mercoledì 30 settembre 2009

Paolo Flores d'Arcais: Europa, la sinistra smarrita

Il crollo della Spd in Germania
Europa, la sinistra smarrita
di Paolo Flores d'Arcais, da il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2009

Il Partito socialdemocratico tedesco ha subito domenica un vero e proprio tracollo. Commentatori e politici fingono di interrogarsi sul “perché?”, e allargano pensosamente l’orizzonte al declino dei partiti di “sinistra” in atto da tempo nell’intera Europa. Fingono, perché mai spiegazione fu più lapalissiana e sotto gli occhi di tutti. La “sinistra” perde in Europa, puntualmente e sistematicamente, perché da tempo ha smesso di essere di sinistra. Da tempo ha smesso di fare della eguaglianza la sua bandiera, la sua bussola, la sua strategia. E dire che la realtà economica e sociale non fa che offrire alimento ad una battaglia sempre più sacrosanta e doverosa per ogni persona minimamente civile: una generazione fa la distanza, nella stessa azienda, fra il reddito di un operaio e quello del super-manager poteva essere di 1:30, 1:40 (una enormità). Oggi tocca tranquillamente la cifra, esorbitante e mostruosa, di uno a trecento o quattrocento. Ma ci sono casi non rari in cui viene superato il rapporto uno a mille.

La sinistra, intesa come socialdemocrazia, si sta avvitando in un declino rapido e galoppante perché è sempre più indistinguibile dalla destra, questa è l’ovvia verità. E dovendo scegliere tra due destre, una dichiarata coerente e orgogliosa dei suoi “valori”, l’altra titubante e ipocrita, che qui lo dice e qui lo nega, l’elettore reazionario o il mitico “moderato” che sogna un futuro di privilegio, sceglierà ovviamente la prima, mentre l’elettore democratico finirà per restare a casa – dopo due o tre “ultime volte” in cui ha volenterosamente votato tappandosi il naso. Eppure i commenti di tutti i dirigenti del Partito democratico ai risultati delle elezioni tedesche non fanno che ripetere la giaculatoria d’ordinanza: attenti a non ascoltare le sirene estremiste (sarebbe Lafontaine!), non dobbiamo rinunciare alla “cultura di governo”, l’unica anzi che alla lunga ci farà vincere (“nel lungo periodo saremo tutti morti” ammoniva il grande Keynes. Anche lui estremista, evidentemente).

Giaculatoria masochista, con la quale la “sinistra” non vincerà mai più, ma giaculatoria obbligata, perché ammanta di nobiltà (“cultura di governo”) la realtà mediocre e spesso sordida di una nomenklatura (nazionale e locale) totalmente succube dell’establishment e pronta a difenderne gli interessi, garantirne i privilegi e financo soddisfarne i capricci – e soprattutto le illegalità - anziché riequilibrare radicalmente redditi e potere a vantaggio dei meno abbienti.
Perché non è affatto vero che in Europa la sinistra sia sconfitta, e non è stato vero neppure in Germania domenica scorsa. I voti di Spd, Die Linke, Verdi e “Pirati” equivalgono e forse superano la somma dei suffragi cristiano-democratici e liberali. L’elettorato per un’alternativa alla signora Merkel ci sarebbe, insomma. E in Francia è bastato che Dany Cohn-Bendit inventasse un nuovo e credibile partito ecologista per ottenere alle europee un risultato equivalente a quello del declinante Partito socialista.

Perché dunque i partiti socialdemocratici perseverano nella politica diabolica che li sta portando all’estinzione, anziché mettersi a disposizione delle istanze di “giustizia e libertà” che percorrono massicciamente le società civili della vecchia Europa? Perché non colgono l’occasione di una crisi drammatica, colpevolmente prodotta dai padroni della finanza e governi complici, per guidare le masse nell’imporre all’avidità sfrenata e inefficiente delle classi dirigenti un sacrosanto redde rationem?

Perché hanno smesso da tempo di “rappresentare” forze popolari, e istanze di critica ai privilegi (sempre più smisurati) e all’establishment. Perché di quell’establishment sono parte integrante, benché subalterna, perché aspirano solo a partecipare alla torta di quei privilegi, anziché a sostituirvi un agape più fraterno. Perché sono casta, partitocrazia autoreferenziale, e di conseguenza strutturalmente incapaci di indicare nei nemici dell’eguaglianza i propri nemici. Ma senza indicarli, senza proporre misure che colpiscano i finanzieri della speculazione, e gli imprenditori che “delocalizzano” (cioè licenziano in patria per iper-sfruttare con profitti iperbolici nei paesi più poveri), e il dilagare dell’intreccio corruttivo-politico-criminale (le mafie ormai impazzano, dagli Urali alla penisola iberica), senza rilanciare il welfare tassando i più ricchi, la socialdemocrazia non solo non fa più politica ma è ormai morta.

Si tratta di seppellirla al più presto nella consapevolezza degli elettori, perché lo zombie di quella che fu una sinistra è oggi l’ostacolo maggiore alla nascita di nuove organizzazioni di “giustizia e libertà”.
Tentare di riformare le socialdemocrazie è una perdita di tempo. Cercare di “superarle” in una sintesi con pulsioni e illusioni “centriste” è ancora peggio, una dissipazione di energie democratiche e di passione civile. Le lezione ripetuta e convergente che da anni viene dalle urne elettorali in Europa dice invece che è maturo il momento per dare al bricolage politico dei movimenti di opinione una forma organizzativa, autonoma dai partiti, capace di non riprodurne i difetti e le derive di omologazione. Tanto più in Italia, dove sponde ecologiste o alla “die Linke” sono state cancellate definitivamente dalla corriva nullità dei gruppi dirigenti.

Franco D'Alfonso: Il muro del PD

Da Arcipelago Milano

IL MURO DEL PD
28-9-2009 by Franco D Alfonso
Ci sono cose delle quali non si riesce a capire come sia possibile accadano , al di là del credo politico di ciascuno. In questi giorni i cittadini di Como e dintorni ( Hollywood compresa, per via di Internet e di George Clooney) hanno scoperto allibiti che per evitare l’esondazione del lago in città è stato tirato su un muro talmente alto da impedire la vista dell’acqua. Il sindaco ( di centrodestra , appena rieletto con maggioranza bulgara) ha dovuto assicurare che lo avrebbe abbattuto nel giro di pochi giorni . Molto bene , si pensa , un esempio di correzione efficiente in corso d’opera : ma , un’occhiata alle misure dello stesso in progetto oppure al “rendering” computerizzato che ormai fanno anche per il rifacimento delle profumerie non si poteva darla prima, senza spendere qualche milione di euro per tenersi , alla fine, il problema dell’esondazione delle acque in città ?

Qualcosa di molto simile sta accadendo al congresso del Partito Democratico milanese e lombardo . Dunque, alle scorse elezione il candidato Sarfatti perse contro Formigoni scontando , fra le altre cose, alcuni precisi ed individuati errori , quali l’eccessiva lunghezza del processo di scelta del candidato , che terminò a meno di cinque mesi dal voto e che condannò lo sconosciuto a dover recuperare più di cinquanta punti solo come notorietà ; la conclamata mancanza di proposte politiche specifiche alternative per l’amministrazione lombarda, con una campagna elettorale basata solo su un generico richiamo al voto “anti centrodestra”; l’incapacità di presentare un “gruppo dirigente” articolato e con esperienze note candidabile alla guida amministrativa della Regione , sull’esempio dei dirigenti Psi e Pci della Prima Repubblica , che potevano aspirare al ruolo di assessori solo esibendo un “cursus honorum” di incarichi di partito ed amministrativi di almeno qualche anno .

Il Pd ha pensato quindi bene di mettere in piedi un meccanismo congressuale regionale in contemporanea a quello nazionale ( con tanti saluti alla centralità politica e mediatica dei problemi lombardi ) , con un meccanismo di voto interno che permetterà di eleggere segretari ed organismi per novembre ed iniziare da quel momento , a quattro mesi dal voto , la ricerca del candidato alla Presidenza della Regione che , una volta individuato , dovrà correre per presentare i documenti entro i termini di legge, altro che preparare una campagna elettorale . Non parliamo della scelta di una “squadra” , come si dice adesso, che potrebbe scaturire pure dalla “Primavera” dell’ Inter , per quanto se ne sa .

Esattamente come gli incapaci amministratori di Como , i maggiorenti del Pd hanno tirato su un muro metaforico ma non meno spesso di quello del Lungolago tra sé e il resto della società che invece di impedire l’esondazione del voto impedisce la comprensione di quello che succede e, soprattutto, non succede nel proprio campo. Per certi versi è meglio che non si sappia troppo in giro quello che avviene nei poco partecipati ma spesso rissosi dibattiti interni : cosa penserebbe un comune cittadino , per esempio, se arrivasse a capire che gli “iscritti” stanno “votando” per la scelta di un segretario regionale in centinaia di piccole riunioni di “circolo” , scegliendo tra tre candidati che non si azzardano a proferire parola su chi pensano possa essere il candidato Presidente e quale la proposta politica ( loro stessi ? un amico di famiglia ? il leader di un altro partito ? ) , per di più in maniera totalmente inutile , dal momento che la nomina del segretario regionale è esclusiva competenza delle cosiddette “primarie” ? Infatti il bizantinismo perverso dei regolamenti è tale che il voto degli iscritti non ha nemmeno valore di selezione delle candidature per il ballottaggio delle primarie che invece ha per il nazionale ( cui si va solo se si supera una soglia minima di consenso tra gli iscritti) , non ha proprio alcun valore pratico . Dietro quel muro e dentro queste riunioni di condominio ci si accapiglia su questioni surreali , mentre il dibattito politico e amministrativo sembra riguardare l’interno del centrodestra, Lega-Formigoni o Moratti-Podestà-Ligresti.

Giano Bifronte con il suo sguardo verso la Prima Repubblica ha visto cose che voi umani non potete neanche immaginare , compresa l’utilizzazione di un Muro a Berlino o a Gerusalemme per nascondere orrori dolorosi e cattivi . Che il suo sguardo sull’oggi sarebbe stato costretto a rilevare il Muro della stupidità , a Como come a Milano, non lo aveva proprio messo in conto.

Franco D’Alfonso

segnalazione: spostamento data incontro gruppo di volpedo

GRUPPO DI VOLPEDO
Coordinamento dei Circoli Socialisti e Libertari
del Nord-Ovest d'Italia.


Si precisa che l'appuntamento annunciato per il 3 ottobre a Volpedo sul "Ruolo delle idee e dei circoli socialisti per la ricostruzione di una Sinistra riformatrice" promosso dal COORDINAMENTO DEI CIRCOLI SOCIALISTI E LIBERTARI DEL NORD-OVEST D'ITALIA, è stato spostato, sempre a Volpedo (AL), alla data di sabato 17 ottobre 2009, a partire dalle ore 9,30.

Ripetiamo: non sabato 3 ottobre ma sabato 17.

A breve seguirà il programma completo della giornata, corredato delle opportune indicazioni stradali per arrivare sul posto.

Un saluto,

I coordinatori del Gruppo

Dario Allamano, Paola Bodojra, Francesco Somaini

Luca Cefisi: Il socialismo sconfitto, ma non morto

dal sito PES Activist

La sconfitta socialdemocratica in Germania è grave: in primo luogo, com’è evidente, per le sue conseguenze sulla vita dei tedeschi e della Germania: senza la Spd, e con la sua sostituzione con i liberali della Fdp, Berlino avrà un vero e proprio governo di destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano fiscale e sociale, e anche in altri settori strategici: per esempio si ripartirà con il nucleare, che sinora i socialdemocratici avevano impedito.
Prima di parlare di Germania, occorre però diradare il polverone mediatico e smorzare il coro dei commenti degli esperti dei nostri stivali: questo perchè l’arretramento elettorale socialista nelle europee di quest’anno ha dato in Italia la stura a un coro sulla Fine del Socialismo Europeo (non sconfitta, che c’è tutta, e che fa parte delle vicende storiche e prevedibili, ma addirittura fine, morte, kaputt…). Questo coro ha due varianti: quella che ne deduce la Fine della Sinistra, intonato dai media berlusconiani, sempre un poco esagitati nella descrizione della realtà (?), e quella che proclama la fine della socialdemocrazia ma annuncia l’arrivo a sinistra di una “cosa nuova” (la Repubblica lo canta dal 1990, insomma da quando Occhetto rifiutò l’unità socialista; il quotdiano romano è da allora che annuncia la morte della socialdemocrazia, e temiamo che lo farà per altri 20 anni, o almeno finchè Anthony Giddens continuerà a scrivere sempre lo stesso articolo per dirci che, perbacco, ci vuole qualcosa di Nuovo !).
Il socialismo europeo non è nè morto nè moribondo: sconfitto invece sì, in diversi (ma non tutti) i paesi europei. Prima ancora delle debolezze della sinistra si dovrebbe parlare qui della forza della destra, sia nella sua versione identitaria e comunitaria che in quella neoliberale e liberista. In Germania la destra vince per virtù propria e per circostanze favorevoli: la prima comprende la credibilità alla lunga guadagnata dalla cancelliera Merkel, erede non indegna dei grandi leader democristiani di cui è ricca la storia tedesca, tra le seconde, va menzionata la capacità della Csu bavarese e della Fdp di allargare al massimo lo schieramento di centrodestra. Il partito-stato bavarese continua a tenere, anche se comincia ad essere in difficoltà almeno nelle aree urbane; i liberali sono i veri vincitori (i democristiani sono cresciuti solo di circa 2 punti percentuali come rappresentanza parlamentare), e quindi non si è avuto tanto una concorrenza al centro, quanto un’effettiva affermazione di destra, che, secondo alcuni osservatori, ha una paradossale ragione proprio nella crisi economica: benchè spaventati, o proprio perchè spaventati, gli elettori tendono a confermare fiducia ai “competenti” dell’economia, al ceto finanziario e imprenditoriale che la Fdp rappresenta, anche se sono proprio costoro i responsabili della crisi.
La Grosse Koalition ha nuociuto ai socialdemocratici, come anche in Austria: infatti, o si è subalterni al cancelliere, o conflittuali, ed entrambi i ruoli sono poco apprezzati dagli elettori. In particolare, è ovvio, dagli elettori di sinistra: ci si è limitati a dire a questi ultimi che, perlomeno, la Spd nel governo era meglio dei liberali….verissimo, ma non propriamente un argomento entusiasmante !
A questo punto, non eviteremo comunque di parlare anche dei problemi interni alla socialdemocrazia tedesca: che è in calo elettorale dalla storica vittoria del 1998: dal 44,5% al 23,5%, passando per il 41,6% del 2002 e il 36,2% del 2005 (nota: si intendono qui le percentuali di seggi parlamentari conquistati, perchè la conta dei voti di lista e dei voti nei collegi uninomiali sarebbe interessante ma ci porterebbe lontano). Nel 1998, le anime della socialdemocrazia agirono assieme: presidente del partito era Oskar Lafontaine, che solo a risultati raggiunti cedette ufficialmente a Schroeder il primato. La torsione data da Schroeder nel corso dei suoi due mandati è stata forte, ed è stata nel segno della Neue Mitte, il “nuovo centro”, quindi una versione di governo incentrata sulla sostenilità finanziaria dello stato sociale (in una parola: tagli), una robusta importazione di temi clintoniani e blairiani, insomma quella “terza via” anni 90 che indicava nei compiti della sinistra semplicemente una fiduciosa azione di tutela delle magnifiche e progressive sorti dei mercati, sia pur con un accento, un poco moralistico, quindi ideologico, sulle pari opportunità da offrire ai poveri, purchè virtuosi, volenterosi e quindi meritevoli di accedere alle risorse che immancabilmente la modernità avrebbe arrecato.
La crisi della Spd è venuta prima della crisi elettorale, accellerata dalla scissione di Lafontaine, anzi Schroeder per anni è sembrato in grado di arginare con il suo carisma le debolezze e le incertezze del partito: ha ben governato l’economia (confermando l’opinione di Schumpeter che i socialisti sappiano prendere molto seriamente il compito di far funzionare il capitalismo) e l’operazione di avere un welfare sostenibile è tecnicamente riuscita, ma il paziente non ne è uscito tanto bene (cioè la serenità, il benessere,l’eguaglianza, insomma i fini per cui governiamo, essendo mercato ed efficienza solo strumenti): insomma, alla fine, la mancanza di una convinta azione redistributiva ha fatto crescere il numero relativo dei poveri e il divario assoluto con i più ricchi. Schroeder ed i suoi hanno perseguito con testardaggine lo schema idelogico della “terza via”, ed hanno reagito ad ogni sconfitta dicendosi che il rinnovamento non era stato condotto abbastanza a fondo. Il partito socialdemocratico è stato vissuto spesso come un impiccio all’azione di governo. Quando un nuovo leader, Beck, ha cercato di riorganizzarlo, scontrandosi con Muentefering e proponendo di dare ai tedeschi qualcosa in termini di redistribuzione del benessere e di benefici sociali, agendo cioè non solo sulla leva delle opportunità di mercato ma anche su quella dell’intervento statale, la reazione dei seguaci dell’ex-cancelliere è stata virulenta, al punto da defenestrare Beck in una specie di putsch. Questo schroederismo senza Schroeder (che nel frattempo si è messo in pensione e si dedica a fare il lobbista per grossi gruppi industriali: va bene il postmoderno, ma ve lo immaginereste Brandt finire così ?) ha portato al quarto arretramento elettorale della Spd dal 1998, il più vistoso. E potrebbe non essere l’ultimo, almeno leggendo un’intervista oggi sulla stampa italiana a un membro dell’attuale gruppo dirigente socialdemocratico che parla di “nuove idee” e “nuovo programma”, dichiarazioni sbalorditive visto che l’aggiornamento del programma della Spd è nuovo di zecca (ma l’aveva promosso Beck). E’ probabile che le cose nella Spd miglioreranno quando si terranno le idee socialdemocratiche e si cambieranno piuttosto gli uomini.
Quanto al socialismo europeo, esso raccoglie tante vicende nazionali: ogni generalizzazione è fuorviante, e lo diciamo impegnandoci a non suonare la fanfara per le previste e prevedibili, future vittorie in Grecia o in Scandinavia.

Intervista con Rasmussen, presidente PSE

Da La Stampa

Il presidente Pse: «Per creare nuovi posti di lavoro guardiamo alle dinamiche transfrontaliere»
MARCO ZATTERIN
BRUXELLES
Poul Nyroup Rasmussen, presidente del Partito socialista europeo, ammette che quando sono arrivati i risultati delle elezioni tedesche ha provato «una grande tristezza». Eppure, assicura, «fareste meglio a non considerarci finiti». La Spd in Germania «ha pagato un prezzo esagerato», però «in Portogallo e Norvegia abbiamo vinto, e ora mi aspetto un’affermazione greca. Non sono i segnali di un movimento al tappeto».

La Spd, il più vecchio partito socialdemocratico europeo, non era mai andata così male. Vorrà pur dire qualcosa...
«E’ stata penalizzata dalla partecipazione alla Grande Coalizione con Angela Merkel. Nei quattro anni di governo la disoccupazione è cresciuta parecchio e i senzalavoro hanno presentato il conto alla Spd, anche attuando la “politica del sofà”: sono rimasti a casa in preda all’apatia, pensando di non poter influenzare in alcun modo il futuro con il loro voto».

Ma gli elettori dei Verdi e della Linke alle urne sono andati...
«I socialdemocratici hanno subito un “effetto sandwich”, stretti fra i cristiano-democratici e l’altra sinistra. E’ un fenomeno europeo: gli elettori, soprattutto a sinistra, sono persuasi che i partiti tradizionalmente al governo non abbiano più risposte. Del resto Merkel ha vinto grazie ai liberali; lei non è cresciuta, loro sì. Ecco perché dico che la Spd ha pagato più cara la nuova tendenza».

Intende l’eccessiva adesione al libero mercato?
«E’ sbagliato pensare che le riforme non facciano vincere. Il problema è combinarle con lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Gli interventi effettuati da Schröder dopo il 1998 non hanno avuto questo esito. Il clima economico si stava deteriorando e la gente perdeva il posto. Così nel 2005 i socialdemocratici hanno perso. Colpa della crisi, non della Spd».

E’ passato poco tempo da quando Blair e Schroeder parlavano di terza via socialista. Questa è morta, lo ammetterà.
«Temo di sì. Credo però che esista ancora la possibilità di aprire una nuova era ragionando in chiave europea. La creazione del lavoro richiede dinamiche transfrontaliere. Noi siamo l’unica forza che può spingere in questa direzione, mentre gli euroscettici vogliono chiudere le porte e il centrodestra è tentato dal nazionalismo. Dobbiamo creare nuovi posti di lavoro e far partecipare i cittadini all’economia, puntando su valori e giustizia sociale. Contemporaneamente si devono porre le condizioni per evitare che la crisi finanziaria si ripeta. Così hanno fatto portoghesi e norvegesi».

Invece in Gran Bretagna i laburisti hanno le ore contate.
«La situazione è molto seria, ma sono colpito da come Gordon Brown si batta per dare la scossa al Paese. Sarò naïf, ma se riparte l’economia e i lavoratori cominciano a chiedersi che cosa conviene loro veramente, non è detto che i conservatori si affermino».

Perché?
«Perché Cameron imita la Merkel. Vuole ridurre le tasse, un meccanismo che non funziona politicamente quando c’è la recessione. Si brucia lavoro. Servono investimenti pubblici, non ulteriori privatizzazioni».

Il Pd fatica a darsi un leader. Onda negativa anche da noi?
«Spero, e credo, che i democratici sappiano restare uniti. Chi ha fondato il partito voleva costruire una nuova Italia e togliere il potere a Berlusconi. Oggi nel Pd devono sentirsi obbligati a essere compatti. Se non lo saranno, perderanno le elezioni per un tempo molto, molto lungo».

Fabio Mussi: La fine della sinistra liberista

Dal sito di SD


La fine della sinistra liberista
di Fabio Mussi
Mer, 30/09/2009 - 06:37
Dopo la Grosse Koalition viene dunque in Germania un governo di centro destra, cancelliera Angela Merkel, fondato sull'alleanza tra cristiano democratici e liberali. La distanza tra questo campo politico e quello di opposizione, occupato essenzialmente da Spd, Verdi e Linke, è di 2.9 punti percentuali. Complessivamente sono cinque partiti. Dovesse servire, è la conferma che in Europa non esiste bipartitismo, da nessuna parte.
In Italia poi, la teoria bipartitica, nata in seno al neonato Partito democratico sotto la campana delle figure immaginarie, è stata madre della pratica monopartitica, lasciando dilagare, politicamente e culturalmente, una destra che peraltro non è quella di Angela.
Subito si è alzato il coro: "vince il centrodestra, bisogna andare più a destra". Il coro degli interessati e degli sciocchi. La batosta delle Spd, con il 23% (meno 11% rispetto alle elezioni precedenti) mai stata così in basso dopo il 1949, è il penultimo episodio di chiusura di una fase. Il prossimo sarà la batosta del Labour in Inghilterra. Si tratta di ineluttabile destino, perché sono partiti socialisti e socialdemocratici, e l'Europa moderna non è più patria per il "socialismo"? No, si tratta delle conseguenze di una abdicazione.
Tutto comincia dopo Reagan e Thatcher. L'avvento della destra negli Usa e in Gran Bretagna, dopo gli anni '80 mette il turbo al capitalismo finanziario che guida la globalizzazione e ne determina i caratteri predatori e di guerra che abbiamo visto negli ultimi trent'anni dispiegarsi sotto i nostri occhi. Il sistema ha prodotto una enorme quantità di merci alimentandosi su scala planetaria di lavoro umano e risorse naturali.
Fino a produrre livelli mai visti di diseguaglianza sociale e squilibri ambientali potenzialmente irreversibili e catastrofici. Quasi ovunque, in Europa, le sinistre sono restate a lungo due. Una, minoritaria, nutrita di antichi simboli, e l'altra, di governo, che resta ad un certo punto della storia folgorata dallo sguardo di Medusa di questo nuovo e mai visto capitalismo a scala planetaria. Esattamente in Inghilterra e in Germania viene elaborata l'idea che la sinistra, per essere moderna, dev'essere "di centro". Left of center, dice Tony Blair, segretario del Labour; Der neue Mitte, il Nuovo Centro, dice Gherard Schroeder, segretario della Spd.
E siccome, oltre che come "sterminata raccolta di merci", il nuovo capitalismo predatorio si presenta come "ininterrotta produzione di ideologia", non c'è stata rappresentazione ideologica che non sia stata presa per buona: "il mercato si autoregola, la ricchezza si distribuisce naturalmente secondo talento e merito, il lavoro flessibile è libertà, lo Stato è troppo invadente, lo Stato sociale è troppo caro, c'è una guerra umanitaria, la democrazia si esporta".... Aggiunga il lettore a piacimento.
"Pensiero unico", è stato chiamato. La crisi della sinistra storica dipende esattamente da questo: dall'aver "subito il fascino del liberismo" - come tempo fa è stato riconosciuto da D'Alema, senza peraltro trarne le conseguenze -, dall'aver cioè subito l'egemonia altrui, dall'aver dissipato una autonomia culturale e un pensiero critico, infine dall'aver rinunciato ad una conoscenza del mondo reale. E così, la crisi della sinistra è diventata la crisi dell'Europa: nello tsunami che ha colpito la finanza e l'economia globale, l'Europa è rimasta senza parole. Le parole vengono dagli Stati Uniti, con il nuovo Presidente Barack Obama, dall'Asia e dal Sud America.
Ora, l'idea che siccome il socialismo è in crisi, come si vede anche nel voto tedesco, la risposta è il Partito democratico nato in Italia, è del tutto infondata. Quello del Pd è un progetto precocemente fallito per le stesse esatte ragioni per cui la Spd prende un colpo micidiale in Germania e il Labour certamente lo prenderà in Inghilterra. Il Pd è figlio della stessa razionalità: al centro, al centro! E genera un "riformismo" innocuo e senza sale. Sono gli sgoccioli di una vicenda europea al suo epilogo. Basta guardare l'altra sponda dell' Atlantico: Obama, leader del Partito democratico americano, al confronto dei socialisti e dei democrats di questa sponda, sembra uno spartakista…
Una "estrema sinistra" intorno al dieci per cento non sarebbe una novità, nel vecchio continente. Ma il risultato tedesco dei Gruenen, dei Verdi (10.2%), e soprattutto della Linke, la Sinistra di Lafontaine, Gysi e Bisky (12.2), rappresenta un risultato strepitoso, gravido di possibili conseguenze positive. Sono forze non testimoniali, destinate ad esercitare un peso nel loro Paese e una influenza in altri. Le parole-chiave? Ambiente, lavoro, giustizia sociale, pace. I cardini di un programma che - si annuncia - vuole essere speso in una proposta di coalizione, con l'Spd naturalmente, che non fa il verso alla destra.
Quadro assolutamente suggestivo anche in Italia. Ma questo è già un altro discorso.
P.S.: Per chi si fosse perso qualche seguito degli alfieri della "sinistra di centro". Schroeder, già leader socialdemocratico, fa il rappresentante di magnati russi, con adeguata retribuzione. Blair, già leader laburista, convertitosi nel frattempo dal protestantesimo anglicano al cattolicesimo, fa l'affarista e il conferenziere, e viene descritto dalla stampa come avido di cachets milionari. Quando si dice mettere in pratica una teoria (della ricchezza). Due casi di marxismo involontario.

martedì 29 settembre 2009

Don Paolo Farinella a Silvio Berlusconi

Don Paolo Farinella a Silvio Berlusconi: Lettera di ripudio
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Ieri alle 19.12

Sig. Presidente «pro tempore»
del Consiglio dei Ministri
Silvio Berlusconi,
Palazzo Chigi

00100 Roma



Lettera di ripudio

Il mio nome è Paolo Farinella, prete della Chiesa cattolica residente nella diocesi di Genova. Come cittadino della Repubblica Italiana, riconosco la legittimità formale del suo governo, pur pensando che lei abbia manipolato l’adesione della maggioranza dei pensionati e delle casalinghe che si formano un’idea di voto solo attraverso le tv, di cui lei ha fatto un uso spregiudicato e illegittimo. Lei in Italia possiede tre tv e comanda quelle pubbliche nelle quali ha piazzato uomini della sua azienda o a lei devoti e proni. Nel mese di agosto 2009 ha inaugurato una nuova tv africana, Nessma, a cui ha fatto pubblicità sfruttando illecitamente la sua posizione di presidente del consiglio e dove ha detto il contrario di quello che opera in politica e con le leggi varate dal suo governo in materi di immigrazione. Se lei è pronto a smentire, come è suo solito, ecco, si guardi il seguente filmato e giudichi da lei perché potrebbe trattarsi di Veronica Lario travestita da lei:

< http://www.youtube.com/watch?v=Se3yqycsMyg&feature=video_response >.

Faccia vedere il video ai suoi amici leghisti e nel frattempo ascolti cosa dice il sindaco di Treviso, lo sceriffo Giancarlo Gentilini del partito di Bossi, ad un raduno del suo partito xenofobo dove ha esposto «Il vangelo secondo Gentilini» con chiarezza diabolica: «Voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari … Voglio la rivoluzione contro i bambini degli immigrati … Ho distrutto due campi di nomadi e ne vado orgoglioso. Voglio la rivoluzione contro coloro che vogliono le moschee: i musulmani se vogliono pregare devono andare nel deserto, ecc. ecc. Questo è il Vangelo secondo Giancarlo Gentilini (sindaco di Treviso): “Tutto a noi e se avanza qualcosa agli altri, ma non avanzerà niente”». Questo il link con la sua voce in diretta; si prepari ad ascoltare il demonio in persona:

< http://www.youtube.com/watch?v=_WCZNQJkV3E&feature=related >.


Legittimità elettorale e dignità etica

Riconoscere la legittimità del suo governo, con riserva etico-giuridica, non significa riconoscere anche la sua legittimità morale a governare il Paese perché lei non ha alcuna cultura dello Stato e delle sue Istituzioni, ma solo quella di difendere se stesso dalla Giustizia e i suoi interessi patrimoniali che sotto i suoi governi prosperano alacremente. Il conflitto di interessi pesa come un macigno sulla Nazione e la sua economia, ma lei è bravo ad imbrogliare le carte, facendolo derubricare nella coscienza della maggioranza che ne paga le conseguenze economiche e democratiche. Cornuti e mazziati dicono a Napoli.

Quando la sua maggioranza si sveglierà dall’oppio che lei ha diffuso a piene mani sarà troppo tardi e intanto il Paese paga il conto dei suoi avvocati, nominati da lei senatori, cioè stipendiati con soldi pubblici. Allo stesso modo stiamo pagando i condoni fiscali che lei si è fatto su misura sua e della sua azienda, sottraendo denaro al popolo italiano. In morale questo viene definito come doppio furto.

Da quando lei «è sceso in campo», l’Italia ha iniziato un degrado inesorabile e costante che perdura ancora oggi, codificato nel termine «berlusconismo» che è la sintesi delle maledizioni che hanno colpito l’Italia sia sul piano economico (mai l’economia è stata così disastrata come sotto i suoi governi), su quello sociale (mai si sono avuti tanti poveri, disoccupati e precari come sotto i suoi governi), e su quello civile (mai come sotto i suoi governi è sorta la categoria del «nemico» da odiare e da abbattere). Lei, infatti, usa la menzogna come verità e la calunnia come metodo, presentandosi come modello di furbizia e di utilizzatore finale di leggi immorali e antidemocratiche come tutte quelle «ad personam».

Nei confronti dell’ultima illegalità, che grida giustizia al cospetto di Dio, il decreto 733-B/2009, che segna una pietra miliare nel cammino di inciviltà e di negazione di quelle radici cristiane di cui la sua maggioranza ama fare i gargarismi, sappia che siamo cento, mille, diecimila, milioni che faremo obiezione di coscienza all’ignobile e illegale decreto, pomposamente detto «decreto sicurezza»: diventeremo tutti clandestini e sostenitori dei cittadini di altri Paesi, specialmente africani, in quanto «persone», anche se clandestini, a costo della nostra vita. Dobbiamo ubbidire alla nostra coscienza piuttosto che alle sue leggi razziali e disumane. La legge che definisce l’immigrazione come illegalità è un insulto a tutte le Carte internazioni e nazionali sui «diritti», un vulnus alla dottrina sociale della Chiesa e colloca l’Italia tra le nazioni responsabili delle stragi degli innocenti, perseguitati e titolari del diritto di asilo.


Essere «alto» ed essere »grande»

Lei non è e non sarà mai uno «statista» se sente il bisogno di fare vedere alle sue donnine i filmati che lo ritraggono tra i «grandi». Per essere «grande», non basta rialzare le suole delle scarpe, ma occorre avere una visione oltre se stesso, una visione «politica» che a lei è estranea del tutto, incapace come è di vedere oltre i suoi interessi. Per potere emergere dallo squallore in cui lei è maestro, ha profuso a piene mani il virus dell’antipolitica, il qualunquismo populista, trasformando la «polis» da luogo di convergenza di ideali e di interessi a mercato di convenienza e di sopraffazione. Lei, da esperto di vecchio pelo, ha indotto i cittadini ad evadere il fisco che in uno Stato democratico è prevalentemente un dovere civile di solidarietà e per un cristiano un obbligo di coscienza perché strumento di condivisione per servizi essenziali alla corretta e ordinata convivenza civile e sociale. Durante il suo governo le tasse sono aumentate perché incapace di porre un freno alla spesa pubblica che anzi galoppa come non si è mai visto. Non faccia confusione tra «essere alto» e «essere grande», come insegna Napoleone che lei ben volentieri scimmiotta, senza riuscire ad eguagliare l’ombra del dittatore.

Lei non può negare di essere stato piduista (tessera n. 1816) e forse di esserlo ancora, se come sembra, con il suo governo cerca di realizzare la strategia descritta nei documenti sequestrati al gran maestro Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi (Comunicato Ansa del 17 marzo 1981 ore 12:18, da cui emerge il suo numero di tesserato; cf intervista di Licio Gelli su Repubblica.it del 28-09-2003).


La maledizione italiana

A lei nulla importa dei valori religiosi, etici e sociali, che usa come stracci a suo comodo esclusivo, senza esimere di vantarsi di essere ossequioso degli insegnamenti etici e sociali della Chiesa cattolica, di cui si è sempre servito per averne l’appoggio e il sostegno. Partecipa convinto al «Family-Day» in difesa della famiglia tradizionale, monogamica formata da maschio e femmina e poi ce lo ritroviamo con prostitute a pagamento che registrano la sua voce nel letto di Putin; oppure spogliarelliste che lei ha nominato ministre: è lecito chiedersi, in cambio di cosa? Come concilia questo suo comportamento con le sue dichiarazioni di adesione agli insegnamenti della Chiesa cattolica? La «corrispondenza d’amorosi sensi» tra lei, il Vaticano e la gerarchia cattolica è la maledizione piombata sull’Italia ed una delle cause del progressivo e costante allontanamento dalla Chiesa delle persone migliori. I prelati, come sempre nella storia, fanno gli affari loro e lei che di affari se ne intende si è lasciato usare ed ha usato senza scrupoli offrendo la sua collaborazione e cercando quella della cosiddetta «finanza cattolica» legata a doppia mandata con il Vaticano. Se volesse avere la documentazione si legga il molto istruttivo saggio di Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, «L’unto del Signore», BUR, Rizzoli, Milano 2009.

Gli ecclesiastici, da perfetti «uomini di mondo, hanno capito che con lei al governo potevano imporre al parlamento leggi e decreti di loro interesse, utilizzandolo quindi come braccio secolare. Per questo obiettivo, devono però rinunciare alla loro religiosità e adeguarsi alla paganità del potere che esige la contropartita. Lei, infatti, è sostenuto dall’Opus Dei, da Comunione e Liberazione e da tutte le organizzazioni e sètte cattoliche che si lasciano manovrare a piacimento con lo spauracchio dei «comunisti» e con l’odore satanico dei soldi.

Il Vaticano e i vescovi, non essendo profeti, ma esercenti gestori di una ditta pagana, non hanno saputo o voluto cogliere le conseguenze nefaste che sarebbero derivate al Paese da questo connubio incestuoso; di fatto sono caduti nella trappola che essi stessi e lei avevate preparato. L’incidente di Vittorio Feltri, da lei, tramite la famiglia, nominato direttore del suo «Il Giornale» con cui uccide sulla pubblica piazza Dino Boffo, direttore di «Avvenire» portavoce della Cei, va oltre le vostre intenzioni e come un granellino di sabbia inceppa il motore. Oppure, secondo l’altra vulgata, tutto sarebbe stato progettato da lei e Bertone per permettere a questi di mettere le mani sulla Cei e a lei di fare tacere un sussurro appena modulato di critica sui suoi comportamenti disgustosi. Senza volersi arrampicare sugli specchi forse si è verificato un combinato disposto, non nei tempi e nelle forme da voi progettato.

Il giorno 7 agosto 2009, in un colloquio riservato con il cardinale Angelo Bagnasco, lo misi in guardia: «Stia attento – gli dissi – e si prepari alla guerra d’autunno perché con la nomina di Feltri al Giornale di Berlusconi (20-07-2009), la guerra sarà totale e senza esclusione di colpi. Berlusconi non può rispondere alle domande di la Repubblica e non può andare in tv a dare spiegazioni. Può continuare a negare sulle piazze per gli allocchi, ma nemmeno lui, menzognero di professione potrebbe negare davanti a domande precise e contestazioni puntuali. Per questo non lo farà mai, tanto meno in Parlamento. Non ha che un mezzo: sguazzare nel fango facendolo schizzare su tutti e su tutto, in base al principio che se tutto è infangato, nessuno è infangato». Il cardinale mi guardò come stupito e incredulo, reputando impossibile la mia previsione. Credo che ora si morda le labbra.

Eppure credo anche che lei sia finito: per la finanza internazionale e per gli interessi di coloro che lo hanno sostenuto, Vaticano compreso, lei ora è ingombrante e impresentabile e deve essere sostituito, ma lei non cadrà indenne, farà più danni che potrà, un nuovo Sansone in miniatura. Lei sa che deve andarsene, ma sa anche che passerà alla storia non come quel «grande, immenso» presidente che è stato lei, ma come «l’utilizzatore finale di prostitute che altri pagavano per conto suo». Non c’è che dire: lei è un grande in bassezza e amoralità.


Spergiuro

Nella trappola non è caduto il popolo di Dio, formato da «cristiani adulti» che tanto dispiacciano al papa «pro tempore» Benedetto XVI: lei non potrà mai manipolarli come non potrà mai possedere le coscienze dei non credenti austeri, cultori della laicità dello Stato che lei vilipende e svende, sempre e comunque, per suo inverecondo interesse. Lei ha la presunzione ossessiva di definirsi liberale, ma non sa cosa sia il liberismo, mentre è l’ultima caricatura di promettente e decadente comunista sovietico di stampo breshnieviano, capace di usare il popolo per affermare la propria ingordigia patologica di potere. D’altronde il suo amico per la pelle non è l’ex «kgb» Vladimir Vladimirovic Putin, nella cui dacia è ospitato secondo la migliore tradizione comunista italiana?

Dal punto di vista della morale cattolica, lei è uno spergiuro perché ha giurato sulla testa dei suoi figli, senza pudore e alcuni giorni dopo il «ratto di Noemi», ha dato dello stesso fatto diverse versioni differenti, condannando se stesso e la testa dei suoi figli alla pena dello spergiuro che già Cicerone condannava con la «rovina» e l’esposizione all’umana infamia: «Periurii poena divina exitium, humana dedecus – La pena divina dello spergiuro è la rovina e l’infamia/il disprezzo degli uomini» (De legibus, II, 10, 23; cf anche De officis, III, 29, 104;in Cicerone, Opere politiche e filosofiche, a c. di Leonardo Ferrero e Nevio Zorzetti, vol. I, UTET, Torino, 1974, risp. p. 489 e p. 823). Anche il Diritto Canonico, per sua informazione, riserva allo spergiuro «una giusta pena» (CJC, can. 1368), demandata all’Autorità, in questo caso il papa, che avrebbe dovuto comminarle la pena canonica, invece di indirizzarle una lettera diplomatica per il g8 e i suoi «deferenti saluti». Non ci può essere deferenza, tanto meno papale, per un uomo che ha toccato il fondo della dignità politica e morale.

Gli ultimi fatti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli hanno sprofondato lei (non era difficile), ma anche l’Istituto Presidenza del Consiglio in un letamaio senza precedenti. Mai l’Italia è stata derisa nel mondo intero (ormai da quattro mesi continui) a causa di un suo presidente del consiglio che, su denuncia della moglie, frequenta le minorenni e sempre per ammissione della moglie che lo frequenta da oltre trent’anni, per cui si presume lo conosca bene, è malato e come un dio d’altri tempi esige per la sua perversione, sacrifici di giovani vergini per nascondere a se stesso i problemi del tempo che inesorabilmente passa, nonostante il trucco abbondante.


Affari privati o deriva di Stato?

Lei dice di volere difendere la sua privacy, ma non c’è privacy per uno che ha portato i suoi fatti «privati» in tv attaccando indecorosamente la sua stessa moglie che ha intrapreso la strada del divorzio. Forse lei ha dimenticato che sull’immagine della sua «felice famiglia italiana» lei ha costruito se stesso e la sua fortuna politica ed economica. Lei si comporta per quello che è: uno spaccone che in piazza si vanta di tutto ciò che non ha mai fatto e poi pretende che nessuno ne parli. Se lei mette il segreto di Stato sulle sue ville, queste diventano ipso facto «affare politico» perché lei le usa anche per incontri istituzionali e quindi fanno parte dell’Istituzione della presidenza del consiglio. Lei non ha diritto alla vita privata, quando si comporta da uomo pubblico e promette carriere tv o posti in parlamento a donnine compiacenti che la sollazzano nel suo «privato». Non è lei che ha detto in una intercettazione, parlando con Saccà che «le donne più son cattoliche più son troie»? Può spiegare, di grazia, il significato di queste parole altamente religiose e rispettose delle donne e indicarci a chi si riferiva? C’entrano le due donne che siedono nel suo governo e che si vantano di essere cattoliche: la Carfagna e la Gelmini?

Lei e suoi paraninfi continuate a dire che si tratta di questioni private senza rilevanza pubblica, sapendo di mentire ancora e senza pudore. Sarebbero affari privati se Silvio Berlusconi non fosse presidente del consiglio che alle donnine che gli accompagnano anche a pagamento, non promettesse incarichi in aziende pubbliche (tv) o posti in parlamento se non addirittura al governo. Vorrei chiederle per curiosità: quali sono i meriti e le benemerenze delle ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini per essere assurte, non ancora quarantenni, a posti di rilievo nel suo governo? Perché Mara Carfagna posava nuda o la Gelmini prendeva l’abilitazione in Calabria?

Le sue ville sono ancora sotto la tutela del segreto di Stato e quindi guardate a vista da polizia, carabinieri, esercito? A spese di chi? Può ancora dire che sono residenze private? Fu lei in persona ad andare dal suo devoto suddito Bruno Vespa a rispondere pubblicamente a suo moglie, Veronica Lario, rendendo pubblici i fatti che la riguardavano e attaccando sua moglie senza alcuna pietà, facendo pubblicare dal suo «killer mediatico» le foto di sua moglie a seno nudo di quando faceva l’attrice. Non credo che lei possa dire che le sue vicende sono private perché ci riguardano tutti, come cittadini e come suoi «sovrani» costituzionali perché una cosa è certa: noi non abdicheremo mai alla nostra dignità di cittadini sovrani figli orgogliosi della nostra insuperabile Costituzione. Noi non permetteremo mai che lei diventi il «padrone» della nostra dignità.

Per lei è cominciato l’inizio della fine perché il suo declino è iniziato nel momento stesso in cui è andato nella tv di Stato compiacente e, senza contraddittorio, alla presenza del solo cerimoniere e maggiordomo fidato, ha cominciato a farfugliare bugie, contraddizioni, falsità che non hanno retto l’urto dei fatti crudi. Se lei fosse onesto, anche solo per una parte infinitesimale, dovrebbe rassegnare le dimissioni, come aveva promesso nel suddetto, compiacente recital.



Strategie convergenti

Lei può fare affari col Vaticano e chiudere nel cassetto morale e dignità, ma sappia che il Vaticano non è la Chiesa, per nostra fortuna e per sua e vostra disgrazia. Noi, uomini e donne semplici, vogliamo onorare e difendere la nostra dignità e la nostra fede, contro ogni tentativo di manipolazione e di incesto tra altare e politica. Purtroppo lei, supportato da parte della gerarchia, ha fatto scadere la «politica» da arte a servizio del bene comune a mercimonio di malaffare e a sentina maleodorante. Le istituzioni cattoliche che lo hanno appoggiato ne portano, con lei, la responsabilità morale, in base al principio giuridico della complicità.

Strana accoppiata: i difensori della moralità ufficiale, costretti a tacere per mesi di fronte a comportamenti indegni e a leggi inique, perché lautamente ricompensati o in vista della mancia promessa. Trattasi solo di un baratto di cui i responsabili dovranno rendere conto. I vescovi hanno ritrovato la parola quando si sono visti attaccare, inaspettatamente, da lei con avvertimenti di stampo mafioso (per interposta persona). La gerarchia, in genere felpata e compassata, in questo frangente è risorta come un sol uomo, arruolando anche il papa alla bisogna, ma cogliendo anche l’occasione per dare corpo alle vendette interne e regolare i conti tra ruiniani e bertoniani. Come insegna l’amabile Andreotti «la vendetta è un piatto che si gusta freddo». Strategie convergenti che hanno sprigionato il disgusto del popolo cattolico e dei cittadini che ancora pensano con la propria testa.


Ripudio

Io, Paolo Farinella, prete mi vergogno della sua presidenza, per me e la mia Nazione e, mi creda, in Italia siamo la maggioranza che non è quella elettorale, ottenuta da una «legge porcata» che ben esprime l’identità della sua maggioranza e del governo e di lei che lo presiede (o lo possiede?). Lei potrà avere il sostegno del Vaticano (uno Stato estero) e della Cei che con il loro silenzio e le loro arti diplomatiche condannano se stessi come complici di ingiustizia e di immoralità.

Per questi motivi, per quanto mi concerne in forza del mio diritto di cittadino sovrano, non voglio più essere rappresentato da lei in Italia e all’Estero, io la ripudio come politico e come presidente del consiglio: lei non può rappresentarmi né in Italia e tanto meno all’estero perché lei è la negazione evidente di tutto quello in cui credo e spero di vedere realizzato per il mio Paese. sia perché non mi rappresenta sia perché è indegno di rappresentare il buon nome dell’Italia seria, laboriosa e civile e legale che amo e per la quale lotto e impegno la mia vita. Non importa che lei abbia la maggioranza parlamentare, a me interessa molto di più che non abbia la mia coscienza

Io, Paolo Farinella, prete ripudio lei, Silvio Berlusconi, presidente pro tempore del consiglio dei ministri e tutto quello che rappresenta insieme a coloro che l’adulano, lo ingannano, lo manipolano e lo sorreggono: li/vi ripudio dal profondo del cuore. in nome della politica, dell’etica e della fede cattolica. La ripudio e prego Dio che liberi l’Italia dal flagello nefasto della sua presenza.

Genova 09 settembre 2009

Paolo Farinella, prete

Sergio Ferrari: Elezioni tedesche e crisi del centrosinistra

da Aprile
Elezioni tedesche e crisi del centrosinistra
Sergio Ferrari, 28 settembre 2009, 12:48
L'intervento I risultati elettorali tedeschi stanno provocando, come era prevedibile, una specie di autoanalisi critica nel nostro centrosinistra. Pur con deviazioni e tentativi vari di evitare l'ostacolo, il centro del ragionamento sembra consistere nella necessità di un cambiamento. Ma questa è solo una osservazione che sfiora la banalità
Cambiare cosa? Cambiare chi? In che direzione? E' a questo punto che compaiono i caveat, i timori ma anche le inadeguatezze che, per la verità non sono di oggi. Perché è significativo il fatto che molti si preoccupano di uno spostamento a sinistra del PD, che certamente non sarebbe senza conseguenze non solo nella strutturazione politica del Paese ma sulle stesse strategie del PD. E, d'altra parte, le perplessità emerse in Germania sui prezzi che la SPD avrebbe dovuto pagare, e ha pagato, per realizzare la grande alleanza - motivata infatti da necessità nazionali - va in parallelo con molte critiche al centrosinistra nostrano. Ma lo stesso si potrebbe affermare per la vicenda Blair in Gran Bretagna e in definitiva per quelle crisi del pseudo socialismo europeo che aveva perso la propria identità politica conservando a fatica e nei migliori dei casi, la manutenzione delle vecchie riforme del welfare di mezzo secolo fa. Ed ora si assiste ad affermazioni clamorose per la loro ovvietà: il mondo è cambiato; c'è la fine del fordismo, la globalizzazione avanza.....
Ma esaurite queste battute, riemerge la questione che, certamente ridotta all'osso, è molto semplice a dirsi: se gli spostamenti a destra non pagano allora ci si dovrebbe spostare a sinistra.... Ma qui rischia di cadere l'asino nel senso che non volendo arrivare a riscoprire un comunismo inesistente, dopo anni di confusione e di approssimazioni politico-culturali, non si sa nemmeno che cosa bisognerebbe fare per spostarsi in maniera accettabile a sinistra e gli interpreti rischiano di essere o di apparire come degli improvvisatori e peggio.
Inoltre nel caso italiano non c'è solo la crisi politica del centrosinistra, comune all'Europa, ma c'è una crisi economica e sociale specifica che ha avuto proprio in questo centro sinistra uno dei responsabili. Ed è una crisi che ci costa un punto di Pil in meno all'anno, una debolezza strutturale del nostro sistema produttivo, un rischio occupazionale pesante. Una volta si sarebbe fatta una bella svalutazione, tanto per campare ancora un po'. Aggiungiamo in questo nostro panorama, il degrado che ormai ha raggiunto la concezione e la gestione degli interessi pubblici. Oltre alla questione, certamente non marginale, dell'esistenza di un caso "Berlusconi".
Non ci rimangono che le scialuppe di salvataggio e il "si salvi chi può?" No, c'è un richiamo alla responsabilità, c'è una coscienza ancora non organizzata ma crescente; c'è il peso di una storia che in condizioni di emergenza ha un suo suolo; c'è una Europa che ci trattiene dal superare il baratro; ci sono nuclei sociali e culturali ancora operanti e disponibili; ci sono segnali - e anche qualcosa di più consistente - che tra i giovani e anche tra i meno giovani si stia riscoprendo il valore dei principi.

Silvia Giannini-Maria Cecilia Guerra: Un'amnistia di fatto dietro lo scudo fiscale

Dal sito www.lavoce.info

UN'AMNISTIA DI FATTO DIETRO LO SCUDO FISCALE
di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra 29.09.2009
Non necessariamente lo scudo fiscale servirà a fare tornare i capitali in Italia, perché il rimpatrio è obbligatorio solo se le somme sono presso paradisi fiscali. In ogni caso, il gettito raccolto è una tantum e non potrà finanziare interventi permanenti. Ma il timore è che i capitali rientrati grazie allo scudo non appartengano a piccoli evasori intenzionati a rifinanziare la propria impresa in difficoltà. Potrebbero invece essere di grandi organizzazioni mafiose che ottengono così denaro pulito per le loro attività economiche, compresa l'acquisizione di imprese in difficoltà.

La versione dello “scudo fiscale” che il Parlamento sta approvando contiene importanti novità che lo rendono ancora più inquietante, nelle sue possibili conseguenze, della proposta originaria e persino dei suoi due precedenti di inizio 2000.

COSA È LO SCUDO FISCALE

Lo “scudo fiscale” consente il rimpatrio o la regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero, al 31 dicembre 2008, illegalmente, e cioè senza avere rispettato gli obblighi di comunicazione dei capitali trasferiti o comunque detenuti all’estero (monitoraggio) e di dichiarazione dei relativi redditi. Chi ne usufruisce può legalizzare questi capitali, pagando su di essi un'imposta una tantum pari al 5 per cento del loro ammontare. Cosa ha guadagnato rispetto a un cittadino onesto? Non ha pagato l’imposta sui redditi di capitale per tutto il tempo in cui il capitale ha fruttato redditi all’estero e paga di fatto solo il minimo della sanzione che avrebbe dovuto pagare nel caso in cui la violazione delle norme sul monitoraggio fosse stata scoperta, sanzione fino ad ora compresa fra il 5 e il 25 per cento del capitale. Certo un bel premio, ma questa è solo una parte della storia. Per capire davvero i vantaggi dello scudo occorre anche domandarsi da dove viene quel capitale.

DA DOVE VIENE IL CAPITALE “SCUDATO”?

Generalmente, il capitale portato all’estero illegalmente non proviene da redditi su cui il cittadino ha pagato le imposte, ma è esso stesso frutto di evasione.
Un contribuente che ha nascosto al fisco, ad esempio, 100 milioni di euro, non teme tanto l’imposta straordinaria del 5 per ento, quanto che il fisco si insospettisca e vada a cercare di capire come aveva ottenuto tutti quei soldi; gli chieda cioè conto delle impose evase: Irpef, Irap, Iva, a cui andrebbero aggiunti gli interessi e le sanzioni, per importi che facilmente potrebbero superare il 50 per cento della somma evasa. Questo pericolo viene però escluso e proprio in ciò sta la peculiarità del rimpatrio made in Italy, che lo rende diverso da quello di paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti in cui si richiede a chi vuole legalizzare i capitali esportati di pagare tutte le imposte evase negli anni precedenti, e il significato stesso del termine “scudo”. In primo luogo, nel nostro paese le dichiarazioni di emersione avvengono in forma anonima, sono “coperte per legge da un elevato grado di segretezza” (bozza di circolare dell’Agenzia delle Entrate) e non possono essere utilizzate a sfavore del contribuente, né in sede amministrativa, né in sede giudiziaria per i profili civili, amministrativi e tributari. Inoltre, se l’amministrazione, seguendo la sua ordinaria attività di accertamento, si trova comunque a scoprire l’evasore, questi può evitare gli effetti dell’accertamento fino ai 100 milioni sottratti al fisco, dimostrando, solo in quel momento, di averli rimpatriati o regolarizzati . In sostanza, lo scudo è un potente condono fiscale. Ma c’è di più, e di peggio.
L’evasione è un atto che ha anche possibili risvolti penali. E allora per mettere ancora più al sicuro l’evasore, si è provveduto dapprima a prevedere che lo scudo estinguesse i reati relativi all’omessa e infedele dichiarazione dei redditi. Poi, con l’emendamento approvato al Senato, la copertura è stata estesa ad altri gravi reati, fra cui, ad esempio, la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o la falsa rappresentazione di scritture contabili obbligatorie, l’occultamento o distruzione di documenti, false comunicazioni sociali (falso in bilancio). Poiché tali reati vengono spesso compiuti coinvolgendo controllate estere, semmai situate in paradisi fiscali, verso cui il soggetto fa confluire i capitali, l’emendamento allarga anche a questi casi la possibilità di partecipare allo scudo fiscale. Il condono diventa quindi anche una sorta di amnistia, per reati che per la loro gravità potrebbero essere puniti con pene fino a sei anni di reclusione. E’ per questo che nel dibattito parlamentare si è chiesto di valutare se per la sua approvazione non fosse necessaria la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, richiesta appunto dalla nostra Costituzione per le amnistie.

E SE IL CAPITALE “SCUDATO” VENISSE DA ALTRE OPERAZIONI ILLEGALI…

Anche il capitale frutto delle attività della criminalità organizzata (per esempio spaccio di droga, sfruttamento di prostituzione, traffico d’armi, finanziamento del terrorismo) è di frequente detenuto all’estero illegalmente. E se le organizzazioni criminali volessero approfittare dello scudo per riciclare questo denaro? Il rischio, già fortissimo, grazie alla segretezza garantita, è ora gravemente ampliato dall’emendamento approvato in Senato. Non solo perché estende lo scudo anche alle controllate e collegate estere, società di comodo molto spesso utilizzate per le operazioni di riciclaggio, ma anche perché dispone che le operazioni di regolarizzazione e di rimpatrio non comportino l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette in materia di antiriciclaggio da parte degli intermediari e professionisti che ricevono la dichiarazione anonima.

A COSA SERVE LO “SCUDO”?

Non necessariamente lo scudo servirà a fare tornare i capitali in Italia, perché il rimpatrio è obbligatorio solo se le somme sono presso paradisi fiscali, ossia paesi che non permettono un adeguato scambio di informazioni fra amministrazioni. In tutti gli altri casi è sufficiente regolarizzare e i capitali possono rimanere dove sono.
Il gettito raccolto con lo scudo (si parla di 3-5 miliardi di euro) è una tantum e non potrà dunque andare a finanziare interventi permanenti, come ad esempio riduzioni strutturali di imposta o maggiori spese connesse ai rinnovi dei contratti dei dipendenti pubblici.
Bisogna invece temere che i capitali che rientrano grazie allo scudo non servano tanto ai piccoli evasori intenzionati a rifinanziare la propria impresa in difficoltà, ma servano piuttosto alle grandi organizzazioni mafiose, nazionali e internazionali, a costituirsi denaro pulito per le proprie attività economiche, tra cui potrebbe rientrare l’acquisizione di quelle stesse imprese in difficoltà.

Massimo D'Alema: La sinistra europea disarmata

29/9/2009

La sinistra europea disarmata





MASSIMO D'ALEMA

La crisi attuale segna un profondo cambiamento d’epoca. Non si tratta soltanto di una crisi finanziaria, economica e ormai pesantemente sociale; si tratta di una crisi politica e culturale.

Si chiude un ciclo caratterizzato da una globalizzazione senza regole, dal dominio dell’ideologia ultraliberale. Tramonta l’illusione dogmatica dell’infallibilità del mercato. Al centro del dibattito pubblico tornano idee fondamentali che sono proprie della tradizione socialista.

Ma - ecco il paradosso - di fronte a questa grande svolta sembra proprio il socialismo in Europa a essere più in difficoltà. Non mancano speranze e segnali di novità, tuttavia gran parte del nostro continente è oggi governata da una leadership conservatrice e il declino della destra neoliberista sembra andare non a vantaggio dei progressisti ma, in molti paesi europei, a vantaggio di un’altra destra nazionalista, populista, talora apertamente reazionaria e razzista. Eppure, mentre in Europa accade questo, nel resto del mondo sono le grandi forze progressiste che guidano l’impegno per aprire una nuova prospettiva oltre la crisi e gettare le basi di una nuova stagione economica e politica. Sono i Democratici negli Stati Uniti d’America, così come sono progressisti di diversa natura i leader e i partiti alla guida dei grandi Paesi emergenti, dall’India al Brasile all’Africa del Sud. Persino il Giappone, dopo 54 anni di egemonia politica liberale e conservatrice, si è affidato a una forza democratica e progressista. Non solo, ma in massima parte questi partiti non appartengono alla tradizione e alla cultura socialista, anche se con l’Internazionale socialista collaborano o dialogano intensamente. Perché dunque proprio qui, nella vecchia Europa, sembra essere così difficile la sfida per i progressisti?

Il problema è che il socialismo europeo, sia nelle sue componenti più tradizionali, sia nei settori più innovativi, non è riuscito, di fronte alla globalizzazione, ad andare oltre l’orizzonte del riformismo nazionale. In particolare - questa è la mia opinione - la grande opportunità legata al processo d’integrazione politica dell’Europa è stata colta solo in piccola parte. Dopo l’avvento della moneta unica sarebbe stato il momento per un salto di qualità. Era necessario armonizzare le politiche di sviluppo, le politiche fiscali e di bilancio, le politiche della ricerca e dell’innovazione. Era necessario costruire una vera Europa sociale e governare insieme e in modo solidale la sfida dell’immigrazione. Era necessario quindi rafforzare il bilancio e i poteri dell’Unione europea aprendo la strada a un «riformismo europeo» capace di superare i limiti dell’esperienza degli Stati nazionali. Questa era la prospettiva che era stata indicata da Jacques Delors.

Non dimentichiamo che in quel momento 11 Paesi su 15 dell’Unione erano guidati da leader socialisti. Cercammo di indicare una nuova via con il Consiglio europeo di Lisbona. Ma quel programma riformista, che pure era coraggioso, non era sostenuto da istituzioni forti, risorse adeguate, una chiara volontà politica.

Ci vuole una forza progressista europea che abbia il coraggio di rimettersi in gioco, che apra le vele per cogliere il vento del cambiamento internazionale, voltando pagina rispetto alle timidezze e al profilo basso degli ultimi anni. Si capisce che proprio in Europa il crollo del comunismo, il progressivo logoramento del compromesso socialdemocratico e la cosiddetta caduta delle ideologie (non di tutte, in realtà, se si pensa a quanto «ideologica» è stata l’egemonia neoliberista) hanno pesato su una sinistra rimasta prigioniera del suo disincanto e timorosa di andare al di là di un pragmatismo ispirato al buon senso, alla razionalità economica e alla coesione sociale. Ma è - io credo - anche per questo che una sinistra così priva di identità è apparsa disarmata di fronte al populismo sanguigno della destra. Il problema è che la destra risponde, a modo suo, a un bisogno di identità e di speranza con il riferimento alla terra, al sangue, alle radici religiose della nostra civiltà che, per quanto prospettato in termini distorti e regressivi, appare un ancoraggio robusto rispetto all’incertezza e allo smarrimento del mondo globalizzato.

Non sembra oggi che la cultura socialdemocratica sia in grado di rispondere al bisogno dei progressisti di dotarsi di una visione del futuro capace di suscitare partecipazione e speranze. Insomma, la socialdemocrazia con i suoi ideali e la sua visione della società non sembra in grado di produrre una «grande narrazione» come fu nel passato. Quella esperienza rimane irrimediabilmente racchiusa in un’altra epoca, legata a una struttura delle società europee, ad una organizzazione del lavoro, ad una composizione sociale che non esistono più. Ma la via d’uscita non è nell’idea di un centrosinistra post-identitario. Né soltanto nel far precedere i discorsi politici da un elenco di grandi valori o dalla evocazione di buoni sentimenti. La sfida appare quella di costruire una nuova identità forte legata ai bisogni sociali, alle contraddizioni e alle attese del tempo in cui viviamo. Questo segna un superamento del passato socialdemocratico, che non è un ripudio, ma capacità di ricollocarne gli elementi vitali in un contesto nuovo, in un nuovo paradigma. Indicando nella democrazia, nell’eguaglianza e nella cultura dell’innovazione le idee-forza per una risposta progressista alla crisi ho cercato di definire non soltanto i titoli di un programma, ma anche le coordinate di un progetto. Se è così, chiamare democratico il nuovo partito dei progressisti è certamente un buon punto di partenza. Ma se il problema è quello di legare a questo nome un’identità e un progetto forti - come pare necessario - allora vuol dire che c’è ancora molto da lavorare. Se però guardiamo al mondo che ci circonda e ai grandi cambiamenti che sono in atto, credo che ci sia ragione di essere ottimisti.

Estratto dall’editoriale di Massimo D’Alema in edicola a ottobre sulla rivista «Italianieuropei»

Arturo Scotto: Un milione di disoccupati

dal sito di SD

Un milione di disoccupati
di Arturo Scotto
Mar, 29/09/2009 - 06:26
Ma che avrà pensato quel milione e mezzo di disoccupati in più, dopo l’annuncio di Berlusconi ieri pomeriggio ? Restero’ per sempre, dichiara; gonfiando il petto e facendo rullare le corde vocali, il Cavaliere. Resteremo per sempre con l’assegno di disoccupazione, avra’ sospirato quel 52 per cento in più di persone che ne ha fatto richiesta quest’anno. Questi i dati nudi e crudi offerti dall’Inps ieri mattina . Questo il biglietto da visita della destra italiana a pochi mesi dal giro di boa della legislatura. Un quadro della crisi drammatico, nonostante i roboanti annunci di ripresa dell’economia offerti dal governo di centrodestra. La recessione non passa ed oggi, assume le sembianze di una disoccupazione di massa, che scava nella carne viva del paese rendendolo più povero ed impaurito. Non e’ più solo la generazione di precari a subire l’onta della instabilità, la paura di stare a spasso. Sono i lavoratori garantiti che oggi vivono l’angoscia della solitudine delle fabbriche che chiudono e del posto di lavoro che si volatilizza. L’Inps dipinge un quadro a tinte fosche, una cassa integrazione decuplicata rispetto al 2007 e nessun segnale di uscita dalle difficoltà. Gli ammortizzatori sociali sembrano l’unica risposta da offrire, un tampone che rischia di essere permanente. E’ evidente che in tempi di crisi non c’è alternativa a misure straordinarie di sostegno al reddito, ma un paese come l’Italia non regge a lungo in questa condizione. Tremonti afferma, durante un convegno l’altra mattina a Napoli: non si esce dalla crisi senza una ricetta per il Mezzogiorno. Il ministro dell’economia rispolvera la vecchia idea di una banca del sud (buona sulla carta, orfana di contanti) per finanziare le grandi opere. Una misura tipicamente keynesiana per aumentare la domanda e mettere persone a lavorare. Ma come si puo’ affermare questo, se in un anno e mezzo l’unica misura che aveva dato un po’ di fiato alle imprese ( il credito di imposta) non e’ stata rifinanziata? Certo, c’è lo scudo fiscale, che consente il rientro di capitali dall’estero: una misura che dialoga, paradossalmente, con una parte di società meridionale: quella che vive dei proventi della criminalità per la precisione. Saranno loro a risollevare il Pil di quest’area del Paese ? Forse lo scudo fiscale in Campania, in Calabria, in Sicilia, suona come una sorta di «arrivano i nostri »? il rischio che dalla crisi si esca con una desertificazione ulteriore della civiltà del lavoro, del paesaggio sociale e del compromesso civile che ha conosciuto questo paese, e’ reale. Un paese senza apparato produttivo e che si alimenta con i sussidi sociali puo’ subire nel lungo periodo una mutazione genetica profonda. Forme di disgregazione che generano una società civile inattiva ed insensibile verso qualsisasi forma di mobilitazione democratica collettiva. Aumenteranno le manifestazioni sopra i tetti, ma si spegnerà qualsiasi ipotesi di conflitto sociale a largo raggio. Una società armonica, con qualche addentellato isolato che protesta e minaccia di darsi fuoco. Se esiste una sinistra, se e’ quel partito della giustizia sociale di cui parla Oskar Lafontaine, forse e’ ora che batta un colpo.

Andrea Ermano: Un bellissimo ricordo?!

Dall'Avvenire dei lavoratori

Un bellissimo ricordo?!


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La formazione socialista-ecologista "Sinistra e Libertà" si propone di restituire una adeguata rappresentanza politica al popolo progressista.
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di Andrea Ermano
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"La sinistra italiana è un bellissimo ricordo" – queste parole sarebbero state pronunciate da Daniel Cohn-Bendit a margine dell'assemblea nazionale di "Sinistra e Libertà" tenutasi recentemente a Napoli. Il giudizio dell'europarlamentare ecologista, per quanto adeguatamente severo, non toglie nulla alla domanda di rappresentanza che pur persiste nel Paese, presso ampi settori di popolazione (in stato di auto-esilio interiore).

A Napoli una risposta a questa domanda di rappresentanza è stata ora imbastita da quel che resta delle organizzazioni socialiste, post-comuniste ed ambientaliste miracolosamente scampate al gran sisma veltrusconiano di due primavere or sono.

"Sinistra e Libertà" ha inaugurato un processo costituente che dovrebbe sfociare nella fondazione di un partito unitario -- del lavoro, dell'ambiente e della laicità. Fava, Nencini, Grazia Francescato e Vendola -- in rappresentanza di SD, PS, Verdi ed ex-PRC -- hanno convenuto di unire le forze. Chissà che a loro non riesca di doppiare quel "Passaggio a nord-ovest" finora bloccato da ghiacci che però, ha detto Mussi, "prima o poi dovranno rompersi".

Finora tutte le operazioni analoghe sono fallite, risolvendosi (come nel caso, plateale, del PD) in altrettante "fusioni a freddo". Ma stavolta c'è un'anima socialista-ecologista nel progetto che mostra una sua intrinseca plausibilità, non fosse altro che in relazione alla crisi economica globale e all'emergenza climatica. A ciò s'aggiunga la drammatica eclisse civile italiana… Potrebbe dar innesco a un Ricominciamento.

Per quel che concerne i socialisti, su cui qui ci soffermiamo per ovvie ragioni, Riccardo Nencini, pur rivendicando con molto orgoglio le sue nobili ascendenze politiche, si dichiara in linea di principio disposto confluire in "Sinistra e Libertà", con il PS al pari delle altre componenti cui accennavamo.

Questa "cessione di sovranità", nel "bi-porcellum" stile Terza repubblica, è probabilmente senza alternative. Ma può rivelarsi una scelta persino lungimirante, se a livello continentale si rafforzasse (come noi auspichiamo) un'alleanza tra ecologisti e socialisti delle varie tendenze… E tra le varie tendenze socialiste ci si consenta d'includere anche formazioni come la Linke tedesca: non che si debba convenire su ogni singolo contenuto, per carità. Ma appare ormai abbastanza evidente che un riposizionamento "più a sinistra" dell'intera socialdemocrazia europea è davvero necessario, a partire proprio dalla SPD, che ieri ha subito la più amara sconfitta del Dopoguerra a causa del suo eccessivo moderatismo sociale. Nei prossimi giorni le dimissioni del presidente Münterfering chiuderanno l'ormai decennale tenzone con Lafontaine inaugurando una nuova fase dei rapporti tra SPD e Linke.

Si parva licet, Nencini sembra aver afferrato il nervo epocale (il che è ovviamente più facile per una formazione politica di dimensioni assai modeste), ha lasciato che De Michelis seguisse il suo ormai consueto pendolariato governativo, approntandosi senza eccessivi traumi ad inalveare il PS nel nuovo soggetto unitario. Il che significa, però, sia pure tra mille clausole e subordinate, che si staglia ormai all'orizzonte l'auto-scioglimento del partito.

Non sarebbe la prima volta che in Italia viene meno una presenza dichiaratamente socialista, organizzata in modo autonomo, organicamente collegata alla grande famiglia del socialismo internazionale. Il Partito Socialista Italiano "quattro volte parve stroncato dai nemici suoi, dai nemici della classe lavoratrice – nel 1894, nel 1898, nel 1915 e nel 1925", scriveva Faravelli sulla "Critica Sociale" qualche tempo dopo la Liberazione.

Come a dire che non siamo al trionfo postumo del fusionismo nenniano prima maniera, che il socialismo italiano è sempre rinato e che insomma bisogna aver fiducia nelle proprie idee. La preoccupazione semmai è altra. Perché l'esperienza storica ci segnala che queste costellazioni di discontinuità politico-organizzativa dello schieramento socialista finora non sono state di buon auspicio per il Paese. Quei quattro anni horribiles cui rinviava Faravelli si contraddistinguono per ragioni che sono presto dette: stato d'assedio, stato di guerra, dittatura.

Crispi nel 1894 proclama in Sicilia lo stato d'assedio contro un movimento popolare che chiede alcune riforme sociali e fiscali che oggi noi considereremmo ovvie e scontate. Morti, feriti, arresti e processi.

Nel 1898 lo stato d'assedio viene invece proclamato a Milano contro la protesta popolare per l'aumento del pane. Il generale Bava Beccaris prende a cannonate la folla, ammazzando ottanta manifestanti e ferendone un mezzo migliaio.

Lo stato di guerra entra in vigore nel 1915 nell'illegalità costituzionale. Il Parlamento, maggioritariamente contrario alla belligeranza, viene esautorato dal governo e da Vittorio Emanuele III, che con accenti pre-totalitari proclama: "Cittadini e soldati, siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento". Seicentocinquantamila morti. Seicentomila dispersi. Novecentoquarantasettemila feriti. E poi il fascismo.

Nel 1925 risuona sotto l'Arco di Tito uno tra i più famigerati discorsi della non breve storia italiana. Il Duce, pubblicamente, esplicitamente, avoca a sé ogni responsabilità "storica, morale e politica" dell'assassinio di un parlamentare in carica, il leader dei socialisti riformisti Giacomo Matteotti, barbaramente ammazzato a coltellate dopo inenarrabili sevizie.

Inizia così, in tutta ufficialità, la dittatura mussoliniana. Dopodiché il fascismo si diffonde nel Vecchio continente, grazie anche all'abilissimo sostegno della diplomazia vaticana. Le armate della rivoluzione conservatrice si mettono in marcia per restaurare il "Sacro Romano Impero". Poi fanno quel che fanno. Guerra di Spagna. Leggi Razziali. Seconda guerra mondiale. Shoah.

Per nostra postera fortuna, quei tempi remoti di disumanizzazione assoluta sono oggi "soltanto" l'orrido oggetto di una memoria che non può né deve passare. Ma non è che, in tutta sincerità, possiamo dirci completamente tranquilli. Perciò spezziamo decisamente una lancia a favore dell'impegno politico e del coraggio civile. Avanti, compagni!

Segnalazione: 8 ottobre, L'Iran a trent'anni dalla rivoluzione

giovedì 8 ottobre 2009
ore 17 Sala Conferenze di Palazzo Turati
Via Meravigli 9/b, Milano


"L'Iran a trent'anni dalla rivoluzione. Quale negoziato dopo l'onda verde?"

Saluto di apertura:
Federico Maria Bega - Responsabile Area Mediterraneo, Medio Oriente e Golfo - Promos, Camera di Commercio di Milano

Presiede:
Janiki Cingoli - Direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Relatori:
Sergio Romano - Editorialista del Corriere della Sera
Bijan Zarmandili - Giornalista per il Gruppo Espresso-Repubblica e scrittore
Alberto Negri - Inviato speciale de Il Sole 24 Ore

In occasione dell’incontro verrà presentato il libro di Alberto Negri: Il turbante e la corona. Iran, trent’anni dopo (Tropea, 2009).

lunedì 28 settembre 2009

Felice Besostri: Oggi in Germania

OGGI IN GERMANIA, IERI IN ITALIA: LA SCONFITTA DELLA SINISTRA
di Felice Besostri

Le elezioni tedesche per il rinnovo del Bundestag hanno un'importanza non limitata al paese direttamente interessato La Germania è la maggiore potenza economica d'Europa, il suo prodotto interno lordo nel 2008 è stato superato soltanto da tre paesi, gli USA, il Giappone e la Cina, ma quest'ultima rappresenta il 19,64% della popolazione mondiale e la RFT soltanto lo 1,21%.
Con più di 82 milioni di abitanti è di gran lunga il più popoloso paese della UE, nell'intera Europa è superata soltanto dalla Russia, ma compresi i territori asiatici al di là dei monti Urali. Nessuno si meraviglia, pertanto, che le contemporanee elezioni portoghesi, con i suoi 10 milioni e mezzo di lusitani, non concentri la stessa attenzione: eppure se ci saranno sorprese politiche, queste verranno dal Portogallo, piuttosto che dalla Germania. Così è stato con una vittoria in rimonta, rispetto ai sondaggi dei socialisti di Socrates con il 36,8% dei voti.
La campagna elettorale è stata noiosa e d'altra parte difficilmente potevano scannarsi in pubblico la Cancelliera e leader della CDU, Angela Merkel, con il suo Ministro degli Esteri e leader della SPD, Frank-Walter Steinmeier, cioè due personaggi dello stesso governo, la Grosse Koalition, imposta dai risultati del settembre 2005.
Il programma di governo è stato rispettato e, quindi, nessuno se ne può prendere i meriti esclusivi, mentre tutti e due i partiti sono responsabili per le cose negative: la Germania ha un tasso di disoccupazione superiore a quello italiano.
I disoccupati e chi ha subito tagli del welfare non voteranno né CDU/CSU, né SPD, che, infatti perdono rispetto al 2005. La CDU,/CSU passa dal 35,2% al 33,8% (-1,4%), il peggior risultato dopo il 31% del 1949: un risultato non esaltante per una Cancelliera che aveva quasi il 70% di opinioni favorevoli. La SPD crolla dal 34,3% al 23% (-11,3%), il peggior risultato del dopoguerra, da rendere persino radioso il 28,8% del 1953.
In questa situazione è stato agevole pronosticare un successo dei liberali della FDP, (14,5%, +4,7%) un partito comunque più a sinistra del PdL di Berlusconi e meno intollerante della Lega Nord, e della LINKE (12,2% +4%) sia pure per opposte ragioni. I Grünen (10,5%, +1,8%), cioè i Verdi nella versione italiana, sono consolidati da anni e quindi, paradossalmente non sono percepiti come una novità. In effetti i Liberali sono fuori dal governo federale da lunghissimo tempo e la LINKE è veramente una formazione nuova, talmente nuova, che è riuscita a far dimenticare gli oltre 40 anni di SED e DDR di molti suoi esponenti.
Alcuni dati: alle elezioni hanno partecipato 29 partiti, gli aventi diritto al voto sono 62,2 milioni, di cui 32,2 milioni donne. Sono anche le elezioni alle quali partecipano per la prima volta quelli nati dopo il crollo del Muro. I nuovi elettori, quelli nati tra il 19 settembre 1987 e il 27 settembre 1991, sono ben 3,5 milioni, con i maschi in maggioranza. Tuttavia non ci sono, ancora, dati disponibili, che abbiano influito sui risultati complessivi, a meno che le analisi sui comportamenti elettorali dimostrassero, in futuro, che abbiano massicciamente votato per un solo partito, o al massimo per due. Le classi di età che più pesano elettoralmente in Germania sono quella dei 40-49 anni (20,6% dell'elettorato) seguiti a ruota dai 70 anni e più (18,3%) e dai 50-59 anni (17%): insieme sono più del 50% dell'elettorato. Nella RFT,oltre che dalle classi di età, il voto è condizionato territorialmente: Nord-Rhein Westphalen, Baviera, Baden-Würtemberg e Berlino, cioè 4 Länder su 19 hanno più del 50% degli elettori. In questi 4 Länder la SPD non è più il partito dominante, tranne che a Berlino, se a ciò si aggiunge il peso delle maggiori classi di età degli elettori il risultato della SPD, un pietoso 23,4% delle prime proiezioni, ulteriormente ridotto al 23%, è facilmente spiegato con la reazione di pensionati e lavoratori maturi ed alla soglia della pensione. In questa campagna elettorale, per la prima volta la SPD non ha avuto un visibile appoggio sindacale, né dalla DGB, che dai due maggiori sindacati, IG Metall e Ver.di e con buone ragioni.
In termini assoluti e percentuali i veri vincitori sono i Liberali con il loro 14,5%, con chiarezza il terzo partito. I Liberali, come già accennato sono un partito fortemente impegnato, dalla elezione, alla sua presidenza, di Guido Westerwelle per la difesa delle libertà civili: hanno combattuto con Verdi e LINKE contro le leggi sulla sicurezza della Grande Coalizione e di crescente controllo della rete e dei server in Internet.
Il loro successo, anche a spese della CDU, rende, peraltro precario un governo democristian-liberale.. Soltanto la lotteria degli Überhangsmandaten, i seggi aggiuntivi per riproporzionare la composizione del Bundestag, nel caso che un partito abbia ottenuto un numero di mandati diretti eccessivi, renderà possibile una coalizione giallo-nera, di FDP/CDU-CSU, ma con una ristrettissima maggioranza. Nella distribuzione dei seggi aggiuntivi la Corte Costituzionale Federale ha già lanciato un severo ammonimento per i vantaggi che procura al partito più grande e per la violazione del principio del voto diretto e, perciò dovremo attenderci un ricorso alla Corte Costituzionale, in ogni caso e, a maggior ragione, in caso di sostanziale parità.
La Bundesverfassungsgericht, a differenza della Corte Costituzionale italiana ha mostrato poca riverenza nei confronti delle esigenze della classe politica, come ha dimostrato nel recente Lissabon Urteil, con l'ampliamento dei poteri del Parlamento tedesco (Bundestag e Bundesrat) nelle future ratifiche dei Trattati UE. Resta il fatto che CDU-CSU (33,8%) e FDP (14,5%) non superano il 50% del voto popolare, anche se hanno raccolto più voti della somma di SPD (23%), LINKE (12,1%) e Verdi (10,5%). Le differenze programmatiche tra CDU e FDP non sono poca cosa in materia di riduzione delle tasse e del welfare. Allo stato non ci sono aspettative, che, a conclusione della vicenda elettorale, come in tragico gioco dell'oca, si torni alla casella di partenza: una Grosse Koalition come stato di necessità e non come libera scelta. Tuttavia nella riedizione di una Grande Coalizione la CDU guadagna e la SPD perde. Rispetto al 2005 la SPD ha più di 11 punti percentuali in meno e soprattutto non ha un'alternativa, nemmeno da brandire come minaccia, come era la maggioranza numerica teorica rosso-rosso-verde del precedente Bundestag.
Il problema centrale è quello della socialdemocrazia tedesca, che ha raggiunto il peggior risultato dal dopoguerra, talmente pessimo, come detto sopra,da essere sotto di oltre 5 punti percentuali rispetto al precedente record negativo di ben 56 anni fa..
La socialdemocrazia tedesca, “die deutsche Sozialdemokratie” è sempre stata la socialdemocrazia per eccellenza, benché i suoi risultati non siano paragonabili a quelli conseguiti dalle socialdemocrazie scandinave.
Soltanto da pochi anni in quei paesi nordici la socialdemocrazia ha perso la sua indiscussa egemonia conquistata negli anni 30 del secolo passato e durata ininterrottamente per un cinquantennio.
L’esperienza scandinava, tuttavia, è stata caratterizzata da un modello concreto di gestione, da una prassi, piuttosto che da una teoria. In Germania, invece, si sono affrontati i temi più controversi del movimento operaio e socialista europeo: basta un accenno ai programmi di Eisenach, Gotha, o di Erfurt od al Bernstein Debatte.
Con Karl Kautsky si sono dovuti confrontare esponenti di altri filoni della sinistra dal socialismo rivoluzionario di Rosa Luxemburg al comunismo di Vladimir Lenin.
Senza risalire così lontano, basta pensare al programma di Bad Godesberg del 1959 con il quale la SPD si è trasformata da “Klassenpartei” (Partito di classe) a “Volkspartei” (Partito del popolo).
Punti fermi nell’accettazione dell’economia di mercato rimanevano la “Mitbestimmung” (Codecisione) nelle grandi imprese e l’orientamento sociale del mercato, la cosiddetta Soziale Marktwirtschaft in un quadro che non escludeva un intervento pubblico nell’economia attraverso la Pianificazione, quando e in quanto necessaria.
La SPD prima del declino, che si è accentuato con la riunificazione tedesca sotto l’egida del democristiano Helmut Kohl, era un partito con iscritti, che superavano il milione, con una capillare organizzazione territoriale ed un rapporto fortissimo con il Sindacato compresi la IG Metall ed il pubblico impiego, che è organizzato nel più numeroso sindacato unitario europeo il Ver.di (Verwaltungsdienst: pubblico impiego all'italiana).
Intorno alla SPD ed al Sindacato gravitavano una catena di cooperative di consumo e di costruzione (Neue Heimat) ed una banca (Bank für Gemeinwirtschaft), nonché case editrici e la Fondazione Ebert.
Tutti strumenti che consentivano una proiezione internazionale della SPD, sia diretta, che indiretta, attraverso l’Internazionale Socialista ed il PSE.
La SPD ed i suoi leader, in particolare Willy Brandt, sono stati i protagonisti della politica di distensione Est Ovest e di nuovi rapporti Nord Sud.
In quel periodo aureo, se vi è stato un errore di impostazione, era la coincidenza di interessi tra Partito e Governo, in altre parole tra Partito e Stato.
La politica di distensione doveva legittimare la DDR e la SED, ma proprio per questo la SPD sarebbe stata particolarmente debole nei nuovi Länder, ad eccezione del Brandeburgo, dove nel 1994 aveva la maggioranza assoluta..
Il rifiuto del comunismo poliziesco tedesco orientale ha in qualche misura coinvolto la forza organizzata della SPD, tanto più che gli ex-comunisti della SED confluiti nella PDS (Partei des demokratischen Sozialismus), a differenza di quanto avvenuto nella maggioranza dei paesi dell’ex Patto di Varsavia, non si erano trasformati in socialdemocratici, anzi con la costituzione, insieme con la dissidenza socialdemocratica, della LINKE, in loro pericolosi concorrenti.
Negli anni d’oro la Socialdemocrazia poteva contare sui bastione rossi dalla Nord-Rhein Westphalen all’Assia, con le città stato di Brema ed Amburgo, tutti Länder nei quali la SPD aveva la maggioranza assoluta o vi si avvicinava, così come nelle città di Francoforte, Berlino o Monaco di Baviera.
Non solo la SPD nei suoi periodi migliori si era espansa in Länder tradizionalmente conservatori, come la Rheinland Pfalz, la Saar ed addirittura nel Land Schleswig-Holstein, con una forte minoranza danese.
La socialdemocrazia tedesca è stata investita direttamente dalla Guerra Fredda e dalla divisione dell'Europa in due campi contrapposti: anche simbolicamente la linea di divisione passava in Germania e divideva persino la sua capitale imperiale, Berlino. In quest'ultima città, di cui è stato sindaco dal 1957 al 1966 il suo più grande esponente del dopoguerra, Willy Brandt, si sono verificati tre degli episodi caratterizzanti lo scontro Est Ovest: il Blocco di Berlino del 1948, la costruzione del Muro nel 1961 ed il suo crollo nel 1989. L'eredità di quella divisione, che rappresentava anche quella tra il Comunismo e il Socialismo Democratico, non è stata ancora liquidata, come i conflittuali rapporti tra SPD e la LINKE, stanno a dimostrare.
Nel dopoguerra due sono stati i periodi nei quali la SPD ha diretto il Paese: il primo dal 1969 al 1982 (prima Willy Brandt e poi Helmut Schmidt) ed il secondo dal 1998 al 2005 (Schrõder).
Nel primo periodo in alleanza con i liberali della FDP e nel secondo con i Verdi, die Grünen.
Mentre a livello di Länder le alleanze tra partiti sono sempre state le più varie, nel Governo nazionale CDU/CSU e SPD si sono sempre presentate come alternative, con le due sole eccezioni delle Grandi Coalizioni del 1966-1969 e di quella in carica del 2005-2009.
La prima Grosse Koalition, sempre a guida democristiana segnò l'inizio della predominanza socialdemocratica, mentre la seconda, con la Cancelliera Merkel sta segnando il punto più basso del consenso elettorale della SPD, che in queste elezioni 2009 rischia di essere sostituita dai Liberali, od anche da un'inedita coalizione CDU/CSU e FDP, allargata ai Verdi, chiamata Giamaica, dai colori di quella bandiera nazionale, che corrispondono a quelli dei partiti tedeschi, il nero democristiano, il giallo liberale ed il verde degli ecologisti. Questa possibilità teorica e numericamente più solida di quella giallo-nera, è stata, però, esclusa dal leader dei Verdi tedeschi, il cittadino tedesco di origine turca Cem, per le differenze sul nucleare fortemente sostenuto dalla FDP e dalla maggioranza della CDU. Tuttavia i Verdi non sono più legati alla SPD, come ai tempi del binomio Schröder Fischer, i Castore e Polluce teutonici, e perciò hanno le mani libere, come è la tendenza, anche europea sotto l'impulso di Daniel Cohn-Bendit (Finlandia docet) e sperimentata a livello di singoli Land.
Mi immagino già i gridolini di gioia di settori della sinistra italiana: assolutamente giustificati, chi non supera il 4% non può che mettersi in adorazione di una formazione che in pochi anni ha riportato risultati a due cifre. La PDS fino al 2004 ha superato la soglia di sbarramento soltanto nel 1998, ma era presente fin dal 1990 per deroga alla Sperrklausel nelle prime elezioni della Germania riunificata e successivamente grazie alla elezioni di tre mandati diretti la Germania tutela le minoranze politiche meglio delle leggi elettorali italiane. Ho qualche perplessità, per antiche reminiscenze, nel valutare i risultati elettorali, come l'unico criterio di giudizio, e come logico di usare il criterio soltanto quando il vincitore ci è simpatico. Se il successo elettorale è la misura dei valori tutta la sinistra italiana avrebbe dovuto diventare socialdemocratica nel 1999, quando 12 Primi Ministri su 15della UE erano di partiti affiliati al PSE. La SPD è in un cul de sac: non ha una alternativa alla Grande Coalizione e la Grande Coalizione, carta canta!, la indebolisce. Alla Grande Coalizione si può applicare quanto il fine Ciu-enlai diceva degli accorsi tra le superpotenze USA e U.R.S.S: “dormono nello stesso letto, ma fanno sogni diversi”. Il sogno della Merkel è chiaro, fare un governo con la FDP con una chiara e forte maggioranza parlamentare. Il problema della SPD è che è diventata incapace di sognare.
Se Sparta piange, Atene non ride o, almeno non dovrebbe. Ogni partito ha il diritto di festeggiare le sue vittorie e, come ci insegna la saggezza popolare chi si accontenta gode, tuttavia se la politica fosse qualcosa di appena più serio della tifoseria da “Curva Sud” mi chiederei per quale ragione la LINKE raccolga soltanto una frazione (4%) delle perdite (-11,3%) della SPD e non mi accontenterei del fatto, che la sinistra nel suo complesso sia al 35,2%, cioè appena sotto il livello della sola SPD al tempo del vituperatissimo Schröder, per non parlare dei risultati della SPD di Brandt e di Schmidt e dello Schrõder del 1998, sempre sopra al 40%. La LINKE dal 2005 e dalle successive elezioni regionali ha vinto la scommessa dell'esistenza., non è più una forza di pura testimonianza, quindi deve essere la prima a preoccuparsi della perdita di peso della sinistra e della stessa possibilità di costituire un'alternativa ai governi liberal democristiani. Le percentuali sono spietate e lo saranno ancora di più cifre dei voti in assoluto. Buona parte dei guadagni in percentuale di Verdi e LINKE sono conseguenza della forte diminuzione dei votanti, appena il 70,8% (-7%) (la più bassa percentuale di votanti da quando esiste la RFT): è un fatto che la sinistra rosso-verde che aveva il 51,1% nel 2005, ora raggiunge il 45,7%, una perdita del 5,4%, quindi superiore al guadagno della LINKE.
Il 7% in meno di votanti corrisponde a circa 4.340.000 voti: praticamente la consistenza dei Grünen (4.641.197). In percentuale i Verdi aumentano del 27% e la LINKE del 50% rispetto ai propri voti del 2005, in voti assoluti i Verdi passano da 3.838.326 a 4.641.197 e la LINKE da 4.118.194 a 5.143.884, cioè complessivamente guadagnano 1.828.561 voti a fronte di una perdita SPD di 6.205.822 voti, tre volte tanto!
Un giudizio complessivo e definitivo sulle elezioni tedesche sarà possibile soltanto con la distribuzione dei seggi dopo la riproporzionalizzazione e conosciuti i risultati di due Lãnder, che votavano contemporaneamente alle elezioni federali, il Brandeburgo e lo Schleswig-Holstein. Ci si dimentica spesso che la Germania è una repubblica federale e che per governare è necessario aver una maggioranza anche nella seconda Camera, quella rappresentativa dei governi dei Lãnder. La CDU è stata già sconfitta in Turingia e nella Saar e lo sarà nel Brandeburgo. La Merkel potrà, però, dormire sonni tranquilli, perché in Turingia, malgrado il passo indietro del vincitore delle elezioni, il capolista della LINKE, Bodo Ramelow, non si è trovata la quadra, come nella Saar del resto dove ai problemi politici dei rapporti tra SPD e LINKE si aggiungono quelli personali con Oskar Lafontaine. La SPD è un partito dove formalmente sono vietate le correnti organizzate, tanto che per diventare membri della Presidenza Federale, i candidati si devono conquistare uno ad uno i voti della maggioranza assoluta dei delegati. Chi lascia il partito è un traditore, un riflesso piuttosto leninista, che turatiano.
Con tutta probabilità dovrà crescere una nuova dirigenza politica nei due partiti, che, anche per ragioni anagrafiche, non sia più condizionata dalla divisione tedesca.
Gli elettori di sinistra appaiono più avanzati dei loro dirigenti: nei collegi uninominali la SPD prende, come nel 2005, ben due milioni in più, di cui un milione e duecentomila da elettori di Verdi e LINKE.
Il muro fisico è crollato nel 1989, ma un muro spirituale c'è ancora, se un giornale conservatore come la FAZ fa la previsione che nel prossimo Parlamento per la prima volta ci saranno più ex collaboratori della Stasi, la polizia segreta della DDR, che dissidenti tedesco orientali.
Milano, 28 settembre 2009

segnalazione: 5 ottobre, La Germania dopo il voto

Alternative per il socialismo promuove l'incontro

"La Germania dopo il voto. L'Europa politica: la grande assente"

Lunedì 5 ottobre, ore 17,00 - 20,00
Teatro Piccolo Eliseo, ROMA
via Nazionale, 183

Intervengono
Fausto Bertinotti
Helmut Markov (Fondazione Luxemburg)
Michael Braun (Fondazione Ebert)
Tobias Piller (Frankfurter Allgemeine Zeitung)
Fabio Mussi
Aldo Garzia

Giuseppe Berta: Europa senza sinistra

28/9/2009

Europa senza sinistra

da La Stampa



GIUSEPPE BERTA

Queste elezioni resteranno probabilmente uno spartiacque per la socialdemocrazia tedesca, che per la prima volta scende al di sotto del 25 per cento.

In realtà, si potrebbe sostenere che l’esito elettorale non costituisce una débâcle assoluta per la sinistra della Germania, poiché sommando i voti di Spd, Linke e Verdi si ottiene, se gli exit poll saranno confermati, una cifra non troppo distante da quella conquistata da cristiano-democratici e liberali. Ma non è così che vanno letti i risultati: ciò che rivelano è il venir meno della capacità maggioritaria dei socialdemocratici, la perdita della loro funzione di cardine centrale della sinistra tedesca. Da queste elezioni, l’immagine e il ruolo della socialdemocrazia escono appannati e compromessi come non mai e diventa difficile ipotizzare la via che la Spd potrà percorrere, per tentare di recuperare lo spazio politico che ora le è sfuggito.

Con la crisi globale si è di fatto chiuso un ciclo della socialdemocrazia europea, di cui la Spd ha rappresentato un asse fondamentale. Gli anni in cui Gerhard Schröder era alla guida della Germania come cancelliere e prometteva una stagione di stabilità e di crescita economica sono definitivamente archiviati. Era quella l’epoca in cui i socialdemocratici al governo pensavano di pilotare la trasformazione della società da un «nuovo centro», capace di andare oltre i confini politici del passato e di ottenere un consenso sempre più largo e interclassista. Ai tempi in cui il richiamo del New Labour di Tony Blair era vincente, verso la fine del decennio Novanta, era risuonata una forte nota di sintonia tra laburisti inglesi e socialdemocratici tedeschi, uniti nel teorizzare un superamento delle tradizionali barriere sociali che avevano fino ad allora segmentato l’elettorato. Per un buon tratto, i due maggiori partiti di derivazione socialista dell’Europa avevano scommesso sulla possibilità di gestire i frutti buoni della globalizzazione, raffigurandosi come i soggetti in grado di accelerare un processo di sviluppo economico tale da poter generalizzare i suoi effetti di ricchezza all’intera società. Il capitalismo non era più descritto come una forza economica da imbrigliare e disciplinare, ma come l’agente di un progresso materiale che poteva essere esteso a tutti. Di qui il rilievo posto sulle misure di flessibilità del mercato del lavoro, secondo un’angolatura che mirava in primo luogo a rafforzare le dotazioni individuali dei lavoratori in luogo della tutela collettiva esercitata attraverso la mediazione sindacale.

La Spd si è spinta meno in questa direzione rispetto al New Labour che, sebbene ancora al governo nel Regno Unito, appare travagliato da una crisi e da un’incertezza politiche ancora più profonde. Ma nel corso degli ultimi dieci anni la Spd ha sbiadito la propria identità storica senza riuscire a darsene una nuova. Ha creato disaffezione e disorientamento nel suo elettorato di riferimento, senza acquistare consensi in altri bacini sociali. La crisi economica che ha colpito duramente la Germania come tutto il mondo sviluppato ha messo ancor più in rilievo la fragilità e la contraddittorietà dell’ottimismo del recente passato. Le diseguaglianze sociali sono cresciute al pari della precarietà delle prospettive economiche, anche delle grandi imprese, come dimostra la tortuosa gestione del caso Opel.

Sulla disaffezione degli elettori socialdemocratici ha fatto leva la campagna delle altre componenti della sinistra tedesca, a cominciare dalla Linke, una formazione politica controversa nata dall’accostamento di due distinte anime della sinistra radicale, quella che a Ovest fa capo a Oskar Lafontaine, l’antagonista della svolta moderata della Spd, e a Est ai residui della tradizione comunista. C’è da credere che la Spd non avrà la vita facile, sottoposta alla pressione incalzante della Linke, tutt’altro che riluttante a ricorrere a slogan demagogici, come si è visto dalla propaganda elettorale.

La sconfitta dei socialdemocratici tedeschi è l’ultimo e più grave campanello d’allarme per la sinistra europea. Dinanzi alla crisi globale essa è stata afasica, come può esserlo una forza tradita da un corso degli avvenimenti che non ha saputo presagire né correggere con l’autorevolezza delle proprie posizioni.

Per la Spd come per i socialisti francesi e, in un assai probabile domani, per i laburisti inglesi si prospetta una lunga fase d’opposizione, a cui i partiti della sinistra non potranno scampare fino a quando non avranno messo a punto una visione inedita e originale della loro funzione di governo entro società che presentano lineamenti confusi e frastagliati. È all’interno di questa cornice problematica che attende di essere declinata una nuova politica dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale.

15 mosse per uscire dalla crisi

15 mosse per uscire dalla crisi


15 mosse per uscire dalla crisi con un nuovo modello di sviluppo

Dalla parte del lavoro, dell'ambiente, della solidarietà, dei diritti

di www.sbilanciamoci.org





Premessa

15 mosse per uscire – o almeno per fronteggiare in questa fase delicata – la crisi che ci troviamo davanti.

Fino ad oggi le misure di Tremonti e di Berlusconi sono state dei “pannicelli caldi”. In questi mesi i responsabili del governo si sono attardati prima a sminuire i dati della crisi (affannandosi a sdrammatizzare le analisi degli istituti di ricerca) e poi a spandere inutile ottimismo, invece di affrontare la crisi con iniziative e politiche adeguate alla gravità della situazione.

I diversi provvedimenti varati in questi mesi o sono pure operazioni di marketing o misure molto modeste che non incidono sul corso della crisi.

Sbilanciamoci! propone un intervento equivalente al 1,6% del Pil del 2010 e allo 0,9% del 2011. In tutto 40 miliardi, coperti in parte da nuove entrate e da risparmi sulla spesa pubblica e in parte generati dal necessario indebitamento per far fronte alla crisi.

Proponiamo delle misure concrete, immediate, che nello stesso tempo cercano di disegnare un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla sostenibilità ambientale, i diritti e la qualità sociale, un nuovo welfare fondato sulla giustizia e l'eguaglianza, politiche di solidarietà e di cooperazione internazionale.

Ci sono alcune priorità di cui tenere conto: arginare l'impoverimento sociale e la perdita di posti di lavoro, difendere il potere d'acquisto delle famiglie, dei lavoratori e dare reddito a disoccupati e a chi – come i pensionati a regimi modesti – si trova fuori dal mercato del lavoro. Si tratta di rilanciare con fermezza la regia e la forza delle politiche pubbliche capaci di orientare i comportamenti e le proposte dei mercati, riportare l'economia finanziaria al servizio dell'economia reale, innovare le produzioni e i consumi individuali e collettivi sulla base di un nuovo modello di sviluppo, di cui abbiamo sempre più bisogno.

Dobbiamo abbandonare le vecchie strade, mettere fine a privilegi e corporativismi, redistribuire la ricchezza (perché questa è la vera condizione per crearne della nuova) e ridurre le diseguaglianze, ridare speranza ad un paese che altrimenti rischia di essere stritolato da una crisi che accentua le debolezze strutturali di un sistema economico e istituzionale da tempo in difficoltà.

Serve un nuovo modello di sviluppo per un'Italia capace di futuro.



5 principi da seguire per un nuovo modello di sviluppo

La crisi rappresenta nello stesso tempo un grave pericolo, ma anche una opportunità importante per rilanciare l'economia del paese e un nuovo modello di sviluppo legato a politiche di indirizzo e a specifici provvedimenti che possono orientare gli investimenti, le produzioni e i consumi in una direzione diversa da quella del passato. Fronteggiare questa crisi con i modelli e le ricette del passato sarebbe sbagliato e miope. Bisogna avere il coraggio di intraprendere nuove strade, lavorando per un modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale, la qualità sociale, i diritti, un nuovo modo di produrre e di consumare.

Cinque sono a nostro giudizio le direttrici importanti di questo nuovo modello di sviluppo:

- un ruolo più incisivo dell'intervento pubblico capace di dare regole vere e rispettate ai mercati finanziari, di disegnare una vera politica industriale, di attivare meccanismi di incentivo e di stimolo dell'economia reale. Si tratta di ridisegnare un sistema in cui il mercato – e gli operatori privati – non siano lasciati senza regole, ma possano agire dentro una cornice in cui prevalga il bene comune, la responsabilità sociale, l'interesse collettivo;

- il principio della sostenibilità ambientale come fondante l'idea di una green economy che rivoluzioni il modo di produrre i beni, di distribuirli e di consumarli e sia capace di cambiare pensando a nuove forme di produzione di beni immateriali e di beni materiali durevoli. Un sistema economico meno energivoro e legato all'uso di fonti rinnovabili capace di stimolare una mobilità compatibile con la salvaguardia dei territori e delle comunità;

- la qualità sociale come tratto distintivo di un'economia che rimette al centro il lavoro e le persone, i loro diritti sociali inalienabili, le relazioni umane e la dimensione comunitaria della produzione e del consumo. La qualità sociale parte dalla dignità del lavoro, dai territori e dalle comunità locali, ma nello stesso tempo condiziona le attività e i risultati della produzione in una dimensione più ampia, in un’ottica di economia solidale al servizio del bene comune;

- un equilibrio diverso tra consumi collettivi e consumi individuali e tra consumi socialmente ed ecologicamente compatibili e quelli distruttivi per la società e l'ambiente; significa ripensare anche le modalità della distribuzione dei prodotti, la capacità di limitarne l'impatto ambientale e di favorire quelli che producono un più alto tasso di benessere sociale e collettivo;

- il principio della cooperazione e la limitazione di quello della competizione. L'assolutizzazione del principio di competizione ha comportato disgregazione e distruttività del sistema economico e delle relazioni umane, mentre quello di cooperazione – a partire dalle relazioni tra Nord e Sud del mondo e in ambito commerciale, monetario, finanziario – può aiutare ad una crescita più armonica e a superare le crisi che stiamo vivendo.

Possono sembrare dei principi “astratti”, ma invece comportano scelte molto concrete: ad esempio investire nei pannelli solari e non nelle centrali nucleari, rottamare i frigoriferi e le caldaie eco-inefficienti e non le automobili, premiare la ricerca e l'innovazione nelle imprese e penalizzare le delocalizzazioni a buon mercato, sostenere lo sviluppo locale e colpire le speculazioni finanziarie transnazionali, finanziare l'aiuto allo sviluppo riducendo le spese militari, ridare i diritti al lavoro contrastando la precarietà, promuovere le banche locali contrastando la concentrazione oligopolistica della finanza, rispettare gli impegni di Kyoto varando tasse di scopo punitive contro gli inquinatori e le produzioni insostenibili dal punto di vista ambientale, dare più servizi sociali senza avere bisogno della social card, favorire la filiera corta e i prodotti a “chilometri zero” piuttosto che un'agricoltura distruttiva e di bassa qualità.



5 politiche concrete per fronteggiare la crisi

Uscire da questa crisi si può con una grande capacità di “politica”, cosa che questo governo dimostra di non possedere. Bisogna utilizzare di più e con più intelligenza la spesa pubblica, facendo pagare ai privilegiati, agli speculatori, ai settori dove è concentrata la ricchezza economica – e non ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese – il peso di questa crisi. Servono nel periodo da oggi fino al 2011 almeno 40 miliardi di euro – una gran parte dei quali può essere trovata grazie alla riduzione delle spese militari, alla tassazione delle rendite, a una tassa patrimoniale e alla cancellazione di alcune inutili grandi opere – per fare due operazioni: fronteggiare le conseguenze della crisi economica e finanziaria e rilanciare l'economia sulla base di un nuovo modello di sviluppo. È necessario intervenire in queste direzioni:

- promuovere adeguate politiche del lavoro e allargare lo spettro di applicazione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori delle piccole medie e imprese e ai co.pro/interinali ecc., sulla base delle regole esistenti per i lavoratori a tempo indeterminato delle grandi imprese (cassa integrazione e copertura fino a 8 mesi all'80% dello stipendio);

- promuovere un piano nazionale di “piccole opere” (che poi così piccole non sono) ambientali e sociali, attraverso una serie di interventi legati ai lavori pubblici nel campo energetico, della mobilità, del riassetto del territorio. Ecco alcuni obiettivi da realizzare entro il 2011: 500 mila impianti fotovoltaici, 500 treni per i pendolari, 20 progetti di mobilità sostenibile (1000 piste ciclabili, 5mila vetture in car sharing, 2000 nuove vetture per il trasporto pubblico locale) nelle grandi città, la messa in sicurezza di almeno 9mila scuole italiane che non rispettano le principali norme in materia (legge 626, ecc). Questi interventi sostengono le imprese e creano posti di lavoro;

- promuovere un allargamento delle politiche di welfare, non con interventi caritatevoli come la social card e i bonus bebè, ma attraverso interventi e servizi sociali mirati, permanenti e continuativi, come l'apertura di 5mila nuovi asili nido, di 1000 strutture di servizio su base territoriale a favore di disabili e anziani non autosufficienti, l'introduzione dei Livelli Minimi di Assistenza già previsti dalla legge 328 del 2000, la promozione del diritto allo studio (borse, alloggi, ecc.).

- sostenere il sistema delle imprese attraverso politiche di incentivo nel campo dell'innovazione e della ricerca, di sostegno all'accesso al credito, di aiuto (con interventi di defiscalizzazioni o bonus) finalizzato al mantenimento dell'occupazione e alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro precario, alla promozione di patti territoriali per il sostegno al sistema locale delle imprese;

- arginare il crescente impoverimento del paese e rilanciare la domanda interna con il sostegno al potere d'acquisto dei lavoratori, delle famiglie e dei disoccupati attraverso – oltre a tutte le politiche di welfare precedentemente elencate – una serie di misure: a)l'introduzione della 14ª per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili; b) la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; c) la reintroduzione del Reddito Minimo d'Inserimento (cancellato nella 14ma legislatura) per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali.



5 modi per trovare le risorse

Dove trovare 40 miliardi per sostenere queste politiche?

Da una parte è inevitabile ricorrere all'indebitamento pubblico, al quale hanno fatto ricorso anche altri paesi. In una fase di crisi è indispensabile un uso straordinario e incisivo della spesa pubblica per impedire l'impoverimento sociale ed economico, la distruzione di parte del sistema delle imprese e delle attività economiche, favorendo il rilancio della produzione e della domanda interna.

Dall'altra, è possibile recuperare risorse attraverso la politica fiscale e con risparmi mirati nella spesa pubblica per quelle politiche e misure che noi riteniamo sbagliate. Il grosso delle risorse può essere trovato in questo modo, ricorrendo solo in minima parte all'indebitamento.

Ecco cinque modi per trovare 40 miliardi contro la crisi.

- accentuare la lotta all'evasione fiscale e favorire politiche di giustizia fiscale; è impossibile quantificare gli introiti dalla lotta all'evasione fiscale, ma sicuramente si possono quantificare le risorse che in due anni entrerebbero dalle seguenti misure; a) innalzamento della tassazione delle rendite al 23%; b) aumento dell'imposizione fiscale al 45% per i redditi oltre i 70mila euro e al 49% per i redditi oltre i 200mila euro; c) introduzione o accentuazione di una serie di tasse di scopo (SUV, diritti televisivi sullo sport spettacolo, porto d'armi, pubblicità). In due anni queste misure produrrebbero 8 miliardi di entrate.

- introdurre una tassa straordinaria e una tantum per i grandi patrimoni (sopra i 5 milioni di euro, il 10% più ricco della popolazione) che rappresenti una sorta di contributo straordinario in una fase di difficoltà per il paese da quelle categorie sociali che rappresentano la parte più ricca del paese. Si tratta in sostanza di una tassa patrimoniale il cui obiettivo sarebbe la raccolta, con una imposizione minima del 3 per 1000, di un introito di 10 miliardi e 500 milioni di euro;

- puntare sulla riduzione delle spese militari. Si tratta di una scelta obbligata rispetto a Forze Armate sovradimensionate in rapporto ai loro compiti costituzionali e agli obblighi internazionali. La sola cancellazione del programma di acquisizione del cacciabombardiere JSF produrrebbe un risparmio in 10 anni di ben 16 miliardi di euro, mentre la riduzione del 20% delle spese militari, sempre in due anni, produrrebbe un risparmio di ben 6 miliardi di euro;

- rinunciare al programma delle grandi opere, che in larga misura sono inutili, costosissime e in gran parte sbagliate. Rinunciare al progetto sul Ponte sullo Stretto e alle altre grandi opere previste (tra le quali, da non dimenticare, anche se per il momento senza oneri finanziari, le centrali nucleari) comporterebbe un risparmio di 3 miliardi in due anni;

- intervenire su quella parte della spesa pubblica che potrebbe essere ridotta. Indichiamo due misure che potrebbero essere perseguite: il passaggio nella Pubblica Amministrazione all'Open Source che porterebbe un risparmio di ben 4 miliardi su due anni (contratti e acquisizioni di licenze) e l'abolizione dei contributi alle scuole private (ben 1 miliardo e 400 milioni in due anni) a favore degli investimenti di queste risorse nel sistema pubblico dell'istruzione.





MANOVRA 2010-2011

ENTRATE
USCITE

FISCO

LAVORO


Rendite
6000
Ammortizzatori
5000

Progressività
2400



Tasse di scopo
2050
PICCOLE OPERE


Patrimoniale
10500
Fotovoltaico
4250



Treni pendolari
2500

SPESE MILITARI

Mobilità sostenibile
1000

Programma JSF
2500
Sicurezza scuole
9000

Riduzione FFAA
6000





WELFARE


GRANDI OPERE

Asili
1650

P. Stretto e altro
3000
Liveas
2500



Non autosufficienza
1500

SPESA PUBBLICA

Diritto allo studio
1000

Open Source
4000



Scuole Private
1400
IMPRESE




Incentivi
4600

INDEBITAMENTO




Indebitamento
2150
REDDITI




14° pensionati
1000



Fiscal drag
4000



Reddito Minimo Ins.
2000






Totale
40000

40000