invece, un confronto inedito che diede origine a un aspetto particolare di quello che, poi, per molti anni fu denominato “caso italiano”.

Un gruppo di intellettuali che, nel corso dell'XI congresso avevano sostenuto le posizioni di Ingrao, aveva via, via, elaborato posizioni autonome in contrasto netto con la direzione del Partito, dando anche vita a una rivista teorica ”Il Manifesto”, promotrice di un ampio dibattito e seguita con molto interesse anche da settori esterni al PCI.

Tralascio, ovviamente, anche la narrazione di questa vicenda perché si tratta di un'altra storia, del resto ben conosciuta, per limitarmi alle posizioni che si espressero sulla vicenda cecoslovacca in contrasto con quelle ufficiali.

Le posizioni del “Manifesto” partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia è continua espansione dell'iniziativa di più non bastava più.

Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell'autoritarismo.

Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli creavano non pochi problemi.

Al PCI, alla sinistra occidentale, toccava rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell'economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all'interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.

Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema.

Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un'opposizione cui dar vita dall'interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un'alternativa.

Queste posizioni, sommariamente ricordate in questa sede, risultarono sconfitte, emarginate, espulse.

Non è ovviamente nostra intenzione ricostruire la storia con i se e con i ma: il nostro giudizio è quello che la scelta maggioritaria assunta dal PCI in quel cruciale tornante della storia causò il formarsi di alcune contraddizioni di fondo che, ancor oggi, risultano operanti, come si diceva all'inizio.

Proprio il mancato superamento di quelle posizioni ancora interne alla logica del XX Congresso e presenti in dimensione rilevante nel PCI al momento della caduta del muro di Berlino, nel 1989 e nonostante alcuni seri tentativi compiuti nella metà degli anni'70 dalla segreteria di Enrico Berlinguer (segretaria accantonata, nei suoi contenuti di fondo, dai “nuovisti” non tanto per i tanti e gravi errori politici commessi nel corso della sua gestione, ma per l'accusa di “moralismo”), consentirono agli “ultras estremisti” (ricordate ci sono anche gli estremisti di un presunto moderatismo; scambiato con la subalternità e la sudditanza psicologica nei confronti delle posizioni dell'avversario da unire alla bramosia di essere “ricevuti a palazzo”) del PDS e poi del PD di cacciare via l'intera tradizione ideale, storica, politica dell'area comunista italiana e di trasformarsi in una semplicemente componente del “cartel party” che agita, inutilmente, il teatrino televisivo e salottiero della politica italiana.

Aver mancato una vera e battaglia politica su Praga'68 causò, quindi, nel PCI una crisi (apparentemente soffocata dai grandi successi elettorali del partito negli anni'70) che esplose vent'anni dopo e agisce, ancor oggi, nella totale deriva che la sinistra italiana sta subendo sulla strada della sua estinzione quasi compiuta e rappresenta, purtroppo, un elemento di freno nella possibilità di riaprire una discussione seria su una prospettiva di sinistra capace di raccogliere il meglio dei suoi diversi filoni d’origine.

Savona, lì 20 agosto 2012 Franco Astengo




SUD AFRICA: IL FRAGOROSO SILENZIO INTERNAZIONALE. Di Francesco Mannino. « Mariannetv

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Ilva, la magistratura non fa supplenza | LetteraPolitica.it

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Expo 2015, stato dell’arte | LetteraPolitica.it

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lunedì 20 agosto 2012

US 2012 – Mitt’s 13%Tax — Social Europe Journal

US 2012 – Mitt’s 13%Tax — Social Europe Journal

Vittorio Melandri: Confesso che a volte mi vien voglia



Confesso che a volte mi vien voglia “di non leggermi più”; perché mi piacerebbe essere capace di passare dalla critica alla proposta, ma giunto alla fine della critica, quella modesta di cui sono capace, e che penso comunque di avere il diritto dovere di esprimere, nel tentativo di essere cittadino e non suddito, ogni volta riesco solo a scorgere dinnanzi a me un baratro, dove al più si può provare a non cadere dentro, e non un campo da seminare, dove ciascuno possa appunto seminare anche il poco di cui dispone.



Oggi 20 agosto 2012 gli ex comunisti Polito e Macaluso, su Corriere e Unità ci danno l’ennesima lezione su cosa non si deve fare, ovviamente a cominciare dall’attacco alla Presidenza della Repubblica, quella stessa a cui quando è stato il loro tempo, non si sono risparmiati dal riservare le critiche più feroci, salvo magari, come è proprio il caso dell’ex comunista Napolitano, da comunista chiedere le dimissioni di Leone, e da Presidente “monarchico” elogiarne la statura di fine giurista.



La doppiezza di Togliatti, a cui ancora stiamo pagando interessi composti, sotto forma di presenza IGNOBILE di un patto tra Stati nella nostra Costituzione, al contrario del tartufismo dei suoi epigoni, è come “acqua di Parma”, e profuma di violetta.



Esemplare l’articolo di Merlo su la Repubblica di oggi, dove fra l’altro cita il dibattito “lacerante” all’interno del PD sull’uso del termine “compagno”, e a proposito di linguaggio deformato, e di “compagni” resta ancora di tragica attualità la risposta non deformata che nel film “I compagni” del grande Monicelli, riceve il personaggio interpretato da Mastroianni che giunto in treno a Torino chiede ...... “che paese è questo?” e sente echeggiare ..... “un paese di merda!!!!”



Condizione a cui le due grandi chiese, quella cattolica e quella comunista non hanno fatto mancare il loro preclaro contributo, salvo oggi indossare i panni dei salvatori della patria ....al grido perentorio di ewwwwiwa il PD!!!!!



vittorio melandri