mercoledì 28 marzo 2018

Franco Astengo: Governo/Non governo

GOVERNO/NON GOVERNO di Franco Astengo Premesso che al momento attuale appare del tutto azzardato pronunciare vaticini circa la formazione del nuovo Governo (e ricordato anche, un po’ per celia e un po’ per non morire che: “il governo qualunque esso sia è sempre il comitato d’affari della borghesia”) vale la pena sottolineare almeno tre punti che sembrano caratterizzare la situazione politica nel dopo-voto del 4 marzo 2108: 1) Le forze politiche si trovano nell’impasse dell’aver costruito una campagna elettorale come se si fosse votato con una formula maggioritaria e non con un proporzionale per i 2/3. L’assenza di alcuna proposta sul piano degli schieramenti politici nel dopo – voto adesso pesa, in un quadro di promesse elettoralistiche che (come si era ben rilevato alla vigilia) risultano non solo incompatibili fra loro ma impossibili da soddisfare anche solo parzialmente. Una “logica del maggioritario” che emerge dalla richiesta del partito di maggioranza relativa che con il solo 32% pretenderebbe di esercitare una funzione egemonica nella formazione dell’esecutivo; 2) Non esiste più lo schema centrodestra / centrosinistra.Chi si è richiamato al centrosinistra alla fine si è trovato del tutto marginalizzato: il PD se n’è guardato bene reclamando per sé il “voto utile” ma senza indicare alcuna prospettiva di schieramento futuro. Ed era evidente anche lo spostamento d’asse che si stava verificando in quello che per mera convenzione è stato definito centrodestra(dal punto di vista dei contenuti espressi la definizione “centro” appare ormai del tutto superflua), ma che aveva mutato completamente pelle rispetto alla tradizione accumulata nei venticinque anni correnti dal’94 a oggi (difatti il richiamo a quella data, pure tentato dallo stesso Berlusconi, non ha funzionato e hanno fatto una brutta fine anche gli epigoni del centrismo e dell’appoggio ai governi Renzi - Gentiloni). Il fatto è che (lo ribadiamo) non c’è più il bipolarismo solo assetto del sistema,utile per definire due schieramenti nell’alternanza. Alternanza che dunque non è più verificabile come opzione possibile. Nella sparizione del bipolarismo si avverte anche un certo declino del meccanismo della personalizzazione; 3) Sarà comunque difficile uscire, nella prospettiva della costruzione di una maggioranza di governo, dallo schema impostato per l’elezione dei Presidenti delle Camere, tanto più che c’è chi rivendica il ritorno a una presunta “centralità del Parlamento”. Nello smarrimento generale della memoria è il caso di ricordare che la “centralità del Parlamento” (formula togliattiana: “Parlamento come specchio del paese”) può essere attuata soltanto attraverso l’adozione di una formula elettorale proporzionale ,tale da consentire l’espressione istituzionale delle più importanti espressioni politico – culturali presenti nel Paese e senza l’invenzione di coalizioni posticce utili soltanto a conseguire il primato in collegi uninominali “first-past-the-post” .L’esistenza dei collegi uninominali a fianco delle liste plurinominali (pasticcio attuato per poter disporre ancora una volta di un parlamento di “nominati”), in quest’occasione, ha rappresentato un vero e proprio monumento all’incultura politica di chi ha redatto il dispositivo. Al più, tornando al tema del governo futuribile, lo schema usato per eleggere i presidenti d’Aula potrà essere variato nel senso di qualche reciprocità d’astensione (il richiamo al 1976 è d’obbligo, anche se le proporzioni del tripolarismo in quel frangente erano molto diverse tra le forze più consistenti e vigeva ancora la “conventio ad excludendum”). Ma quello dell’estate di quarantadue anni fa (si votò il 20 giugno) e del governo Andreotti, monocolore della “non sfiducia” potrebbe rappresentare un richiamo storico in una qualche misura plausibile. Infine, tornando all’attualità, non sono da escludere scissioni o riallineamenti, sempre all’ordine del giorno in tutto l’arco dello schieramento politico quando il tema è quello del governo e gli equilibri precari e delicati.

LE CARTE INUTILI DELLA ROCCAFORTE MILANESE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

LE CARTE INUTILI DELLA ROCCAFORTE MILANESE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

lunedì 26 marzo 2018

Corbyn "sincerely sorry" for pain caused by antisemitism in Labour | LabourList

Corbyn "sincerely sorry" for pain caused by antisemitism in Labour | LabourList

PROGRAMMARE LO SVILUPPO PER RISPONDERE ALLE SFIDE DEL NOSTRO TEMPO di Sergio Ferrari – Dalla parte del torto

PROGRAMMARE LO SVILUPPO PER RISPONDERE ALLE SFIDE DEL NOSTRO TEMPO di Sergio Ferrari – Dalla parte del torto

Franco Astengo: Uno spunto di riflessione sul quadro politico

UNO SPUNTO DI RIFLESSIONE SUL QUADRO POLITICO di Franco Astengo Dopo l’elezione dei Presidenti dei due rami del Parlamento si può aprire un punto di riflessione attorno ad un elemento che è parso poco valutato dagli analisti. La doppia elezione si è verificata attraverso la composizione delle Camere così come determinata dall’esito di elezioni che sono state giustamente giudicate come “critiche” e foriere di un complessivo riallineamento del sistema politico italiano . Si è verificata, attraverso l’espressione del voto, una forte torsione a favore di chi ha lanciato slogan assolutamente distruttivi rispetto al recente passato e verso la collocazione europeista mantenuta dai precedenti governi e che è stata sonoramente bocciata da elettrici ed elettori. A questo punto si può aprire un punto di riflessione attorno ad un elemento che è parso poco valutato dagli analisti. Senza voler preventivare nulla al riguardo della prospettiva di governo la valutazione che, infatti, può essere sviluppata proprio nell’occasione delle elezioni dei Presidenti di Camera e Senato ci indica che la scelta riguardante la seconda carica dello Stato (presidenza del Senato) indica una figura che ancora di nuovo e sempre il nostro sistema alla situazione del 1994. Il nostro sistema politico appare infatti ancora saldamente connesso al gigantesco conflitto d’interessi che collega direttamente il sistema stesso all’azienda privata dominante nel campo della comunicazione televisiva (posizione dominante del resto confermata da un referendum popolare svoltosi nel 1995). La difesa della quotazione in borsa di Mediaset e del patrimonio personale del suo proprietario, oltre alla disponibilità della stessa azienda di trasmettere tre canali televisivi generalisti con relativi TG , notiziar, talk – show, trasmissione di approfondimento rimangono gli elementi centrali sui quali si misura ancora come sempre nel corso degli ultimi 25 anni l’intero sistema politico. Se questo è il “nuovo che avanza” portatoci in dote dall’affermazione di M5S e Lega auguriamoci che qualcuno ci salvi da un non meglio precisato (ma promesso dai rodomonti da campagna elettorale) “ritorno al futuro”. Fermato con il voto del 4 dicembre 2016 il tentativo svolto dal fu PD (R) di destabilizzare definitivamente il quadro costituzionale, nuovi ed eterni pericoli si addensano sulla nostra democrazia, che vorremmo resistenziale e repubblicana e che appare ancora in pericolo preda di convulsioni irrazionali che sembrano condurre alla fine ad una sorta di “attrazione finale” verso il vecchio “dominus” capace di dispensare a larghe mani iniezioni gratuite di anestesia sociale.

sabato 24 marzo 2018

Le macerie della sinistra - Sbilanciamoci.info

Le macerie della sinistra - Sbilanciamoci.info

La desertificazione renziana e i corpi intermedi "mutanti" - Sbilanciamoci.info

La desertificazione renziana e i corpi intermedi "mutanti" - Sbilanciamoci.info

Franco Astengo: Società e politica

SOCIETA’ CHIUSA / SOCIETA’ APERTA, DEMOCRAZIA di Franco Astengo E’ capitato tante volte, nel corso degli anni più recenti, di reclamare un aggiornamento della teoria classica “delle fratture”. La teoria delle “fratture” è stata elaborata dal politologo norvegese Stein Rokkan in collaborazione con Seymour Martin Lipset . Una teoria attraverso la quale s’individuano quattro fratture sociali (“cleavages” in inglese) della società moderna che secondo lui erano state la causa della nascita dei partiti come li abbiamo conosciuti almeno fino alla fase della globalizzazione. I cleavages sono delle fratture che mettono in conflitto gruppi sociali. Possiamo catalogarli secondo il tipo di conflitto che esiste tra loro in base all’asse (territoriale o funzionale) e in base alla rivoluzione (nazionale e industriale) in cui sono implicati. L’intento della richiesta di aggiornamento che era stata avanzata almeno dall’affermarsi di un’elevata “complessità sociale” era quello di collegare le fratture “storiche”, in particolare quella “capitale/lavoro” all’emergere di nuove fratture definite “post – materialiste” (in particolare quella di genere e quella ambientale) . Lo scopo di questa richiesta di aggiornamento era quello di determinare una nuova base teorica e una diversa capacità di lettura della società al fine di realizzare un rinnovamento nei partiti rendendoli adeguati a interpretare ciò che stava cambiando nell’assetto sociale, adeguando anche la loro struttura che stava inesorabilmente scivolando nella “liquidità” del partito personale, comitato elettorale separato da qualsiasi radicamento nel concreto della società. Questo intendimento non si è realizzato, anzi il rischio che stiamo correndo è quello che un aggiornamento si stia in effetti verificando ma posto su di un terreno arretrato sul quale potrebbero definirsi condizioni per un ritorno a una costruzione di strutture politiche del tipo di quelle precedenti alla prima rivoluzione industriale. E’ in atto, infatti, una vera e propria crisi profonda di quella che abbiamo definito “democrazia liberale” fondata sul suffragio universale e i Parlamenti e una ripresa di discorso attorno ad idee del tipo “democrazia dei notabili”, di voto limitato e di una forma di governo basata sulla personalizzazione e l’appoggio di piccoli gruppi di potere non sottoponibili a una verifica di massa (si è scritto di “fascismo senza dittatura”). Un quadro che potrebbe ulteriormente modificarsi se si pensa a ciò che sta accadendo sul terreno della mediazione politica che si realizza attraverso il web e che viene identificata come superamento della democrazia rappresentativa da parte della democrazia diretta veicolata esclusivamente dal dibattito via social network. Una situazione della quale stiamo verificando la pericolosità leggendo le notizie che ci arrivano nel merito della vicenda Facebook e soprattutto dell’idea di una “democrazia diretta” veicolata esclusivamente attraverso il web. La torsione individualistica dell’assetto sociale, fondata sul consumismo che si è realizzata in Occidente a partire dagli anni’80 del XX secolo e lo scontro tra questa e lo scompaginamento seguito dalla caduta del bipolarismo dei blocchi (da qualcuno scambiato come l’apertura di una sorta di “età dell’oro” e come “fine della storia) ha rappresentato la causa prima dell’involuzione dei soggetti di intermediazione politica fino a far pensare che, per governare un’inedita complessità sociale, si rendesse necessario un taglio della domanda e quindi l’assunzione di una responsabilità politica fondata sulla “governabilità” intesa quale fine esaustivo della politica. Una concezione della “governabilità” che alla fine ha portato a uno scontro con tutti i tentativi di natura globalista attraverso i quali si è cercato di affrontare il mutamento di paradigma che il procedere dell’innovazione tecnologica soprattutto nel campo della comunicazione stava imponendo . Queste opzioni globaliste che – oggi come oggi – appaiono in grandissima difficoltà di fronte al riproporsi addirittura dell’emergere, nelle grandi potenze, di tensioni di tipo imperialista. L’aggiornamento della “teoria delle fratture” e,di conseguenza, della base teorica sulla quale stanno formandosi i soggetti politici che agiranno verso la seconda fase del Secolo XXI, si sta insomma verificando attorno al nodo “società chiusa / società aperta”; un nodo che molti intendono per “sovranismo/globalismo”. Un dualismo che dovrebbe sostituire compiutamente quello tra capitale e lavoro e successivamente nella modificazione del rapporto tra struttura e sovrastruttura con l’ingresso in scena di quelle che sono state definite “fratture post – materialiste”. La situazione politica italiana appare contrassegnata in questo senso e potrebbe anche funzionare da laboratorio. Chi intende contrastare il tentativo egemonico di imporre il ritorno alla società chiusa intende fare fronte semplicisticamente attorno al concetto di “società aperta” attraverso la proposizione di un liberalismo dalla Popper. Si è mosso in questo senso Antonio Polito con un suo articolo apparso nei giorni scorsi sulle colonne del “Corriere della Sera”. Articolo dove si rilancia il pensiero del filosofo austriaco e i suoi avvertimenti a non trasformare la “società aperta” in una “società astratta” come sarebbe avvenuto nel corso di questi anni attraverso l’adozione acritica dell’innovazione tecnologica che (ne scriveva appunto già Popper) potrebbe condurre ad una società “depersonalizzata” esposta , quindi, ai colpi dell’idea di un potere sovrano fortemente concentrato come sola possibilità adatta per governarla. Il nostro compito allora non potrebbe essere altro che quello di lottare per difendere la “società aperta” che, secondo l’autore, “resta il sistema migliore per il benessere dei popoli che dobbiamo preservare a ogni costo anche da chi, di volta in volta, vince le elezioni.” Polito cita Pericle : “si tratta di legare l’individualismo con l’altruismo perché ci è stato insegnato di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere gli umili”. Una difesa della “società aperta” che chissà come potrà essere realizzata nel momento in cui pare riaprirsi nuovamente la faglia Oriente/Occidente e sta riformandosi, attorno al sovranismo di Trump, un nucleo d’acciaio della NATO con la Gran Bretagna della Brexit, la Francia e la Germania. Assistiamo comunque a una difesa della “società aperta” le cui motivazioni di riaffermazione paiono dimenticare l’esistenza di una “frattura” ancora determinante: quella relativa allo sfruttamento derivante prima dalla contraddizione “capitale – lavoro” e, in secondo luogo, dal soffocamento capitalistico sulle contraddizioni post – materialiste. Sfruttamento operante ben oltre le condizioni materiali di lavoro che colpisce l’insieme di una società sfibrata e ripiegata sulle proprie contraddizioni, alle quali non riesce (nell’insieme di una proposta di lettura della realtà sociale e politica) a fornire un senso e un’indicazione di prospettiva. Si è così’ determinato un vero e proprio “allargamento sociale” delle condizioni di classe ben oltre la fabbrica e i campi tanto per indicare luoghi fisici della rivoluzione industriale. Deve essere in nome dell’estensione del peso della condizione di classe a livello globale che riteniamo non si tratti, dal nostro punto di vista almeno, di difendere la “società aperta” ma, invece, di costruire le condizioni politiche perché possa affermarsi una radicale alternativa di sistema nel senso di una proposta di liberazione dallo sfruttamento globale. Il tema della liberazione dallo sfruttamento globale deve rimanere centrale nell’impostazione politica delle forze di opposizione che è necessario organizzare e rendere efficaci nella loro azione di radicamento e di proposta proprio perché la “società aperta” capitalistica rimane fondata sull’immutabilità di inaccettabili disuguaglianze che provocano sopraffazione. La capacità di immediatezza nella rappresentazione dei bisogni sociali rappresenta probabilmente la chiave per elaborare una prima efficace azione di resistenza a questo modificarsi nei termini dell’agibilità democratica. Sono già avvenuti tentativi in questo senso all’interno di un “caso italiano” che si rinnova e si rovescia nei suoi termini (opposti a quelli dell’avanzamento sociale verificatosi nel corso dei “trenta gloriosi”): pensiamo al “salazarismo soft” del governo Monti /Napolitano e al tentativo di riforma costituzionale di Renzi respinto dal voto popolare il 4 dicembre 2016. Tentativi che proseguiranno: all’interno e al di fuori del web.

I numeri per capire il voto dell’Italia del sud – Associazione Paolo Sylos Labini

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Brexit: a che punto siamo? | ISPI

Brexit: a che punto siamo? | ISPI

Sanders: Voglio parlare di quello che i media non raccontano – L'Argine

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The Trade Union Message To European Leaders

The Trade Union Message To European Leaders

Paolo Bagnoli: la tragica realtà dell'oggi

In attesa del nuovo numero de La Rivoluzione Democratica, l'articolo di Paolo Bagnoli pubblicato su “Non mollare” quindicinale post azionista | 016 | 19 marzo 2018. La biscondola di Paolo Bagnoli - “La tragica realtà dell’oggi”. E’ veramente difficile comprendere come possa evolvere il quadro politico dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Fermi restando i successi 5Stelle e Lega, la verità è che hanno perso tutte le formazioni in competizione. Non solo il Pd che, almeno alle apparenze, si è sdegnosamente e orgogliosamente ritirato in una specie di Aventino: quasi una legge del contrappasso per chi aspirava a essere, addirittura, “il partito della nazione”. Quanta e quale sia, in questi giorni, la diplomazia più o meno clandestina, si può immaginare. Alla fine tutti dichiarano di aspettare il Presidente della Repubblica che sicuramente sarà in attivo democristiano movimento per vedere quale possa essere una soluzione possibile e, in qualche misura, sufficientemente credibile. I due vincitori rivendicano la guida del governo, ma nessuno dei due esprime una capacità di soggetto coalizionale e, a nostro parere, i 5Stelle scontano la rivendicazione della loro diversità – una vera e propria estraneità rispetto a tutti gli altri – la quale, benché ammorbidita dalle banalità di Luigi Di Maio, persiste e salta fuori appena possibile. Ma può essere una giustificazione seria richiedere la presidenza della Camera perché si vogliono abolire i vitalizi? La cosa si commenta da sola! Matteo Salvini potrebbe benissimo staccarsi dai suoi compagni di coalizione e fare un governo coi grillini; tuttavia, mentre muovendosi con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni i suoi voti pesano di più e, con essi, il suo ruolo, andando per conto proprio risalterebbe subito come i voti della Lega siano la metà di quelli del 5Stelle. Cosa poi bolla nella pentola del Pd non si capisce. La sconfitta è stata di quelle cocenti e occorreva essere ciechi per non vedere come essa fosse nell’aria, ma ciò non giustifica il trinceramento dietro la dichiarazione che gli italiani lo hanno mandato all’opposizione. Se pur dall’opposizione una forza politica ha il dovere di proporre qualcosa, tanto più se vi sono difficoltà di colloquio tra gli altri due soggetti; insomma, unpartito deve avere, qualunque sia il suo stato, una proposta politica. La fallita formazione di Pietro Grasso la sua l’ha avanzata, se pur riguardante solo se stessa: appena derenzizzato il Pd i Liberi e Uguali sono pronti a rientrare, se abbiamo capito bene le ultime dichiarazioni di Roberto Speranza. Invece di bearsi all’opposizione il Pd potrebbe buttare sul tavolo una proposta alta e pure coraggiosa; ossia, considerata la situazione di emergenza nella quale ci troviamo, si faccia un governo sostenuto da tutti, presieduto da una personalità fuori dai giochi di ognuno, garantito dalla Presidenza della Repubblica, con un programma preciso; la sua durata si determinerebbe da sola: In tal modo il Pd non rinnegherebbe il ruolo di forza di opposizione, ma rientrerebbe nel giuoco politico gettando lo scompiglio negli altri e pure, pensiamo, ricompattando se stesso nell’attesa del congresso annunciato che rischia di risucchiarlo in una lacerazione senza limiti. Se rimane alla finestra può trovarsi, in breve tempo, a nuove elezioni che ne peggiorerebbero le condizioni lasciandolo senza potenziali interlocutori considerato che Forza Italia sembra aver intrapreso il cammino di una discesa difficilmente recuperabile. Questa la tragica realtà dell’oggi che segna un ulteriore sgretolamento di una sistema senza politica e senza partiti veri. Quanto continua a sorprendere è che nessuno, ma proprio nessuno, né tra gli addetti ai lavori né tra i maitres à penser, venga nemmeno sfiorato il problema di fondo: cosa bisogna fare per ricostruire la democrazia italiana? Nessuno se ne occupa, la questione non incontra attenzione alcuna: i risultati si vedono. Alla fine pure le lamentazioni hanno senso e, pericolosamente, torna fuori il tema della riforma della Costituzione che ha avanzato Dario Franceschini. La proposta è caduta nel vuoto, ma si tratta di un silenzio intrigante. Siamo convinti che il referendum del dicembre 2016 non abbia archiviato il problema e che ci si stia pensando più di quanto non traspaia, riversando ancora una volta sulla Costituzione le colpe della politica e di una classe politica inadeguata. Naturalmente le conseguenze sarebbero a grave detrimento della Repubblica e della politica democratica che le è strettamente connessa.

Scarso capitale sociale: il primo peccato dell’economia italiana | R. Targetti Lenti

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Che fine ha fatto la progressività dell’Irpef? | S.Boscolo

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L'Europa dei cittadini, antidoto al sovranismo | M.Bordignon

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giovedì 22 marzo 2018

Bullmann nuovo presidente dei S&D: “Rinnoviamo la socialdemocrazia insieme" - Eunews

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Sinistra Pd e LeU, ora servono calma e gesso - Lettera43.it

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What Italy’s Election Means for the EU by Lucrezia Reichlin - Project Syndicate

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Sergio Ferrari: Programmare lo sviluppo a sinistra

Programmare lo sviluppo a sinistra Sergio Ferrari Marzo 2018 Poiche in questi ultimi trimestri la variazione del nostro Pil non ha più il segno negativo e poiche questa variazione temporale del Pil nei trimestri più recenti sta superando i precedenti modesti andamenti, si è pensato di poter affermare che siamo usciti da quella crisi economica in atto, almeno nel nostro paese, da svariati decenni. In una economia come la nostra, compresa in un sistema di accordi quali quelli che danno luogo all'Unione europea, oltre che alle ovvie connessioni con l'economia internazionale, affermare che un segno positivo davanti al valore della variazione del Pil possa significare un andamento positivo di quella economia, è, in maniere evidente, una ipotesi che richiede di essere verificata e dimostrata. Su questa questione, peraltro, ci si è già soffermati varie volte. C'è, infatti, la concreta possibilità che a quella forzatura ottimistica possa corrispondere una diagnosi errata e, quindi, quel che sarebbe più grave, anche una terapia errata, che, di conseguenza, dovrebbe essere rapidamente corretta. Dalla Fig. 1 è del tutto evidente che a partire almeno dalla metà degli anni ‘90, gli andamenti del nostro Pil pro capite sono nettamente e crescentemente inferiori a quello dei 19 paesi dell’Unione Europea Confrontare gli andamenti del nostro Pil con l’andamento del Pil dei paesi nostri vicini rappresenta, dunque, la prima verifica di quella ipotesi ottimistica. Il fatto che questo divario esista e si conservi da svariati anni dovrebbe confermare, dunque, la necessità di una revisione critica di quelle affermazioni ottimistiche. A questo fine è necessario, anche per evitare considerazioni paraideologiche, cercare di individuare quando e cosa è capitato al nostro sistema socioeconomico che ne ha differenziato il comportamento rispetto a quello dei paesi nostri partner europei. Dalla Fig. 1 si evidenzia l’esistenza sin dagli anni ‘90 di un divario nell’andamento del Pil ma per cogliere una origine occorre risalire ad anni precedenti. Fig. 1 – Andamento del Pil pro-capite (Fonte: OECD) Misurando, quidi, l’andamento delle variazioni percentuali del Pil dell’Italia e della UE19, V.Fig. 2, si rileva una discontinuità con origini nella seconda metà degli anni ‘80 e con un progressivo ritardo nella crescita del Pil del nostro paese a partire da quegli anni. Se, dunque, gli anni del cambiamento nel comportamento economico del nostro paese rispetto a quello dei paesi nostri consimili appare ragionevolmente come quello indicato e cioè la seconda metà degli anni ottanta, il fenomeno che si verifica in questi anni è rappresentato da un cambiamento in negativo della competitività del nostro sistema industriale; in particolare questo ritardo nella crescita del Pil italiano trova una conferma nell’andamento della competitività tecnologica misurata, ad esempio, in termini di percentuale di ricercatori sul totale degli addetti impegnati dalle imprese. ( V. Fig 3 ). Fig. 3 - Numero percentuale di ricercatori ogni mille addetti nel sistema delle imprese industriali (Dati : OECD ) Come si vede i dati indicano, partendo dai primi anni ‘80, nel caso del nostro paese un andamento parallelo ma inferiore a quello degli altri paesi. Ma a partire dalla fine degli anni ottanta, mentre gli altri paesi accentuano il loro impegno tecnologico, il sistema delle imprese italiane si ferma, e, anzi, per una quindicina di anni riduce quell’impegno. Lo scenario che emerge da queste prime considerazioni sembra corrispondere, da un lato all'esistenza di una politica industriale arretrata ormai da alcuni decenni e, dall’altro, ad scelta di una competitività di prezzo a fronte di una scelta di competitività tecnologica da parte dei paesi UE19. L’andamento negativo della bilancia commerciale nei prodotto ad alta tecnologia, contrariamente a quanto si verifica da parte dei paesi avanzati, (V. Fig. 4 ) conferma questa differente scelta di politica economica da parte delle nostre imprese. Fig. 4 - Saldi Bilancia Commerciale Prodotti HT ($) ( Fonte: Osservatorio ENEA ) Questa questione della relazione tra lo sviluppo tecnologico e lo sviluppo economico-sociale viene trattata a livello politico sin dal 1945 quando Vannevar Bush, consigliere del presidente USA F. C. Roosevelt, delinea una stratigraphy di sviluppo post bellica basata sull'economia della conoscenza. Poichè, come ci ricorda Pietro Greco, la ricetta di Bush " è ancora applicabile" , rinviamo, per le questioni di merito, a quel lavoro, spostando l’attenzione su un interrogativo e cioè sul come mai nel nostro Paese quella ricetta non solo resta di fatto ignorata ma, anzi, viene praticata all'incontrario sino al punto di considerare la spesa pubblica in Ricerca un onere da ridurre con provvedimenti vari - dal turnover del personale, ai vincoli di bilancio nella sostituzione dei pensionati, ai blocchi contrattuali, alle riduzioni dei finanziamenti, ecc. - ma tutti convergenti verso questo obiettivo. Ancora più significativo appare l’andamento della spesa delle imprese in R&S che, infatti, dalla metà degli anni ‘80 abbandonano la progressione di questa spesa, contrariamente a quanto si verifica nei paesi avanzati. Tutto questo in coerenza con le politiche industriali perseguite che tendono, invece, ad incidere sul costo e sulla flessibilità del fattore lavoro. In definitiva mentre si persegue una politica di accentuazione della competitività del fattore lavoro, si subisce senza interventi correttivi una riduzione della competitività tecnologica. Si aprono, a questo punto, una serie di questioni che verranno qui di seguito solo accennate poichè ognuna di queste meriterebbe una analisi e una riflessione specifica, per essere poi ricondotte alla questione generale del ritardo di elaborazione in materia di politica economica e industriale, con tutto quel che ne consegue, da parte della sinistra. Un ritardo che nel caso dello sviluppo tecnologico rischia di emarginarla da ogni possibile ruolo politico, non essendo possibile affrontare le logiche negative dello sviluppo tecnologico con le politiche della conservazione; anche perchè il conseguente ritardo si coniuga strettamente con quello sul versante dell'analisi sociale, con una visione del “proletario" come soggetto immutabile e conservatore, come se al di fuori di quella visione ci possa essere solo una concezione "capitalistica", mentre è vero esattamente il contrario. Un ritardo che nel nostro paese assume delle dimensioni tali da concorrere, non a caso, alla sua collocazione sul fondo delle classifiche dei paesi sviluppati e ai margini della dinamica dello sviluppo. L'andamento del numero degli addetti alla ricerca nel settore industriale (v. Grafico 1) riassume questa nostra situazione in termini tali da rendere evidente le difficoltà se non ormai, l'impossibilità di un recupero economico basato sulla capacità del sistema produttivo privato e, quindi, senza un forte e specifico intervento del livello pubblico. Nel momento che per cause internazionali - moltiplicazione dei prezzi petroliferi e avvio di una nuova rivoluzione tecnologica - si determina la necessità di una scelta in materia di utilizzo delle conoscenze scientifiche ai fini dello sviluppo, il nostro paese, come si è visto, compie una scelta differente, di conservazione della struttura produttiva preesistente. Nel nostro caso il divario, sulla bilancia commerciale in materia di prodotti ad alta tecnologia, si pensa di compensarlo con lo strumento della svalutazione della lira, sino al momento che anche questo viene a mancare a seguito dell’avvento dell'unione monetaria europea e, quindi, accentuando, dai primi anni 2000 in poi, il nostro divario di sviluppo. Occorre segnalare che solo in anni più recenti sono, finalmente, incominciate ad apparire analisi e riflessioni, anche autorevoli, nelle quali la considerazione verso gli effetti della globalizzazione e del progresso tecnologico assumono un ruolo centrale nell’analisi della crisi del nostro Paese. Ad esempio Fabrizio Onida in una Nota del 13 settembre 2012 rivolta al Rapporto coordinato per conto del Governa da Francesco Giavazzi, si domanda, forse con una certe retorica, se “ al di là dell'entità dei (pochi) incentivi disponibili per le imprese, vogliamo seriamente ripensare a qualche progetto tecnologico trasversale che valorizzi taluni nostri vantaggi competitivi già esistenti (es. meccatronica e robotica, bio-scienze, nuovi materiali), cofinanziato dal settore privato e guidato da personaggi di indiscussa competenze e indipendenza? Vogliamo rivedere in questa luce ruolo e missione operativa delle istituzioni pubbliche di ricerca, a cominciare da Cnr, Infn, Enea, Iit?”. (http://Sole24Ore). Scrive inoltre Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, in un intervento alla Fondazione Cini nel gennaio 2018 che “I benefici della globalizzazione e del progresso tecnologico …. non sono stati distribuiti equamente né tra le famiglie all’interno di ogni paese …..nè tra i Paesi. L’Italia è tra quei paesi che sono stati colti impreparati dall’arrivo di questi fenomeni.”. Si tratta di un cambiamento di analisi fondamentale ma che non può cambiare gli effetti di una impreparazione che, durata alcuni decenni, non è più eliminabile con qualche decreto più o meno elettorale o con qualche incentivo finanziario risultato, già in precedenti tentativi, privo di un qualche, anche minimo, effetto. Peraltro la politica ufficiale è ancora espressa da quella impreparazione culturale e da quegli interessi economici non in grado di impostare un positivo quanto necessario rapporto con le strutture della ricerca pubblica. Ne sono la prova quelle trecento e passa pagine che, sottoscritte dal Ministro dello sviluppo e dal Ministro dell’ambiente a metà 2017, costituiscono un proposta di Nuova Strategia Energetica; una strategia che, per la verità, non si accorge nemmeno che il nostro paese sta incentivando l’acquisto all’estero degli impianti fotovoltaici con un conseguente maggior costo del kwh prodotto e con un onere sulla bilancia dei pagamenti che potrebbe invece, nel caso specifico, essere ridotto a zero e a vantaggio anche dello sviluppo quali e quantitativo del fattore lavoro. E non si accorge nemmeno che la difesa dell’uso del metano dovrebbe, come minimo, tener presente i maggiori oneri ambientali in termini di effetto serra, connessi con le relative perdite di quel gas nei circuiti di trasmissione. In definitiva continua a crescere l’accumulazione dei ritardi con effetti non rimediabili con le solite politiche degli incentivi dal momento che, ad esempio, non è così che si realizzano quelle nuove strutture capaci di affrontare la Programmazione dell’Innovazione. cioè la capacità di realizzare nuovi prodotti/processi scelti e valutati a tavolino sapendo che il cumulo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sarà tale da consentirne la realizzazione. Uno strumento che presuppone l'esistenza non solo di un Sistema Nazionale dell'Innovazione, ad oggi inesistente, ma anche di una capacità analitica e di studio in grado di articolare le valutazioni, le scelte e le partecipazioni. Una operazione che metta in evidenza, tra l'altro, la questione del controllo sociale dello sviluppo tecnologico in base non solo a valutazioni d'interesse economico generale ma anche dei rischi di varia natura altrimenti difficilmente evitabili se quel potenziale innovativo viene lasciato libero di manifestarsi senza una valutazione e un controllo preventivo. Non è certo questa l'occasione per percorrere questa storia plurisecolare, se non per evidenziare come la sinistra non abbia potuto incidere, se non raramente, sulle scelte produttive ma piuttosto si sia spesa per accrescere le condizioni economiche di quel proletariato, sino alle situazioni attuali che, insieme alla fruizione dello stato sociale - dall'istruzione alla pensione, alla sanità e alle conseguenti modificazioni della domanda - ne hanno avvicinato le condizioni a quelle del ceto medio Questo a sua volta è stato coinvolto nelle logiche dello sviluppo capitalistico e nella conservazione del saggio di profitto per cui, attualmente le condizione economiche dei membri della classe operaia si confondono con molte di quelle degli appartenenti a questo ceto medio. . Per entrambi resta valida la condizione sociale subalterna per cui esiste un ceto capitalistico e imprenditoriale al quale viene assegnato il compito di “comandare” non solo sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche nelle logiche stesse dell'ubbidire in termini “del se lavorare, del come lavorare e del cosa fare”, e un ceto subalterno dove il livello di subalternità sociale ed economica è il fattore unificante tra ceto medio e classe operaia. Poichè nella realtà della situazione italiana il ricorso all’intervento pubblico non viene più contestato ma piuttosto s’intende gestirlo per evitare che le decisioni conseguenti modifichino i ruoli sociali degli attori (le nuovo bozze della Strategia Energetica Nazionale ne sono un esempio molto chiaro) è opportuno ricordare che il ritardo accumulato dal nostro paese è una conseguenza dei limiti culturali della nostra attuale classe dirigente per la quale le spiegazioni del ritardo competitivo del nostro paese sono da ricercare sempre e solo nei difetti dell’azione pubblica: tempi troppo lunghi, corruzione, scarsa competenza, costi eccessivi, sottogoverno, ecc... Non si tratta certo di negare l’esistenza di questi “malfunzionamenti”, quanto piuttosto di mettere ordine tra cause ed effetti. A questo punto è opportuno assumere la plurisecolare visione dei valori dell'eguaglianza e della libertà come capisaldi di una visione di sinistra dal momento che, altrimenti, navigando senza storia e senza memoria, non solo si può mettere in discussione quei valori ma, ed è un aspetto essenziale, la loro esistenza, il loro sviluppo e la loro realizzazione. Se la sinistra non organizza queste funzioni e questi strumenti a livello pubblico, dovrà necessariamente perdere anche ogni influenza in materia di distribuzione delle ricchezza e, a maggior ragione, dei ruoli sociali. L'azione di promozione di quei due capisaldi si è sviluppata, per motivi comprensibili, essenzialmente sulle condizioni economiche della classe operaia, piuttosto che quella relative all'articolazione dei ruoli sociali. Sulle condizioni economiche di “vendita” del lavoro si è concentrata l'azione della sinistra e del sindacato, trovando qualche margine anche nella logica del saggio di profitto per cui dovendo accrescerlo o anche solo conservarlo, il capitale doveva alle volte, affrontare la crescita quantitativa ma anche qualitativa del cosi detto proletariato. Questo a sua volta è stato coinvolto nelle logiche dello sviluppo capitalistico e nella conservazione del saggio di profitto per cui, attualmente le condizione economiche dei membri della classe operaia si confondono con molte di quelle degli appartenenti a questo ceto medio. Ma per entrambi resta valida la condizione sociale subalterna per cui esiste un ceto capitalistico e imprenditoriale al quale viene assegnato il compito di “comandare” non solo sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche nelle logiche stesse dell'ubbidire in termini “del se lavorare, del come lavorare e del cosa fare”, e un ceto subalterno dove il livello di subalternità sociale ed economica è il fattore unificante tra ceto medio e classe operaia. Poichè nella realtà della situazione italiana il ricorso all’intervento pubblico non viene più contestato ma piuttosto s’intende gestirlo per evitare che le decisioni conseguenti modifichino i ruoli sociali degli attori (le nuovo bozze della Strategia Energetica Nazionale ne sono un esempio molto chiaro) è opportuno ricordare che il ritardo accumulato dal nostro paese è una conseguenza dei limiti culturali della nostra attuale classe dirigente. Nel frattempo è, dunque, necessario aggiornare gli strumenti che lo stesso capitalismo ha inteso e intende sviluppare per continuare a svolgere quel ruolo sociale necessaries per orientare e incidere sulle problematiche dello sviluppo e sulle politiche economiche e sociali conseguenti. Si tratta di una condizione operativa che deve annoverare tra gli strumenti d'intervento in materia di politica economica, l'esistenza e lo sviluppo di un nuovo “strumento”: la programmazione dell'innovazione, cioè la capacità di realizzare nuovi prodotti/processi scelti e valutati a tavolino sapendo che il cumulo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sarà tale da consentirne la realizzazione. Uno strumento che presuppone l'esistenza non solo di un Sistema Nazionale dell'Innovazione, ma di una capacità analitica e di studio in grado di articolare le valutazioni e le partecipazioni. Una operazione che mette in evidenza, tra l'altro, la questione del controllo sociale dello sviluppo tecnologico in base non solo a valutazioni d'interesse economico generale ma anche dei rischi di varia natura altrimenti difficilmente evitabili. Infatti se quel potenziale innovativo viene lasciato libero di manifestarsi senza una valutazione e un controllo, le conseguenze sociali possono essere le più differenti. A questo punto è opportuno esaminare la plurisecolare visione dei valori dell'eguaglianza e della libertà come capisaldi di una visione di sinistra dal momento che quel nuovo “strumento” non solo può mettere in discussione quei valori ma, ed è un aspetto essenziale, il loro sviluppo e la loro realizzazione. L'azione di promozione di questi due capisaldi, ha avuto, come è noto, varie versioni ma, in generale, si è sviluppata, per motivi comprensibili, essenzialmente l'intervento sulle condizioni economiche della classe operaia, piuttosto che quella relative all'articolazione dei ruoli sociali. Sulle condizioni economiche di “vendita” del lavoro si è concentrata l’intervento non solo dell’imprenditore” ma anche l'azione della sinistra e del sindacato trovando margini anche nella logica del saggio di profitto per cui dovendo accrescerlo o anche solo conservarlo, il capitale doveva alle volte, affrontare la crescita quantitativa ma anche qualitativa del cosi detto proletariato. Non è certo questa l'occasione per percorrere questa storia plurisecolare, se non per evidenziare come la sinistra non abbia potuto incidere, se non raramente, sulle scelte produttive ma piuttosto si sia spesa per accrescere le condizioni economiche di quel proletariato, sino alle situazioni attuali che, insieme alla fruizione dello stato sociale - dall'istruzione alla pensione e alle conseguenti modificazioni della domanda - ne hanno avvicinato le condizioni a quelle del ceto medio. Questo a sua volta è stato coinvolto nelle logiche dello sviluppo capitalistico e nella conservazione del saggio di profitto per cui, attualmente le condizione economiche dei membri della classe operaia si confondono con molte di quelle degli appartenenti a questo ceto medio. Per entrambi resta valida la condizione sociale subalterna per cui esiste un ceto capitalistico e imprenditoriale al quale viene assegnato il compito di “comandare” non solo sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche nelle logiche stesse dell'ubbidire in termini “del se lavorare, del come lavorare e del cosa fare”, e un ceto subalterno dove il livello di subalternità sociale ed economica è il fattore unificante tra classe operaia e ceto medio. Un ceto medio dal quale è stata sottratta una frazione, il ceto imprenditoriale, assegnando a questa frazione il compito di agevolare l’esistenza del capitalismo sviluppando in parallele l’economia finanziaria. Volendo concludere momentaneamente con una breve indicazione delle linee politiche da assumere inizialmente per intraprendere un percorso di ammodernamento politico, economico e sociale del nostro sistema produttivo, partendo dalla formazione per arrivare alla competitività internazionale e alle logiche della qualità dello sviluppo, è possibile indicare un primo elenco di iniziative e di decisioni politiche: 1- Istituire una Segretariato presso la Presidenza del Consiglio con il compito di coordinare la presenza del Paese nelle sedi Europee e in quelle internazionali connesse con la definizione/attuazione degli indirizzi strategici in materia di R.S.I; curare la definizione e il coordinamento della nostra partecipazione nei Progetti R.S.I. multidisciplinari; 2 – Assicurare una crescita del finanziamento a tutte le strutture pubbliche di ricerca con un aumento minino del 10% annuo per i prossimi cinque anni, assicurando comunque una quota di questi finanziamenti alle attività di ricerca fondamentali e libere. Creare uno strumento scientifico-finanziario in grado di valutare e assicurare le necessità finanziarie connesse con l’attuazione delle fasi finali dei processi innovativi e competitivi. 3 –In materia di formazione, dalla scuola materna a quella dell’obbligo, sino all’ottenimento della Laurea, il Ministero della P.I. oltre a valutare le dotazioni necessarie sia in materia di insegnanti che di studenti, dovrà sviluppare tutte le iniziative tese a promuovere le logiche connesse con la natura pubblica di tale formazione. 4- Rinnovare il quadro dirigente delle strutture pubbliche di R.S.I. in coerenza con i nuovi obiettivi posti a tali strutture e inserire la rappresentanza dei ricercatori nella gestione di tali organismi; definire le norme generali del rapporto di lavoro per tutti i dipendenti degli Enti nazionali di ricerca e, da parte del Ministero della P.I., sentito il Segretariato, le relazioni contrattuali relative a tutto il personale delle Scuola e dell’Università 5– Avviare la costruzione di una politica europea unitaria tra le forze di sinistra incominciando dalle relazioni sociali, dalla costruzione di una comune etica del lavoro e del capitale, dal controllo della politica finanziaria e dalla comune specificazione delle norme ambientali.

martedì 20 marzo 2018

Il salario minimo in Europa: differenze, potenzialità e problemi - Menabò di Etica ed Economia

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La sinistra, la globalizzazione e il pensiero “liberal“ - Menabò di Etica ed Economia

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Reddito di cittadinanza: chi ha ragione e chi ha torto? - Menabò di Etica ed Economia

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Franco Astengo: Sistema politico italiano

SISTEMA POLITICO ITALIANO: CRISI E CRITICA (con un inusuale riferimento storico) di Franco Astengo Fatta salva la necessaria tara da conteggiare rispetto alle giravolte già verificatesi in campagna elettorale e visibili anche in queste ore si può comunque affermare che, soprattutto rispetto all’immaginario collettivo, la crisi del sistema politico italiano si sia assestata sull’asse: sovranisti / europeisti. Con tutta l’attenzione alle sfumature del caso riteniamo si possa così identificare la costante critica al sistema che aveva assunto da diversi anni quella vesta che autorevoli commentatori avevano definito “populista/antipolitica”. Adottando questa visione potrà apparire più semplice e chiara la dinamica in atto all’inizio della XVIII legislatura. Ci troviamo, insomma, al (provvisorio?) epilogo di un processo di transizione che prosegue ormai da moltissimi anni e che ha visto la disintegrazione del sistema dei partiti che avevano retto la Repubblica tra il 1945 e il 1990 con il successivo tentativo di tramutare il sistema in bipolare (con due tentativi falliti di modificare la costituzione) esaurito nel primo decennio 2000, l’ulteriore modifica del sistema elettorale poi bocciata inesorabilmente dalla Consulta, un ulteriore tentativo di modifica costituzionale e in contemporanea una proposta di legge elettorale suffraganti il progetto di spostamento dalla centralità del Parlamento (nel frattempo del tutto ridotta dall’emergere della “Costituzione Materiale”) al Governo. Il tutto fallito grazie al combinato disposto del voto popolare e di un’ulteriore sentenza dell’Alta Corte. Alla fine l’esito cui si accennava verificatosi in un clima di surreale disfatta collettiva. Esito avvenuto attraverso il funzionamento di una legge elettorale con la quale si è votato il 4 marzo e che sarà con ogni probabilità ancora bocciata all’esame di diritto costituzionale e mentre emergevano nuove grandi contraddizioni sociali e politiche. Nel frattempo, da ricordare ancora come si siano disfatti i legami sociali dei partiti trasformatisi via via in “pigliatutti”, “azienda”, “personali” e sia calata verticalmente la partecipazione al voto. Ricordiamo allora questi dati del 4 marzo 2018: elettori iscritti 46. 505. 499 voti validi 32.825.399 astenuti (non presenti al seggio, bianche, nulle) 13.680.100 (29,41% sul totale degli aventi diritto). Partiti “sovranisti” (Lega – FdI – Movimento 5 stelle: quest’ultimo ancora conteggiato da questa parte nonostante le giravolte verbali già effettuate ed anche quelle “in pectore”): 17.816.479 (38,31% sul totale degli aventi diritto) Partiti Europeisti (PD, FI, LeU, + Europa, UDC) 13.635.097 (29,31% sul totale degli aventi diritto). E’ possibile considerare questo il nuovo schema di riferimento del sistema politico italiano? Difficile affermarlo con certezza ma, a questo punto, negarlo sarebbe nascondere la testa sotto la sabbia. Lo scopo di questo intervento però è quello di presentare un’ipotesi “storica” circa il punto di rottura del sistema rispondendo alla domanda: “Quando e su quale punto si avviò la discesa della “Repubblica dei Partiti” (da Pietro Scoppola) fino alla frantumazione del sistema?”. Molto prima, a giudizio di chi scrive, delle tre concomitanti cause cui normalmente si attribuisce l’origine del fenomeno: caduta del muro di Berlino e scioglimento del PCI, vincoli imposti dal trattato di Maastricht (1992, governo Andreotti, firmano De Michelis e Carli), Tangentopoli e scioglimento di DC e PSI. Il punto di rottura, uno scricchiolio avvertito da pochissimi, si verificò infatti l’11 Giugno 1978: erano appena terminati i drammatici 55 giorni del rapimento Moro, si era alla vigilia dell’elezione di Pertini a Presidente della Repubblica, era in carica un governo Andreotti monocolore democristiano cui avevano votato la fiducia anche PCI, PSI, PRI, PSDI. Voto di fiducia che era stato dato proprio nel giorno drammatico del rapimento del presidente DC. Era quello il quadro politico emerso dalle elezioni del 20 giugno 1976: sicuramente sul piano numerico il punto più alto raggiunto dalla già citata “Repubblica dei Partiti”. Quel giorno il totale degli scritti era stato di 40.426.658 e il totale dei voti validi di 36.707.507 pari al 90.80%. Dunque in quel già ricordato 11 giugno 1978 elettrici ed elettori erano stati chiamati a votare due referendum, l’uno riguardante la cosiddetta “legge Reale” , dal nome del ministro della Giustizia repubblicano, concernente norme riguardanti l’ordine pubblico in tempo di terrorismo, l’altro relativo alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Finanziamento pubblico ai partiti introdotto nel nostro ordinamento nel 1974, per fronteggiare una situazione di corruzione politica che aveva raggiunto in quegli anni punte particolarmente elevate con lo “scandalo dei petroli” scoperto dai pretori genovesi cosiddetti “d’assalto” Sansa, Brusco e Almerighi. In realtà quasi nessuno si accorse che si stava procedendo ad una sorta di voto di fiducia rivolto al sistema. Voto di fiducia popolare che si verificava in un momento assolutamente topico per la vita della Nazione. Il finanziamento pubblico ai partiti restò in vita ma la bocciatura ai partiti della solidarietà nazionale fu solenne (forse il gruppo dirigente del PSI intuì qualcosa, ma non fu sufficiente, anche perché da lì prese le mosse una proposta di torsione autoritaria del sistema attraverso l’espressione del famoso “decisionismo” e l’idea della “Grande Riforma”). In ogni caso: elettrici ed elettori iscritti erano 41.248.657, i voti validi depositati nell’urna furono 31.410.378 (76,14%, quindi 14,66% in meno del 20 giugno 1976). Il no all’abrogazione della legge (voto sostenuto da DC, PCI, PSDI, PRI, SVP) ottenne 17.718.478 voti pari al 42,95% del totale degli aventi diritto. Il 20 giugno 1976 i cinque partiti avevano ottenuto 32.923.891 voti. Erano stati lasciati sul campo ben 15,205.413 voti in due anni e quelli che erano tempi nei quali le indicazioni dei partiti (in particolare a sinistra, se si pensa al referendum sul divorzio) erano state fin a quel punto seguite con notevole attenzione. Alle successive elezioni del 1979 cominciò a calare sensibilmente la percentuale dei voti validi anche in occasione delle politiche: su 42.203.354 iscritti, i voti validi furono 36.671.308 (86,89%, - 4% rispetto al 1976); quindi successivamente l’ingresso sul piano parlamentare delle rappresentanze di contraddizioni fino a quel punto inedite a quel livello (ambientale con i Verdi, centro/periferia con la Lega Lombarda) e gli altri fatti che sono già stati ricordati e che hanno svolto la funzione di radicale riallineamento sistemico, fino alla frana di questi giorni. Ricordare però quel massiccio rifiuto del finanziamento ai partiti rimasto inascoltato trincerandosi le élite dietro ad una maggioranza esigua va ricordato per tentare di riflettere meglio anche sull’oggi. Era quello suonato l’11 giugno 1978, preciso e significativo un segnale di distacco, di rifiuto, che poi avrebbe preso forma e peso sempre più consistente fino ad affermarsi egemone nell’oggi con il coinvolgimento progressivo delle giovani generazioni e l’esasperazione di quelle più anziane.

Modello Milano? A Roma non è mai piaciuto | | lavocemetropolitana

Modello Milano? A Roma non è mai piaciuto | | lavocemetropolitana

giovedì 15 marzo 2018

Franco Astengo: Un nuovo "caso italiano"?

UN NUOVO “CASO ITALIANO”? di Franco Astengo Nelle more del post –elezioni del 4 marzo si profila la possibilità del verificarsi di un nuovo “caso italiano”, del tutto anomalo perlomeno rispetto al quadro europeo. Un “caso italiano” ben diverso da quello degli anni ’60 – ’70 del secolo scorso, allorquando la sinistra nel nostro assunse il ruolo di punta avanzata sotto il predominio del Partito Comunista fondandosi socialmente su quella che era considerata la classe operaia “forte, stabile, concentrata” fornendo così dall’opposizione (almeno sul piano nazionale, ma con robuste quote di governo nelle amministrazioni locali) un eccezionale contributo alla modernizzazione e alla costruzione del welfare. Il tutto in tempi di bipolarismo, sia interno, sia esterno. Oggi l’interrogativo che si pone è ben diverso. Potrà essere canalizzata nel quadro della “governabilità” una protesta diffusa (con punte significative di vero e proprio “rancore sociale”: un “rancore sociale” che emerge anche , ad esempio, in Francia e negli Stati Uniti esprimendosi in forti conflitti locali) proveniente da diverse parti, al Nord come al Sud e orientata da due forze politiche che hanno assunto nel frattempo precise caratteristiche proprie sul piano dell’identità socio – geografica e della struttura, obbedendo ai canoni imposti dall’innovazione tecnologica delle relazioni sociali e offrendo l’immaginario della personalizzazione della politica? Tanto più che questa “governabilità” resterà fortemente condizionata, in perfetta continuità con le sue espressioni immediatamente precedenti, da un fortissimo vincolo esterno rappresentato dalla politica monetarista dai “cerchi ristretti” imposta dall’UE e accettata in Italia dalle forze politiche al punto da indurle a modificare, in questo senso, la stessa Carta Costituzionale? Una protesta , quella espressasi nelle urne il 4 marzo, che si è anche espressa –è bene ricordarlo – con una dimostrazione di ampia disaffezione e che proviene, comunque, da una società sfibrata, sfrangiata, fortemente impoverita, percorsa da paure di vario genere prima fra tutte quella riguardante i migranti. Una società dominata dall’egemonia, affermatasi ormai da un trentennio, dell’individualismo consumistico nella quale si sono allentati i legami sociali e la prospettiva di rapporto con la politica è stata mediata dalla corruzione e dall’inefficienza del “pubblico”. Come reagirà questo particolare quadro sociale al richiamo della “governabilità” che alla fine M5S e Lega Nord non potranno rifiutare restando all’interno – sostanzialmente – del perimetro di compatibilità imposto dai loro predecessori. Quale sponda cercheranno protesta e rancore di massa proprio nel momento in cui si sta registrando un punto di vera e propria “cesura”, di arretramento storico e pare prevalere il ritorno agli imperialismi e le democrazie liberali paiono convertire il paradigma del governo con quello del comando? Un mutamento di fronte così ampio come quello dimostratosi con il voto del 4 marzo non troverà espressione in un adeguato radicale cambiamento delle opzioni di governo : governo che alla fine, sui contenuti,non potrà far altro che cercare un assestamento di stampo “doroteo”. Il “caso italiano” ancor oggi provvisto di un robusto punto interrogativo potrebbe così evaporare rapidamente nel nulla delle ambizioni di nuovi “cerchi magici” usi ad intendere la pratica politica come pratica per il potere. Una “elettoralizzazione della protesta” da parte di M5S e Lega che, alla fine, potrebbe rappresentare uno dei più significativi esempi del – come si diceva un tempo- “lavorare per il Re di Prussia”. Svanirebbero così i timori di tanti benpensanti (che conserveranno le loro cattedre, i loro posti in redazione, i loro schermi televisivi) ma che ne sarà della ventata di protesta e soprattutto quando si riuscirà ad affrontare il tema del nuovo sfruttamento di massa imposto dai sempiterni padroni delle leve del comando che oggi si esprimono nella chiusura di un recrudescenze sovranismo? Il lato oscuro di questa vicenda potrebbe essere rappresentato da un contraccolpo secco a livello di scompaginamento sociale dovuto alla “delusione della protesta” fornendo così lo spazio (attraverso il varo di una legge elettorale fortemente maggioritaria) per l’aprirsi di un varco per un restringimento effettivo nei margini di agibilità democratica e di spostamento d’asse dal Parlamento al Governo. La prospettiva sarebbe quella di una sorta di “salazarismo soft”, fase del resto che abbiamo già assaggiato tra il 2011 e il 2016 con l’azione presidenziale di Napolitano e l’occupazione del potere da parte del “giglio magico e associati”. Operazione stoppata dall’esito referendario, attraverso il quale si aprì il vaso di Pandora ma che oggi potrebbe tornare alla ribalta, magari con gli stessi protagonisti del periodo centrale di quella fase rivestiti dell’immagine da “Macron de noantri”. La debolezza strutturale dell’impianto politico presentato dai presunti vincitori del 4 marzo (e la stessa debolezza della loro base di confuso riferimento) lascia aperta la porta ad una pericolosa possibilità di questo genere. Unica indicazione di conseguenza: massima vigilanza democratica.

Valdo Spini: Necessità di una sinistra nuova

Necessità di una sinistra nuova Di Valdo Spini Trai risultati realmente epocali delle elezioni del 4 marzo 2O18 c’è quello che riguarda la sinistra o, come si dice ora, il centro-sinistra. Giustamente Giovanni Sabbatucci aveva richiamato che la somma socialisti-comunisti e liste affini era rimasta stabile per tutto il corso della “prima” repubblica. Dalle elezioni del 1946 almeno fino a quelle del 1987 i due partiti hanno sempre totalizzato più del 40% dell’elettorato, naturalmente con una composizione diversa di questa sommatoria: nel 1946 divisa a metà con una lieve superiorità dei socialisti, poi via con una netta redistribuzione a favore dei comunisti fino all’avvento di Craxi, che operò un parziale recupero a favore del Psi. Durante la seconda repubblica con tutti i nuovi partiti che sono via via sorti nell’area di centro-sinistra si arrivò al 33% circa con il Pd di Veltroni e al 38$ della sua coalizione. Ora, in queste elezioni siamo arrivati ad un Pd che va sotto il 20%, (partendo dal 40,8% dell’europee del 2014) ad una nuova formazione la Leu, che nonostante la presenza dei presidenti uscenti delle due camere supera di poco la soglia di sbarramento del 3% e una lista ancora più a sinistra, Potere al Popolo che supera di poco l’1%. Totale: 25%. Un risultato drammatico, anche se certamente in Europa non isolato e le cui radici stanno evidentemente nell’evoluzione economica e sociale susseguente alla crisi del 2007-2008. Direi drammatico, anche perché per molti versi, dagli interessati inatteso. Se le radici strutturali di questo risultato stanno nelle crescenti disuguaglianze e nel senso di esclusione che questo risultato ha generato, quelle politiche affondano nel modo in cui si è affrontata la vittoria del NO al referendum del dicembre 2016. Matteo Renzi aveva due scelte serie di fonte a sé. O ritirarsi realmente lasciando che il Pd cercasse di risalire la china con dirigenti e approcci diversi, (salvo ritornare ove richiamato) oppure aprire al no cooptando idee, ragioni ed esponenti del NO nell’attività di governo e nella ristrutturazione del partito. Ha scelto un terzo approccio, quello della rivincita, che si è dimostrato fallimentare. In questo senso mi sentirei di dire che Il Partito Democratico si è rivelato come un partito frettolosamente costituito e frettolosamente diviso. Oggi è al tempo stesso l’ago della bilancia della soluzione di governo postelettorale, ma anche il campo di tensione della stessa, percorso com’è dalle scosse elettriche delle possibili soluzioni. Il Pd sembra quasi invitare le due forze uscite vittoriose dalle urne, Movimento 5Stelle e Lega a formare un’alleanza, rispetto alla quale assumere una chiara posizione di opposizione. Ma se questo non avviene? A prendere sul serio le pronunce del Pd avverso ad alleanze sia col Movimento 5 stelle che con il centro-destra, c’è da credere che o col governo Gentiloni o con un brevissimo governo di scopo sostenuto da tutti si vada a breve termine a nuove votazioni, magari precedute da una piccola ma incisiva riforma elettorale. Nuove elezioni a breve in che condizioni troverebbero l’area di sinistra e di centro-sinistra e il Pd in particolare? E in questo caso bastano per rilanciare il Pd la prospettiva di assemblee interne di partito, aperte magari alla partecipazione di qualche esterno? Piuttosto si dovrebbe invece cercare attraverso dialoghi nella società civile e con le diaspore politiche che si sono formate, di arrivare ad una vera costituente, che si proponga innanzitutto di definire che cosa sia una sinistra di governo e di unirsi intorno a questa comune presa di coscienza. L’iniziativa di dibattito presa dalla Fondazione Circolo Rosselli vuole proprio invitare la società civile che si riconosce nei valori del centro-sinistra e della sinistra a fare sentire la propria voce.

lunedì 12 marzo 2018

Paolo Borioni: Così si è dissolta la sinistra italiana – Strisciarossa

Così si è dissolta la sinistra italiana – Strisciarossa

Ad una settimana dal voto facciamo il punto della situazione.

Ad una settimana dal voto facciamo il punto della situazione.

In Carinzia vittoria socialista, sconfitti i razzisti Fpoe ora al governo dell'Austria - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

In Carinzia vittoria socialista, sconfitti i razzisti Fpoe ora al governo dell'Austria - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

La sinistra se n’è andata da sé - Sbilanciamoci.info

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La falsa partenza della politica industriale - Sbilanciamoci.info

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Il reddito di cittadinanza del M5S: di che stiamo parlando? - Sbilanciamoci.info

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Paura e povertà. L’Italia del dopo-voto - Sbilanciamoci.info

Paura e povertà. L’Italia del dopo-voto - Sbilanciamoci.info

domenica 11 marzo 2018

Comunicato dei Socialisti di Liberi e Uguali della Lombardia

Comunicato dei Socialisti di Liberi e Uguali della Lombardia I socialisti che hanno partecipato alle liste di Liberi e Uguali alle elezioni politiche e regionali della Lombardia, si sono riuniti a Milano, il giorno 10 marzo 2018, per una prima valutazione collettiva dei risultati del voto e sulle prospettive per le quali intendono impegnarsi. La vera grande sconfitta delle elezioni del 4 marzo é la sinistra, in tutte le sue diverse componenti. Una sconfitta che molti di noi avevano TEMUTO, ma che è andata ben oltre le peggiori previsioni. I governi sostenuti dal Pd, poi guidati dal Pd, hanno creato una frattura con il "popolo della sinistra" a causa degli innumerevoli errori commessi e a causa dell’incapacità di difendere i valori della giustizia sociale e comprendere le aspettative dei cittadini. I governi degli ultimi anni non hanno saputo valutare la gravità della situazione del Mezzogiorno (povertà e disoccupazione), non hanno saputo considerare opportunamente le insofferenze del Nord (tasse) e le paure diffuse della società italiana (sicurezza). Sotto le macerie, e in particolare quelle del Pd, guidato da un gruppo dirigente che ne ha stravolto la fisionomia di partito della sinistra, non si salva neppure Liberi e Uguali, che non è riuscito in questa campagna elettorale a rappresentare la speranza per la rinascita di una forza della sinistra di governo, degna di questo nome, in alternativa alla destra e in alternativa alle politiche del Pd sulle questioni centrali del lavoro, dell’Europa, della democrazia e in particolare dell'attuazione della COSTITUZIONE IN SINTONIA COL VOTO REFERENDARIO DEL 4 DICEMBRE 2016. Liberi e Uguali non ha raccolto i consensi che politicamente avrebbe potuto a causa di molti errori, tra cui la tardiva sua discesa in campo, la gestione conservatrice delle candidature e l'identificazione con le maggiori FIGURE ISTITUZIONALI, proprio in un momento in cui l’elettorato si apprestava a votare contro la politica e contro il ceto politico che più ha avuto responsabilità nel governo del paese. Ma se la sinistra tocca con il voto del 4 marzo uno dei punti più gravi della sua crisi, essa deve rinascere ed ognuno deve dare generosamente il proprio contributo, non disperdendo le energie e le risorse ancora in campo. Per questa ragione i socialisti che hanno partecipato in Lombardia all'impresa di Liberi e Uguali considerano ancora giusto e dignitoso il senso complessivo del progetto. Trovano troppo deboli, se non addirittura confuse, le reazioni del gruppo dirigente nazionale. Guardano positivamente a quelle situazioni che in Lombardia hanno provveduto ad autoconvocarsi per superare la dimensione del "cartello" e avviare la fase costituente di un vero e proprio soggetto politico della sinistra adeguato alla crisi del presente. Propongono di tenere al più presto un’ASSEMBLEA REGIONALE di Liberi e Uguali aperta a tutti coloro che sono interessati a confrontarsi con noi, per dare dalla Lombardia il proprio contributo per rilanciare e ridefinire il progetto originario alla luce della situazione attuale. Ben sapendo che in gioco non ci sono le sorti individuali di ciascuno di noi o di ciascuna piccola sotto componente, ma la rinascita della sinistra.

C’erano una voltal’Emilia e la Romagna rosse – Strisciarossa

C’erano una voltal’Emilia e la Romagna rosse – Strisciarossa

sabato 10 marzo 2018

Paolo Zinna: Ridare senso alla sinistra

RIDARE SENSO ALLA SINISTRA IL PANORAMA. Il disastro della sinistra politica sta stimolando qualche riflessione, cosa rara negli ultimi anni. Si possono individuare subito due grandi categorie interpretative, che mi sembrano entrambe corrette ma insufficienti da sole a definire del tutto il problema e quindi insufficienti come basi per trovarne la soluzione. Molti evidenziano l’ineluttabilità delle conseguenze della globalizzazione: cadono le barriere fisiche e normative, cadono le barriere informative, il mercato, e in particolare il mercato del lavoro, è diventato globale. Il benessere dei ceti medio bassi dei paesi sviluppati era sostenibile solo in un quadro di diseguaglianza fra aree del mondo, che non può più continuare. E’ scomparso (o meglio, si sta attenuando) l’ingiusto “premio di cittadinanza” di cui essi godevano. Perciò, il grafico ad elefante di Milanoviç fotografa un’evoluzione inarrestabile: stanno meglio gli ultimi, i poveri cinesi o indiani, perdono i penultimi, che erano la constituency della sinistra occidentale. La teoria socialdemocratica non può rovesciare queste tendenze, i ceti deboli cercano risposte purchessia al loro disagio, perciò i partiti socialdemocratici europei si indeboliscono tutti. Perciò, nessuno ne ha colpa, la sinistra occidentale non potrà più vincere. Altri, invece, ne fanno una questione di subalternità culturale. Dopo la fine degli anni ’70, il pensiero dominante è diventato neoliberista. Le sinistre europee, invece di contrastarlo, si sono adeguate, hanno sostenuto riforme penalizzanti per i lavoratori e i pensionati, senza che questo portasse benefici ai giovani disoccupati e sottooccupati, nonostante tutto lo “storytelling” interessato. Cit.: “La lotta di classe è finita, perché l’hanno vinta i ricchi”. Ovvio che, finché non riprenderemo a praticare un sano antagonismo, i ceti deboli non si sentano rappresentati da noi. Invece, “presa in mano la lettera di Trichet a Berlusconi, il Governo Renzi si è ben applicato e mentre da un lato operava dazioni sociali a man bassa (80 euro), dall’altro, indossato il maglione blu di Marchionne, ha avviato una serie di riforme decisamente osteggiate dal mondo del lavoro ancor più che dal sindacato: Jobs Act e Buona Scuola hanno segnato un profondo distacco per contenuto e valenza simbolica”(G.Ucciero). Tutto ciò non si può negare, sono necessarie però alcune osservazioni. Certo, la globalizzazione, ecc, ecc. ma i mercati di consumo restano (restavano …) in Occidente. Certo, non vogliamo opporci alla crescita dei redditi dei poverissimi del mondo. Però i privilegiati e le loro corporations si sono appropriati di buona parte dei vantaggi di costo derivanti dalle nuove localizzazioni: potevamo contrastarli in questo. Il grafico ad elefante, finora, non dice che i poveri dell’occidente si sono impoveriti, dice solo che, da vent’anni, i loro redditi sono cresciuti meno di altri: la politica della sinistra occidentale avrebbe potuto confiscare una parte dei profitti che si stanno creando per mantenere a buon livello i propri sistemi di welfare. “Ma la libertà di commercio, ma ….” Parliamo chiaro: l’ideologia della “libertà dei mercati” sempre e comunque è, appunto, un’ideologia, il credo religioso del WTO non è meno assurdo di quello salafita. In ultima analisi si tratta sempre di una scelta della politica, per la quale non possiamo sentirci innocenti. Non è vero che “There Is No Alternative”. Cioè, la prima spiegazione si risolve anch’essa nella seconda. Allora, basta tornare alla politica della sinistra nella “golden age” socialdemocratica? Se ciò fosse del tutto vero, a sinistra del PD si sarebbero davvero aperte praterie e Liberi ed Uguali sarebbe stata la risposta vincente. Evidentemente, c’è anche qualcosa d’altro. Perché, nel tardo 1800, nacquero le leghe, i sindacati, i partiti socialisti? Perché grande era la disparità di potere fra il proprietario, industriale o latifondista, e il singolo lavoratore; lo Stato, come sempre, era dei più forti, la sua forza proteggeva i più forti. Poi, per un secolo, la storia è stata storia delle lotte, vinte o perdute, per rovesciare questo stato di cose. Le grandi organizzazioni della sinistra hanno controbilanciato il potere delle élites, difendendo “los de abajo” dal potere di “los de arriba”. Oggi in Europa non è più così. La polverizzazione dei centri di lavoro ha minimizzato la presa e l’efficacia del sindacato, il più forte sindacato in Italia è lo SPI. I partiti, svaporato il collante dell’ideologia, sono diventati evanescenti comitati elettorali, più o meno egemonizzati da bande che li piegano ai propri personali interessi. La comunità locale è meno solidale, più frammentata. Il tempo, anche e soprattutto il tempo libero, viene fruito individualmente. I network creano relazioni deboli, non creano comunità. Persino il nucleo familiare diventa light, ad esempio scompare il rito del pasto comune, anzi, del pasto tout court. So di dire cose scontate ma ne voglio trarre una conclusione generale: ciascuno di “los de abajo” oggi si sente più solo di fronte a giganti inattaccabili. E ciascuno di noi, in un momento o nell’altro, sente di essere uno “de los de abajo”. L’ho sentito su me stesso, qualche tempo fa, in una divertente “storia-siparietto” che mi ha contrapposto alla Citroen. Mi stavano facendo una ridicola prepotenza ma cosa potevo farci? Un professore di economia neoliberista mi avrebbe detto: c’è la libera concorrenza, compra un auto di altra marca, quando la dovrai rinnovare! Sì, certo, sai quanto ne soffrirà la Citroen del mio comportamento di utente singolo! E sei sicuro che tutte le concorrenti non si comportino allo stesso modo? (vedi ad esempio la storia della fatturazione a 28 giorni …). E voi, avete mai dialogato con Telecom o con le sue concorrenti, con le autostrade e le compagnie aeree, con la RAI o con l’INPS, con la Pubblica Amministrazione? Se guardiamo la geografia elettorale, l’Italia è diventata tripolare. Il 2018, invece, sta facendo emergere, al di sotto dei colori parlamentari, un reale bipolarismo di fondo: “responsabili” ed irresponsabili, europeisti e sovranisti, “competenti” e incompetenti, quelli che hanno fatto esperienza in America e quelli che non sanno usare i congiuntivi. Insomma, quelli che sanno come si sta a tavola e quelli che non ci sanno stare: la Lega e i Cinque stelle. E, se ti senti inconsciamente uno “de los de abajo”, a chi darai il tuo voto? Se poi invece scegli di identificarti con LeU o Potere al Popolo, perché mai ci dovremmo aspettare che tu senta Gori meno lontano di Fontana? Ugualmente Destra, tutti e due. [Sia detto en passant: in questo panorama, l’approccio comunicativo che, come PD, abbiamo avuto verso i 5S appare semplicemente assurdo] Consideriamo ora come viene visto il Partito Democratico (senza escludere i fuorusciti oggi in LeU né i sodali di Insieme o di +Europa) da chi lo guarda con gli occhi di “los de abajo”. Noi, siamo il partito di “los de arriba”; di più, siamo quelli che hanno occupato lo Stato a proprio uso. Ci giudicano troppo indulgenti coi “poteri forti” al vertice: il rapporto fra economia e politica si è rovesciato, siamo stati noi ad essere molto “governativi” verso il potere economico. Stiamo sembrando piuttosto sensibili alle piccole lobby nei quadri intermedi (ricordate le concessioni balneari? E non vorrei tornare su altre recenti vicende …). Ci vedono disinvolti nel cogliere le opportunità della gestione della PA ai livelli inferiori. E’ un quadro ingiusto? In parte certo sì ma capisco che molti elettori ci abbiano visto così. Come insegnava Gilas, i beni in “proprietà pubblica” sono, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende. UNA LINEA D’AZIONE PER IL FUTURO. Una linea dedicata a chi vuole la costruzione di una società con ridotte diseguaglianze, con libertà e opportunità ragionevolmente disponibili a tutti, una società socialdemocratica. Dedicata soprattutto a chi vuole impegnarsi per realizzarla oggi e non proporsi di vedere i risultati fra decine d’anni. Una “sinistra di governo” dunque, che non si scandalizzi delle necessarie mediazioni con chi ha posizioni diverse ma, al proprio interno, abbia archiviato una volta per sempre l’equivoca nozione di “centrosinistra”. In questa prospettiva, è chiaro che il primo campo d’azione non può essere che il PD, un PD ovviamente “derenzizzato” (ma questo primo passo sembra ormai quasi già avvenuto). Lo spazio politico per una nuova formazione a sinistra, invece, mi pare per ora ridotto. Intanto, (cit. Rosa Fioravante) “è un voto di classe quello che ha spaccato in due il Paese, con un plebiscito grillino in meridione, dove lo Stato è più assente. All’aumentare del reddito si vota PD o Forza Italia, al diminuire è una vandea gialla se si ha un livello di istruzione medio o “Salvini Premier” se ci si è fermati alla scuola dell’obbligo”. Nel programma per il nostro futuro governo è necessario e doveroso, quindi, che ci sia la ripresa delle posizioni tradizionali delle sinistra socialdemocratica: una politica economica moderatamente espansiva, orientata alla stabilizzazione in percentuale dell’incidenza del debito sul PIL (e non alla sua riduzione) - una seria politica fiscale - un piano di piccoli investimenti pubblici decentrati, senza violentare il territorio - una correzione degli interventi degli ultimi vent’anni sul mercato del lavoro, cancellandone gli aspetti più “ideologici” e non necessariamente utili per il benessere delle aziende, eccetera, eccetera su infiniti altri temi. Tutto scontato, quasi banale - ma, come già detto, assolutamente insufficiente se non dimostreremo concretamente che stiamo dalla parte dei piccoli contro i grandi e i privilegi degli “incumbent”; mi azzarderei a definire tutto questo “una parte della lotta di classe del XXI° secolo”. Questa deve essere l’impronta delle nostre proposte “bandiera”, del programma dei primi cento giorni di ogni nostro futuro governo. Ad esempio, dobbiamo proporre una legge efficace per favorire le “class action” anche contro la Pubblica Amministrazione. La partecipazione dei cittadini (anche tramite sorteggio) alle attività delle autorità di sorveglianza. Una legislazione rigorosa contro nepotismo e favoritismi nei campi ove tutti sappiamo che sono diffusissimi (università, professioni, …). La regolamentazione trasparente del lobbying parlamentare e nelle autonomie. Un finanziamento pubblico della politica moderato e trasparente, collegato a limiti di spesa ben più vincolanti. Per la RAI, una drastica cura dimagrante ed una rifondazione radicale. Serietà nella lotta all’evasione fiscale transnazionale: non c’è nulla da scoprire, bisogna soltanto volerlo. E mille altre cose che potremmo elencare. Secondo passo: cosa pensiamo sull’evoluzione e sulla crisi del lavoro? Sul restringersi dell’area del lavoro in Occidente? L’argomento è finalmente all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle. Da questo punto di vista, il dibattito mi pare per ora insufficiente, volto solo a correggere i problemi peggiori e senza respiro strategico. Ma la “scomparsa del lavoro” ha implicazioni epocali sulla società: se col lavoro scompare il reddito, chi consumerà? quali conseguenze sull’economia? E il lavoro nella nostra cultura è anche asse costitutivo dell’identità della persona. Come sostituirlo? Non ho la presunzione di definire qui una ricetta ma affermo che su questo terreno sta l’altro pilastro del futuro della sinistra. Dobbiamo spendere tutte le nostre energie intellettuali su questo campo. Ma, ancor prima di proporre per il paese, dobbiamo aver agito su noi stessi, perché è doveroso, e perché è indispensabile per recuperare la nostra credibilità. Per la politica e il partito, userei il concetto di “rigenerazione” (trascurando che l’abbia detto Zingaretti, non mi interessa). Abbiamo bisogno di rigenerarci, tutti e ciascuno di noi. I Democratici devono recuperare i valori dei partiti di sinistra del dopoguerra: l’integrità di comportamento, la sincerità nelle affermazioni, il senso di comunità. La “rottamazione” di Renzi? No, per l’approccio sprezzante, no per l’applicazione “furba” ai soli avversari. Sì, perché non si può fare un partito nuovo senza un profondo rinnovamento del personale politico. Ci vuole una robusta dose di serietà e severità, che è mancata in questi anni. Dobbiamo rinnovare il costume nel partito, emarginando chi mette i propri obbiettivi personali al di sopra della politica. Dobbiamo favorire il sentimento di comunità coesa entro le articolazioni locali del PD, penalizzando i disinvolti. Dobbiamo garantire a tutti di poter influire in proporzione al proprio consenso, misurato con onestà: ci vorrà una radicale revisione degli Statuti. Archiviamo le Primarie, ove si contende il base alla notorietà nel pubblico e non in base ad ipotesi politiche chiaramente in competizione, semmai immaginiamo forme più sofisticate di apertura della politica ai cittadini (referendum interni, “doparie”, “public debate”, …). Riportiamo le decisioni negli organi del partito: la distanza fra procedure formali e informali è diventata insopportabile. Diamo concretezza a tutto questo attraverso leggi attuative dell’articolo 49 Costituzione. Misure specifiche dovranno essere studiate per contrastare l’influenza prevalente degli “ottimati”: recuperiamo l’uguaglianza vera fra compagni. Siamo chiari: dobbiamo rinunciare a molte posizioni di vantaggio. Abbiamo troppi “articoli 90”, troppe consulenze, troppe corsie privilegiate. E non si possono vedere candidati, anche meritevolissimi, riproporsi per infinite volte …. Nella sfera pubblica, dobbiamo radicalmente cancellare la prevalenza dell’“uomo solo al comando”, ridando centralità e potere ai Consigli. Infine, ma non ultima per importanza, dobbiamo semplicemente tornare all’unica legge elettorale onesta e corrispondente ai nostri valori democratici: la legge proporzionale della prima Repubblica. Essa deve avere due corollari: scelta degli eletti a preferenze e assoluto divieto di pluricandidature. In un ambiente proporzionale, com’è ovvio, nessuno può aspirare a governare da solo. Non c’è più spazio per presunzioni di superiorità e “vocazioni maggioritarie”. Si è costretti a riconoscere agli avversari diritto di pensiero critico e legittimazione politica. L’eccezione antifascista è basata non sulla superiorità morale, ma sul diritto di legittima difesa della Repubblica e dei singoli. Però, se non ci proponiamo più di piacere a tutti, se archiviamo il “partito della Nazione” (che, diciamocelo, non era poi tanto diverso dal “partito degli onesti” di berligueriana memoria …), bisogna recuperare una nostra chiara identità, dire chi siamo e dove vogliamo andare e anche quali interessi vogliamo favorire, chi vogliamo rappresentare: gli startuppers o i lavoratori delle cooperative di logistica? il mondo dello spettacolo di Roma o gli agricoltori siciliani? gli avvocati d’affari o …. Paolo Zinna

COMPLETATA LA SQUADRA DI GOVERNO IN GERMANIA - GLI STATI GENERALI

COMPLETATA LA SQUADRA DI GOVERNO IN GERMANIA - GLI STATI GENERALI

giovedì 8 marzo 2018

Franco Astengo: Regionali

ELEZIONI POLITICHE, REGIONALI LOMBARDE E LAZIALI: QUALCHE ANNOTAZIONE SULLE CIFRE Domenica 4 marzo 2018 non si è votato soltanto per le elezioni legislative generali ma anche per l’elezione di due Presidenti e altrettanti consigli regionali: Lombardia e Lazio. Si è votato, tra l’altro, con una formula elettorale diversa tra un’elezione e l’altra: non essendo permesso, nelle elezioni politiche il voto disgiunto tra un candidato al collegio uninominale e una lista diversa da quelle comprese nello schieramento che lo sosteneva; operazione invece consentita al riguardo del voto relativo al Presidente di Regione. Inoltre si sono avute, tra gli schieramenti politici presentatisi al giudizio di elettrici ed elettori nelle due Regioni interessate, difformità di schieramento che analizzeremo comunque nel dettaglio. Ci occupiamo come di consueto esclusivamente delle cifre espresse in valori assoluti e non in percentuale: l’alto grado di astensione e di volatilità impongono di lavorare in questo senso, al fine di offrire un quadro più chiaro della quantità di scostamento che si è verificato tra un’elezione e l’altra per le liste e i candidati. LOMBARDIA Il primo raffronto da eseguire riguarda la partecipazione al voto. Analizziamo nel dettaglio essendo difforme il numero degli aventi diritto. Per le elezioni regionali risultavano iscritte 7.882.639 elettrici ed elettori. I candidati presidenti (7 in totale) hanno ottenuto 5.614.481 voti validi, le liste che li appoggiavano si sono fermate a 5.240.859. In sostanza 373.622 lombardi hanno espresso la loro preferenza soltanto per un candidato presidente, senza suffragare alcuna lista di sostegno. Sono rimasti completamente al di fuori, non recandosi al seggio oppure lasciando nell’urna scheda bianca o nulla 2.268.158 persone, pari al 28,77%. Per le elezioni politiche gli aventi diritto assommavano a 7.496.491, i voti validi sono stati 5.592.469 . Di conseguenza non sono stati espressi validamente (astenuti, bianche, nulle) 1.904.022 possibili suffragi, pari al 25,39. L’astensione quindi è salita in occasione delle regionali del 3,38%. Passiamo all’analisi delle candidature e delle liste. L’ex- sindaco di Varese Fontana è stato eletto Presidente ottenendo sulla propria candidatura 2.793.370 voti: 106.760 in n più delle liste che componeva la coalizione di centro destra alle Regionali. Rispetto allo schieramento presentato alle elezioni politiche lo stesso centrodestra contava su tre liste in più: quella personale dello stesso Fontana, Energie per l’Italia facente capo a Stefano Parisi nella stessa giornata candidato alla presidenza della Regione Lazio e una lista Pensionati. Queste tre liste hanno raccolto complessivamente 124.875 voti. Alle elezioni politiche nelle quattro circoscrizioni lombarde i candidati nell’uninominale della coalizione di centro destra hanno ottenuto 2.622.199 voti ( 171.171 in meno di quelli raccolta dalla candidatura Fontana alla presidenza della Regione: che si è così dimostrata davvero molto forte). Esaminiamo il comportamento dei singoli partiti. La Lega Nord ha ottenuto alle elezioni politiche 1.577.205 voti, calati alle Regionali a 1.553.798, quindi in flessione di soli 23.407 suffragi. Forza Italia ha avuto alle politiche 776.007 voti (circa la metà di quelli ottenuti dalla Lega) e alla Regionali 750.746 con un meno 25.601. Fratelli d’Italia alle politiche ha realizzato 226.159 voti e alle regionali 190.834, un calo di 35.325 superiore quindi a quello registrato da Lega e Forza Italia. E’ salita invece la quota di voti ottenuti da “Noi per l’Italia – UDC) da 52.827 alle politiche a 66.357 alle regionali. Sul versante del centro sinistra la candidatura Gori ha realizzato 1.663.367 suffragi con un voto personale di 248.693, essendosi le liste comprese nella coalizione di sostegno fermatesi a 1.414.674 voti. Anche nel caso della candidatura Gori erano presenti liste d’appoggio non comprese tra quelle in lizza per le elezioni politiche: una lista intestata allo stesso Gori poi Autonomia Lombarda e una lista Progressista ispirata all’esperienza dell’ex-sindaco di Milano Pisapia. Queste liste hanno ottenuto assieme 241.575. Esaminiamo allora l’andamento dei partiti presenti sia alle elezioni politiche, sia a quelle regionali. Il PD ha avuto alle politiche 1.180.184 voti e alle regionali 1.008.602 con un calo di 171.592 voti (la lista Gori, per la precisione ne ha ottenuto 158.691). Netta dal canto suo la flessione tra voto politico e voto regionale per la lista +Europa scesa da 187.554 voti a 108.755. Probabilmente, in questo calo, ci stanno i 20.040 voti acquisiti dalla lista “Lombardia Progressista”. Aumenta invece i proprio suffragi la liste “Più Europa Insieme” attestata alle politiche su 27.959 voti saliti a 35.074 alle Regionali. Quasi inalterato invece il trend della Lista Civica Popolare: Politiche 20.469, Regionali 20.668. Forte calo, invece, nel passaggio tra le elezioni politiche e quelle regionali per il M5S, a conferma del fatto che si tratta in prevalenza di un voto di opinione inserito in un quadro di forte volatilità. Nelle quattro circoscrizioni lombarde il M5S ha totalizzato 1.195.814 voti scesi a 974.984 sulla candidatura Violi (meno 220.380) e a 933.346 alla lista del Movimento: un calo di ben 262.468 unità. Raccoglieva molto interesse la candidatura Rosati per Liberi e Uguali sulla quale si era appuntata l’attenzione dei sostenitori di un “voto disgiunto” da rivolgersi alla candidatura Gori allo scopo di fermare i centrodestra. L’obiettivo è stato fallito, ma in una certa misura – se pure modesta – il “voto disgiunto” è stato applicato da elettrici ed elettori. Infatti la candidatura Rosati è stata l’unica che ha fatto registrare una minor quota di voti al candidato rispetto alla lista. Rosati infatti ha raccolto 108.407 preferenze, mentre la lista di LeU ha ottenuto 111.306 voti ( un differenziale di 2.899 voti a favore della lista). Netto, invece, lo scarto tra i voti ottenuti dalla liste LeU alle elezioni politiche, 160.563 rispetto alle regionali. Lo scarto, a favore del voto ottenuto alle politiche è stato di 49.257 voti. Casa Pound ha presentato alle Regionali la candidatura De Rosa che ha ottenuto 50.368 voti, mentre la lista della “Tartaruga frecciata” ne ha avuti 43.416. Superiore la quota raggiunta dalla lista in occasione delle elezioni politiche: 57.948. All’insegna di “Sinistra per la Lombardia” è stata presentata la candidatura Gatti, cui facevano riferimento le liste che, alle elezioni politiche, si erano raggruppate sotto l’insegna di “Potere al Popolo”. La candidatura Gatti ha ottenuto 38.194 voti, mentre la lista di appoggio ne ha avuto 35.716. Anche in questo caso si registra uno scostamento negativo con il risultato ottenuto dalla lista alle politiche: si è trattato di 48.307 voti, 10.000 in più circa di quelli conseguiti alle Regionali. Da ricordare, infine, che era presenta anche la candidatura Arrighini con la lista Grande Nord: la lista ha ottenuto 13.791 voti, saliti a 15.791 (2.000 in più) nel voto destinato al candidato. LAZIO La partecipazione elettorale nel Lazio si è così articolata nella doppia elezione di domenica 4 marzo: alle elezioni politiche risultavano iscritti nelle liste 4.392.976 aventi diritto. I voti validi sono stati 3.078.067 . Sono quindi rimasti senza espressione di suffragio (astenuti, bianche, nulle) 1.314.905 unità pari al 29,93%. Nelle liste per le elezioni regionali gli iscritti assommavano a 4.785.096 (occorre notare che le liste per le elezioni regionali comprendono un maggior numero di cittadini rispetto a quelle per le politiche in quanto includono anche i residenti all’estero). Sono stati espressi 3.078.067 voti validi. La somma degli astenuti, schede bianche e nulle è stata di 1.707.029 pari al 35,67%. Il quadro degli schieramenti in lizza per la Regione Lazio differiva da quello presente nelle elezioni politiche e quello sottoposto al giudizio di elettrici ed elettori alla Regione Lombardia. Nello schieramento a sostegno della candidatura del presidente uscente Zingaretti infatti era presente la Lista di Liberi e Uguali che alle elezioni politiche non faceva parte della coalizione di riferimento al PD e alla Regione Lombardia aveva presentato un proprio candidato: percorso inverso, invece, per la lista Civica Popolare presente con un proprio candidato Presidente alle regionali del Lazio e inserita nelle liste d’appoggio alla candidatura Gori in Lombardia. E’ necessario far notare come il successo della candidatura Zingaretti abbia assunto un forte connotato di affermazione personale. Il Presidente Zingaretti ha ottenuto, infatti, 1.018.736 voti distanziando nettamente il totale dei voti raccolti dalle liste schierate a suo sostegno che si sono fermate a 867.393 ( per Zingaretti un più 151.343). Egualmente inferiore alla quota raggiunta dal Presidente rieletto quella ottenuta dalla somma dei candidati nei collegi uninominali del Lazio appartenenti alla stessa coalizione (ricordiamo che alle elezioni politiche LeU era schierata autonomamente): 703.944 ( meno 151.343). Nella coalizione presentata alle Regionali erano presenti anche una Lista di diretto riferimento a Zingaretti e una lista denominata Centro Solidale: la somma dei voti di queste due liste è stata di 158.962 unità. Questa l’analisi del risultato dei partiti. Il PD ha totalizzato alle Regionali 539.131 voti, in flessione di 20.977 voti rispetto alle Politiche dove i voti erano stati 560.108. La presentazione di LeU nello schieramento d’appoggio a Zingaretti non è stato ben accolto dall’elettorato: alle Politiche infatti LeU si è attestato sui 112.795 voti scendendo a 88.416 in occasione delle Regionale (meno 24.379). Tra politiche e regionali netta la caduta di + Europa da 94.541 a 52.451 (meno 42.090, praticamente + Europa da una scheda all’altra ha perduto metà delle sue elettrici ed elettori) . Assolutamente positivo il percorso di Insieme che sale dai 15.084 voti delle Politiche ai 28.443 delle Regionali. Civica Popolare che alle Politiche era presente nello schieramento d’appoggio del PD ha praticamente dimezzato i voti presentando autonomamente la candidatura Touadi: da 14.291 voti alle politiche, a 7.819 voti per il candidato e 6.073 alla lista. Scenario opposto, rispetto alla candidatura Zingaretti, sul versante della candidatura Parisi. I candidati ai collegi uninominali nelle politiche appartenenti alle liste che, in occasione delle Regionali, hanno appoggiato hanno raccolto 1.089.816 voti: alla candidatura Parisi alle Regionali sono andati, invece, 964.418 voti ( meno 125.398) e ancor meno alle liste collegate con 922.664 voti. In sostanza dal punto di vista del peso delle candidature personali Zingaretti ha distanziato Parisi di oltre 100.000 preferenze. Se le elettrici e gli elettori (rimarchiamo che si è trattato di elezioni svolte in contemporanea) delle liste che hanno appoggiato Parisi alle Regionali avessero confermato il voto delle Politiche il candidato sarebbe stato eletto. Un dato che si arguisce facilmente leggendo i dati dei singoli partiti. Parisi disponeva di una propria lista d’appoggio denominata Energia per l’Italia (movimento da lui stesso fondato) che ha ottenuto 37.043 voti e non era presente alle elezioni politiche. Forza Italia è scesa dai 401.579 voti alle Politiche ai 371.155 delle Regionali (meno 30.424); La Lega ha accusato una pesante flessione : dai 406.217 voti delle politiche ai 252.772 delle Regionali ( meno 153.445: si evince in questo caso un problema di personale politico). Scende anche FdI, nonostante il forte radicamento territoriale: da 247.448 a 220.460. In controtendenza invece Noi per l’Italia – UDC salita da 25.462 voti a 41.234 alle Regionali ( più 15.772). Una parte dei voti perduti all’interno dello schieramento d’appoggio a Parisi è stato senz’altro recuperato dalla candidatura autonoma del sindaco di Amatrice Pirozzi. La sua candidatura ha ottenuto, infatti, 151.476 voti mentre le due liste di sostegno hanno sommato 97.385 voti, a testimonianza di un rilevante grado di popolarità dello stesso Pirozzi. Naturalmente non sono possibili raffronti con le elezioni politiche. Raffronti che invece si possono sviluppare a proposito di altre due candidature, con l’analisi delle quali si conclude questo schematico tentativo di comparazione tra i due tipi di elezione svoltesi in Lombardia e nel Lazio. La candidatura Antonini per conto di Casa Pound ha ottenuto 60.131 voti: un rilevante successo personale considerato che la Lista ha avuto alle Regionali 42.609 voti (meno 17.522) e 50.142 alle politiche ( meno 9.989). La candidatura Canitano per Potere al Popolo invece ha avuto invece 2.772 voti in meno rispetto a quanto realizzato dalla Lista alle elezioni Politiche ( 46.667 alle Politiche, 43.895 alla candidatura Canitano alle Regionali). Più marcata la flessione tra Politiche e Regionali per quel che riguarda la lista di PaP: alle Regionali 33.372 voti,meno 13.295. Questa comparazione è sicuramente servita a dimostrare come anche in occasione di elezioni in contemporanea possono rilevarsi scostamenti anche all’interno delle singole forze politiche: una causa è sicuramente quella del diverso corpo elettorale ( elettori all’estero: modalità che falsa sicuramente le percentuali , ma in misura minore i voti assoluti) ma non è la sola: contano gli schieramenti, conta la personalizzazione e la vicinanza dei problemi da affrontare tra istituzioni e cittadini.

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