mercoledì 26 aprile 2017

Franco D'Alfonso: elezioni francesi

Qui di seguito una mia riflessione postata anche su Facebook. Cordialmente, Franco D'Alfonso. Suggerirei prudenza ad attribuire alla topografia politica, del tipo "si vince al centro" , il merito del successo di Emmanuel Macron in #Francia, almeno quanta ne sarebbe stata necessaria qualche anno fa per quello di Alexis Tsipras in #Grecia, quando "si vince a sinistra ista ista ". La "lezione francese" non ha a che fare con le posizioni politiche, in gran parte ignote, di Macron : se François Fillon non avesse messo a carico dello Stato il suo #welfare familiare ed non avesse perso così i pochi punti che lo separano dal 2 posto, cosa faremmo, diremmo che " si vince a destra" ? E, quanto a novità, basta ricordarsi del presidente più simile a questo probabile, Giscard d'Estaing, eletto in piena crisi della destra e con i socialisti all'inizio della rifondazione, che governò senza maggioranza propria, con un altrettanto apparente posizionamento al centro . La verità è che in Francia di fronte al tracollo dei protagonisti della politica (Nicolas Sarkozy ed François Hollande hanno fatto l'impossibile per picconare i propri partiti) le Istituzioni reggono e si confermano l'architrave del Paese. L'unione repubblicana che si realizzò con Jacque Chirac vs Marine Le Pen padre garantì una Presidenza democratica e, un mese dopo, elesse un #Parlamento rappresentativo della democrazia e della continuità del sistema e questa volta l'avrebbe garantita con Macron, Fillon ed anche con Jean-Luc Mélenchon o il povero Benoît Hamon. Il sistema dei contrappesi del semipresidenzialismo francese funziona egregiamente, come sta funzionando il presidenzialismo Usa con Trump eletto fuori dai partiti ma condizionato dal Senato. La lezione francese, se la vogliamo trarre in fretta, è questa : esecutivo eletto con sistema presidenziale (come Sindaco e Presidente Regione) , parlamento rappresentativo delle città e dei territori. E sì, perchè dopo voto su Donald J. Trump, #Brexit, #Erdogan ignorare che anche in Francia la contrapposizione politica è fra aree urbane con la maggioranza della popolazione ed altri territori e non fra ipotetiche e per lo più ignote destre,sinistre e centro, non è più classificabile come un errore politico, ma più semplicemente come una vera e propria idiozia.

lunedì 24 aprile 2017

La fine della terza via. Intervista a Thomas Fazi | Eunews

La fine della terza via. Intervista a Thomas Fazi | Eunews

Felice Besostri: Tutto è cambiato e tutto può cambiare

Tutto è cambiato e tutto può cambiare Il 7 maggio la Francia sceglierà tra Macron e Le Pen, rispetto al 2002 il candidato del FN raddoppierà i voti, anzi di più perché la figlia parte già con uno score superiore al primo turno del misero 17,7% del padre al secondo turno delle presidenziali 2002 . Tutto cambierà perché quello che nel 2002 fu un incidente dovuto la frammentazione della sinistra e del campo socialista con Jospin al 16,18% e Chevènement al 5,33 % ( e un’estrema sinistra LCR e LO che con il PCF aveva il 13,34%) nel 2017 è un dato strutturale perché il FN appare essere il primo partito francese ed è cambiata la natura delle elezioni presidenziali al primo turno: buona parte dei cittadini elettori hanno votato, come se fosse un secondo turno, cioè voto utile di testa e non di cuore o di pancia per il candidato espressione dei suoi convincimenti politici. Per gli elettori non del FN si trattava di scegliere chi dovesse andare al secondo turno, anche se i sondaggi davano tutti vincenti contro la Le Pen, compreso Mélenchon. Tuttavia le lezioni di giugno per l’Assemblea Nazionale potrebbero portare ad una situazione confusa, perché Macron è espressione di un movimento e non di un partito, una specie di Renzi senza PD. Il suo risultato, 23,9% è paragonabile a quello dei centristi Alain Poher, 23,31%, nel 1969 o di Bayrou, suo sostenitore in questa elezione, con il 18,57% nel 2007. Le forze politiche organizzate restano 3, socialisti, gollisti e FN e questo avrà ancora un peso, sempre che specialmente a sinistra non si capirà la lezione. Nel presidenziali del 1969, le seconde ad elezioni diretta si produsse un fenomeno analogo con il candidato socialista della SFIO Gaston Defferre al 5,01% /(Hamon con il 6,35% ha fatto meglio ). Non fu l’inizio della fine dell’area socialista, perché anche l’alternativa di sinistra Rocard era la 3,61% e spiccava ancora con Duclos un partito comunista al 21,27%, cioè una percentuale superiore a quella di Mélenchon 2017con il suo 19,62%. Rispetto a quell’anno l’unico elemento di continuità è quello dei trozskyisti di Lutte Ovriere con lo 0,6% di Nathalie Arthaud oggi e lo 1,06% di Alain Krivine allora. Per le legislative bisogna fare un passio avanti per allargare gli accordi tra socialisti, ecologisti e radicali di sinistra con alleanze al primo turno e desistenze programmate al secondo turno. La prima difficoltà è che a differenza della Unione de la Gauche di Mitterrand l’interlocutore a sinistra non è un partito come il PCF, ma uno stato d’animo rappresentato da Mélenchon, che è allergico ai partiti come dimostrato dai suoi trascorsi socialisti in posizione eccentrica anche rispetto alla sinistra di Emmanuelli e il contributo decisivo alla dissoluzione al Front de la Gauche. Se l’asse tradizionale destra/sinistra è sostituito da altre contrapposizioni del tipo populisti/responsabili o europeisti/sovranisti, altrettanto generiche ed indeterminate, cioè se la sinistra non ha programmi credibili per un’altra politica economica o per un processo alternativo di integrazione europea, la sua crisi in Italia ed in Europa è destinata ad aggravarsi, chiunque vinca le primarie del PD ovvero se Pisapia diventasse una sorte di Mélenchon, ma più moderato.

Franco Astengo: ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI 2017 PRIMO TURNO: PER CAPIRE MEGLIO QUALCHE NUMERO IN CIFRA ASSOLUTA

ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI 2017 PRIMO TURNO: PER CAPIRE MEGLIO QUALCHE NUMERO IN CIFRA ASSOLUTA di Franco Astengo Come sempre accade in questi casi sono i numeri in cifra assoluta e non in percentuale quelli che aiutano a comprendere meglio l’andamento del voto sotto i suoi molteplici aspetti: proviamo quindi ad analizzare l’esito del primo turno delle elezioni presidenziali francesi in questa dimensione. Primo dato da prendere in considerazione quello riguardante l’astensionismo. Nel 2012 risultavano aventi diritto 46.028.542 elettrici ed elettori che, al primo turno espressero 35. 883. 209 voti validi pari al 77,96%. Nel 2017 gli aventi diritto sono saliti a 46.891.594 e, al primo turno, sono stati espressi 35. 737. 724 voti validi pari al 76, 21%. Ne consegue un incremento nelle espressioni di “non voto” pari all’1,57%. In tempi di grande difficoltà complessiva per l’espressione dell’opinione politica si può scrivere – in termini un poco d’antan – di “sostanziale tenuta” e di buona rappresentatività complessiva del sistema. Il punto nevralgico però risiede nella rappresentatività di candidati: la quadri partizione nelle principali candidature rende, infatti, i due sfidanti al ballottaggio sicuramente insufficienti dal punto di vista della pienezza della rappresentanza politica. Macron ha raccolto, infatti, 8.528. 585 voti che sono pari soltanto al 18,19% dell’intero corpo elettorale, mentre Marine Le Pen si p fermata a 7.658.990 pari al 16,33%. Da questo punto di vista, della piena legittimazione, risulterà quindi molto importante il dato della partecipazione al ballottaggio e il relativo incremento di voti che si realizzerà attorno alle due candidature in lizza: si ricorda che nel 2012 Hollande passò da 10.272.705 voti a 18.000.668 (un incremento di quasi 8 milioni di voti) e Sarkozy da 9.753. 629 a 16.860.685 (un incremento di oltre 7 milioni di voti) e il totale dei voti validi, tra un turno e l’altro, registrò una flessione di circa un milione di suffragi, quindi del tutto modesta, passando da 35.883.209 a 34.861.353. Verificheremo cosa accadrà il 7 Maggio, intanto è necessario prendere atto del dato di forte frammentazione registrato al primo turno con una evidente caduta di legittimità dei candidati: quelli ammessi al ballottaggio potranno comunque recuperare anche sotto questo aspetto. I primi commenti parlano di spostamento a destra. Verifichiamo allora nel dettaglio il riallineamento sistemico avvenuto il 23 Aprile collegando candidature agli schieramenti. La candidatura del PS perde, tra il primo turno del 2012 e quello del 2017 ben 8.003.867 suffragi: una vera propria valanga. Da considerare, a sinistra, che nel frattempo sono stati perduti anche gli 828.345 voti raccolti al primo turno del 2012 dalla candidatura ecologista di Eva Joly. Sempre sul fronte di sinistra Mélenchon raccoglie 3.027.034 voti in più tra il primo turno del 2012 e quello del 2017. Quindi il 34, 27% di quanto perduto a sinistra. La flessione complessiva a sinistra ammonta quindi a 5.805.178 voti: si può quindi scrivere tranquillamente di un vero e proprio tracollo a sinistra solo parzialmente recuperato dalla candidatura Mélenchon. Restano stabili le due candidature di origine trotzkista : il partito anticapitalista scende da 411.160 voti a 392.454, Lotte ouvriere incrementa da 202.548 a 231.660. Naturalmente, nonostante tutte le indicazioni contrastanti all’insegna della non appartenenza ad alcun schieramento classico, non è possibile – lavorando nella direzione di un’analisi sui numeri – non assegnare la candidatura Macron al centro. Nel 2012 in questa porzione di sistema politico era presente la candidatura Bayrou: al primo turno ottenne 3.275.122 voti. Nel 2017 la candidatura Macron ne ha ottenuto 8.528.585 : una crescita di 5.253.463 suffragi. L’esatta provenienza dei voti in più ottenuti da Macron potrà essere stabilita soltanto attraverso un’analisi approfondita svolta a livello territoriale, almeno di singoli dipartimenti: analisi che non è stato materialmente possibile eseguire nel brevissimo lasso di tempo a disposizione oggi dalla raccolta dei dati in poi. Certo è che l’assonanza tra i voti in più ottenuti da Macron e quelli persi a sinistra è molto forte, anche se assegnarli in blocco a un trasferimento immediato potrebbe essere anche azzardato. Verifichiamo allora le cifre nel passaggio di voti al riguardo delle candidatura neo – gollista (mi scuso per la terminologia datata ma le abitudini sono dure a morire) di Fillon rispetto a quella Sarkozy presentata nel 2012. Il 23 Maggio 2017 Fillon ha ottenuto 7.126. 632 voti; nel 2012 Sarkozy ne aveva messo assieme 9.753.629. Il decremento per la “destra classica” è stato quindi di 2.626.997 voti. Un calo che necessariamente, e sempre con le scuse per l’eccesso di semplificazione, deve essere posto in correlazione con l’incremento delle due altre candidature di destra: quella di Marine Le Pen che andrà al ballottaggio con 7.658. 990 voti e quella di Dupont – Agnant, destra sovranista, che ha ottenuto 1.689.686 voti. L’area di destra nazionalista e anti – europea (definizioni anche qui semplificate per esigenze di immediatezza discorsiva, anche se si tratta di termini giornalistici da maneggiare con cura) ha assommato quindi al primo turno delle presidenziali 2017 ben 9.348.676 voti. Mentre per quel che riguarda la destra sovranista non sono possibili riscontri non essendo state presenti, nel 2012, candidature analoghe è il caso di esaminare gli scostamenti nei 5 anni riguardanti la candidatura di Marine Le Pen. Nel 2012 la candidata del Front National aveva ottenuto al primo turno 6.421. 426 voti: nel 2017 ha così realizzato un incremento pari a 1.237.564 suffragi, omogeneamente diffusi su tutto il territorio nazionale se si pensa che cinque anni fa aveva ottenuto la maggioranza relativa in un solo dipartimento, il Gard e adesso per constatare la diffusione del voto alla Le Pen basta osservare la macchia viola che compare sull’ esagono in tutti i siti che riportano i dati elettorali. Nella sostanza la destra nazionalista ha incrementato la propria performance al primo turno di 2.927.250 voti (si noti come il voto a Dupont – Agnant sia risultato numericamente superiore all’incremento ottenuto dalla candidatura Le Pen : si tratta di un segnale politico ben preciso). Sempre procedendo a spanne (ma non troppo per la verità) si può allora affermare, confrontando il calo della destra “classica” (oltre 2 milioni di voti come abbiamo già segnalato poc’anzi) e l’incremento della destra nazionalista (quasi 3 milioni), che si sia registrata una quota di voti in transito dalla sinistra all’estrema destra: è questo il frutto più evidente del clima sociale e politico che si è respirato anche in Francia (forse soprattutto in Francia) di fronte alle contraddizioni emergenti, dalle migrazioni al terrorismo, alla situazione drammatica delle periferie metropolitane. Ci sarebbe da considerare ancora lo scarto esistente tra il voto delle città e quello della cosiddetta “Francia profonda”: ieri sera osservando l’andamento dello scrutinio (nei piccoli centri i seggi si sono chiusi alle 19, nelle grandi città alle 20) era possibile constatare come lo scostamento verso destra fosse più evidente proprio nella già definita “Francia profonda”. Sotto questo aspetto però per esprimere una parola definitiva saranno necessarie indagini molto più accurate. In conclusione è possibile esprimere almeno 3 punti di opinione: 1) La frammentazione nell’espressione di voto rispetto al quadro delle candidature presentate al primo turno rende modesta la rappresentatività reale dei candidati passati al ballottaggio. Sarà quindi di grande interesse notare l’incremento reale di suffragi tra il primo e il secondo turno e di conseguenza assumerà grande importanza la partecipazione al voto 2) Il crollo a sinistra c’è stato davvero e la candidatura Mélenchon ha attutito il colpo ma non di più rispetto alla frana che ha schiacciato il PS. 3) Attenzione a destra all’oltre milione e mezzo di voti alla candidatura sovranista. L’incremento della candidatura Le Pen non ha assunto quindi termini di vero e proprio e, da questo punto di vista, il dato più interessante è stato sicuramente quello della “spalmatura” del voto su tutto il territorio nazionale uscendo dalle consuete roccaforti della destra (Pas de Calais, PACA). Sarà interessante, infine, esaminare quelli che saranno di dati del primo turno alle legislative dell’ 11 Giugno anche nel gioco possibile dei triangolari ed eventuali quadrangolari al secondo turno. Si ricorda che il passaggio tra il primo e il secondo turno nelle elezioni legislative francesi interessa quelle candidature, collegio per collegio, che superano al primo turno il 12,5% non dei voti validi però ma del totale degli aventi diritto e, a quel punto, normalmente si innesta un gioco di desistenze. Vedremo cosa accadrà in una situazione – appunto - di sostanziale equivalenza in quattro parti del sistema politico.

domenica 23 aprile 2017

facciamosinistra!: Io non gioco secondo le loro regole, cambierò questo sistema truccato

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Corbyn’s vision for Britain – the policies Labour is set to include in its manifesto | LabourList

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Primo: una politica contro le disuguaglianze - nuovAtlantide.org

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Lettera aperta al Comune di Milano attorno all’intitolazione di piazzale Cadorna - Linkiesta.it

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Paolo Bagnoli: La Brigata ebraica e il problema di Israele

LA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA NEWS - 22 aprile 2017 "LA BRIGATA EBRAICA E IL PROBLEMA DI ISRAELE" di PAOLO BAGNOLI Diciamo subito: ci auguriamo che nei cortei del 25 aprile, tra le altre, ci siano anche le bandiere della Brigata Ebraica che fu un reparto combattente presente anche sul fronte italiano formato esclusivamente da ebrei; un reparto inquadrato nell’esercito inglese esercitando, allora, l’Inghilterra, un mandato sulla Palestina. Diciamo altresì che plaudiamo alla presentazione di un disegno di legge – prima firmataria la deputata pd Lia Quartapelle – per il conferimento della medaglia d’oro al valor militare alla bandiera della Brigata che, nell’ultima parte della guerra, si batté duramente e con onore nei combattimenti che portarono allo sfondamento della Linea gotica. Auguriamoci che il Parlamento non faccia candire la questione e proceda velocemente. Nei cortei del 25 aprile, oltre a chi ha il titolo storico per esserci, c’è sempre un po’ di tutto. E’ difficile impedire la presenza di chi voglia parteciparvi, ma ciò non significa che debba essere subita l’intolleranza e la violenza di taluni gruppi verso altre presenze più che legittimate a esservi. Contro questa intolleranza e questa violenza occorre reagire con fermezza. Non sempre purtroppo lo si fa. La bandiera della Brigata è quella che, dal 1948, è la bandiera dello Stato di Israele. Anche quest’ anno, un movimento filopalestinese il Bds – attivo dal 2005 - ha annunciato che parteciperà alla sfilata con cartelli recanti i nomi dei villaggi distrutti da Israele dal 1948 a oggi. L’intento è chiaro. Come ha scritto Paolo Mieli: “Un modo per riproporre la rappresentazione (non nuova) degli israeliani di oggi come gli eredi dei nazisti di ieri.” La risposta dell’ANPI di Milano è stata ferma e chiara a sostegno delle ragioni della partecipazione della Brigata al corteo. L’ANPI milanese, per bocca del suo presidente, ha dichiarato di impegnarsi a “isolare e respingere le provocazioni”, chiarendo come le ingiurie contro la Brigata, le sue insegne, siano un’ingiuria contro “l’intero patrimonio storico della Resistenza italiana” per cui gli iscritti all’ANPI di Milano sono invitati a respingere l’invito del Bds. Ineccepibile. A Roma, ove il clima è molto diverso, la presidente della Comunità ebraica romana – Ruth Dureghello - ha dichiarato che le insegne della Brigata non sfileranno nel corteo della capitale. Il risultato è che in alcune città la ricorrenza della Liberazione sarà unitaria, in altre no. Non è bello. Infatti, perché il 25 aprile, risponda in pieno al suo significato occorre che tutte le insegne dei reparti combattenti nella guerra di Liberazione siano presenti; se la Brigata Ebraica non è messa nelle condizioni di poterci essere la ferita non è solo un colpo di striscio. Dietro le contestazioni squadristiche contro la Brigata sta, come è facile capire, ben altro: la contestazione alla legittimità dello Stato di Israele, al suo diritto di essere. Possibile che non si riesca a ragionare sul fatto che una cosa sono le politiche che, nel contesto particolare della sua condizione storica e territoriale, i governi che democraticamente governano il quel Paese attuano e una cosa, ben altra cosa, è il diritto di quello Stato a esistere? Crediamo che il comportamento della destra israeliana sia sbagliato e intriso di pericolosa provocazione, ma non per questo contestiamo la legittimità di uno Stato nato per volontà della comunità internazionale la quale, non dimentichiamolo, nel maggio 1948 non solo sanzionò la nascita di Israele, ma, contestualmente anche quella di uno Stato palestinese. Il mondo arabo dichiarò subito guerra e ciò fu l’inizio di un lungo doloroso calvario nel quale i palestinesi sono ancora immersi; ancora senza quello Stato cui hanno diritto, ma più deboli, nonostante tutto,di quanto lo erano allora. Tra l’altro sono sempre sotto schiaffo di coloro che si dichiarano loro “fratelli”, ma che usano la causa palestinese per altri fini rispetto alla soluzione della questione palestrinese. Nonostante i non pochi sbagli compiuti dalla democrazia israeliana è innegabile che essa si trovi a dover essere sempre all’erta per garantire la sopravvivenza dello Stato e spesso in guerra per difendersi visto che, fino ad oggi, non ha mai dichiarato guerra a nessuno. Si è sempre e solo dovuta difendere. Si ripete spesso: due popoli due Stati. La risoluzione delle Nazioni Unite del maggio 1948 ne prendeva atto: di due popoli che erano, e continuano a essere, l’uno dentro l’altro. Infine, un’ultima considerazione. Nella contrarietà a tutto quanto vede sulla scena della Storia gli ebrei sentiamo il sapore acre e nauseante del razzismo; abbracciare la causa palestinese per combattere Israele è, nei fatti, pratica militante di antisemitismo; un sentimento ben più forte e diffuso di quanto si immagini. Il problema non riguarda solo gli ebrei, ma va al cuore della nostra civiltà liberale, di quanto l’Occidente rappresenta anche se ci pare troppo timoroso, di fronte ai vari attacchi che riceve, di rivendicare la propria identità storica, morale, culturale e civile. In questa vi è la democrazia, naturalmente; quale conquista, valore e fatto concreto. Dentro la civiltà occidentale sta la legittimità delle storie e della libertà, degli uomini liberi e tolleranti nonché il canone dei diritti che sanzionano norme e pratiche di tolleranza. Vi sta la comunità di popoli che sono diversi e che, nel riconoscimento delle loro diversità vivono insieme in quanto Umanità protesa all’incivilimento.

venerdì 21 aprile 2017

Regno Unito al voto: una decisione dettata dal cinismo | G. De Fraja

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Capire la Francia: Melenchon e il socialismo | Risorgimento Socialista

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Biotestamento. Locatelli: “Ce lo chiede il Paese” | Avanti!

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Felice Besostri: Il maggioritario mostra l’usura della V Repubblica

Il maggioritario mostra l’usura della V Repubblica

Is There A Future For Social Democracy In Europe?

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The Jobless Economy | Jacobin

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The Left Must Save Labour | Jacobin

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mercoledì 19 aprile 2017

Policy Network - What now for France’s Socialist party?

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Is Socialism Eurocentric? | Jacobin

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Paolo Bagnoli: 25 aprile

Da Critica liberale 25 aprile paolo bagnoli Tra qualche giorno sarà nuovamente 25 aprile a ricordare che sono passati ben 72 anni dalla Liberazione. Inutile dire che si tratta di una ricorrenza importante. In ciò che si condensa in questo giorno, infatti, sta l’Italia democratica e repubblicana. La ricorrenza, tuttavia, non in tutte le stagioni politiche è stata vissuta nella stessa maniera e, anno dopo anno, si è cercato di farle assumere significati politici diversi. Nell’era berlusconiana – quella coi neofascisti trasformati in aennini al governo del Paese – si è cercato, addirittura, di liquidarla. Anzi, è successo di più poiché si è tentato, chiedendo il controllo dei libri di scuola, di avviare un percorso per revisionare la verità storica della Repubblica e delle sue fondamenta. Erano i tempi nei quali, anche dal versante antifascista, si avanzavano autorevoli aperture di credito ai saloini; nei quali Sandro Bondi, allora braccio destro di Berlusconi, parlava della Resistenza come dei “rossi”, adoprando lo stesso linguaggio usato dal fascista Francisco Franco per definire i difensori della Repubblica spagnola contro la quale era insorto. Erano gli anni nei quali l’allora cavaliere, presidente del consiglio, veniva meno ai propri doveri istituzionali rifiutandosi di partecipare alle cerimonie che ogni anno si tengono a ricordo dell’avvenimento. Erano gli anni della morte della patria. Erano gli anni nei quali storici ritenuti autorevoli esaltavano la loro vecchia milizia nelle brigate nere equiparando le truppe alleati a invasori .Era una povera Italia. Era un’Italia sbandata, travolta dal post - Tangentopoli e dalla perdita di senso della propria storia. Sul ripristino della verità Carlo Azeglio Ciampi ha giocato un impegno centrale della sua Presidenza; un qualcosa al quale tutta la democrazia italiana deve riconoscenza poiché il lavoro di Ciampi ha ridato senso civile alla nostra cittadinanza repubblicana. La ricorrenza del 25 aprile è sempre stata una specie di termometro della condizione del Paese. Cosa testimonierà quest’anno dopo che, il 4 dicembre scorso, è stato battuto con largo consenso, il disegno di sradicare la Repubblica dalle proprie radici, da quelle in cui affonda la Costituzione che disegna valori e regole della nostra democrazia così come la storia ce l’ha consegnata? Prima ancora della lettera la bocciatura del disegno di revisione costituzionale ha salvato l’animus dell’Italia nata dal 25 aprile. La ricorrenza servirà a 064 17 aprile 2017 5 leggere lo stato di salute dell’ antifascismo, non di quello retorico e di maniera - riteniamo, neppure di quello storico - poiché a entrambi i profili sarà sicuramente riservata buona attenzione, ma di quello politico. Vale a dire se esso viva, e come, nel modo di essere della nostra democrazia di cui è il dato storico e valoriale che le dà significato; quando questo si smarrisce la Repubblica sbanda. L’antifascismo è una legge non scritta; la sua cultura è affidata alla Costituzione. Non a caso adopriamo la parole senza trattino poiché il termine ha una pregnanza positiva che riguarda la sostanza del vivere civile. Con il 25 aprile 1945 si compie l’anti-fascismo inteso quale lotta per contrastare e sconfiggere il fascismo e nasce l’antifascismo quale base valoriale della nostra comunità repubblicana. Da negativo il motivo diviene positivo e mentre il primo è consegnato alla storia, il secondo lo è alla politica democratica. Non si tratta di filologia storica, bensì di questioni vitali della nostra Repubblica, tanto più quando la decoazione della politica genera pulsioni autoritative di chiara cifra antidemocratica. Registriamo come questi temi, se si eccettua la positiva presidenza di Ciampi, siano praticamente scomparsi dalla pedagogia civile del Paese. Nell’era felix del berlusconismo un dirigente di primo piano del partito di Fini ebbe a dire che parlare di antifascismo non aveva più senso dal momento che non c’era più il fascismo. Ne conseguiva che, sparito il fascismo, lo era pure il suo contrario. La tesi è assurda e colma di ignoranza, ma temiamo che essa sottotraccia sia in buona salute considerata la tendenza sempre più crescente che si registra sulla memoria della nostra storia nazionale. Le responsabilità di ciò sono molteplici e la primaria va sicuramente addebitata al nostro sistema educativo pubblico; alla scuola che, al di là di tutti i problemi di gestione amministrativa che comporta, è oramai tutta tesa a conquistare una dimensione esclusivamente aziendalista. La scuola sembra aver perso il proprio compito principale: dare ai giovani italiani il senso della storia del loro Paese e della loro cittadinanza quale comunità democratica. Ciò non confligge con obiettivi di seria preparazione culturale e di cognizione professionale. Il tempo della retorica resistenziale è, se pur con un po’ troppo ritardo, finito; quello della Resistenza e del suo significato storico-politico no. Uno dei punti fermi che dovrebbe fare da riferimento in queste aspre stagioni del nostro vivere civile, purtroppo, non sembra essere quello che dovrebbe essere; ossia, un dato saldo e certo per reimpostare il duro lavoro di ricostruzione della democrazia politica in Italia. 0

lunedì 17 aprile 2017

Douce France? Le elezioni e la sinistra divisa – il blog

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The Serbian Left’s Next Move | Jacobin

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Italiani sempre più poveri, e in coda in Europa in settori vitali - Eddyburg.it

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Federico Caffè, trent’anni senza i suoi insegnamenti – il blog

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facciamosinistra!: Lavorare meno, lavorare tutti: parole che è possibile trasformare in realtà oggi

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Vi spiego perché il Pd di Matteo Renzi è la nuova Forza Italia - l'Espresso

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Congresso YES. FGS presenta tre risoluzioni | Avanti!

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Prigionieri politici nelle carceri Turche, sciopero della fame - Caratteri Liberi

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Le Europee del 2014 e la rottura con la Sinistra Socialista | Risorgimento Socialista

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Fabian Society » The radical reformer

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Franco Astengo: Analisi del voto in Turchia

Mi permetto inviare un’analisi del voto in Turchia che ho riassunto per la prima parte. Il testo integrale è in inglese ma molto facilmente leggibile. Grazie per l’attenzione Franco Astengo ANALISI DEL RISULTATO DEL REFERENDUM IN TURCHIA (a cura di Franco Astengo) clip_image001[2] Dall’edizione in inglese del quotidiano turco Hürriyet abbiamo tratto questa analisi del voto, facilmente leggibile che può essere però così riassunta, anche attraverso le immagini pubblicate: 1) La mappa del voto indica come le grandi città abbiano votato no: è accaduto a Istanbul, Ankara, Smirne ma anche in tutta la fascia occidentale del Paese; 2) Di grande interesse l’esito del voto tra i turchi residenti all’estero. In Germania dove risiede una numerosa comunità turca inserita in buona parte nella grande industria ha prevalso il SI con 269.036 voti contro 157.467. Ha prevalso, in questo caso, il timore di una recessione dell’accordo sui migranti stipulato con l’Unione Europea e quindi il rischio di un’ulteriore incremento di presenza di manodopera qualificata e a buon mercato ( in particolare di provenienza siriana) in Germania. Negli Stati Uniti, sede invece di una diaspora turca particolarmente importante (Erdogan aveva individuato nel’ il predicatore e politologo Fethullah Gülen, esule appunto negli Stati Uniti) ha prevalso invece il NO con 16.719 voti contro 3.362. 3) Ci troviamo quindi di fronte ad un grande Paese spaccato in due di fronte ad una ipotesi ormai concretamente realizzabile di Repubblica Presidenziale dai tratti dittatoriali personalistici. La Comunità internazionale non può restare indifferente. Sono in corso forti contestazioni sulla regolarità del voto (l’opposizione ritiene che il 37% delle schede scrutinate non risulti regolare). 4) Sarebbe necessario il massimo possibile di mobilitazione, sostegno, vigilanza a livello internazionale in una situazione che davvero appare molto delicata e foriera di sviluppi negativi sull’intero quadro internazionale attorno ai temi della pace, del flusso dei migranti dalle zone di guerra, dell’approvvigionamento energetico come punti prioritari in un quadro di evidente deficit democratico e di repressione arbitraria del dissenso politico, culturale, nel mondo dell’informazione. Di seguito il testo in inglese: Some 51.3 percent of the more than 58 million Turkish voters said “yes” to the ruling Justice and Development Party’s (AKP) constitutional amendment package in a tight race to decide on whether to shift to an executive presidential system. The gap between the two votes stood at around 1.3 million according to midnight figures by the state-run Anadolu Agency. The turnout exceeded 84 percent. The approval of the amendment package - which was backed by the Nationalist Movement Party (MHP) and opposed by the main opposition Republican People’s Party (CHP) and the Peoples’ Democratic Party (HDP), the third largest party in parliament - means an administrative shift will take place in 2019 if no early elections are held. However, the ruling party is expected to call for President Recep Tayyip Erdoğan to return to lead the AKP, something that was officially forbidden in the former system due to the constitutional impartiality of the president. The most debated change in the 18-article package was the granting of executive powers to the elected president, who can pick his cabinet ministers from outside parliament. Accordingly, the parliamentary and presidential elections will be held on the same day every five years. clip_image003[2] The president can appoint one or more vice presidents. The vice presidents will represent the president and will be able to use the authorities of the president in the event that the presidential post has become vacant for any reason. Vice presidents and ministers can be appealed to the Supreme Court by the same procedure as the president, and will benefit from the provisions of immunity about offences not related to their duties. The “No” vote prevailed in Istanbul, Ankara and İzmir, the three largest cities in Turkey, with 51.3 percent, 51.1 percent and 68.8 percent of the vote respectively. clip_image005[2] The “Yes” vote reflected the AKP’s dominance in the Black Sea region, while “No” votes dominated in most southeastern provinces, where the Kurdish-issue focused HDP is strong. In votes cast overseas, the “Yes” camp won 59.27 percent while “No” votes won 40.73 percent. In Germany, “Yes” won 63.19 percent with 269,036 voters, while the “No” side won 36.81 percent with 157,467 voters. Tensions ran high between the two NATO allies before the referendum, with Germany canceling several campaign rallies by Turkish ministers on German soil, drawing accusations from Turkey of “Nazi tactics.” Tensions were also high point between the Netherlands and Turkey due to the former’s banning of campaign events by Turkish ministers. Family Affairs and Social Policies Minister Fatma Betül Sayan Kaya was prevented by Dutch police from reaching Turkey’s consulate in Rotterdam on March 11 after being told not to enter the Netherlands to conduct political campaigning for the referendum. Kaya was subsequently deported to Germany by Dutch police early on March 12. In the Netherlands the “Yes” side won 69.93 percent of the vote and 47,911 votes, while the “No” side stood at 30.07 percent in the Netherlands with 20,602 votes. “No” votes prevailed in the United States with 83.26 percent and 3,362 votes, while 16,719 Turkish citizens voted “No” in the United States. With the new amendments, elections can be renewed by both parliament and the president. If the parliament decides in favor of a re-election by 360 votes, parliamentary and presidential elections will be made at the same time. In addition, all military courts are lifted apart from disciplinary ones. The configuration of the Constitutional Court has also changed, with the number of members reduced to 15 from 17. Twelve members will be appointed by the president while three will be appointed by parliament. The name of the Supreme Board of Judges and Elections will be changed into the Board of Judges and Elections. The number of members will be cut to 13 from 22. The minister of justice will be the head of the board, while the undersecretary of the Justice Ministry will be a regular member. Four members will be appointed by the president, three by parliament, three by the Supreme Court, and one by the Council of State. The president will have the authority to issue budgets for approval by the parliament. With the change, the number of MPs will be increased to 600 from the current 550. The minimum age to be elected will be reduced to 18 from 25. Debate on a parliamentary inquiry can be initiated about any misconduct of the president regarding presidential duties by the votes of 301 lawmakers. However, the parliamentary inquiry can only be initiated with 360 votes. If the inquiry concludes that the president has committed misconduct, a minimum 400 votes will open the path to appeal to the Supreme Court. The procedure will also be applicable after the term of the president ends.

Il “doppio turno” francese

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Benvenuto, caro high net worth individual - Menabò di Etica ed Economia

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Vecchie novità nella gestione del fenomeno migratorio in Italia: il recente decreto-legge Minniti - Menabò di Etica ed Economia

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La scuola italiana e il divario tra “ricchi” e “poveri” - Menabò di Etica ed Economia

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Il futuro del capitalismo secondo Wolfgang Streeck - Menabò di Etica ed Economia

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Flussi migratori: ridurli si può, fermarli è impossibile | E. Sacerdoti

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Def: conti rispettati, impulso alla crescita rinviato | Francesco Daveri

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CITTÀ STUDI ED EXPO: DUE DOMANDE ALL’ASSESSORE MARAN | Bernardo Notarangelo - ArcipelagoMilano

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L’INTERESSE PUBBLICO E IL BANDO PER LE AREE EX EXPO | Gastone Ave - ArcipelagoMilano

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Livio Ghersi: La politica estera della prepotenza

La politica estera della prepotenza. Il Segretario di Stato degli Stati Uniti d'America, Rex Tillerson, dichiara che gli USA difenderanno «gli innocenti nel mondo». Non si sa esattamente chi, dall'alto (ispirazione divina?), o dal basso (pressione democratica delle masse?), abbia conferito agli Stati Uniti d'America il diritto di intervenire unilateralmente in ogni angolo del pianeta. Può essere che non tutti gli amici degli USA siano propriamente "innocenti", ma, nel predetto diritto d'intervento unilaterale, rientra certamente quello di valutare contro chi si debba usare il massimo di rigidità e di durezza ed a chi, invece, possa essere accordato un trattamento più benevolo. Alla fine degli anni Sessanta, inizi degli anni Settanta, del ventesimo secolo, c'era meno ipocrisia e l'Amministrazione USA ammetteva di contare dittatori impresentabili e sanguinari fra i propri sodali. Soltanto che erano sì degli autentici figli di puttana" ("sons of bitch"), ma erano i "nostri" figli di puttana. C'è tutta una tradizione di pensiero europeo, che va dal giusnaturalismo dell'olandese Ugo Grozio, all'affermazione di massime razionali universali secondo il pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant, tendente a fare della comunità internazionale non più il regno dell'arbitrio, della forza che trova giustificazione in sé stessa, ma un campo in cui fosse possibile affermare criteri di legalità internazionale. Esattamente come, all'interno degli Stati civili, si era fatto qualche apprezzabile progresso rispetto alla logica dell'Homo homini lupus. Sì, è vero, si tratta di cose vecchie: ideali che venivano coltivati nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo. Oggi molti danno per scontato, invece, che L'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) sia poco più di un trastullo e che, pertanto, in nome di un sano realismo, ben venga l'iniziativa del potente che decide unilateralmente e si serve di un "nodoso bastone" per mettere in riga chi lo meriti, secondo il suo insindacabile punto di vista. Molti di noi, da bambini, hanno fatto esperienza dei classici bulli che, forti della loro maggiore vigoria fisica, s'imponevano ai meno forti, anche semplicemente per decidere come si dovesse giocare ed a chi spettasse la vittoria. Il criterio del bullo apre, quindi, una nuova stagione di relazioni internazionali. Gli Stati Uniti d'America hanno inflitto una prima "punizione" al presidente della Siria Bashar al-Assad. Non c'è stato bisogno di aspettare l'effettuazione di inchieste internazionali. Si sa che è colpevole: certo, non aveva alcun interesse razionale a mettersi contro la comunità internazionale; dunque, chi pensa che abbia usato deliberatamente i gas, ritiene che abbia un evidente deficit d'intelligenza. Certo, può darsi che dei settori del regime siriano abbiano assunto un'iniziativa non concordata con il presidente e, meno che mai, con i Russi. Tuttavia, mentre, in qualunque Stato degno di questo nome, un'ipotesi di questo tipo avrebbe comportato un processo ed, eventualmente, condanne esemplari per i responsabili, nel caso di Assad è lui che ha la "responsabilità oggettiva" di tutto. Da fautore dell'Unione Europea ho trovato, ancora una volta, triste il comportamento dei governanti europei, a partire da Gentiloni. Tutti che facevano a gara nel solidarizzare con il Presidente Trump. Tutti a complimentarsi con lui per l'iniziativa tempestiva e opportuna. Che lo facciano gli inglesi, servi contenti degli Stati Uniti, transeat. Si può semplificare al massimo la politica estera e ridurla alla regoletta: «sono sempre d'accordo con quanto decidono gli Stati Uniti d'America e così sarà nei secoli dei secoli. Amen». Dall'Unione Europea mi aspetterei altro, ma forse sono troppo esigente. Cosa insegna la storia? Quando tutte le maggiori potenze erano concentrate nel continente europeo, si seguiva la regola, non scritta, ma sempre praticata, di impedire che uno Stato si rafforzasse troppo rispetto agli altri. Se questo avveniva, per ristabilire l'equilibrio, tutti gli altri si coalizzavano contro di lui. Quanto pensano di poter andare avanti gli Stati Uniti con la politica del diritto d'intervento unilaterale e del nodoso bastone? La Russia e la Cina alleate potrebbero già bastare a ricondurre gli USA a più miti consigli. Io voglio la riforma dell'ONU, a partire dalla riorganizzazione del suo Consiglio di Sicurezza, voglio che tutte le maggiori potenze del pianeta, rappresentative di tutti i continenti, si associno nella responsabilità di garantire un nuovo sistema di legalità internazionale. Certamente non voglio il bullo al comando del mondo. Il bullo è pura regressione. Se l'America regredisce, non dobbiamo andarle dietro. Ciascuno per la sua strada. Quanti si riempiono la bocca parlando di libertà e di liberaldemocrazia, si dimostrino capaci di un minimo di dignità. L'occasione mi sembra propizia per inserire altre due questioni. La prima è quella dell'identità dell'Europa, di cui hanno scritto, insieme, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, nel "Corriere della Sera" del 10 aprile 2017 (pp. 1 e 34-35). Secondo i due intellettuali, l'identità europea può essere individuata con riferimento a due filoni essenziali: le radici "ebraico - cristiane" e quelle "razionalistico - illuministe". Nel primo caso si evocano tradizioni religiose, delle religioni monoteiste; nel secondo, concezioni filosofiche. Per quanto riguarda le religioni, però, si mette in luce il processo di secolarizzazione del Cristianesimo: di conseguenza, a risultare davvero importanti non sarebbero i valori, gli ideali, il sentimento di carità, le speranze ultramondane di cui il Cristianesimo è stato storicamente espressione, ma il fatto che, seguendo Hegel, Marx e Max Weber, gli europei abbiano imparato a definire la concezione di uno Stato integralmente laico ed a trasformare la loro religione in una filosofia mondana. Questo schema interpretativo non è poi tanto innocente, perché contribuisce a prendere le distanze dalla terza, grande, religione monoteista che, essendo più giovane, presenta maggiori asprezze. Stiamo parlando, guarda caso, dell'Islam. Se dovessi individuare un momento cruciale della storia europea, tale da avere importanza per la definizione stessa della cultura dell'Europa, indicherei la pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei Trent'anni (1618-1648). Si affermava allora che, nei territori dell'Impero, cattolici, protestanti e calvinisti, avevano libertà di religione e di culto. Il che non significava negare il ruolo delle fedi religiose, ma impegnarsi a farle coesistere in uno spirito di reale tolleranza. Coesistenza e tolleranza che servirebbero tanto più oggi nell'area del Mediterraneo ed in Europa, per disciplinare i rapporti reciproci tra Ebraismo, Cristianesimo ed Islam. Così come i cristiani (cattolici, protestanti e calvinisti), ad un certo punto, stanchi di farsi guerre, hanno accettato di convivere in pace, perché lo stesso destino non dovrebbe prima o poi riguardare i Paesi islamici, nei reciproci rapporti tra Sunniti e Sciiti? Certo, noi europei non rendiamo un buon servizio alla causa della distensione e della tolleranza se, seguendo acriticamente la propaganda israeliana, facciamo nostra la tesi che l'intero mondo sciita (dall'Iran, all'Iraq, alla Siria, eccetera) sia il regno del male. Ci sono molte altre stranezze nel modo in cui Esposito e Galli della Loggia concepiscono l'identità europea: si evoca la tradizione greca e latina, al solo fine di argomentare che la Germania deve contare meno. Senza tenere conto poi che quella tradizione greca e latina è sì molto importante, ma è stata completamente tradita dalle istituzioni scolastiche che la dovrebbero perpetuare; così che proprio le nuove generazioni le hanno completamente voltato le spalle. Un'ultimissima questione minore, che non c'entra con la politica internazionale, ma ha pur sempre a che fare con l'irrazionalità che oggi purtroppo contraddistingue le relazioni fra le forze politiche. Un giudice monocratico stabilisce chi debba essere il candidato del Movimento Cinque Stelle a sindaco di Genova. Poiché sembrava poco democratico che questa scelta spettasse al garante monocratico del Movimento, si è pensato che un giudice monocratico fosse più indicato alla bisogna. Stiamo parlando di un Comune che ha quasi seicentomila abitanti: non sembra strano che una decisione come quella di stabilire chi possa o meno concorrere alla carica di sindaco venga rimessa al signor Pinco Pallino, magistrato, che può decidere in splendida solitudine? Lungi da me la volontà di difendere Beppe Grillo ed il Movimento Cinque Stelle; c'è però una questione, che è quella dell'autonomia della politica, da non sottovalutare. In fatto di politica, il peggiore dei politici saprà sempre decidere meglio di quanto possa fare il più integerrimo dei magistrati. Giuridicizzare tutto è sbagliato. Il nostro Stato di diritto non diventa più vero ed effettivo quando si dà campo libero ai legulei. Un movimento politico deve essere pienamente libero di decidere a chi concedere l'uso del proprio simbolo, quindi chi candidare. Se la candidatura non piace, sarà il Corpo elettorale a fare giustizia. Palermo, 11 aprile 2017 Livio Ghersi

Franco Astengo: Disintermediazione

UN TERMINE NUOVO : LA DISINTERMEDIAZIONE. LE RESPONSABILITA’ DEL SINDACATO di Franco Astengo “Disintermediare significa saltare o almeno limare il ruolo del sindacato nel rapporto tra lavoro e azienda”. Il Movimento 5 Stelle raggiunge così il PD (R) nell’idea di lasciare lavoratrici e lavoratori soli nelle fauci del padronato (piccolo o grande, pubblico o privato sempre di padronato e di sfruttamento si tratta). Il Sindacato considerato semplicemente una “incrostazione burocratica” da eliminare più o meno “tout court”. Un’altra facile opzione di stampo “ventre molle della borghesia parassitaria”: non si può che definirla così, in termini antichi ma sempre nuovi. A renderla facile e popolare però ha contribuito nel corso degli anni anche lo stesso sindacato confederale attraverso il meccanismo della concertazione e, di conseguenza, della corresponsabilità nell’arretramento storico del mondo del lavoro imposto dalla fase di gestione del ciclo capitalistico denominato “globalizzazione” (oggi WTO, FMI e Banca Mondiale ammettono i “danni collaterali” provocati n questo senso) . Inoltre il sindacato confederale ha accentuato il livello di costruzione di una rete di privilegi, di foraggiamenti (come quelli derivanti dagli enti bilaterali) di varie complicità che, alla fine, hanno aperto la strada a un duplice attacco: quello del “metodo Marchionne” da un lato e quello della disaffezione dei lavoratori che ha proceduto di pari passo con la disaffezione della politica e, in particolare, dalla politica della sinistra. Come rispondere allora, se non è già troppo tardi? Anche in questa occasione intendiamo, come ci è capitato in altre occasioni, di apparire ostinati custodi della memoria, incapaci di vedere il “nuovo che avanza” e quindi di limitarci a proporre una sorta di “ritorno al futuro”. Intendiamo però correre il rischio rammentando, prima di tutto a noi stessi e poi a qualcuno che può mantenere viva la stessa memoria, quali erano i pilastri di quel sindacato unitario che abbiamo, in altri tempi, cercare di definire come “soggetto politico” a tutto tondo. Non sviluppiamo in questa sede la storia del sindacato italiano, la sua nascita parallela (a differenza di altre situazioni in Europa) alla formazione dei grandi partiti socialisti di massa, al fatto che accanto alle rivendicazioni puramente sindacali si situassero, sullo stesso terreno di lotta, le rivendicazioni di tipo politico: la libertà d'associazione, la libertà di stampa, l'allargamento del suffragio (quanti ricordano che, al momento della proclamazione del Regno d'Italia il diritto di voto era riservato a meno del 2% dei cittadini, in un paese con l'analfabetismo all'80% ?). Poi, nel secondo dopoguerra, le diverse fasi della rottura e del recupero dell'unità sindacale, le grandi battaglie degli anni'50 in difesa delle fabbriche nella tormentata temperie della riconversione dell'industria bellica e dell'intervento pubblico, poi il “boom”, il consumismo (elemento sul quale andrebbe aperta una riflessione sincera e spregiudicata), la migrazione biblica dal Nord al Sud, l'avanzamento sociale, l'allargamento del terreno dei diritti. Quale può essere, allora, il senso di questa estrema sintesi di ricostruzione storica? Appunto, quello, di ricordare i pilastri su cui poggiava il sindacato italiano: non perché oggi si possa recuperare quella realtà, ma come punto di riferimento, nozione di idea-guida, tentativo di mostrare, partendo dal passato, un possibile campo di scelta. Passiamo a elencare quelli che abbiamo definito “ i tre pilastri”: 1) Il Contratto Collettivo nazionale di categoria: lo smantellamento di questo istituto ha rappresentato, prima ancora che sul piano normativo ed economico, il punto esiziale per il riconoscimento di un sindacato nazionale che ha, sempre e comunque, la sua ragion d'essere; il decentramento sotto questo aspetto, che pure poteva rappresentare parzialmente un momento di grande interesse nello sviluppo di vertenze d'azienda e territoriali, non doveva sostituire il momento fondamentale di un sindacato unitario come quello rappresentato dal contratto collettivo nazionale di categoria; 2) La scala mobile. Oggi, a distanza di tanti anni, credo si comprenda meglio il valore di quella battaglia perduta e ci permettiamo di non aggiungere altro in tempi dove la crescita inflazionistica non è temperata da alcuno strumento; 3) La rappresentanza di tipo “consiliare” all'interno dei luoghi di lavoro. Senza alcun accento nostalgico (di cui pure ci potrebbe essere ragione) è necessario ricordare come l'unità sindacale possa poggiare soltanto su di un’unità di base che i “consigli” erano in grado di assicurare, pur dentro ad un dibattito acceso, non unanimistico, che rifiutava – ed è questo un altro punto decisivo- il neo corporativismo e lo straccio della “concertazione” ( Concertazione da distinguere bene dalla politica dei redditi). Potremmo ricordare, ancora, come la presenza contemporanea di questi tre elementi ( il contratto collettivo garantito dallo Statuto dei Lavoratori; la scala mobile, ricordando l'accordo Lama-Agnelli; il sindacato dei consigli emerso dalla grande stagione del 68-69) coincise con il momento più forte e più alto della presenza sindacale nel nostro Paese, e di avanzamento delle ragioni dei diritti e del miglioramento della qualità della vita per tutti, non soltanto per i lavoratori dipendenti. Qualcuno obietterà: c'era la classe operaia. Giustissimo, e la classe operaia era legata a una idea di sviluppo industriale che il nostro Paese, a differenza di altri partner europei, ha abbandonato da tempo: siamo privi, per diverse ragioni, di chimica, elettronica, agroalimentare, importiamo siderurgia. Non esiste un piano industriale strategico. Non si è tenuto conto di quanto l’innovazione tecnologica richiedesse sul terreno della riconversione. Sono mancate pianificazione e programmazione: strumenti sempre validi in qualunque circostanza. Se non programmi tu lo fanno gli altri, sempre a loro esclusivo vantaggio ammantando il tutto di belle parole magari dal significato apparentemente recondito come questa di “intermediazione”. Domanda conclusiva: saranno superati e obsoleti quei “pilastri del sindacato” che ci siamo permessi di ricordare in questa occasione, così come si cerca di far intendere da chi evidentemente ha il solo scopo di lasciare ancor più mano libera agli anticamente denominati “padroni del vapore”?

lunedì 10 aprile 2017

Psoe. È morta Carme Chacón | Avanti!

Psoe. È morta Carme Chacón | Avanti!

Franco D'Alfonso: Trasporto pubblico a Milano

Torneremo presto a parlare di Trasporto pubblico a Milano, cercando di chiarire i molti punti incomprensibili più che oscuri di una vicenda che occupa le pagine della cronaca cittadina un po' all'improvviso, senza che se ne comprendano le ragioni, ma soprattutto per affrontare in maniera chiara e trasparente un dibattito cruciale per la vita stessa della città e della sua amministrazione, vale a dire la modalità di gestione della sua più importante e strategica controllata, l'Atm, i possibili partner (Fs, Trenord, altri), la nuova dimensione metropolitana, i vincoli di legge e molto altro ancora. Con questa dichiarazione volevo segnalare alcuni punti fermi relativi ad una fase che si è chiusa con il rinnovo del Cda Atm : - la gestione Rota di Atm ha consentito una spettacolare inversione di tendenza gestionale, amministrativa e politica rispetto ad una gestione Catania del centrodestra che aveva risultati tuttaltro che brillanti . - Per questo motivo non si può pensare di sostituirlo con qualche uomo della passata gestione- Catania, magari scelto fra quelli non confermati o allontanati proprio dall'amministrazione Pisapia . La scelta spetta, formalmente e sostanzialmente, al nuovo Cda Atm appena insediato e sono sicuro che lo farà con serietà e professionalità : la pregiudiziale politica è rivolta a quegli esponenti dell'amministrazione - che ci sono, inutile fingere che non sia così - in carica che pensano invece proprio a persone di questo tipo per il vertice operativo ( direttore generale ) e che avranno, del tutto legittimamente, la possibilità o meglio il dovere di esprimere un indirizzo appunto politico per la gestione futura di Atm . Troverei molto curioso, per non dire altro, che si teorizzasse un rinnovamento molto somigliante al ritorno delle lancette ad un'epoca che appartiene ad un'altra politica rifiutata per due volte dal voto dei milanesi . E non potrei, assieme credo alla maggioranza dei cittadini milanesi, condividere tale scelta. - in maniera del tutto incomprensibile il ricambio fisiologico dei vertici ( Rota non poteva essere confermato come presidente, in base ad una norma introdotta dall'amministrazione Pisapia, che personalmente non condivido ma che evidentemente non si può che rispettare fino a che non verrà modificata, essendo impossibili deroghe) si è trasformato in uno psicodramma, con polemiche sgradevoli al contorno. Penso che sarebbe stato doveroso congedare con onore chi ha servito la città senza infilarsi in cavillose ricerche burocratiche di giustificazioni, peraltro del tutto inutili stante la non confermabilità dei vertici uscenti, ad una scelta di radicale cambiamento, discutibile come ogni scelta, ma del tutto legittima. - la vicenda del cambio dei vertici è stata sovrapposta, a torto o a ragione, a questioni di strategia aziendale ed in particolare a come reagire e rapportarsi con una chiarissima strategia del governo Renzi, ora Gentiloni come prima Letta, che assegna a Ferrovie dello Stato un ruolo di consolidatore unico della politica del trasporto nazionale ed urbano e sforna leggi che costringono più che orientano ad "aprire le porte" al gruppo guidato da Mazzoncini . Questo ha fatto sì che le vicende e le opinioni personali di amministratori e manager pubblici assumessero apparentemente più rilievo del tema strategico in discussione. Come direbbe un grande gestore di situazioni pubbliche complicate, è peggio che un crimine , è un errore. Non si ritrovano nella dichiarazione che segue, ma sono altrettanti punti fermi, a mio avviso : - il fatto che la vicenda della cessione delle quote M5 a Ferrovie dello Stato è stata gestita da parte dell'assessore al bilancio in maniera opposta a quella che chiameremmo gestione chiara e trasparente di informazioni e decisioni, determinando una cristallizzazione delle posizioni ed una caduta della fiducia reciproca che non favorisce un dibattito costruttivo. - che la conoscenza di principi e procedure da parte di chi ha gestito fin qui operativamente la produzione di atti ed informazioni, alcuni dei quali sottoposte anche all'avallo di organi comunali, è quantomeno approssimativa. Un "cambio di passo" nel metodo prima ancora che nel merito è semplicemente indispensabile. Cordialmente. Franco D'Alfonso

venerdì 7 aprile 2017

Luciano Belli Paci: Affari costituzionali

Alle ultime elezioni (2013) il PD prese il 25,43 % alla Camera ed il 27,43 % al Senato. La coalizione Italia Bene Comune prese rispettivamente il 29,55 % ed il 31,63 %. Il PD occupa attualmente le seguenti cariche istituzionali (mi limito alle principali altrimenti servirebbero molte pagine): · Presidente della Repubblica · Presidente del Senato · Presidente del Consiglio · Ministri di Interni, Difesa, Economia, Giustizia, Trasporti, Lavoro, Istruzione, Cultura, Agricoltura, PA, Rapporti Parlamento, Mezzogiorno, Sport · 9 presidenze di Commissione alla Camera (erano 10 ma uno è passato al Mdp) su 14 · 7 presidenze di Commissione al Senato su 14 Effettivamente che sia stato defraudato della presidenza della Commissione Affari Costituzionali del Senato lascia costernati.

Franco Astengo: Il frullatore della poliica

IL FRULLATORE DELLA POLITICA di Franco Astengo Le contrastate vicende della politica italiana, emerse nel corso della più recente attualità, suscitano un’esigenza di riflessione che, mi pare, è sempre più difficile proporre e portare avanti. Anzi, appare ormai quasi impossibile riuscire a distinguere il merito delle varie questioni che, via, via, via, sono sollevate all'attenzione dell'opinione pubblica. Le diverse valutazioni, giudizi, scelte, sono assunte sempre più in base a motivazioni di carattere strumentale, al di fuori da un contesto d'analisi e imposte dall'uso delle notizie, così come questo è determinato da chi tira le fila della grande comunicazione di massa. Titoli, commenti, organizzazione nella gerarchia delle notizie non sono mai stati fattori “neutri”, ma sempre sono stati calibrati a seconda delle diverse convenienze: questa verità storica non è mai stata verità sacrosanta, come accade oggi giorno. Questioni di grandissimo rilievo, sul piano teorico – politico che impegnano la concezione dell'etica, la collocazione ideologica, il substrato culturale di ciascheduno di noi sono, così, misurate nell'ottica che ho appena cercato di indicare: della pura strumentalizzazione e utilizzate, nella maggior parte dei casi, quale supporto per il conseguimento di obiettivi immediati, di cortissimo respiro. Si aprono dibattiti, solo in apparenza rivolti a dirimere questioni di fondo, ma, in realtà, artatamente orientati a realizzare risultati propagandistici, buoni soltanto per autoconservare ruoli da protagonisti per una genia ristretta di accaniti frequentatori degli studi televisivi, maestri della dichiarazione e della battuta, che in varie vesti (anche intercambiabili tra loro: uomini di governo, dirigenti di partito, giornalisti, professori a contratto, attori di cabaret) si autocollocano nell’“empireo” che presiede alle sorti della nostra società. Temi di grande delicatezza come quelli della politica estera in una situazione globale che presenta rischi di guerra, della politica economica, dei temi istituzionali dalla legge elettorale fino – addirittura – alla riforma della Costituzione Repubblicana se pensiamo a come è stato affrontato dal partito di maggioranza relativa il referendum dello scorso del 4 Dicembre. Tutti punti generalmente affrontati nella dimensione puramente propagandistica di cui si è detto, intorno ai quali si sono realizzate operazioni politico culturali, dispensando patenti di credibilità, affidabilità, coerenza, ecc, ecc: senza che chi fungeva da “dispensatore” fosse provvisto di un qualsiasi titolo effettivo, ma investito soltanto da questa “aura” massmediatica. Il rapporto con la realtà sociale, in questi casi, è stato del tutto secondario (o assunto, ancora una volta, in via del tutto strumentale, come è stato nel caso dei grandi movimenti che hanno scosso la vita quotidiana in alcune parti del Paese). Insomma: la relazione tra cultura, politica, uso della comunicazione di massa, appare ormai trasformata in un gigantesco frullatore, dove tutto è ridotto in una dimensione del tutto irriconoscibile rispetto alle posizioni di partenza, omologato e indistinguibile. Un vero e proprio “sonno della ragione” collettivo, nel corso del quale appaiono sparite le idee “forti” della battaglia e della rappresentanza politica, ormai, di fatto, comprese, esaustivamente, nella logica della personalizzazione avulsa da qualsiasi possibilità di espressione, per una possibile proposta politica collettiva. I fenomeni appena descritti sembrano proprio ormai dilaganti e rappresentano l'assunzione, senza principi, di una modernità intesa soltanto come punto di esaltazione della competitività individualistica, della sopraffazione sull'altro, dell'egoismo corporativo. Non vale più combattere la battaglia delle idee; non emerge più il ruolo della soggettività politica capace di intendere e storicizzare i fenomeni sociali. Se vogliamo usare, come dobbiamo usare, l'antica terminologia possiamo ben dire che, in questo modo, quella che un tempo avremmo definito tranquillamente “ destra” ha allargato enormemente la propria sfera d'influenza comprendendo l’insieme dei soggetti artatamente definiti come componenti della “tripolarizzazione” del sistema politico italiano ma in realtà componenti di un vero e proprio “cartel party”. Ho espresso una visione eccessivamente pessimistica? Forse. La vicenda italiana, infatti, si inquadra all’interno di una davvero drammatica situazione generale, nella fase di inversione di tendenza circa la “faciloneria” con la quale è stata affrontata la fase descritta erroneamente come “globalizzazione”. In realtà stiamo assistendo pressoché inerti (salvo alcune piccole punte di insorgenza purtroppo spesso contrassegnate da una logica NIMBY) alla tragica conclusione di un’intera fase storica che sta precipitando nell’idea di un governo automatico della tecnica dal quale potrebbero generare guerre di una distruttività mai vista e regimi dei quali neppure la fantasia di Orwell avrebbe potuto sospettare la possibilità d’esistenza. Eppure le “verità sociali” (la sintesi più efficace mai sentita, quella usata da Pietro Gori in “Addio Lugano Bella”) rimangono eterne e incontrovertibili e da esse scaturiscono tutte le contraddizioni della modernità che ci rifiutiamo di affrontare nascondendoci dietro al fallimento dell’inveramento statuale delle rivoluzioni avvenute (più tragico quelle cinese addirittura di quello sovietico) e del relativo crollo del riformismo keynesiano del “new deal” e del “welfare state”. Ripartiamo allora dalla constatazione ovvia del trovarci in una situazione storica più arretrata addirittura di quella analizzata nella “Critica al Programma di Gotha” e a quella determinatasi con la rottura della Prima Internazionale. Consapevolezza dell’arretramento storico, considerazione dell’insuperabilità delle contraddizioni e dell’impossibilità di un riordino per via “tecnica”, visione del futuro per una nuova democrazia dell’uguaglianza: tre punti per ripartire.

mercoledì 5 aprile 2017

Franco D'Alfonso: Trasporto pubblico a Milano

Torneremo presto a parlare di Trasporto pubblico a Milano, cercando di chiarire i molti punti incomprensibili più che oscuri di una vicenda che occupa le pagine della cronaca cittadina un po' all'improvviso, senza che se ne comprendano le ragioni, ma soprattutto per affrontare in maniera chiara e trasparente un dibattito cruciale per la vita stessa della città e della sua amministrazione, vale a dire la modalità di gestione della sua più importante e strategica controllata, l'Atm, i possibili partner (Fs, Trenord, altri), la nuova dimensione metropolitana, i vincoli di legge e molto altro ancora. Con questa dichiarazione volevo segnalare alcuni punti fermi relativi ad una fase che si è chiusa con il rinnovo del Cda Atm : - la gestione Rota di Atm ha consentito una spettacolare inversione di tendenza gestionale, amministrativa e politica rispetto ad una gestione Catania del centrodestra che aveva risultati tuttaltro che brillanti . - Per questo motivo non si può pensare di sostituirlo con qualche uomo della passata gestione- Catania, magari scelto fra quelli non confermati o allontanati proprio dall'amministrazione Pisapia . La scelta spetta, formalmente e sostanzialmente, al nuovo Cda Atm appena insediato e sono sicuro che lo farà con serietà e professionalità : la pregiudiziale politica è rivolta a quegli esponenti dell'amministrazione - che ci sono, inutile fingere che non sia così - in carica che pensano invece proprio a persone di questo tipo per il vertice operativo ( direttore generale ) e che avranno, del tutto legittimamente, la possibilità o meglio il dovere di esprimere un indirizzo appunto politico per la gestione futura di Atm . Troverei molto curioso, per non dire altro, che si teorizzasse un rinnovamento molto somigliante al ritorno delle lancette ad un'epoca che appartiene ad un'altra politica rifiutata per due volte dal voto dei milanesi . E non potrei, assieme credo alla maggioranza dei cittadini milanesi, condividere tale scelta. - in maniera del tutto incomprensibile il ricambio fisiologico dei vertici ( Rota non poteva essere confermato come presidente, in base ad una norma introdotta dall'amministrazione Pisapia, che personalmente non condivido ma che evidentemente non si può che rispettare fino a che non verrà modificata, essendo impossibili deroghe) si è trasformato in uno psicodramma, con polemiche sgradevoli al contorno. Penso che sarebbe stato doveroso congedare con onore chi ha servito la città senza infilarsi in cavillose ricerche burocratiche di giustificazioni, peraltro del tutto inutili stante la non confermabilità dei vertici uscenti, ad una scelta di radicale cambiamento, discutibile come ogni scelta, ma del tutto legittima. - la vicenda del cambio dei vertici è stata sovrapposta, a torto o a ragione, a questioni di strategia aziendale ed in particolare a come reagire e rapportarsi con una chiarissima strategia del governo Renzi, ora Gentiloni come prima Letta, che assegna a Ferrovie dello Stato un ruolo di consolidatore unico della politica del trasporto nazionale ed urbano e sforna leggi che costringono più che orientano ad "aprire le porte" al gruppo guidato da Mazzoncini . Questo ha fatto sì che le vicende e le opinioni personali di amministratori e manager pubblici assumessero apparentemente più rilievo del tema strategico in discussione. Come direbbe un grande gestore di situazioni pubbliche complicate, è peggio che un crimine , è un errore. Non si ritrovano nella dichiarazione che segue, ma sono altrettanti punti fermi, a mio avviso : - il fatto che la vicenda della cessione delle quote M5 a Ferrovie dello Stato è stata gestita da parte dell'assessore al bilancio in maniera opposta a quella che chiameremmo gestione chiara e trasparente di informazioni e decisioni, determinando una cristallizzazione delle posizioni ed una caduta della fiducia reciproca che non favorisce un dibattito costruttivo. - che la conoscenza di principi e procedure da parte di chi ha gestito fin qui operativamente la produzione di atti ed informazioni, alcuni dei quali sottoposte anche all'avallo di organi comunali, è quantomeno approssimativa. Un "cambio di passo" nel metodo prima amcora che nel merito è semplicemente indispensabile. Cordialmente. Franco D'Alfonso ATM, D'ALFONSO: DA ROTA BUONA AMMINISTRAZIONE, NO RIPORTARE LANCETTE INDIETRO ATM, D'ALFONSO: DA ROTA BUONA AMMINISTRAZIONE, NO RIPORTARE LANCETTE INDIETRO (OMNIMILANO) Milano, 30 MAR - "Si è chiuso oggi il ciclo di gestione dell'ATM guidata da Bruno Rota, che è stato elemento caratterizzante, simbolico e fondante dell'Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Giuliano Pisapia. Ci sarà tempo e modo per discutere delle modalità con le quali si è giunti a questo che doveva essere - e non è stato - un normale avvicendamento nell'ambito della buona amministrazione politica della città, così come ci sarà occasione molto presto di confrontarsi sul futuro del trasporto pubblico a Milano. La notizia odierna però è che il Presidente Bruno Rota consegna al nuovo CdA una ATM che nel 2011 non aveva bilanci in ordine ed oggi è un modello riconosciuto di buona amministrazione; che aveva un grado di efficienza basso, con un numero di blocchi ed inefficienze dei mezzi non in linea con la tradizione dell'azienda tranviaria ambrosiana ed ora ha una immagine ed una reputazione di efficienza che l'esperienza di Expo ha proiettato a livello internazionale; che soffriva di una forte conflittualità interna, come molte aziende ferrotranviarie e che ha goduto in questi anni di un invidiabile periodo di collaborazione tra azienda, lavoratori ed azionista, con un ridottissimo numero di ore di sciopero come indicatore significativo". Così il consigliere comunale di "Noi Milano", ed ex assessore della giunta Pisapia, Franco D'Alfonso. "Il Presidente Rota - prosegue - ha svolto il suo mandato con "disciplina ed onore", come chiede il troppe volte dimenticato principio generale che sta alla base dell'opera di un amministratore pubblico, così come lo hanno fatto gli altri amministratori di ATM e delle altre società partecipate indicati dalla amministrazione comunale. Non ho dubbi che anche il nuovo ciclo amministrativo che si apre oggi non derogherà a questi principi e presenterà inevitabili innovazioni di metodo e di scelte in uno scenario con una dimensione sempre più metropolitana piuttosto che comunale, senza indulgere ad idee, prive di senso comune oltre che politico, come metodi e persone coinvolte che porterebbero le lancette dell'orologio ATM indietro, invece che nel futuro di una nuova sfida affascinante per la città di Milano e per l'intero Paese".

La rivista il Mulino: Belgrado, 4/4/2017

La rivista il Mulino: Belgrado, 4/4/2017

Spineless Social Democracy

Spineless Social Democracy

martedì 4 aprile 2017

Se il malcontento è di classe | M. Barbagli

Se il malcontento è di classe | M. Barbagli

Povera Unione - Sbilanciamoci.info

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Redistribuzione contro le disuguaglianze - Sbilanciamoci.info

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Ecuador - Il ballottaggio salva la Revolución Ciudadana e il progressismo latinoamericano | Global Project

Ecuador - Il ballottaggio salva la Revolución Ciudadana e il progressismo latinoamericano | Global Project

Paolo Bagnoli: Mentalità autoritaria e massiccia ignoranza

mentalità autoritaria e massiccia ignoranza paolo bagnoli da critica liberale L’osservazione è elementare. I 5Stelle il loro obiettivo – dar vita a una democrazia diretta – lo hanno già raggiunto. Il caso delle comunarie di Genova lo testimonia con chiarezza: diretta, appunto, da Beppe Grillo. La deriva cui è giunto il sistema della politica in Italia fa sì che un episodio sul quale si sarebbe dovuto dire molto sia stato ridotto a un titolo di giornale. La concorrenza, cioè il Pd, per il piombo che ha nelle ali, pur alimentando un continuo duro battibecco con i rivali, non ha la forza necessaria per denunciare con la decisione dovuta il senso delle scelte genovesi e i toni, veramente preoccupanti, con i quali il garante del Movimento ha risposto a chi, all’interno e all’esterno di questo, ha avanzato delle critiche. Certo che del loro, e nel loro, Movimento i 5Stelle possono fare quello che vogliono. Per una forza, tuttavia, che punta al governo del Paese la questione della mentalità e dei metodi con i quali essa agisce riguarda tutti poiché la democrazia sta, o dovrebbe stare, a cuore a tutti. Sottovalutarlo equivale a una fuga rispetto a una realtà inquietante. Oramai la politica ci regala un continuo spettacolo di gazzarra che altro non è se non la rappresentazione della patologia cui siamo giunti. In quello che succede non vi è, infatti, morale ossia senso dei valori concernenti la politica e le istituzioni. La febbre del potere unitamente alla bramosia della sua conquista e del suo esercizio, prevalgono su ogni legittima aspirazione al governo del Paese. Nella lotta i cui runner di testa sono il Pd e i 5Stelle, si tritura tutto e ci sembra che il primo dei due sopracitati soggetti non si renda conto dell’errore che fa nel rincorrere i grillini sul loro terreno invece di arginarli e combatterli come dovrebbe. Aveva ragione Pietro Nenni: in politica c’è sempre uno più puro che ti epura. Oggi possiamo dire che a un rottamatore ne segue un altro che lo è ancora di più. 063 03 aprile 2017 8 La mentalità autoritativa e dogmatica ha trovato una sua esplicitazione applicativa in un gesto che definire di protesta è sbagliato mentre si avrebbe dovuto avere il coraggio di chiamarlo per quello che è stato: un vero e proprio episodio dal sapore squadristico. Ci riferiamo, naturalmente, al bliz tentato dai 5Stelle nell’ufficio di presidenza della Camera quale risposta alla bocciatura che esso aveva fatto sui vitalizi. Bene ha fatto la presidente Laura Boldrini a dichiarare che la Camera “non si farà intimidire”. Ce n’è bisogno e a fronte di quello che il capogruppo Pd, Ettore Rosato, ha qualificato come “un attacco violento e barbaro”. Le pressioni intimidatorie, tuttavia, non sono finite poiché i grillini, non paghi del gesto squadristico, hanno completato l’iniziativa arringando, per bocca del vicepresidente di Montecitorio Luigi Di Maio, la piazza con una filippica miserevole e retorica che ha rappresentato un altro atto di intimidazione contro il Parlamento. Non dimentichiamoci che Di Maio è quello delle liste di proscrizione dei giornalisti che avevano fatto delle inchieste che lo riguardavano. Beppe Grillo, il garante, di par suo, si è indirizzato alla presidente Boldrini in questi termini: ”Chieda scusa in ginocchio per suo sopruso”. Nei grillini sembra venire a sublimazione tutto il veleno che in questi anni è montato contro il Parlamento raffigurato come un luogo di salvaguardia castale, di usurpatori del privilegio e non c’è da stupirsi di essere arrivati a questo punto quando sotto il manto perbenistico di critiche su particolari situazioni, quando ciò che interessa è solo fare scandalo e generare denigrazione. E’ inevitabile che a forza di seminare vento si raccolga tempesta. Quelli dei grillini sono atti e dichiarazioni di una gravità inaudita. Il Paese appare sotto schiaffo di un gruppo di crociati ai quali non basta rimproverare la gestione di Roma che sembra, peraltro, avere ben assorbito e pure fatto assorbire, mentre occorrerebbe un mobilitante coro di indignazione che suonasse anche a risveglio della responsabilità democratica. Il coro, però, non c’è. Comincia, invece, ad apparire qualche analisi seria sui 5Stelle quale quella che Ernesto Galli della Loggia ha consegnato il 25 marzo scorso al “Corriere della Sera”. Il succo del ragionamento di Galli della Loggia è che gli esponenti del grillismo i quali stucchevolmente esternano la sicumera dei primi della classe, presentandosi come “diversi e migliori”, non hanno nessuno dei fondamentali per divenire una classe dirigente. Riportiamo un brano dell’articolo che ci ha colpito. Scrive il professore riferendosi, appunto, alla dirigenza grillina, quella che ha tentato il bliz all’ufficio di presidenza della Camera e poi aizzato la piazza contro la funzione parlamentare preferendo gesti ai discorsi: “Con la giovane età che per, lo più li contraddistingue essi appaiono, infatti, anche il frutto compiuto dello sfasciato sistema d’istruzione del loro (e ahimè nostro) Paese. Nel loro modo di parlare e di ragionare, nel loro lessico, è facile indovinare, curriculum scolastici 063 03 aprile 2017 9 rabberciati, insegnanti troppo indulgenti, lauree triennali in scienze della comunicazione, studi svogliati, poche letture, promozioni strappate con i denti. S’indovina cioè un vuoto. Il multiforme vuoto italiano di questi anni, in cui tutto sembra sgretolarsi e finire. Un vuoto a cui come elettori, peraltro, si può essere pure tentati di accostarsi con la speranza - sempre l’ultima a morire – che esso celi qualcosa di buono che a prima vista non è dato scorgere ma che forse c’è, in fondo chissà potrebbe pure esserci. Salvo restare ogni volta regolarmente delusi.” D’altronde il solito Di Maio che trasforma, nel corso di una trasmissione televisiva, il sociologo Luciano Gallino nello “psicologo Gallini”, conferma che Galli della Loggia dice cose vere. E ha sempre ragione: i 5Stelle rappresentano un salto nel vuoto; non solo non sono l’alternativa alla crisi del sistema, ma testimoniano della terminalità cui questo sembra essere giunta. Rispondendo a Pier Luigi Bersani che aveva tentato un’apertura, molto tattica in vero, verso i 5 Stelle per costruire una difficoltà al suo ex-partito, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, figura di primo piano del neonato movimento “Articolo 1”, Rossi ha preso le distanze dalle aperture bersaniane definendo i grillini “reazionari e inquietanti”. In altri termini ha avuto, se non altro, il buon senso di gridare la nudità del re. Bersani dal canto suo ha cercato di recuperare buttando sul tavolo, questa volta, un’altra verità: la crescita registrata dai 5Stelle in questi anni è frutto dell’insufficienza del centrosinistra che non ha fatto, e non fa, il suo mestiere e che, limitandosi a dargli del populista, finisce per portare acqua al loro mulino. Ora, poiché il confronto di fondo della politica italiana si gioca, nella partita per il governo, tra Pd e 5Stelle il quadro complessivo cui siamo di fronte è veramente preoccupante in una perdita generale di senso comune che, in una democrazia politica cosciente di cosa essa sia e rappresenti, costituisce un fattore morale concreto tutt’altro che marginale.

Franco Astengo: Disoccupazione

DISOCCUPAZIONE: DATI CONTRADITTORI E FRAGILITA’ STRUTTURALE (a cura di Franco Astengo) Questi i dati apparsi oggi in materia di occupazione: “Il tasso di disoccupazione a febbraio scende all'11,5% (-0,3 punti percentuali). In forte calo soprattutto il tasso di disoccupazione giovanile, che torna ai livelli del 2012, 35,2%. Al calo della disoccupazione tuttavia non corrisponde un aumento degli occupati: infatti il numero è stabile rispetto a gennaio, e in effetti, rileva l'Istat, si mantiene anche sugli stessi livelli dei quattro mesi precedenti. Mentre la stima delle persone in cerca di occupazione registra un forte calo su base mensile (-2,7%, pari a meno 83 mila): il calo interessa uomini e donne ed è più accentuato tra i 15-24enni e gli over 50. E la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni nell’ultimo mese è in crescita (più 0,4%, pari a più 51 mila). L’aumento si concentra tra gli uomini, mentre calano leggermente le donne e coinvolge tutte le classi di età ad eccezione degli ultracinquantenni. Il tasso di inattività è pari al 34,8%, in aumento di 0,1 punti percentuali su gennaio. Per quanto in calo, il tasso di disoccupazione italiano rimane più alto di quello dell'Eurozona, che in febbraio, comunica Eurostat, è pari al 9,5%, in calo dal 9,6% di gennaio e dal 10,3% di febbraio 2016. Si tratta del livello più basso da maggio 2009. Nell'Unione il tasso è all'8%, in calo dall'8,1% di gennaio e dall'8,9% di febbraio 2016, minimo da gennaio 2009. Da qualche mese l'Istat sta anche confrontando i dati sull'occupazione con quelli demografici. Al netto della componente demografica, dunque (le tendenze di fondo sono la riduzione del numero dei giovani e l'aumento delle fasce più anziane) cresce l'incidenza degli occupati sulla popolazione in tutte le fasce di età. Ma si afferma sempre di più "il ruolo predominante degli ultracinquantenni nello spiegare la crescita occupazionale, anche per effetto dell'aumento dell'età pensionabile". GLI OCCUPATI. Nonostante il calo della disoccupazione, in quadro non è molto incoraggiante nel confronto mensile, mentre in quello annuale si registra invece ancora un significativo aumento degli occupati, 294.000 unità. Sono quasi tutti lavoratori dipendenti (280.000) ma meno della metà (102.000) sono permanenti). Nel confronto mensile invece non si registra alcuna variazione degli occupati. DISOCCUPATI E INATTIVI. Robusto invece l'aumento degli inattivi, che però riguarda esclusivamente gli uomini, il cui tassi di inattività sale pertanto al 25,1% mentre quello femminile cala al 44,4%. Per cui è vero che a febbraio ci sono 83.000 disoccupati in meno rispetto a gennaio, ma anche 51.000 inattivi in più. I GIOVANI. Sulla componente giovanile va fatta una premessa: nella fascia di età 15-24 anni in Italia solo il 10% è in cerca di lavoro. Gli altri non rientrano nelle forze di lavoro, e quindi non vanno considerati nè per il calcolo del tasso di disoccupazione né di quello di occupazione. E quindi, spiega l'Istat, "l'incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa età è pari all'8,9% (cioè meno di un giovane su 10 è disoccupato). Se si guarda ai numeri assoluti, per i giovani non cambia un granché: infatti a febbraio il numero degli occupati è invariato, quello dei disoccupati si riduce di 41.000 unità ma quello degli inattivi aumenta di 38.000 nel confronto mensile. Nel confronto annuale invece le differenze sono un po' più significative: ci sono 15.000 occupati in più, 78.000 disoccupati in meno e 36.000 inattivi in più.” ALLARME TRENTENNI. Le fasce d'età che mostrano seri problemi nel mercato del lavoro sono però quelle di mezzo. Infatti per la fascia 25-34 anni c'è sia una riduzione degli occupati che un aumento di disoccupati e inattivi nel confronto mensile e in quello tendenziale. Su base annua i dati sono preoccupanti: 17.000 occupati in meno, 57.000 disoccupati in più e 126.000 inattivi in più. Altrettanto allarmanti i dati della fascia successiva: infatti c'è un calo su base annua di 106.000 occupati, i disoccupati in meno sono solo 7.000 ma gli inattivi in più sono 127.000.” Un’analisi realistica nel merito ci indica alcuni punti essenziali di ragionamento: 1) Al riguardo dei giovani le ipotesi sono due. La prima quella della crescita dei cosiddetti need, la seconda quella delle aziende che li hanno costretti a rifluire nell’ambito del lavoro nero considerato l’esaurimento delle provvidenze del job act 2) Cresce il precariato proprio come risposta alle vicende già citate legate al job act 3) I dati maggiormente preoccupanti riguardano la presenza degli ultracinquantenni quale frutto dei mancati pensionamenti. Questo fenomeno porta tra l’altro ad un invecchiamento complessivo con riflessi su sicurezza, organizzazione, produzione del lavoro soprattutto nei campi dell’edilizia e di determinati settori della pubblica amministrazione e dei servizi. Ma appare negativa la prospettiva dei trentenni: la generazione che dovrebbe essere sulla soglia di assumere un ruolo primario nel mondo del lavoro rischia di essere quella maggiormente penalizzata e di rimanere pressoché assente nel necessario processo di ricambio. Si profila una pericolosa rottura generazionale. 4) Manca l’analisi della composizione per settori. Quando potremo disporne ci accorgeremo della fragilità del tessuto connettivo della nostra economia con un forte deficit di capacità di know- how e di produzione nei settori strategici dell’industria, come dimostra la condizione della siderurgia. 5) Si continua a lavorare, da parte delle forze politiche e del governo, sulla creazione di condizioni di aumento del consumo individuale anziché elaborare un piano industriale complessivo basato sul recupero di capacità pubblica di intervento in economia. Il tutto, inoltre, appare frenato dalle precarie condizioni della pubblica amministrazione, del sistema bancario (percorso da fenomeni davvero gravi), dal fattore corruttivo e dalla presenza della criminalità organizzata che egemonizza il tessuto economico in varie parti del Paese, ben oltre il Sud e ben oltre i settori tradizionali come l’agricoltura o l’edilizio. Si tralasciano da queste analisi , per ragioni di economia del discorso, due elementi molto importanti: quello riguardante l’UE e quello delle stato dell’arte (contraddittorio e complesso) delle delocalizzazioni. L’Italia soffre inoltre di un deficit infrastrutturale, emergono questioni sul terreno energetico. 6) Non esiste nessun calcolo al momento su quanto è presente di lavoro nero da parte dei migranti. Un fattore che incide spaventosamente sui livelli di sfruttamento e di sostituzione in termini di lavoro legale.