venerdì 16 gennaio 2009

Federico Geremicca: Due soli partiti?

Da La Stampa

16/1/2009

Due soli partiti?





FEDERICO GEREMICCA

Non sono davvero giorni esaltanti per i sostenitori di una più definita «europeizzazione» del sistema politico italiano (due grandi partiti, sistema maggioritario, alternanza al governo del Paese).

Sui quotidiani di ieri, in particolare, era tutto un intrecciarsi di segnali funerei. E la novità è che i cattivi auspici non circondano più soltanto la travagliata navigazione del Pd («Soffre di un male oscuro», ha confermato Enrico Letta ricorrendo a un pietoso eufemismo) ma hanno cominciato a segnare anche il cammino di Forza Italia e An verso il congresso fondativo del Pdl come partito unico. «An non ha alcuna intenzione di essere assorbita da Forza Italia», e soprattutto «non entra in un luogo dove non c’è dialettica interna, né regole e procedure chiare e trasparenti», hanno avvertito due tra i più fedeli luogotenenti di Gianfranco Fini (Ronchi e Bocchino). Cosicché, la sensazione è che a una crisi potrebbe sommarsene un’altra. Fino all’ineludibile interrogativo: ma è davvero così sicuro che la complessità italiana sia riducibile (rappresentabile) in due grandi partiti?

Naturalmente, le crisi dei due «partitoni» hanno caratteristiche e intensità diverse, a cominciare dalla differente forza e dalla non paragonabile «capacità di comando» delle rispettive leadership. Tra tutti gli elementi di diversità, però, questo è senz’altro quello ancora più condizionato dal risultato elettorale del 13 aprile (si pensi a cosa sarebbe stato del «partito del predellino» in caso di sconfitta o ai problemi che avrebbe incontrato Berlusconi a restare saldo in sella), mentre assai più simili - e in qualche modo strutturali - appaiono invece i fattori comuni di difficoltà: dalla compatibilità delle basi elettorali (quelle di An e Forza Italia non sono certo più vicine di quanto lo fossero quelle di Ds e Margherita) alla resistenza dei gruppi dirigenti, fino agli equilibrismi necessari per far convivere riferimenti sociali, culturali e perfino religiosi storicamente diversi. Sono questi, come è noto, i problemi che hanno frenato - fino ad arenarlo - il progetto che era alla base della nascita del Pd; e sono ancora questi quelli che stanno oggi inasprendo il percorso verso il partito unico del centrodestra.

Non è dunque per caso se dalle parti del Pd si sente sussurrare di «riscomposizione», né è per pignoleria se - dall’altra parte dello schieramento - Fini e i suoi colonnelli cominciano a mettere i puntini sulle i. E soprattutto, non è solo una coincidenza se sia a destra che a sinistra si iniziano a frapporre ostacoli a un’ulteriore semplificazione del sistema: si pensi, ad esempio, al trattamento riservato dalla Lega e da molti autorevoli dirigenti del Pd al progetto Berlusconi-Veltroni in materia di legge elettorale europea. Al di là dell’ovvio riflesso di autoconservazione dei gruppi dirigenti dei partiti da fondere, è come se ci fosse qualcosa di più profondo, di non sintetizzabile, a frenare i processi di unificazione avviati. Non tutto quel che si agita nella società e nell’elettorato italiano, evidentemente, è riassumibile in due soli partiti. E qualunque sia la radice di questa ritrosia (e le ragioni sono tante) per averne conferma basta dare un’occhiata ai più recenti sondaggi, che vedono crescere a dismisura i consensi proprio delle forze rimaste fuori dai progetti di fusione: la Lega di Bossi da una parte e l’Italia dei valori di Di Pietro dall’altra.

Naturalmente, non si è ancora di fronte a crisi irreversibili: ma dopo aver assordato la sinistra, i campanelli d’allarme hanno ormai cominciato a suonare anche a destra. C’è chi, in tutta evidenza, considera - se non proprio una camicia di forza - certo una «non necessità» stare tutti assieme nello stesso partito. In più, guardando a quanto accaduto nell’altro campo e riflettendo su certi crescenti nervosismi di Fini e di Bossi, qualcuno - nell’antica Casa delle libertà - comincia a nutrire serie preoccupazioni e si interroga intorno ai costi ed ai ricavi. I leader e i rispettivi schieramenti godono, come già detto, di uno stato di salute assai diverso: ma chi è che non ricorda quanto la nascita del Pd indebolì - anche al di là delle intenzioni - l’esecutivo di Romano Prodi? Ne originò, di fatto, la crisi di governo e la sconfitta elettorale. E, perse le elezioni - così come pareva, in verità, inevitabile -, il «progetto Pd» non ha poi mostrato chissà quale spinta propulsiva. Dopo Ds e Margherita, tocca ora a Forza Italia e An tentare la fusione. Che sia una scelta al passo con la storia o in contrasto con la complessità italiana, lo vedremo. Probabilmente già alle prossime elezioni di giugno.

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