martedì 27 gennaio 2009

Stefano Levi della Torre: Il giorno della memoria

Giorno della memoria
di Stefano Levi Della Torre

La “Giornata della memoria” non può seguire un corso lineare. Mentre si estingue la generazione dei testimoni, cambiano gli interlocutori, la loro ricezione e le loro domande. Ci rivolgiamo soprattutto ai giovani, alle scuole, e con l’immigrazione cambiano la composizione culturale, le mentalità e le sensibilità delle società europee. Si infiammano i rapporti tra maggioranze e minoranze, e le rispettive pretese identitarie entrano in competizione. La stessa integrazione degli ebrei, già tradita dalle persecuzioni del xx secolo, si misura ora coi problemi dell’integrazione di altri gruppi e di altre comunità. Le memorie competono con le memorie, e lo statuto di “vittima”, che è andato crescendo di peso nell’immaginario simbolico, è sempre più conteso per la sua valenza identitaria e politica.

1. Memoria e globalizzazione

Lo sguardo spontaneamente eurocentrico con cui leggiamo Auschwitz è un ostacolo crescente alla comunicazione della memoria a chi viene da altre storie, da altre geografie, da altre tragedie. Ciò persino in ambito ebraico: per gli ebrei provenienti dall’Iran, o dalla Libia, o dalla Turchia, Auschwitz ha una risonanza diversa che per gli ebrei d’Europa. A maggior ragione ciò avviene per i non ebrei. Sempre più Auschwitz si espone al confronto con altri contesti, altri stermini, altri genocidi, nello spazio e nel tempo.

Il concetto di unicità della Shoà è scosso dalle associazioni di idee e di immagini degli interlocutori, che sanno di altre stragi, o ne fuggono. È d’altra parte un concetto già viziato quando chiuda la Shoà in se stessa, specie a sé ed esclusiva, muta all’insegnamento se autoreferenziale, autistica, restia a misurarsi con altre tragedie (sia pure minori) del mondo. Più fecondo il motto di Primo Levi, implicita critica dell’unicità esclusiva: È successo, dunque può di nuovo succedere. E infatti, se non adesso per noi, per altri. Più che un fatto unico, la Shoà è il culmine di una catena senza fine. Questo è il paesaggio che dobbiamo mostrare, per ribaltare la competizione tra le vittime in solidarietà e reciproco riconoscimento tra le vittime.

2. Il nazismo come “questione ebraica”

La memoria dello sterminio nazista tende a specificarsi sempre più come “memoria ebraica”, e la Shoà sempre più si presenta come metonimia del Nazismo, la parte per il tutto, riassunto esauriente che oscura nel suo orrore estremo ogni altro aspetto: l’aggressione e la guerra, la re-introduzione in Europa dello schiavismo di massa (tema attualissimo), la strage di milioni di oppositori politici, civili e militari…

La Shoà, in quanto crimine contro gli ebrei, votati con gli zingari non allo sterminio ma propriamente al genocidio, tende ad oscurare nella sua specificità ebraica il suo stesso carattere di crimine contro l’umanità. (Recentemente, un assessore ben intenzionato di Rieti adottò per una meritoria campagna per l’occupazione il motto Il lavoro rende liberi, che gli suonava bene e del quale non ricordava la storia: fu chiesta scusa agli ebrei, non all’umanità). È come se gli ebrei, per “quota di maggioranza”, avessero assunto l’esclusiva di Auschwitz, e Auschwitz fosse diventato il monumento al narcisismo dolente degli ebrei; è come se agli ebrei, per il prestigio simbolico (cristico?) di vittime designate, fosse conferito il privilegio di giudici della storia. Ma il privilegio è un’arma a doppio taglio, funesta per gli ebrei, come la storia insegna.

Il termine Shoà, assunto a metonimia dei crimini nazisti, rischia di far del Nazismo una questione ebraica, a cui gli altri possono assistere magari con partecipazione, ma dall’esterno, da spettatori. E in definitiva come giudici terzi tra ebrei e nazisti.

3. Vittime e carnefici: la giornata della memoria come tribunale della storia

Perché il mondo conosca se stesso (Primo Levi): giustamente la memoria della persecuzione e dello sterminio vuole essere un insegnamento sul prodursi di un male storico. Ma in forma più o meno esplicita parla anche del bene, quanto meno dei principi elementari (non uccidere, non fare ad altri… ecc.) che hanno ispirato chi allora salvò delle vite e che stanno alla base del nostro giudizio di condanna dei crimini nazisti.

Ora, una domanda inevitabile e sempre più diffusa nel cuore e sulla bocca degli interlocutori è, come è noto, questa: come mai nel conflitto israeliano-palestinese (ora anche libanese) le vittime sono diventate carnefici?

A parte ogni analisi storica e politica di un conflitto asimmetrico ma non unilaterale, dei diritti e dei torti reciproci, ecc,a questa domanda è consuetudine rispondere (in forma indignata o dialogante) secondo il registro del male: la violenza (o, per chi preferisce, gli “abusi di legittima difesa”) che Israele esercita nei territori occupati non è confrontabile con Auschwitz: si utilizza, così, l’incommensurabile per aggirare in realtà la domanda. La quale ha un’altra faccia, meno esplicita, che si muove sul registro del bene, dove i criteri non sono messi alla prova dell’estremo, ma della dignità elementare: come applicate a ciò che riguarda voi quei principi semplici, in base ai quali giudicate ciò che è male?

È una domanda a cui sempre meno si potrà sfuggire. In virtù di Israele che ha conferito all’essere ebrei anche una responsabilità politica che inevitabilmente si espone al giudizio, sempre meno gli ebrei potranno valersi del prestigio morale e simbolico delle vittime innocenti. E la “Giornata della memoria”, per la sua stessa natura di momento non solo informativo ma anche giudicante, si ritorcerà da giudizio su altri a giudizio anche sugli ebrei.

Se non saremo all’altezza di rispondere adeguatamente alla domanda su vittime/carnefici, essa rifluirà sul passato modificando come un revisionismo diffuso e interiore la percezione stessa di ciò che è stato. E se il Nazismo verrà riassunto come “questione ebraica”, la Shoà si ridurrà a un corto circuito, a un “regolamento di conti” tra ebrei e nazisti a cui “gli altri” potranno assistere con il sollievo di un’estraneità a entrambe le parti, con la presunzione della propria innocenza e con la tranquilla coscienza di giudici terzi.

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