Europa, 25 luglio 2009
Le idee che non abbiamo saputo cogliere
Ralf Dahrendorf, il maestro del liberalismo che aveva previsto la crisi
di Giuliano Amato
Mi legava a Ralf Dahrendorf una lunga amicizia, cementata e resa viva da un lavoro che dalla metà degli anni Novanta ci ha accomunato per quasi dieci anni, la co-presidenza della Conferenza italo-inglese di Pontignano, che inizialmente presiedeva lui solo e nella quale fu proprio lui a volermi al suo fianco. Pontignano ci dava l'occasione di sentirci e di vederci ripetutamente per discutere i temi della Conferenza dell'anno dopo e quindi per formularci reciprocamente domande e risposte sulle cose più importanti che stavano accadendo nel mondo. (...) In più, nei tre giorni della Conferenza, stavamo molto insieme e civettavamo con i partecipanti, presiedendo a turno i lavori. Mi sentivo - e non poteva essere che così - un fratello minore.
Avevo imparato molto da lui, e da lui continuavo a imparare ogni giorno attraverso le risposte, spesso imprevedibili e sempre molto acute, che dava alle domande scaturite dai nostri incontri. Quando, nei tardi anni Settanta, in un saggio che ebbe un suo impatto, proposi per l'Italia il passaggio dal compromesso storico alla democrazia conflittuale, avevo assimilato la lezione di Dahrendorf, non quella dei cattivi maestri, apripista del conflitto armato. Era la lezione di Classe e conflitto di classe nella società industriale, il libro del 1957, con il quale Dahrendorf aveva preso le distanze da Marx e aveva colto l'essenza della democrazia non nella negazione, ma nella organizzazione dei conflitti. I conflitti - aveva spiegato - sono figli non dei rapporti di proprietà, ma di quelli di potere, e sono quindi ineliminabili, di sicuro non cancellabili dal sogno di un'armonica società di eguali.
Gli era costata fatica farlo capire alla Germania, alla cui storia dedicò un libro di poco successivo (Society and Democracy in Germany), con lo scopo di distogliere il suo paese dalla cultura della risposta unica, della necessità della risposta unica, per non creare pericolose fratture sociali. Sono le società fragili a sentire questo bisogno, ma una forte democrazia deve avere, sullo sfondo dei suoi valori condivisi, esigenze e risposte alternative, da incanalare nelle procedure istituzionali. Peccato che Darhendorf non abbia scritto un libro sull'Italia capace di svegliare il nostro paese così come fu svegliata la Germania da quello che ora citavo.
Di sicuro io non ci riuscii con il mio saggio e nessuno a oggi c'è riuscito. Siamo ancora qui, lacerati dalle nostre divisioni, incapaci di incanalarle e tutti sempre ipocritamente sull'attenti quando veniamo richiamati alle ragioni della coesione e dell'unità nazionale.
Se ci riflettiamo, è ancora questa la ragione per la quale siamo a larghissima maggioranza refrattari alla seconda lezione di Dahrendorf, quella che riguarda il mondo in cui viviamo.
Dahrendorf non si stancava di dire, e di scrivere, che il mondo è ricco proprio perché è ricco di diversità, ma questo lo rende complicato, molto complicato e noi dobbiamo imparare il difficile mestiere di vivere con la sua complessità e con le sue complicazioni, senza tentare di chiuderci in società etnicamente omogenee con pochi valori semplici e condivisi da tutti, perché un mondo in cui tutte le società fossero così sarebbe un mondo di guerre e di distruzioni. Anche questa è una cosa che io stesso ho provato a insegnare - l'ho fatto da ministro dell'interno - e ne sono uscito ancora una volta sconfitto. Eppure è vera, verissima, facile come poche da dimostrare.
Perché noi italiani preferiamo chiudere gli occhi e gli orecchi a questa verità? Perché ci è mancato un Dahrendorf a spiegarcelo? O perché nessuna forza politica, nessuno dei grandi collettori che formano e aggregano il consenso nelle società del nostro tempo, ha assimilato e fatto propria la sua lezione? Non è una lezione facile da praticare, implica un grande e pragmatico realismo nel saper promuovere i diritti di chi arriva senza far sentire insicuro chi c'è già e nel creare i ponti della convivenza, senza i quali si crea invece l'abisso dell'incomprensione reciproca e della diffidenza. Sono qualità di destra o di sinistra? Amerei che fossero di sinistra, quel che è certo è che in Italia la sinistra ha dimostrato di non possederle, che non le possiede neanche la destra, mentre in Germania le hanno per primi i cristianodemocratici che governano insieme ai socialdemocratici. Non ne attribuisco tutto il merito a Dahrendorf, perché la Germania è positivamente cambiata nel gestire la società dei diversi per molte altre ragioni. È tuttavia un fatto che sulla politica italiana, alla quale era peraltro molto interessato, Dahrendorf ha esercitato un'influenza assai bassa (...) non si è mai riconosciuto nella socialdemocrazia e ha guardato con interesse al tentativo del Pci di Occhetto di costruire un partito (liberal) democratico di sinistra. Quel tentativo tuttavia non poteva che deluderlo, giacché non ne è uscito un nuovo amalgama, ne è uscito quel che restava del vecchio amalgama organizzativo, accompagnato da una mai ricomposta giustapposizione di linguaggi, che ha trovato poi il suo culmine nella coalizione dell'Ulivo e all'interno dello stesso Partito democratico.
Per capire quello che ci è successo, e che ci sta succedendo, dovrebbero trovare risposta a questo punto domande che in Italia non ci si è mai posti come si sarebbe dovuto: ma a chi deve la sinistra la cultura che l'ha sorretta durante la traversata dal vecchio al nuovo? Chi sono davvero i santi e gli eroi del suo nuovo pantheon, un pantheon che non a caso ha poi evitato di costruire? (...) Può nascere una cultura politica, capace di interpretare il mondo complicato di cui ci parlava Dahrendorf, mettendo insieme spunti di Amartya Sen, di Michel Foucault, di Zygmunt Bauman, di Joseph Stiglitz e magari dello stesso Dahrendorf? (...) La politica, per governare le società e un mondo tanto complessi, deve avere alcune grandi coordinate, che storicamente e culturalmente abbiano radici e siano capaci di reggere. Adattare e innovare quando serve i modelli che ne derivano è di sicuro essenziale. Ma non si possono mettere insieme frammenti di modelli interpretativi molteplici. Se lo si fa le diversità che ci circondano non le si governa, al contrario ci si affoga dentro e si facilitano così i dirizzoni unilaterali. Di governo, e di forza di governo, c'è invece un crescente bisogno e a dirlo era il liberale Dahrendorf, lo studioso che, non meno di altri classici della democrazia, riteneva la stessa democrazia possibile e praticabile più nelle società piccole che ai troppo estesi livelli soprastatuali, per i quali - diceva - ottenere un uniforme rispetto di una uniforme rule of law è già un grande risultato. Per questo mi guardava con scetticismo quando gli apparivo come co-autore della Costituzione europea. E tuttavia considerava l'Unione europea un esempio prezioso per un mondo nel quale troppi Stati oppongono i loro mille protezionismi alla missione delle istituzioni multilaterali.
E in un profetico discorso di venti anni fa, si era chiesto se non servisse una qualche catastrofe, come un drammatico cambiamento del clima o l'impoverimento di un paese ricco, per forzare la mano a beneficio di un maggiore multilateralismo nel governo del mondo. È esattamente il tornante su cui ci stiamo trovando.
Lo immagino a spiegarci, una volta di più, che con la complessità bisogna saper vivere e che è un'illusione pensare di governarla semplificandone i termini attraverso l'espulsione delle diversità che la rendono tale. E immagino i fraintendimenti che ciò provocherebbe nell'Italia di oggi, dove la destra lo ascriverebbe alla sinistra e la sinistra, dimentica della propria strutturale incapacità di attuare il suo insegnamento, lo sbandiererebbe inutilmente contro la destra. Una scena davvero triste, bilanciata soltanto dal malizioso sorriso che si leggerebbe nei suoi occhi.
1 commento:
Amato come al solito ... sottilmente non dice niente !
Luigi Fasce--
Posta un commento