Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 28 febbraio 2015
venerdì 27 febbraio 2015
Lanfranco Turci: Vedete luce in fondo al tunnel della sinistra?
VEDETE LUCE IN FONDO AL TUNNEL DELLA SINISTRA?
Quanto può continuare questa inconcludenza a sinistra? Renzi va avanti come un treno provocando danni su tutti i fronti: l'attacco ai sindacati e ai diritti dei lavoratori ( mentre si spacciano balle sui precari), lo svuotamento della democrazia e la costruzione di meccanismi oligarchici ( ora siamo arrivati anche al disprezzo aperto del Parlamento e a una norma sulla responsabilità civile dei magistrati che li espone alle intimidazioni degli indagati eccellenti), lo sblocco di nuovi progetti di devastazione territoriale con lo "Sblocca Italia", la cessione di asset pubblici preziosi per il nostro futuro, come Finmeccanica e Enel ( mentre ora spunta questo nuovo inciucio Rai-Mediaset), l'attacco e il disprezzo per le minoranze interne ed esterne al Pd.
Insomma Renzi spadroneggia, colpisce e offende senza che ci sia un minimo di reazione adeguata, almeno sul terreno minimale di allarme per la democrazia. La sinistra interna si limita a sospirare e quando fa qualche analisi con parole più lucide non ne trae comunque alcuna conseguenza. Il Sindacato è in palese difficoltà. Nonostante il 25 ottobre e lo sciopero generale non è riuscito a attenuare neppure minimamente i contenuti del Jobs Act. Pesa lo stato di difficoltà della massa dei lavoratori ai quali non sono ancora arrivati i segnali della ripresa annunciata da Renzi.( Purtroppo il Pil non marcia al ritmo dei tweet! ) ma paga anche i suoi ritardi nel coprire i fronti del lavoro scoperti, come il precariato e le partite IVA, oltre che nel mettere a punto una proposta per la gran massa dei disoccupati. Il tutto mentre per anni ha concesso una delega in bianco al PD, senza avvertire che i cambiamenti interni preparavano il terreno per l'arrivo di Renzi.
Susanna Camusso si incazza, anche se è costretta a farlo con un pigmeo politico come Taddei. Landini dà il segno di avvertire il disagio e il rischio di impotenza, ma poi reagisce in modo confuso, agitando una ipotesi di sinistra sociale di cui non si riesce a intendere ruolo e conformazione, mentre non manca chi la strumentalizza per contrapporla alla sinistra politica.
La quale ultima sembra bloccata nei suoi piccoli accampamenti a guardarsi l' ombelico, incapace di dare uno sbocco anche ai pochi momenti vitali quale è stato Human Factor a fine gennaio a Milano, dove si era immaginato un processo di rassemblement aperto, come una sorta di work in progres. Di esso non si vede però ancora nessun segno, almeno a livello nazionale. Forse qualcosa si muove in alcune regioni, Liguria in primis.
Eppure a me pare di avvertire in giro non solo il truculento rumore dei Salvini di turno e del fascistume che lo accompagna. Chi va in giro trova anche una rinnovata voglia di sinistra, gente che si guarda attorno per ritrovarla. C'è anche una reazione di orgoglio di tanti vecchi militanti trascinati dal Pci al Pd sotto l'effetto di una lunga e complessa anestesia collettiva e che ora si risvegliano dentro un incubo inaspettato.. In questa parte della scena devo riconoscere, mettendo a rischio la salute del fegato e l'equilibrio mentale, che per fortuna ci sono anche i grillini. Casinari, confusi, perfino pericolosi, ma almeno in grado di capire il pericolo vero che viene dal ducetto di Rignano !
giovedì 26 febbraio 2015
Emanuele Macaluso: Speranza senza speranza
Em.Ma - In corsivo
https://www.facebook.com/emmacaluso
SPERANZA
SENZA SPERANZA
di Emanuele Macaluso
Il giovane Presidente del gruppo parlamentare del PD alla Camera ha rilasciato un’interessante intervista che abbiamo letto oggi sul Corriere della Sera. Roberto Speranza dice che il Governo ha commesso “un errore a non seguire l’indicazione che le commissioni di Camera e Senato avevano dato sul tema dei licenziamenti collettivi”. Si tratta della legge sul mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs act). Bene, poi aggiunge: “Il PD che è il cardine della democrazia in Italia dev’essere il partito che ridà piena centralità al Parlamento”. Benissimo.
Ma Speranza si chiede perché Renzi non ha tenuto conto del parere, non vincolante ma voluto dalla Costituzione e dalle leggi, delle commissioni parlamentari? Nel PD, con Renzi Premier e Segretario del partito, che ruolo hanno i gruppi parlamentari e un capogruppo che liberamente e democraticamente esprime un’opinione severamente critica nei confronti del Presidente del Consiglio? La verità è che anche Speranza sa che dopo questa presa di posizione non cambierà nulla. Non è un caso che il capogruppo del Senato taccia. Infatti il problema è il PD, il quale si configura sempre più come un partito personale. Il partito di Renzi.
Se Speranza e altri dirigenti del PD vogliono aprire una discussione vera, se vogliono organizzare un serio e forte confronto politico, debbono porre il tema del PD: cos’è oggi e cosa potrebbe essere domani. E convocare un congresso vero, e non le primarie per eleggere il capo. Ma queste mie sono solo parole, che resteranno solo tali. Io lo so, ma è bene dirle. (25 febbraio 2015)
Mario Lettieri-Paolo Raimondi: Banche di credito cooperativo
Dal sito Società libera
BANCHE DI CREDITO COOPERATIVO
di Mario Lettieri * - Paolo Raimondi **
Il sistema bancario dovrebbe essere l'ancella primaria dello sviluppo delle attività industriali e imprenditoriali dell'economia reale. Se così è, la riforma delle banche popolari parte purtroppo da una premessa sbagliata. Mira a soddisfare le esigenze della grande finanza invece di privilegiare le strutture del credito direttamente legate al territorio e alla sua crescita economica. Secondo la succitata riforma, fatta con decreto e senza alcun coinvolgimento dell'Assopopolari, le 10-11 banche popolari con attivi superiori a 8 miliardi di euro dovranno essere trasformate in società per azioni. In quanto organismi di tipo cooperativo, gli attuali organi di gestione sono eletti con il voto capitario. Ogni socio può avere soltanto un voto.
Il cambiamento strutturale proposto dal governo viene motivato dal fatto che il voto capitario violerebbe il principio di democrazia penalizzando quei fondi che partecipano con ingenti capitali. Inoltre, si afferma che, aprendosi al mercato globale, esse potrebbero attrarre investimenti nazionali ed internazionali rendendole così più grandi e più competitive. A dir il vero, in questo modo le banche popolari diventeranno oggetto di scalate finanziarie e di attacchi speculativi che ne snatureranno la loro originaria funzione di sostengo allo sviluppo del territorio, delle pmi e delle famiglie. Molto probabilmente diventeranno pedine locali delle grandi banche too big to fail.
È davvero sorprendente il fatto che in Italia ci si dia da fare per offrire le banche popolari in pasto agli squali della grande finanza. Nel mondo bancario americano invece si riconosce che le dimensioni enormi delle banche globali sono il vero problema della stabilità finanziaria e sono state la causa delle passate crisi sistemiche. Non si tratta soltanto di una decina di banche. Il nuovo approccio prima o poi investirà l'intera struttura delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo (bcc). Le si ritiene evidentemente obsolete dal mondo della finanza globale. Noi pensiamo esattamente il contrario. Non solo per il nostro Paese ma per l'intera Europa. Sono proprio le banche territoriali a sostenere la crescita e a fornire ossigeno al sistema produttivo italiano rappresentato, come noto, per il 95% dalle Pmi.
Negli ultimi anni la Bce ha messo a disposizione oltre mille miliardi di euro con operazioni di rifinanziamento a lungo termine a tassi di interesse vicini allo zero nella speranza che questi soldi andassero a finanziare la ripresa. Finora però le grandi banche hanno incassato ma non hanno aperto i rubinetti del credito alle pmi. Nel nostro paese tra il 2011 e il 2013 le banche popolari hannoaumentato del 15,4% il credito offerto alle imprese e alle famiglie mentre le banche spa lo hanno diminuito del 4,9%.
È pur vero che le popolari nel 2013 hanno erogato il 15% del credito mentre le grandi banche ne hanno erogato il 75%. Ma in Italia si ha una situazione del tutto particolare in quanto le banche di interesse nazionale sono state completamente privatizzate, perdendo così anche la loro storica funzione sociale e pubblica. Nel corso del 2014 le 70 banche popolari e le 381 bcc (che occupano 120.000 dipendenti) hanno insieme dato credito alle pmi per quasi 240 miliardi di euro con un aumento di ben 35 miliardi. Alle imprese esportatrici sono andati 50 miliardi. Nel periodo della crisi tra il 2008 e il 2014 i finanziamenti alle pmi esportatrici sono aumentati del 28%. Esse hanno quindi svolto efficacemente un ruolo anticiclico favorendo la ripresa economica dei territori in cui operano.
Spesso si parla della tenuta esemplare del tessuto industriale tedesco, formato anch'esso dal mittelstand, la rete delle pmi in Germania, ignorando che la sua forza sta proprio nella rete capillare delle banche di credito cooperativo. Secondo uno studio della Bundesbank nel 2008 vi erano oltre 1.200 istituti e 13.600 sportelli, regolati da principi mutualistici e di interesse sociale, con un bilancio aggregato di mille miliardi di euro, al servizio di 30 milioni di clienti. La società tedesca e molti economisti si sono mobilitati in difesa della rete di banche territoriali anch'esse sotto attacco da parte delle grandi banche tedesche, tra cui la Deutsche Bank e la Kommerzbank, e di quelle internazionali.
Un economista tedesco, Richard Werner, direttore del Centro Studi Bancari dell'Università inglese di Southampton, in prima fila nella difesa delle banche popolari e delle bcc in Germania e in Europa, ha scientificamente dimostrato che sono proprio queste banche, e non la Bce, le banche centrali e le grandi banche globali, il vero motore della creazione di credito produttivo e dell'ampliamento della base monetaria necessaria al sostegno della ripresa economica. Senza iattanza riteniamo che sarebbe opportuna una riconsiderazione della scelta governativa.
* già sottosegretario all'Economia - ** Economista
Franco Astengo: Svendite
SVENDITE di Franco Astengo
Annunci e fatti si stanno accumulando, proprio in queste ore, nello scenario politico- economico-finanziario del nostro Paese.
Probabilmente compilando un semplice elenco non appaiono direttamente le connessioni che pure esistono al fine di favorire un progetto piuttosto preciso:
1) Cessione del 5,7% di Enel a banche italiane ed estere;
2) OPA di Mediaset (in pratica) su Rai-Way con l’obiettivo di acquisire il controllo delle possibilità di trasmissione dei segnali televisivi e della telefonia mobile:
3) Offerta di acquisto da parte di Mondadori della RCS libri;
4) Aggiungiamo la misteriosa offerta thailandese per l’acquisto del Milan con una cifra assolutamente al di fuori del mercato possibile della società rossonera (fatturato 200 milioni, offerta 1 miliardo: c’è chi sussurra che l’operazione consentirebbe a Berlusconi di coprire un ingentissimo rientro di capitali dalla Svizzera).
Segnali importanti e forti dell’assunzione di un indirizzo politico nel campo economico-finanziario da parte del Governo Renzi in sintonia con quello che rimane, Patto del Nazareno o no, il suo principale interlocutore.
Interlocutore al riguardo del quale viene salvaguardato prima di tutto l’eterno e indistruttibile conflitto d’interessi, quel conflitto d’interessi sul quale è fondata la sua assunzione di figura pubblica fin dal 1994: nel frattempo Mediaset è sempre sull’orlo della bancarotta e nel campo delle comunicazioni (così cruciale ai nostri giorni) nulla è stato fatto (anzi il contrario) per salvaguardare il ruolo pubblico.
L’unica preoccupazione vera è sempre stata quella delle nomine e, in questo senso, si muove anche l’idea del governo di Renzi di modificarne i meccanismi addirittura per decreto. In perfetto stile di famiglia, cioè fanfaniano.
Si dirà: cosa c’entra la quota di privatizzazione, peraltro programmata da tempo, dell’ENEL?
Il senso politico complessivo di queste effettuate o annunciate operazioni (inclusa quella riguardante il Milan, se davvero il senso è quello che da più parti viene indicato, con uno stretto collegamento con la chiusura del patto con la Svizzera sul segreto bancario. Patto al quale si stava lavorando da molto tempo e che, non a caso, viene concluso adesso) è proprio quello dell’affermazione del già citato conflitto d’interessi e logica che regge il quadro politico.
Non si tratto tanto e solo di concezione privatistica ma di vera e propria esaltazione del meccanismo del conflitto d’interessi come elemento-base per rappresentare e definire una nuova fase monopolistica (ne scrive opportunamente anche Vincenzo Vita sulle colonne del “Manifesto” di oggi) nella più pura commistione tra interessi privati e interessi politici di esclusiva gestione dei settori più delicati della comunicazione e dell’immaginario pubblico: TV, cultura popolare, calcio. Per andare a un paragone con il ventennio basta sostituire a TV (che non esisteva ) il termine radio e pensare alla cultura popolare tra i romanzi di Liala, le vignette di Boccasile, il cinema dei “telefoni bianchi”, il calcio poi è sempre al suo posto: eterno e immutabile veicolo di promozione del costume popolare imposto dai potenti.
Un ingrediente micidiale per sostenere una detenzione pressoché assolutistica del potere che trova poi il suo risvolto istituzionale nelle riforme, in particolare in quella della legge elettorale.
Tutto ciò sta passando senza soverchio impegno dell’opposizione parlamentare ed extraparlamentare.
Servirebbero riflessioni più attente e proposte politiche più puntuali: ma, almeno a sinistra, mancano del tutto i soggetti possibili per realizzare concretamente un obiettivo di adeguata discesa in campo.
Probabilmente tra qualche mese il cerchio sarà chiuso: dualismo privatistico nel reggere settori decisivi per l’economia e l’influenza sull’opinione pubblica; legge elettorale liberticida; rapporto con l’Europa sulla base della definizione di ulteriori tratti di cessione di sovranità economica; riaffermazione pesante di un personalismo politico incentrato sul “comando”; completamento nell’annullare il ruolo dei corpi intermedi.
La lezione di queste ore ci indica il muoversi concreto nella direzione appena indicata: cosa serve di più e di meglio per muoversi promuovendo un’opposizione che davvero dovrebbe essere di tipo “sistemico” e non episodicamente rinserrata soltanto nelle aule parlamentari?
mercoledì 25 febbraio 2015
martedì 24 febbraio 2015
lunedì 23 febbraio 2015
sabato 21 febbraio 2015
Niccolò Davini: Resoconto conferenza Male nostrum
17 febbraio 2015. Quattro anni dalla rivoluzione che sembrava aver cambiato per sempre il volto della Libia, garantendole democrazia e autodeterminazione, ma che invece ha finito per acuirne criticità e debolezze. “Male Nostrum – A chi conviene l’esportazione della democrazia in Libia?” era nato, nelle intenzioni del club PortoFranco, come un evento di memoria e approfondimento. Ma i fatti hanno voluto regalargli una valenza ancora più forte: quella di analisi a caldo di una guerra civile che ha improvvisamente invaso la sfera degli interessi italiani ed europei, uscendo dall’ombra della storia e travolgendo l’attualità.
Una storia, quella della Libia, che è stata ben riassunta da Ilaria Tremolada, Ricercatrice dell’Università degli studi di Milano esperta di Italia del Dopoguerra. Il rapporto fra Italia e Libia ha radici lontane, che affondano nel colonialismo e nella dissoluzione dell’Impero Ottomano a cui l’Italia del XX secolo ha partecipato attivamente. Una delle grandi colpe che il fondamentalismo islamico, quello che chiamiamo semplicemente Isis ma che ha molte più sfaccettature, rimprovera a un Occidente vissuto come nemico da annichilire.
In questo contesto, continua la dottoressa Tremolada, non vanno dimenticati, né sottovalutati, gli interessi economici tra Occidente, Italia e Libia, relativi al petrolio. Non è privo di conseguenze il grande interesse di ENI nell’area, né il sostegno di Total ai ribelli che ha contribuito alla creazione della situazione che viviamo ora .
Certamente l’interesse italiano in Libia è ancora oggi prevalente, ma occorre agire con oculatezza e attenzione. Lia Quartapelle, deputata PD e membro della Commissione Esteri della Camera, ha cercato di sintetizzare la posizione del governo italiano, che sembra oggi vacillare fra l’interventismo di Gentiloni, le sicurezze di Pinotti e la prudenza di Renzi, sottolineando anche la necessità impellente di stanziare a bilancio delle risorse economiche per gli Esteri, conditio sine qua non per una politica estera di rilevanza.
Anche nella scelta dell’intervento italiano in Libia, ha aggiunto la deputata, è importante non arrivare impreparati: è necessario imparare dagli errori del passato (pensiamo all’aver chiamato operazioni militari con l’appellativo di “missioni di pace”) e chiedere la cooperazione dell’Unione Europea e dell’ONU, evitando l’appoggio di altri paesi, come l’Egitto che avrebbe interesse in una possibile spaccatura della Libia in Tripolitania e Cirenaica.
Da sinistra: Danilo Aprigliano,Lia Quartapelle,Bobo Craxi,Michele Achilli e Ilaria Tremolada.
L’occidente, e questo emerge con evidenza, paga errori strategici e politici che rischiano di essere ripetuti anche oggi. Da queste considerazioni parte la riflessione di Michele Achilli, Presidente Commissione Esteri Senato 1987-1992, che ha problematizzato la valenza dell’impostazione dell’“esportazione della democrazia” post 11 settembre. L’esperto senatore ha parlato di strategie scellerate, maldestre e inefficaci, ponendo la platea davanti al dilemma: varrebbe forse la pena di lasciar mano libera a regimi che dall’osservatorio occidentale appaiono dittatoriali, al fine di garantire la stabilità regionale dell’area pan-araba?
La risposta potrebbe essere negli errori palesi fatti durante il crollo di Mubarak e Gheddafi, sintetizzati nella timidezza occidentale nella questione siriana, con il presidente Assad ancora alla guida del governo di Damasco. Achilli ha inoltre posto l’accento su come siano interlacciate fra loro le diverse crisi che oggi viviamo: quella del mondo arabo in particolare con quella sul fronte ucraino, con una Russia che smaltito il crollo sovietico torna a porsi come attore sul piano internazionale, talvolta anche in contrapposizione con l’occidente.
Pragmatico e disilluso anche Bobo Craxi, sottosegretario agli Esteri sotto il governo Prodi II. Partendo dall’analisi storica dei rapporti politici tra Libia, Europa e Italia fatta da Ilaria Tremolada, ha posto dubbi sulla realizzabilità di quanto auspicato da Quartapelle. La storia ci mostra infatti come gli interessi italiani e quelli del resto dell’occidente sulla Libia siano andati in direzioni diametralmente opposte: mentre noi consideravamo Gheddafi come un interlocutore, gli americani non hanno mai nascosto la loro diffidenza, non mancando di definirlo pazzo e imprevedibile. Sarebbe, dunque, piuttosto naïve, prosegue Craxi, definire quella libica come una rivoluzione di popolo, quando invece la sua matrice andrebbe ricercata nella volontà del governo degli Stati Uniti di non mancare l’occasione per rovesciare il debole regime gheddafiano. Secondo l’esponente socialista il governo italiano dovrebbe innanzitutto sostenere le forze libiche che si oppongono all’Isis, per poi valutare un eventuale intervento che si inserirebbe comunque in uno scenario allo stesso tempo complesso e vicino: non è bene rischiare un’escalation politica, militare e sociale su quella che è, di fatto, la nostra quarta sponda. Una sponda fatta di interessi politici e che ha i due punti di massima attenzione nell’emergenza immigrazione e nella dipendenza europea dal petrolio, che l’Italia importa in larga misura proprio dalla Libia.
Il dibattito ha i visto i protagonisti giocare su un terreno di sostanziale accordo, ma non ha mancato di sottolineare le differenze tra la posizione chiaramente governativa di Lia Quartapelle che, anche nell’aperta ammissione degli errori del passato, non nasconde l’adesione ad un approccio più “tradizionale” alla questione, e quella pragmatica, forse meno politicamente corretta, di Craxi e Achilli.
PortoFranco ha insomma saputo intercettare un’esigenza emergente e mettere in luce l’elemento più drammatico del nostro fronte interno: per quanto concorde su temi di principio e unito da una cultura comune, è invece frastagliato e disomogeneo sulla risposta da dare a quelle che sono minacce sempre più attuali e imminenti.
Niccolò Davini
venerdì 20 febbraio 2015
Franco D'alfonso: Intervento introduttivo Forum Brand Milano
FORUM BRAND MILANO
L’esperienza di analisi e di racconto
delle trasformazioni identitarie della città
19 - 20 febbraio 2015
Università degli Studi di Milano - Palazzo Greppi, Sala Napoleonica
Via Sant'Antonio 12 Milano
Intervento Introduttivo
Franco D’Alfonso
Assessore Attività Produttive, Commercio, Turismo, Marketing Territoriale, Servizi Civici
Milano, 19 febbraio 2015
Milano è la città che nel corso del Novecento ha cambiato pelle e immagine di sé stessa ponendosi costantemente sulla faglia della storia in maniera attiva originale e dinamica.
Questa caratteristica di Milano fece scrivere a Gaetano Salvemini: “Domani l’Italia penserà quel che pensa oggi Milano, ma oggi non lo pensa ancora, o meglio non lo pensa con quella stessa limpidità e chiarezza con cui pensa Milano”.
Il consolidamento post-unitario, citerò solo questo esempio, passò a Milano per una crescita impetuosa delle dinamiche industriali e quindi per conflitti sociali di prima grandezza, di cui le cannonate di Bava Beccaris sui dimostranti sono il segno indelebile e l’indicazione del bivio dove il cammino della capitale morale e quella del Regno papalino e sabaudo tornarono a divergere. Tra quelle cannonate e la prima guerra mondiale la città fece sistema, l'Amministrazione venne retta con forte visione dei rapporti tra i nuovi protagonisti del mondo del lavoro, imprenditori e movimento operaio, le scelte tecnologiche furono tese all'innovazione e Milano andò all'Expo del 1906 come portale d'avanguardia dell'intero Paese.
Il nostro tempo è di nuovo un cantiere morale e materiale. Il diaframma del giudizio del mondo imposto da Expo 2015 ma soprattutto dalla necessità di essere uno dei “nodi” della rete mondiale delle città metropolitane pone l'obbligo di alcune ricapitolazioni e pone il tema della “rappresentazione” molto di più che della “comunicazione” della città.
Servono allora ancora un po' di stampelle non convenzionali, come per esempio il civismo, l'associazionismo, le reti professionali. Ma serve anche una certa reattività generazionale, non puramente anagrafica, che veda l’emergere di nuovi protagonisti senza un grande futuro dietro le spalle che sappiano scrivere un nuovo capitolo della storia cittadina che si comporrà attraverso l’azione su diversi piani e livelli.
Un primo livello è quello della città come teatro economico e culturale ma anche politico e della rappresentazione. In questa cornice si colloca il progetto che il Comune di Milano, in convenzione con la Triennale, ha fatto emergere e orientato al dibattito pubblico.
Un progetto sul brand di Milano, non inteso come segno grafico ma come patrimonio simbolico in evoluzione.
Da questo progetto, come vedremo, sono emerse alcune indicazioni che è utile riprendere:
1. Di quel patrimonio simbolico è azionista la comunità ed essa deve essere resa partecipe di una vera interazione sull'interpretazione del cambiamento: è il momento di sperimentare su questo non agevole tema le molte forme moderne dell'ascolto, che non può essere più limitato al momento elettorale.
2. L'obiettivo dell’interpretazione è un nuovo racconto, che ha l'opportunità di Expo per avviarsi ma riguarda i tempi medio-lunghi. Come si sa il medio-lungo è l'unico scenario possibile del riformismo, perché ogni conservazione – di destra come di sinistra – agisce invece nell'hic et nunc.
3. Il diritto di proposta -Brand Milano mette sul tavolo ricerche, mostre, eventi e un forum per discutere- chiede alla fine l'intervento di mediatori dediti all'interesse pubblico. Sono chiamati a questo ruolo prima di tutto ma non solo, i politici cittadini e nei due giorni di questo Forum vedrete su questo palco, quasi collegialmente, molti delle colleghe e dei colleghi che compongono la squadra di Palazzo Marino e che hanno deciso di essere qui non per fare passerella ma per segnalare l’urgenza che il tema del nuovo racconto di Milano è trasversale e attraversa tutte le competenze, nessuna esclusa.
Ma la chiamata interpella anche l’Università, la cultura, l’imprenditoria, l’associazionismo, in una parola quel Sistema-Milano che deve tornare in campo per indicare vie e proposte anche alternative per dare corpo e anima al sogno di una nuova Grande Milano.
E per essere autentico e non ego-centrato, il confronto deve necessariamente avvenire con tanti mondi, tante realtà, tante altre professioni, tante altre città e persino con altri Paesi. Così ‘La percezione di Milano’, che verrà affrontata nella mattinata di venerdì vedrà confrontarsi i migliori professionisti della comunicazione italiana con colleghi altrettanto illustri della Stampa estera in Italia.
Anche sul tema ‘Italia/Europa. Città laboratori identitari’ gli amministratori della nostra città si confronteranno con quelli di altre realtà italiane ed europee importanti, come Rotterdam, Barcellona e Lione.
Quindi il programma messo in atto ha una prima conclusione nel dispiegare oggi le proposte. Ma deve avere poi una seconda conclusione nel fare emergere alleanze tra i decisori (politica-impresa-società-cultura) per convalidare il cambiamento del racconto di sé in maniera comunicabile all'esterno (Italia, Europa, mondo).
In questo tratto il dialogo nella città come sistema diventa cruciale. Se c’è evoluzione condivisa di racconto sulla città è perché viene anche condivisa un’idea della ‘polis’.
In breve è questo il pezzo di progetto politico–nel senso di un progetto connaturato all'evoluzione della città e delle sue relazioni–che Brand Milano cerca di svolgere e per la propria piccola parte (perché è una parte metodologica e non assertiva, di sperimentazione e quindi non normativa), di segnalare a tutti coloro che in quelle componenti sociali ancora scelgono l'aventinismo (una parte non banale di sistema universitario e di sistema di impresa), che si può lavorare sui territori moderni di una ‘governance’ politica anche extra-istituzionale. Civica per definizione, come è per altro costume e ricorrenza nella storia di Milano.
La ricerca di una nuova identità, di quella che con anglesismo passato ormai nel linguaggio comune si dice “mission” della Città metropolitana deve necessariamente partire dalla ricognizione dello stato di partenza.
Un utile punto di riferimento viene da una ricerca Ipsos fatta nell’ambito del Progetto Brand Milano nell’aprile 2014.
Milano viene rappresentata attraverso la metafora dell’alveare, cellette con all’interno api operose che comunicano con l’esterno ma poco fra di loro. E’ una città fatta di tanti racconti diversi, non sempre conosciuti l’uno agli altri, che ha grande difficoltà a esprimere una immagine unitaria, soprattutto in senso positivo.
La Milano che non si ama trova invece la sua rappresentazione in una asserita “mancanza di visione”, di progettualità, che restituisca una sintesi in cui potersi identificare . Ma la critica non ha alcun tratto specifico identificato che si stagli rispetto agli altri: significa che si tratta più di stato d’animo, di sensazioni, più che di effettiva rilevazione di problema. Stranamente, nel rapporto con la propria città i “concreti” milanesi si fanno guidare dalle percezioni più che dalle “misurazioni”.
Eppure l’amore per Milano dei milanesi, certifica anche l’Ipsos, è molto forte, ma lo è anche quello dei non-milanesi, a differenza di quanto avviene nelle altre città, come ad esempio Roma. E Milano sempre più ‘glocal’ viene vissuta come la città italiana –forse l’unica-ancora capace di dare una possibilità a tutti, dove trovare la propria strada nelle professioni e nell’impegno sociale, come emerge dalla bellissima serie di video che presenteremo, girati grazie al contributo volontario di professionisti della comunicazione visiva e della nostra Scuola Civica di Cinema.
Ma ancora più sorprendente è scoprire come esista una sorta di inversione di ruoli nel criticare la città: l’ipercriticismo di una città che non è mai stata moderata è tale da vedere su quasi tutti gli aspetti potenzialmente positivi propri un consenso nettamente maggiore tra i pendolari, coloro che vengono in città per lavoro e i city user, soprattutto studenti e turisti.
Questo quadro critico si riproduce in qualche modo nella valutazione del carattere “internazionale” della città: il tradizionale riserbo milanese non concede credito a sé stessi in questa prospettiva, gli italiani ne danno per lo più la visione stereotipata, mentre stranieri e “newcomer” trovano molte potenzialità proprio sul versante della creatività e della qualità della vita. Verrebbe da dire che anche in questo caso il milanese sottovaluta la propria città….
Molto netta è anche l’indicazione dei punti di forza sui quali operare per il rilancio della città: la creatività, l’offerta culturale e l’industriosità come capacità di “fare impresa”, esperienze che durante il Forum verranno commentate dai presidenti delle più importanti Fondazioni milanesi, compresa la grande Fiera orgoglio di Milano.
Molto meno considerate le altre proposte testate, come la rete universitaria di eccellenza, l’essere crocevia/terra di mezzo di molte realtà e la capacità di integrazione e il valore della rete di solidarietà. Si fanno, si devono mantenere, ma non sono considerate il carattere distintivo da imprimere all’azione di rilancio della città.
Appare chiaro che cercare di dare una immagine unica della città non è solo fatica vana, ma è proprio un errore fuorviante. Milano è da molto tempo una metropoli a dispetto delle sue dimensioni relativamente ridotte perché non solo non è mai stata “monoculturale”, ma non ha mai avuto nemmeno una per così dire “maggioranza relativa” di un settore caratterizzante la città in modo determinante, nemmeno a livello di immagine.
Ricostruire la propria immagine attraverso la ricomposizione, lo story-telling del proprio passato e del proprio presente è utile per la città se prefigura il futuro, se proietta l’immagine di quello che la Grande Milano potrà essere e quello che potrà rappresentare per i propri cittadini e per il Paese intero. In una parola, se riesce a restituire a ognuno di noi un sogno da realizzare e da raccontare a coloro i quali faranno assieme a noi un breve o un lungo tratto del viaggio della propria vita a Milano.
Sento spesso dire che il milanese, di nascita o di adozione, è una persona concreta e non si perde dietro alle “visioni”. Credo sia una generalizzazione sbagliata, frutto di una sopravvalutazione del valore esistenziale dello spirito critico di cui abbiamo già parlato.
Milano non sopporta il non avere prospettive, il dover fare i “piangina” , probabilmente l’insulto più abrasivo che si possa lanciare contro un milanese che sa sempre darsi un obiettivo, un compito, un qualcosa da fare.
Occorre dire qual è il sogno e il segno di una nuova Grande Milano, qual è il ruolo che la città avrà nel futuro prossimo e come si materializzerà questo sogno, attraverso quali strumenti, quali impegni, quali sfide.
Non vi è alcun dubbio su quale sia la sfida, far ritornare Milano a essere il motore dello sviluppo e della crescita dell’intero Paese e della realizzazione di una nuova Europa che veda nelle comunità urbane e non in quelle finanziarie il proprio lievito madre.
La crisi economica e finanziaria in corso non è una normale crisi del capitalismo, è una crisi profonda di sistema che altera gli equilibri del mondo in maniera irreversibile e che non si risolverà certo con un partenopeo “ a da’ passà a nuttata…”, ma richiede una immediata presa di coscienza dei mutati termini economici e sociali ormai intervenuti. Si tratta di mutamenti non necessariamente negativi, anche se noi siamo come Europa probabilmente nel punto più basso dove si scaricano i veleni da essa prodotti: non possiamo non ricordare che dall’inizio del secolo abbiamo avuto e abbiamo gravi problemi nell’ex-Occidente, compreso un incremento della povertà che non si registrava dal dopoguerra, ma complessivamente sul nostro pianeta abbiamo un miliardo di poveri in meno in una fase di esplosione della popolazione.
Già dagli anni Novanta la teoria della crescita endogena spiegata da Grossmann e Helpman superava l’idea che la crescita dipendesse esclusivamente dalla quantità di capitale investito ed accumulato, riconoscendo che il capitale umano che esprime conoscenza e capacità unito alla tecnologia sono in grado di ottenere rendimenti crescenti dal sistema a parità di condizioni altre. I comportamenti dinamici-come l’apprendimento attraverso la pratica o la diffusione delle conoscenze su un numero maggiore di individui-possono contribuire a spiegare perché certe aziende o Paesi registrano regolarmente “performance” migliori di altre e il divario non viene necessariamente colmato da variazioni quantitative e dimensionali. In soldoni, la crescita è funzione più delle conoscenze e abilità umane che dei classici fattori di capitale investito.
La definizione di Città Metropolitana e il suo valore attuale e potenziale è già stato scoperto, analizzato e studiato da decenni da economisti e sociologi, fra i quali un posto di spicco merita il nostro milanesissimo Guido Martinotti.
L’individuazione dello spazio urbano come crogiolo della crescita, funzione della complessità che vi si raduna è già stata fatta da molto tempo.
Ecco quindi il primo obiettivo della Grande Milano: prendere innanzitutto coscienza di essere uno dei più grandi e potenzialmente più potenti ecosistemi di innovazione d’Europa e forse del mondo.
Le conoscenze e le capacità artigianali e tecnologiche, la tradizione industriale manifatturiera, le migliaia di aziende e professionisti operanti nell’elettronica, il grande patrimonio umano di ricercatori e soprattutto ricercatrici scientifiche, gli oltre centoventimila studenti universitari, le scuole di architettura e design, il patrimonio storico, culturale e architettonico, il livello dei servizi al cittadino-con punte di eccellenza che forse non riescono a coprire le “valli” di inefficienza burocratica ma che pur sempre restano esperienze studiate e richieste da molte città d’Europa-e tanto altro ancora: questo lacunoso inventario deve essere fatto, sistematizzato e portato alla conoscenza prima di tutto dei milanesi stessi, intendendosi i tre milioni e mezzo dell’Area metropolitana e non certo gli abitanti del vecchio borgo costituente il Comune attuale.
Una tale ricchezza di elementi porta naturalmente a indicare il futuro di Milano come quello del luogo della creatività, dell’innovazione e dell’integrazione fra diversi. Un futuro che somiglia tanto al passato, alla Milano di Ludovico il Moro che accoglieva i migliori artisti, artigiani, talenti da tutto il mondo conosciuto e li rendeva cittadini milanesi alla sola condizione di aver qualcosa da apportare alla conoscenza della città.
Il quinto mercato più grande d’Europa non è solo un formidabile attrattore per tutti i marchi e prodotti di tutti i settori, è una specie di gigantesco incubatore di nuove pratiche e di nuove conoscenze che producono innovazione.
Una città che diventi il luogo eletto degli incontri con le altre città e comunità d’Europa, il luogo della contaminazione e della fertilizzazione della conoscenza, del confronto e della creatività e innovazione può essere un sogno realizzabile a condizione che sia patrimonio condiviso dai suoi cittadini, che sono i gestori e manutentori dell’intero ecosistema.
L’obiettivo sarà raggiungibile e i diversi strumenti, dai piani urbanistici alla rigenerazione delle diverse zone, saranno approntati e utilizzati solo ed esclusivamente se passeranno il vaglio ed avranno il sostegno delle diverse componenti della città. Questo significa che la città dovrà essere in grado di accogliere persone che staranno a Milano per periodi residenziali limitati, avendo la possibilità di avere accesso ai servizi, dalla casa ai trasporti fino a quelli del tempo libero, in maniera per così dire “naturale”, senza una distinzione troppo sensibile rispetto a chi vi risiede stabilmente.
La Grande Milano coerentemente con la sua storia dovrà essere ancora la città del lavoro ad alto contenuto di innovazione. Occorrerà predisporre strumenti per agevolare la trasposizione nei processi produttivi di beni e servizi la grande quantità di conoscenze che si accumula e si scambia nella rete del territorio oltre che dalle reti planetarie.
Questo processo nella realtà è più difficile da teorizzare che da realizzare: si tratta di “leggere” fenomeni già in essere e indicare le tendenze virtuose come l’esempio da seguire, non sono necessari grandi piani programmatici.
Le giornate del Forum spero saranno tentativo riuscito di lettura di fenomeni già in essere
giovedì 19 febbraio 2015
mercoledì 18 febbraio 2015
martedì 17 febbraio 2015
PER UNA NUOVA SINISTRA: RIPENSARE IN TERMINI DI “SISTEMA MONDO” di Franco Astengo
PER UNA NUOVA SINISTRA: RIPENSARE IN TERMINI DI “SISTEMA MONDO” di Franco Astengo dal sito: http://autoconvocatiperlopposizione.com
L’evolversi della situazione internazionale in termini di possibile deflagrazione di un conflitto a livello globale pare rappresentare una delle eventualità possibili della fase che stiamo attraversando.
Abbiamo discettato, nei mesi scorsi, di ritorno a una sorta di conflitto bipolare e della geopolitica di “vecchio stampo” come fattore strategico di base sulle cui coordinate si stanno muovendo i confronti tra le grandi potenze.
Oggi assistiamo al presentarsi, sotto quest’ aspetto, di una complessità di contraddizioni e di nuova regolazione dei rapporti tra centro e periferia che non appaiono di facile interpretazione: scontri di natura coloniale, conflitti apparentemente di tipo fondamentalista religioso che mascherano scontri economici di grande portata; occupazione di spazi vitali in funzione del dominio energetico in zone del mondo percorse dal disordine sul piano statuale e della riconoscibilità d’identità per gli stessi popoli che si trovano al centro di questo tipo di situazioni (Medio Oriente, Africa del Nord e sub-sahariana, in particolare).
Certamente, sotto questo aspetto, fattori tradizionalmente presenti in questi scenari persistono a ricoprire aspetti di fondamentale importanza: come, ad esempio, il mantenimento dell’integrità e l’espansione possibile dello Stato di Israele quale vero e proprio fattore di costante disequilibrio dell’area.
In questo quadro assumono rilevanza marginale aspetti che si erano giudicati fin qui fondamentali per lo sviluppo di fase: la “contesa europea”, ad esempio, appare ridotta a questione periferica essendo, sul piano strategico, compresa in un’operazione di riallineamento atlantico che gli USA stanno chiedendo al Vecchio continente che appare del tutto impreparato sul piano politico – strategico.
Risulta sicuramente marginale, in questo modo, l’emergere, nei Paesi del versante sud del fronte europeo, di movimenti di “governo” che centralizzano la loro azione sul tema dell’Unione Europea e del suo cambiamento di natura: da Syriza a Podemos si tratta, infatti, di modelli sostanzialmente provinciali che agiscono su dinamiche, sicuramente importanti, ma complessivamente marginali non contribuendo alla costruzione di una prospettiva compiuta di trasformazione radicale degli equilibri e, quindi, di una presenza politica effettiva di una sinistra posta all’altezza delle contraddizioni dell’oggi.
Per restare in Europa appare, ancora, del tutto secondaria l’azione – insieme – del Partito Socialista Europeo e della Sinistra Europea: soggetti entrambi schiacciati in una visione subalterna all’ondata liberista degli anni scorsi. Quell’ondata liberista che oggi si sta tramutando in una vera e propria “tempesta di guerra”.
A sinistra appare difficile recuperare una visione complessiva e una funzione politica incisiva rispetto ai due nodi che dovrebbero risultare fondativi di un’identità: quelli dell’internazionalismo e della collocazione, in questo quadro così complicato da leggere, della contraddizione di classe così come questa si presenta comprensiva e intrecciata ad altre “fratture” non immediatamente riconoscibili.
L’insieme: questione “internazionalista” e complessità delle “fratture” da unificare, prima di tutto, in una forte tensione per la costruzione di un movimento per la pace di dimensione – almeno – sovranazionale.
Sembra di risentire, a distanza di 100 anni, il richiamo di Zimmerwald e Kienthal: ma forse è proprio così e non lo stiamo ascoltando.
In questo modo appare impedita la formulazione di un progetto di cambiamento radicale degli equilibri sociali, dentro e fuori la realtà, comunque perdurante, dello “Stato – Nazione”.
Forse sarebbe da riprendere la teoria del “sistema – mondo”, a suo tempo elaborata da Immanuel Wallerstein.
Ed è con una citazione del sociologo statunitense che può essere concluso questo intervento, invitando tutti all’avvio di una riflessione molto più approfondita di quanto non si stia facendo, a tutti i livelli, in questo momento storico.
Wallerstein affermava che” l’analisi del sistema-mondo è la richiesta della costruzione di una scienza sociale storica che si trovi a suo agio con le incertezze della transizione, che contribuisca alla trasformazione del mondo illuminando le scelte senza fare appello alla credenza surrettizia nel trionfo inevitabile del bene. L’analisi del sistema-mondo è una richiesta di aprire le finestre chiuse che ci impediscono di esplorare molte zone del mondo reale. L’analisi del sistema-mondo non è un paradigma di una scienza sociale storica. È una richiesta di un dibattito sul paradigma”.
Ecco il punto: la richiesta di un dibattito sul paradigma proprio in termini di “sistema – mondo”.
lunedì 16 febbraio 2015
Livio Ghersi: Pacato discorso ai guerrafondai
Pacato discorso ai guerrafondai.
L'Italia sollecita l'Organizzazione delle Nazioni Unite ad autorizzare un intervento militare in Libia, per ricondurre sotto controllo quel Paese. L'Italia si dichiara pronta a dare un proprio contributo in termini di soldati da schierare nel teatro di guerra; si fanno anche le prime quantificazioni e si parla di cinquemila unità dell'Esercito.
Ci sarebbe una terza affermazione, che si fa fatica a riportare perché esagerata: l'Italia è pronta ad assumere la guida dell'eventuale intervento internazionale.
Proviamo a valutare razionalmente il significato di queste frasi, che ritroviamo nei quotidiani cartacei, nei periodici on-line, e che sentiamo ripetere nei telegiornali e nelle trasmissioni televisive.
E' bene partire dall'ONU, l'unica Organizzazione legittimata ad autorizzare un intervento, sempre che si voglia restare nel solco della legalità internazionale. Come tutti dovrebbero sapere, l'ONU ha un Organo direttivo, il Consiglio di Sicurezza. Di questo fanno parte cinque Membri permanenti, ciascuno dotato di potere di veto. I cinque membri sono: Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia.
Come si può soltanto ipotizzare che oggi la Russia voglia fare un favore alle stesse forze internazionali che l'avversano nella questione dell'Ucraina, che vorrebbero colpirla con sanzioni economiche sempre più efficaci, che addirittura vorrebbero armare le forze armate ucraine? Qui bisogna mettersi d'accordo con la logica, prima che con la politica. O si ritiene che la Russia sia una potenza che può dare un contributo importante per realizzare stabili condizioni di pace tanto in Europa, quanto nel Medio Oriente e in Nord Africa. Come pensa chi scrive, per quanto poco possa valere la sua opinione. Oppure, se si vuole avversare la Russia, è inutile parlare dell'ONU, dove la Russia ha potere di veto.
Veniamo alla ipotesi di schierare soldati in territorio libico. Qui, stando a quanto dicono tutti gli osservatori, non esistono al momento interlocutori organizzati, che siano credibili come possibile nucleo fondativo di una nuova realtà statuale. Se mancano punti di riferimento fra le forze in loco, ne discende che bisognerebbe muoversi con l'intento di affrontare, una per una, le singole bande armate, per disarmarle e costringerle ad accettare un ordine imposto. In altre parole, le truppe internazionali non avrebbero soltanto un compito d'interposizione, ma sarebbero coinvolte in azioni di guerra guerreggiata. Sarebbero costrette a muoversi in ambiente ostile, subendo attacchi da tutte le parti. Di conseguenza, non avremmo i tre o quattro morti una tantum, perché un nostro blindato esplode su una mina, ma potremmo avere decine, forse centinaia, di morti ogni giorno.
Gli strateghi potrebbero obiettare che l'intervento di terra dovrebbe essere preceduto dalla distruzione della capacità militare delle varie bande libiche, grazie all'impiego sistematico dell'aviazione. Già, ma chi bisognerebbe bombardare? Si colpirebbero gli insediamenti urbani, massacrando anche la popolazione civile? Perché è proprio questo che fanno i fanatici di ogni colore politico e di ogni credo religioso: si fanno scudo della popolazione civile.
Un intervento militare avrebbe un costo etico intollerabile: tanto in termini di popolazione civile libica massacrata per il cosiddetto danno collaterale dei bombardamenti aerei, quanto in termini di vite umane stroncate fra i soldati delle truppe internazionali, quindi anche fra i soldati italiani.
Non è poi da sottovalutare la questione dei costi economici. Com'è noto, l'Italia non dispone più di un Esercito di leva, ma utilizza dei militari di professione. Questi vanno pagati per il loro lavoro; tanto più se impiegati in missioni internazionali. Tanto più se queste missioni sono molto rischiose. Non parliamo poi del costo degli armamenti. Quando si combatte una guerra vera ed i figli di mamma sono mandati a morire, non si può stare a lesinare su armamento, munizioni, equipaggiamento. E' vero che nella nostra storia nazionale ritroviamo pure un Mussolini che pensava di vincere le guerre con milioni di baionette e che mandò nel gelo della Russia soldati che calzavano scarpe con la suola di cartone. Ma un governo italiano che volesse oggi dare dimostrazione di altrettanta improvvisazione, si troverebbe la rivoluzione in casa nel giro di un mese.
Faccio soltanto un accenno all'articolo 11 della Costituzione della Repubblica italiana, perché viviamo in tempi in cui il valore sacrale delle carte costituzionali non sembra di moda.
La Libia, come entità unitaria, fu un'invenzione del colonialismo italiano. In precedenza, la Cirenaica e la Tripolitania erano realtà distinte, con tradizioni culturali diverse. Uno Stato composito può restare unito soltanto con un regime autoritario.
In Italia molti, troppi, rimpiangono il dittatore Gheddafi, con il quale hanno fatto buoni affari, senza stare troppo a sottilizzare sui metodi che egli utilizzava per conservare il proprio potere all'interno del Paese. Chi scrive non è di questa opinione. Rivendica, anzi, un proprio articolo, scritto il 22 marzo 2011, che era titolato "Dalla parte di Bengasi". In quel caso, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU autorizzò un intervento militare perché le truppe di Gheddafi, guidate dal figlio del dittatore, si apprestavano ad entrare nella ribelle Bengasi ed era più che probabile un bagno di sangue. Gheddafi aveva usato l'aviazione libica per bombardare le città libiche che volevano sottrarsi alla sua autorità. Scrissi allora: «L'Italia ha tutto da guadagnare nei suoi rapporti con l'opinione pubblica araba, complessivamente intesa, se applica con coerenza il semplice criterio che alcuni princìpi fondamentali valgono per tutti gli esseri umani in quanto tali e, pertanto, devono valere anche per gli Arabi. Primo principio: nessun governo può legittimamente reggersi se non ha il consenso da parte della popolazione. Secondo principio: i cittadini di Bengasi valgono quanto i cittadini di New York, o di Roma, o di Parigi, o di Mosca, o di Londra. Di conseguenza, non si può consentire che siano massacrati da un pazzo sanguinario. Terzo principio: ogni popolo deve liberamente scegliere i propri governanti. Inutile, quindi, chiedersi chi prenderà il potere se Gheddafi cade. Prenderà il potere la classe politica che i Libici sceglieranno». Confermo, parola per parola.
Ho il sospetto, ma è qualcosa di più di un sospetto, che quanti da noi erano amici di Gheddafi, abbiano scientemente operato affinché la situazione in Libia non si stabilizzasse e prevalessero le tendenze disgregatrici e centrifughe, fino all'attuale caos.
Esistono tecniche di disinformazione dell'opinione pubblica. Una di queste riguarda un avventuriero che, operando tra Iraq e Siria, si è autoproclamato "califfo". Anche in Libia sventolerebbero le bandiere nere di cotanto "califfo". La nostra ignoranza di Occidentali non ci consente di comprendere che questo avventuriero, dal punto di vista della religione islamica, è un bestemmiatore. E ciò vale tanto per i Sunniti, quanto per gli Sciiti. Le bandiere nere contraddistinguevano il Califfato della dinastia degli Abbasidi. Peccato che bisogna fare un salto indietro nel tempo, fino al nostro Medio Evo, perché quel Califfato durò, fra alterne fortune, dal 750 al 1258. Dall'ottavo al tredicesimo secolo. Oggi viviamo nel ventunesimo secolo e qualcosa, nel frattempo, è successa. Peraltro, i Califfi Abbasidi erano fini politici, abituati a navigare fra le difficoltà, che cercavano di comporre con l'arte diplomatica. Richiamo soltanto alcuni episodi. Nel decimo secolo si costituì un altro Califfato, detto Fatimide (dal nome della figlia del Profeta Maometto), che controllava il Nord Africa e l'Egitto, e che era espressione di Sciiti ismailiti. Una situazione simile a quella che si verificò nella Chiesa Cattolica quando si contrapponevano un Papa ed un antipapa. Nell'undicesimo secolo i Turchi Selgiuchidi, provenienti dall'Asia centrale, si stabilirono, prima nel territorio oggi rivendicato dal sedicente "califfo", tra Mossul nell'attuale Iraq ed Aleppo nell'attuale Siria, poi continuarono ad espandersi in Anatolia e sulle rive del Mediterraneo. Il Califfo di Baghdad fece buon viso, perché i Turchi Selgiuchidi si proclamavano Sunniti, e nel 1055 riconobbe al loro condottiero la dignità di sultano. Fortunatamente per il Califfato, in seguito i Selgiuchidi spezzettarono i propri possedimenti fra una pluralità di sultanati e di emirati. Alla fine dello stesso undicesimo secolo, nel novembre del 1095, Papa Urbano II fece appello ai principi cristiani affinché, in alleanza con l'Imperatore bizantino (al tempo, Alessio I Comneno), riconquistassero la Terra santa e Gerusalemme. Le Crociate non furono il frutto di fanatismo religioso: ma di lucida intelligenza politica, considerato che la comunità islamica appariva divisa fra due califfati contrapposti e che i Turchi rappresentavano un ulteriore fattore di destabilizzazione. Il Califfato Abbaside, che ne aveva viste tante, fu travolto dai Mongoli nel 1258.
Nel sedicesimo secolo i sultani ottomani, a partire da Selim I, conquistatore della Siria e dell'Egitto, si proclamarono difensori dell'Islam e rivendicarono a sé il titolo di "califfi", con l'assenso dello Sceicco di Medina. Ma ormai il titolo non aveva più lo stesso significato, di massima Autorità, insieme religiosa e politica, che aveva avuto nel 632, quando alla morte del Profeta Maometto, fra i membri più eminenti della sua stessa tribù di Arabi (i Quraish, o Coreisciti, della Mecca) fu eletto un successore.
La soluzione dei problemi della Libia può essere trovata soltanto in una logica di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente e del Nord Africa. Protagonisti di questa stabilizzazione, affinché funzioni e sia duratura devono ("devono", non possono) essere la Lega Araba, che andrebbe rilanciata e valorizzata, la Turchia e l'Iran. Se questi soggetti politici trovano tra loro un'intesa, il sedicente "Stato islamico dell'Iraq e della Siria" (ISIS) si polverizza l'indomani.
Quel che manca all'Europa, quindi all'Italia, è una visione strategica che orienti la politica estera. Quanti pensano non al petrolio, ma alla pace, comincino a considerare la Turchia, l'Iran, l'Egitto e con esso la Lega Araba, necessari interlocutori e potenziali alleati.
Palermo, 16 febbraio 2015
Livio Ghersi
domenica 15 febbraio 2015
sabato 14 febbraio 2015
Livio Ghersi: La conferenza stampa delle opposizioni
La Conferenza-stampa delle opposizioni
Venerdì 13 febbraio 2015 ho assistito con un misto di stupore e di crescente angoscia alla Conferenza-stampa tenuta congiuntamente dai deputati Renato Brunetta per il Gruppo di Forza Italia, Arturo Scotto per il Gruppo di Sinistra, Ecologia e Libertà, Massimiliano Fedriga per il Gruppo della Lega Nord, Fabio Rampelli per il Gruppo di Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale, Barbara Saltamartini del Gruppo Misto.
Immediatamente dopo, il Gruppo del Movimento Cinque Stelle avrebbe tenuto la propria Conferenza-stampa. Separata, ma volta a comunicare sostanzialmente la medesima cosa: tutte le opposizioni parlamentari hanno deciso di abbandonare l'Aula della Camera dei deputati, in segno di protesta rispetto al modo in cui si stanno svolgendo i lavori parlamentari nella discussione del disegno di legge costituzionale che si prefigge di riformare radicalmente la Parte seconda della Costituzione della Repubblica italiana.
E' vero che non siamo nel 1924; ma la circostanza che tutte — ripeto, tutte — le opposizioni parlamentari abbiano deciso congiuntamente di non partecipare ai lavori della Camera, qualche riflessione dovrebbe pur suscitarla.
Oltre la teatralità dei gesti, oltre l'incapacità di pesare le parole, oltre un poco radicato ed altalenante senso di responsabilità nei confronti delle Istituzioni democratiche, tutti limiti che si potrebbero individuare negli esponenti politici che hanno tenuto le due conferenze-stampa, non è possibile che l'opinione pubblica italiana resti del tutto indifferente di fronte alla circostanza che la nostra Costituzione venga modificata, in sue parti essenziali, in base alla mera logica della maggioranza numerica. Eppure quante parole, quanta retorica, erano state spese in precedenza per affermare l'esigenza che la modifica delle regole del gioco democratico si realizzasse con il più ampio contributo possibile delle forze politiche rappresentate in Parlamento!
La Costituzione è la legge delle leggi; è gerarchicamente sovraordinata alle leggi ordinarie e fornisce i criteri per valutare le medesime leggi sotto il profilo della legittimità costituzionale. Affinché, con apposite pronunce della Corte Costituzionale, possano essere eliminate dal nostro ordinamento giuridico le disposizioni di legge che, eventualmente, siano giudicate in contrasto con disposizioni della Costituzione.
Non è del tutto normale che un Governo assuma l'iniziativa di modificare la Costituzione, essendo preferibile che, in materia, il Parlamento resti sovrano ed assuma liberamente le proprie determinazioni. Eppure, è proprio questo che il Governo Renzi ha fatto (si veda il disegno di legge costituzionale n. 1429 / Atti Senato, a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro Boschi, presentato l'8 aprile 2014).
E' anormale che il Presidente del Consiglio dei Ministri, stavolta nella sua seconda veste di Segretario del Partito democratico, abbia negoziato i contenuti della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale con un solo partito di opposizione, Forza Italia, ed abbia poi chiesto a tutti i Gruppi parlamentari, di maggioranza e di opposizione, di accettare a scatola chiusa quanto definito negli accordi bilaterali con Forza Italia (cosiddetto Patto del Nazareno). Ciò equivale a dire che il Parlamento, in quanto Istituzione, è stato scavalcato e mortificato, con una costante forzatura delle procedure parlamentari. Qualcuno ricorda, ad esempio, la vicenda dell'emendamento a firma del senatore Stefano Esposito, del Gruppo del Partito democratico, approvato dal Senato nella seduta n. 381 del 21 gennaio scorso, emendamento risultato decisivo affinché venisse approvato il disegno di legge in materia elettorale esattamente come da ultimo rielaborato dal Presidente del Consiglio? Quell'emendamento scritto male dal punto di vista tecnico, sempre in ragione della fretta che dovrebbe giustificare ogni cosa, ha poi determinato la necessità di corpose correzioni formali. Con l'ovvio effetto di suscitare proteste anche nei confronti del Presidente di turno del Senato, che si è prestato a far passare come correzioni formali norme di pregnante sostanza.
E' politicamente irrazionale, oltre che scorretto sul piano delle procedure parlamentari, che oggi il Presidente del Consiglio pretenda di approvare senza modifiche le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale, frutto del Patto del Nazareno, dopo che quel patto è entrato in crisi per espressa affermazione dell'altro contraente, ossia Forza Italia. Il patto non c'è più, ma bisogna restargli fedeli: la battuta di Pier Luigi Bersani esprime perfettamente la nuova situazione.
In parole povere, secondo il sedicente riformismo del nostro Presidente del Consiglio, sarebbe normale ricorrere a sedute fiume quando si discute della Costituzione e pretendere la fedeltà dei deputati appartenenti alla maggioranza per respingere qualunque emendamento presentato dalle opposizioni. Per respingerlo a prescindere dal merito, semplicemente perché non bisogna disturbare il manovratore. Tanta insistenza sulla logica dei numeri non tiene minimamente conto del fatto che, come ha ricordato il deputato Fedriga, nelle elezioni politiche per il rinnovo della Camera del 24 febbraio 2013, le liste del Partito democratico ottennero il 25,43 % dei voti validi espressi nel territorio nazionale. Ossia, in voti assoluti, meno dei voti ottenuti dalle liste del Movimento Cinque Stelle, che, in quell'occasione, ebbero il 25,56 % dei consensi. I 340 seggi sicuri sui quali oggi il Partito democratico può fare affidamento nella Camera sono dovuti alla prevalenza della coalizione elettorale cui aderiva, della quale però facevano parte altre liste (come, ad esempio, SEL), e, soprattutto, sono dovuti al corposo premio di maggioranza. Com'è noto, oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2014, che dichiarò l'illegittimità costituzionale delle modalità di attribuzione di quel premio in seggi.
I gruppi parlamentari di opposizione hanno chiesto di essere ricevuti dal Presidente della Repubblica e non sarebbe giusto da parte nostra aggiungere ulteriori pressioni sul Presidente, che saprà lui come decidere per il meglio, in questo delicato passaggio.
Una cosa, però, va detta. Poiché sono un convinto sostenitore della democrazia parlamentare e penso che le riforme pasticciate facciano più male che bene, esprimo la mia solidarietà ai gruppi di opposizione. Comprendo le loro ragioni. Un Parlamento in cui non si discuta nel merito e contino soltanto i numeri non ha ragione di esistere!
Qualora la riforma della Costituzione rimanesse quella che è ora, saprò bene come regolarmi in occasione del referendum popolare confermativo. Renzi vorrebbe trasformarlo in un referendum pro, o contro, la sua persona; ma non è detto che l'arroganza paghi.
Peccato, comunque, per l'Italia, che, con campioni di riformismo di questa natura, sta perdendo un'altra occasione per fare utili passi in avanti.
Palermo, 13 febbraio 2014
Livio Ghersi
venerdì 13 febbraio 2015
Sabino Cassese: Il pericolo di un tiranno
Il pericolo di un tiranno
(Sabino Cassese, Corriere) Esiste - come è stato dichiarato nei giorni scorsi - una deriva autoritaria in Italia? Non credo che la democrazia sia in pericolo perché il presidente del Consiglio in carica non è parlamentare e perché il Parlamento è stato eletto con una legge successivamente dichiarata (parzialmente) illegittima costituzionalmente. Infatti, la Costituzione non richiede che i ministri e il loro presidente siano parlamentari e Renzi non è il primo presidente che non sia stato eletto nelle file dei deputati o dei senatori. Poi, la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità di alcune norme della legge Calderoli, ha precisato che la sentenza «non tocca in alcun modo il Parlamento in carica», perché non ha su di esso.
Se non è questo che può preoccupare, c’è qualcosa di più profondo che possa far temere una svolta autoritaria ed evocare il che percorre tutta la storia dell’Italia repubblicana? Per rispondere a questa domanda, bisogna valutare almeno tre elementi: c’è qualcuno che insidia la democrazia, prepara, politicamente e culturalmente, un governo autoritario? C’è, al contrario, un diffuso patriottismo costituzionale, una dichiarata e ampia lealtà alla Costituzione? Infine, ci sono i contropoteri, gli anticorpi, che potrebbero far fronte a tentazioni autoritarie?
Nei Paesi moderni come l’Italia non si può conquistare il potere con la Carboneria o con altri mezzi nascosti: occorre che qualcuno formuli un disegno politico, trovi un ideologo, faccia propaganda, cerchi di conquistare consensi intorno a un obiettivo che conduca a un potere autoritario. Tutto questo non si vede. Non vi sono centrali, azioni, cospirazioni, che segnalino la presenza di questo pericolo. Vedo, al contrario, anche presso quelli che ritengono modificabile la Costituzione, una fedeltà ai principi supremi costituzionali, una lealtà alle istituzioni e alle procedure da essa create, un desiderio di non mutare le linee portanti delle scelte del secondo dopoguerra, che fanno ben sperare nella lunga vita della parte essenziale della Costituzione. Certo, nel nostro Paese, fin dall’unificazione, vi sono state sacche di ribellismo. Come notava Piero Gobetti nel 1922, c’è . Prevale la .
Veniamo agli anticorpi. Anche questi non mancano. Il potere è ampiamente distribuito, all’interno dello Stato, sul territorio. Vi sono poteri indipendenti, spesso tanto autonomi da voler dettare l’agenda politica (come la magistratura), talora in ritirata, perché soggetti a erosione di funzioni da parte della politica (come le autorità indipendenti). Le polizie sono ben cinque. C’è l’Unione Europea, che - a dispetto di quelli che piangono per le cessioni di sovranità - ci garantisce con il voluto da Alcide De Gasperi e da Guido Carli. Concludo: l’Italia è forse un Paese che vuole non farsi governare, diviso in fazioni, incapace di associarsi, coalizzarsi, trovare una armonia. Un Paese che ha avuto 63 governi dall’inizio della Repubblica, con 27 presidenti del Consiglio, contro i 23 governi e gli 8 cancellieri tedeschi. Ma la sua democrazia non corre pericoli.
giovedì 12 febbraio 2015
Mario Lettieri-Paolo Raimondi: Una conferenza europea sul debito
Dall'AdL
Una conferenza
europea sul debito
Dopo le elezioni politiche, da Atene è partita la proposta di una “conferenza europea sul debito”. Ciò sta determinando un ampio dibattito in tutto il vecchio continente. La Bce di Draghi e la Commissione europea non possono ignorarla. I fautori del rigore fiscale e dell’austerità senza crescita e senza sviluppo dovranno rivedere il loro approccio.
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista
L’Unione Europea e l’eurogruppo sono di fronte a decisioni che sollecitano profondi cambiamenti di metodo e di politica economica.
La Grecia ha un debito pubblico di 310 miliardi di euro pari a circa il 175% del suo pil. Prima del 2007 era dell’89%. Nella zona euro era del 66% prima della crisi finanziaria globale, oggi si aggira intorno al 93%.
Negli anni passati per salvarsi dalla bancarotta Atene ha chiesto e ricevuto dalla Ue e dal Fondo Monetario Internazionale due bailout per 240 miliardi di euro. In cambio ha dovuto sottoporsi ad una “terapia shock” fatta di tagli dei budget statali, di drastiche riduzioni delle spese pubbliche e di aumenti delle tasse richiesti e imposti dalla Troika.
Di conseguenza oggi l’economia greca è in ginocchio. Dopo 6 anni di compressione economica, gli investimenti sono stati ridotti del 63,5%, la sua produzione industriale è scesa di un terzo, il pil si è ridotto del 26%. La disoccupazione è salita a oltre il 25% della forza lavoro e quella giovanile al 62%.
D’altra parte è noto che dei 240 miliardi di “aiuti” (l’Italia vi ha contribuito con 41 miliardi di euro) solo il 10% è andato a sostegno della spesa pubblica o del reddito dei cittadini greci. Il resto di fatto è stato una partita di giro. Sono stati acquistati titoli di stato greco detenuti dalle grandi banche private europee ed internazionali che premevano per disfarsene, minacciando quindi di accelerare il processo di bancarotta dello Stato. E una parte è andata a pagare gli interessi sul debito pubblico cresciuti a dismisura.
In una simile situazione la cosiddetta ripresa economica non ci può essere, è uccisa ancora prima di iniziare. Riteniamo che sia una scelta suicida sia per Atene che per Bruxelles.
Perciò la richiesta della ristrutturazione del debito greco all’interno di una specifica conferenza europea sul debito è l’unica mossa razionale possibile che va ben al di là del colore politico del governo pro tempore. Infatti la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo mostrano un grande interesse per tale proposta. Pensiamo che lo debba fare anche il nostro Paese.
Anche importanti analisti economici di differenti scuole di pensiero economico, e persino il Financial Times, giudicano la politica europea nei confronti della Grecia completamente fallimentare. Osservano che se fossero concessi nuovi aiuti finanziari, indispensabili per tenere in vita lo Stato e il debito della Grecia, e fossero usati come nel passato, l’economia e la società comunque sprofonderebbero nella palude della depressione.
La Bce sta già acquistando titoli di stato dei Paesi europei nella prospettiva di creare maggiore liquidità per nuovi investimenti nell’economia reale. La stessa banca inoltre potrebbe acquistare sui secondary bond market, i cosiddetti mercati obbligazionari secondari, titoli di stato, detenuti dai privati, della Grecia e non solo. Naturalmente ciò comporterebbe una rivoluzione copernicana sia nella Bce che nell’Ue in quanto si potrebbe unilateralmente rinviare indefinitamente le scadenze di tali titoli mantenendo tassi di interesse irrisori.
In sintesi Atene chiede un trattamento non dissimile a quello concesso alla Germania dopo la Seconda Guerra mondiale. Lo si decise alla Conferenza di Londra del 1953 che fu guidata dagli Stati Uniti e coinvolse 20 nazioni, tra cui la Grecia. Alla Germania fu concessa la cancellazione del 50% del debito accumulato dopo le due guerre mondiali e l’estensione per almeno 30 anni del periodo di ripagamento del restante.
Inoltre dal 1953 al 1958 la Germania avrebbe pagato soltanto gli interessi sul debito. Fu concordato in particolare che tali pagamenti non superassero il 5% del surplus commerciale della Germania.
Tale accordo permise all’economia tedesca di ripartire. Il Piano Marshall di sostegni economici fu poi determinate per lo sviluppo dell’economia. Molti Paesi creditori furono interessati a sostenere l’export della Germania permettendole così di pagare i debiti e gli interessi. Naturalmente l’allora geopolitica, che assegnava alla Germania il ruolo di baluardo nei confronti dell’Unione Sovietica, fu decisiva.
E’ importante sottolineare che l’Accordo del 1953 affermava di voler “rimuovere gli ostacoli alle normali relazioni economiche delle Germania Federale con gli altri Paesi e quindi di dare un contributo allo sviluppo di una prosperosa comunità di nazioni”. Un concetto che meriterebbe di essere proposto anche oggi per l’intera Europa.
mercoledì 11 febbraio 2015
Luciano Belli Paci: Italicum: il mostro non è mite
10 febbraio 2015
ITALICUM: IL MOSTRO NON E’ MITE
di Luciano Belli Paci
Che la legge elettorale partorita dal patto del Nazareno sia un po’ mostruosa, nel senso di Frankenstein, lo riconoscono anche i più benevoli: è una miscela di maggioritario e proporzionale, di turno unico e ballottaggio, di preferenze e liste di nominati.
Molti però si stanno affannando con cortigiano realismo a spiegare che, benché difettosa, è un “bicchiere mezzo pieno”, soprattutto se confrontata con la sua versione primitiva, che era un modello tra il turco e la pirateria.
Ma il fatto che si siano scongiurati ancor più arditi esperimenti in corpore vili non può impedirci di vedere che il mostro non è per nulla mite.
Il Porcellum portato alle estreme conseguenze.
L’aspetto più velenoso del Porcellum del 2005 non era la presenza dei, pur gravissimi, meccanismi incostituzionali condannati dalla sentenza n° 1/2014 della Consulta (l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate), ma era il disegno di fondo che mirava a determinare un radicale cambiamento della forma di governo con legge ordinaria, appunto la riforma elettorale, senza formalmente riformare la Carta fondamentale con le garanzie dell’art. 138.
Col Porcellum si dava vita di fatto all’elezione diretta del governo e del suo premier, addirittura ostentata con l’obbligo per le coalizioni di indicare un capo politico.
Però c’era un baco, dolosamente inserito dai suoi stessi autori con interessata prudenza: la netta differenziazione tra i sistemi maggioritari della Camera e del Senato rendeva assai probabile che il vincitore non arrivasse ad un controllo pieno di entrambi i rami del parlamento, come difatti si è puntualmente verificato sia in questa legislatura sia nelle due precedenti.
Il combinato disposto dell’Italicum e della demolizione del bicameralismo, eliminando il baco, porta invece quel disegno al suo pieno compimento e lo fa senza alcuna inibizione, all’insegna del dogma qualunquista per cui la sera delle elezioni si deve sapere chi governerà per i prossimi 5 anni.
Il presidenzialismo si attua così nella sua forma più pericolosa e meno funzionale, quella dell’elezione diretta dell’esecutivo in uno con la sua maggioranza parlamentare. Un sistema che non a caso non esiste nelle democrazie occidentali e di cui si ricorda un unico precedente recente: quello attuato in Israele negli anni ’90 e presto rimosso, dopo un paio di travagliate legislature, perché non funzionava.
La Costituzione formalmente non viene modificata, ma è manomessa. Il presidente del consiglio ed i ministri non verranno più nominati, se non pro forma, dal presidente della Repubblica, ed il parlamento monocamerale, nel quale una sola lista con la maggioranza relativa avrà in premio il 55 % dei seggi, assumerà inevitabilmente un ruolo servente nei confronti del governo e del suo leader, il quale è anche capo del partito e dominus delle candidature.
Chi dice che è più o meno così anche nelle altre democrazie, grazie a sistemi maggioritari o presidenziali, mente sapendo di mentire.
Nella grande maggioranza degli stati europei vigono sistemi proporzionali, più o meno corretti.
Dove vi sono leggi maggioritarie si vince collegio per collegio, o in un turno unico (Regno Unito) o in due turni (Francia). Nel primo caso, se il primo partito non conquista la maggioranza assoluta dei collegi, si deve formare una coalizione in parlamento. Nel secondo caso i collegi si conquistano solo con la maggioranza assoluta dei voti, al primo turno o al ballottaggio; e se nessuno ottiene la maggioranza assoluta dei collegi anche qui occorre formare una coalizione in parlamento.
Nei sistemi presidenziali si sa effettivamente la sera delle elezioni chi governerà per l’intero mandato, ma l’assemblea legislativa è sempre eletta con una separata votazione e non necessariamente la maggioranza parlamentare è dello stesso colore dell’esecutivo.
Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi (1748) fonda la teoria della separazione dei poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - sull'idea che "chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere". È saggio rottamare Montesquieu ?
Il premio di maggioranza ed il ballottaggio eventuale: incostituzionalità al quadrato.
La Corte Costituzionale con la sentenza n° 1/2014 ha cassato il premio di maggioranza previsto dal Porcellum perché “tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”. La sentenza, citando espressamente la giurisprudenza dell’Alta Corte tedesca, sottolinea che “qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare”. Su questi presupposti è stata dichiarata l’incostituzionalità del premio di maggioranza perché “determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”.
Giova osservare che in nessuna delle democrazie occidentali esiste un “premio di maggioranza” che, in una elezione su base proporzionale, trasformi la maggioranza relativa in maggioranza assoluta dei seggi. L’unico esempio simile è quello della Grecia, dove però il premio alla lista prima classificata è in misura fissa, 50 seggi, e non necessariamente assegna la maggioranza in parlamento. Tutti gli altri sistemi maggioritari si innestano sui collegi uninominali, ponendo così l’elettore di fronte ad una scelta consapevole che ha in palio esclusivamente l’eletto di quel singolo collegio.
La convivenza tra proporzionale e “premio”, prima del Porcellum, ha avuto in Italia due infelici precedenti: la “fascistissima” legge Acerbo del 1923 e la “legge truffa” del 1953, mai di fatto applicata, che rafforzava col premio la coalizione che avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti. Se quella era una truffa, chissà quale fattispecie del codice penale si dovrebbe usare per il Porcellum e per l’Italicum !
La legge concepita al Nazareno e poi più volte rimaneggiata prevede un premio che varia in misura tale da far ottenere il 55 % dei deputati, ma inserisce la soglia minima del 40 % per l’attribuzione del premio ad una singola lista (non più alla coalizione), prevedendo che in caso di mancato raggiungimento di tale soglia si dia luogo ad un secondo turno di ballottaggio tra le prime due liste.
Un caso davvero unico al mondo, che stravolge i principi democratici più elementari.
Nelle democrazie conosciute le regole sono semplici. Se si vota con il cosiddetto maggioritario “secco” a un turno, il primo classificato vince anche con la maggioranza relativa (ma sempre nei collegi uninominali, uno per uno). Nel nostro caso, poiché la sentenza della Consulta impone l’adozione di una soglia minima e l’impianto della legge è proporzionale, è chiaro che per rispettare la prescrizione si sarebbe avuta l’attribuzione del premio solo al raggiungimento del quorum, mentre in difetto sarebbe rimasta la ripartizione proporzionale (salvo eventuali sbarramenti).
Se invece si vota con un sistema a doppio turno, ovunque nel mondo, dalla Francia al Cile, dal Brasile alla Tunisia, innanzitutto il ballottaggio riguarda solo cariche uninominali e mai l’attribuzione ad un partito della maggioranza parlamentare, e poi c’è una regola-base: se nessuno ottiene la maggioranza assoluta al primo turno, si deve andare al ballottaggio.
Solo in Italia, benché da più di 20 anni pratichiamo il doppio turno per l’elezione dei sindaci e siamo tutti ben consapevoli del fatto che anche il 49,99 % dei voti non basta per vincere al primo turno, proprio quelli che per anni hanno sostenuto il modello del “Sindaco d’Italia” vogliono imporre un’inedita democrazia minoritaria, nella quale con il 40 % (cioè avendo contro il 60 % !) si vince senza dare agli elettori il diritto di scegliere col ballottaggio quale delle minoranze far prevalere. Ergo, al motto “la maggioranza vince” si deve sostituire quello opposto: “la minoranza vince”. Con il che la “compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea”, la “lesione dell’eguale diritto di voto” e la “alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica” che rendevano illegittimo il Porcellum non solo non sono state rimosse, ma per certi aspetti risultano perfino aggravate.
Le preferenze come ludi cartacei.
L’altro motivo di incostituzionalità del Porcellum statuito dalla sentenza n° 1/2014 riguarda le liste bloccate che, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, violano i precetti costituzionali sul voto “libero, personale, diretto” (artt. 48, 56, 58 Cost.).
Nella legge Calderoli, osserva la Corte, “tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito”.
L’Italicum tenta di aggirare l’indicazione della Corte, lasciando “bloccati” solo i capilista delle nuove 100 circoscrizioni e consentendo invece all’elettore di esprimere il voto di preferenza per gli altri candidati.
Oltre al danno, la beffa.
Infatti, salvo casi del tutto eccezionali, il sistema funziona in modo tale per cui tutte le liste diverse da quella che si vedrà attribuito il premio di maggioranza – il che significa liste che potrebbero avere raccolto complessivamente fino al 60 % del voto popolare, e anche oltre se si è andati al ballottaggio – non avranno altri eletti all’infuori dei capilista. In altre parole, per la maggior parte degli elettori, tutti i deputati eletti con il loro voto saranno quelli individuati sulla base di scelte operate dai partiti; e neppure potranno dire di avere scelto il capolista, essendo rimasta inalterata la possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.
Anche in questo caso la situazione, rispetto al Porcellum, è per certi versi addirittura peggiorata perché il meccanismo è ingannevole: milioni di elettori, la maggioranza, saranno chiamati ad esprimere un voto di preferenza del tutto virtuale, privo a priori di ogni possibilità di tradursi in autentica scelta dell’eletto. Così la consultazione elettorale viene degradata a recita, si sprofonda nei “ludi cartacei” di mussoliniana memoria.
Le istituzioni di garanzia col trucco contabile. Il presidenzialismo come male minore.
Gli inventori dell’Italicum, per ripararsi dalle critiche di chi paventa che dal rischio della classica “dittatura della maggioranza” si scivoli addirittura verso quello della “dittatura della minoranza”, hanno proposto la riforma dell’art. 83 Cost., prevedendo che per l’elezione del Presidente della Repubblica, dopo i primi tre scrutini nei quali è richiesto il quorum dei 2/3, occorra una maggioranza qualificata dei 3/5 (oggi basta la maggioranza assoluta dei grandi elettori). Apparentemente questo dovrebbe impedire alla lista che ottiene il premio di eleggersi da sola anche il Presidente della Repubblica, mantenendo in tal modo a quest’ultimo il ruolo di organo di garanzia.
Peccato che ci sia una sorta di trucco contabile che rende ben poco rassicurante la riforma.
Infatti, il quorum dei 3/5 (equivalente al 60 %) non si calcola solo sulla Camera, dove la lista vincitrice ha già il 55 %, bensì sul collegio dei grandi elettori che comprende anche il Senato.
E qui si capisce l’utilità della curiosa riforma del Senato. La seconda camera, privata ormai del potere di dare la fiducia al Governo e relegata al ruolo di comparsa anche nel processo legislativo, avrebbe potuto essere abolita del tutto per evitare un nuovo organismo senza sostanza, tipo Cnel. Oppure, se proprio la si voleva mantenere, avrebbe potuto essere eletta in modo proporzionale per fungere da “specchio del Paese”, con competenza sulle questioni più delicate, come le leggi costituzionali, le leggi elettorali e, appunto, l’elezione degli organi di garanzia.
Invece il Senato riformato, grazie all’elezione di secondo grado da parte dei Consigli Regionali - che a loro volta sono frutto di elezioni a turno unico che assegnano alla coalizione del presidente (con la semplice maggioranza relativa) un premio abnorme - avrà una conformazione iper-maggioritaria. In tal modo vi sono elevate probabilità che quel 5 % mancante perché la lista che domina la Camera arrivi al 60 % complessivo possa essere garantito proprio dall’apporto dei senatori, tra i quali la medesima “maggioranza” potrà essere ulteriormente sovra-rappresentata.
A ciò si aggiunge il fatto che nell’ultima versione dell’Italicum il premio non va più alla coalizione bensì alla singola lista; il che rende possibile che chi vince (specie se vincesse solo al ballottaggio, avendo perciò ottenuto al primo turno meno del 40 %) abbia in parlamento altre liste alleate che portino in dote quel 5 % mancante per fare cappotto.
Questa elevata probabilità che l’effetto della combinazione tra Italicum e riforma del Senato porti ad un sistema in cui con una sola votazione, di fatto, si prende tutto – parlamento, governo, presidente della repubblica e, a cascata, maggioranza della corte costituzionale, ecc. – dovrebbe indurre a riflettere attentamente sull’opportunità di preferire, al confronto, un sistema di elezione diretta del Capo dello Stato.
I critici del presidenzialismo (tra i quali si colloca chi scrive) si sono sempre opposti all’elezione diretta temendo che da essa, in una democrazia fragile come quella italiana ed in presenza di già eccessivi fenomeni di personalizzazione, potessero scaturire degenerazioni plebiscitarie.
Oggi però si rischia qualcosa di molto peggio: un presidenzialismo di fatto, ma senza neppure il bagno democratico dell’investitura popolare e senza alcun sistema di checks and balances.
Insomma, rispetto al quadro che emergerebbe dalle riforme del Nazareno, il presidenzialismo o meglio ancora il semi-presidenzialismo sarebbe di gran lunga il male minore.
Un sano esercizio: immaginare la vittoria degli altri.
Il dibattito sulle riforme in commento si sta svolgendo in un contesto di scarsa attenzione, se non di anestesia delle coscienze.
La ragione di questo inquietante fenomeno solo in parte può essere individuata nella mitridatizzazione prodotta da anni e anni di demonizzazione del proporzionale, di delegittimazione del parlamento come sede della mediazione politica e di crescita del leaderismo.
In una buona parte dell’opinione pubblica solitamente sensibile al tema dei valori costituzionali prevale, oltre alla stanchezza, l’idea che si tratti di riforme fatte su misura, che potranno avvantaggiare solo il PD del 40 % alle europee ed il suo capo; soggetti ritenuti dai più magari criticabili, ma non sospettabili di involuzioni anti-democratiche.
Chi scrive non condivide questo pregiudizio favorevole, ma il punto non è questo.
In materia elettorale le “leggi-fotografia” sono un grave errore ed il legislatore dovrebbe sempre decidere “dietro il velo dell’ignoranza”, ma ancor più sbagliato sarebbe giudicare le regole come se la situazione data fosse immutabile.
Poiché le riforme elettorali ed istituzionali si fanno, tendenzialmente, per sempre, è doveroso interrogarsi sui risultati che produrrebbero in presenza di equilibri politici completamente diversi dagli attuali, nei quali potrebbero prevalere forze che sono le più lontane da noi.
Dobbiamo immaginare che possa rivincere, se non Berlusconi in persona, un altro come lui; che possa vincere Salvini con una specie di Front National italiano; o che possa vincere Grillo, magari uscendo da un primo turno molto distaccato e poi raccogliendo al ballottaggio un ampio voto di protesta goliardica e trasversale (come è già accaduto a Parma e a Livorno).
Ecco che l’eliminazione di pesi e contrappesi e l’impossibilità di realizzare una convergenza repubblicana per sbarrare la strada in un secondo turno ad una forza eversiva che dovesse arrivare al 40 % (come avvenne in Francia alle presidenziali del 2002 quando anche la sinistra votò per Chirac contro Le Pen) risulterebbero esiziali per le sorti della Repubblica nata dalla Resistenza.
Se oggi si prende alla leggera il problema, si rischia di svegliarsi quando il danno è fatto.
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