Da l'Unità
Bad Godesberg: 50 anni e non sentirli
di Nicola Cacacetutti gli articoli dell'autore Dopo la sconfitta della Spd in Germania sono state suonate le campane a morto per la socialdemocrazia. Eppure i suoi valori, anche grazie alla crisi mondiale da fondamentalismo di mercato, si stanno imponendo quasi ovunque: dall’America latina all’America del Nord, dall’India al Giappone, dall’Australia a molti Paesi europei tra cui Grecia, Portogallo e Norvegia. Le sconfitte elettorali in Francia e Germania sono eccezioni, imputabili anche a errori di scelte politiche sull’Europa, sul lavoro, sulla globalizzazione, sulla sicurezza. Oggi quasi due terzi dei popoli di Paesi democratici, è governata da coalizioni di centrosinistra mentre si verifica un altro fenomeno, l’avvicinamento delle destre a valori che sino a ieri combattevano. Basta vedere il programma di democristiani e liberali tedeschi, che parlano apertamente di economia sociale di mercato ed il neo colbertismo di casa nostra dove autorevoli ministri sono passati velocemente dallo Stato minimo di ieri allo Stato imprenditore.
I Paesi europei governati più a lungo dai socialdemocratici oggi sono leader mondiali per equità sociale e per ricchezza. La classifica della banca mondiale dei 50 maggiori Paesi per Pil pro capite recita: 1° Norvegia, 3° Danimarca, 5° Svezia, 6° Finlandia, 14° Olanda. Per l’equità sociale, l’indice sulle diseguaglianze di Eurostat dice: 1° Danimarca, 2° Olanda, 3° Svezia, 4° Norvegia, 5° Finlandia.
Lo stesso Programma di Bad Godesberg del 1959, il documento fondativo della socialdemocrazia tedesca ed europea, appare ancora assai meno vecchio dei suoi cinquant’anni anni e vale la pensa scorrerne le parti più importanti:
VALORI, «Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte su cui non devono decidere né un partito né lo Stato».
ECONOMIA, «La libera scelta dei consumatori, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica.
L’economia totalitaria annienta la libertà. Per questo il partito socialdemocratico approva la libera economia di mercato ovunque esista concorrenza: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere difesa e incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato solo laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili alla collettività possono essere fornite solo con mezzi pubblici».
29 ottobre 2009
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 31 ottobre 2009
Michele Salvati: Il bipolarismo a fine corsa
TRA BERSANI E LE TENSIONI DEL PDL
il Bipolarismo a Fine Corsa
I tempi della Seconda Repubblica
L a Seconda Repubblica - e il bipolarismo che ne è l' asse portante - hanno sempre avuto molti avversari. Avversari aperti e coerenti, soprattutto tra gli ex democristiani che oggi si raccolgono nell' Udc. E anche avversari meno espliciti, che per convenienza si sono adattati al nuovo regime: molti ex socialisti ed ex democristiani all' interno del Pdl e molti ex comunisti ed ex democristiani all' interno del Pd. Si sono adattati, ma non ci credono: non credono che un sistema politico, il quale conduce a un «o di qua/o di là», alla designazione implicita ma chiara del capo del governo da parte degli elettori, sia adatto a un Paese di guelfi e ghibellini com' è il nostro, a un Paese i cui cittadini sono più esposti che altrove (ma è poi vero?) a ventate populistiche. Chi oggi sulla base delle recenti vicende che hanno riguardato il nostro presidente del Consiglio - soprattutto delle sue reazioni alle sentenze della Corte costituzionale e del tribunale di Milano - parla di «emergenza democratica» erode il consenso per i fondamenti della Seconda Repubblica che sinora è stato prevalente. Se veramente si tratta di emergenza democratica, se veramente siamo alle soglie di un regime autoritario, allora l' attuale impianto bipolare del nostro sistema politico diviene un lusso che un sostenitore di una buona democrazia non si può concedere. L' apparente sillogismo è questo: Berlusconi è un pericolo per la democrazia; il bipolarismo porta Berlusconi a prevalere nel confronto elettorale. Conseguenza normativa: eliminiamo il bipolarismo e torniamo alla Prima Repubblica, a una rappresentanza puramente proporzionale, a governi fatti e disfatti in Parlamento nel corso della legislatura. Personalmente non credo ai primi due passaggi di questo pseudosillogismo e, di conseguenza, alle sue conclusioni. Non credo che Berlusconi sia oggi un pericolo per la democrazia, se uno ragiona un poco sulle circostanze storiche nelle quali la democrazia è stata o può essere in pericolo. Credo invece che il nostro presidente del Consiglio, per i suoi conflitti di interesse e per le sue concezioni aziendalistiche e, diciamo così, un po' spicce di come si governa, non sia adatto a manovrare correttamente i delicati meccanismi di una democrazia costituzionale. E non credo che una logica bipolare conduca a una inevitabile prevalenza elettorale di Berlusconi o, più in generale, del centrodestra. Ma dove sta scritto? La sinistra ha appena vinto in Grecia e in Portogallo anche se, in questa fase storica, sono più numerose le sconfitte delle vittorie. Ma ciò avviene perché essa non trova un messaggio vincente da presentare agli elettori: quando lo troverà, tornerà al governo. Un poco come conseguenza di questo clima emergenziale, un poco per altri motivi, il sostegno che il Pd (e in precedenza l' Ulivo) aveva sempre dato al bipolarismo è oggi fortemente a rischio: è a rischio dopo la vittoria di Bersani e il buon successo di Marino nel congresso open air che si è appena concluso. Marino sembra che condivida il clima di emergenza che ho prima descritto. Bersani, che probabilmente non lo condivide, è un buon politico che ha come obiettivo prevalente quello che i segretari di partito di solito hanno: sconfiggere il più rapidamente possibile l' avversario. Se ritiene, come mi sembra ritenga, che la via più breve sia quella di concedere all' Udc un sistema elettorale alla tedesca in cambio di una alleanza vincente, nulla lo tratterrà dal concederla. Ed è possibile che la stessa maggiore probabilità di questa concessione già anticipi un fenomeno che si produrrebbe inevitabilmente se e quando il proporzionale venisse introdotto: il convergere verso l' Udc di coloro che si trovano a disagio in un Pd bersaniano (Rutelli?) o in un Pdl berlusconiano. Se al clima emergenziale e alla vittoria di Bersani nel congresso del Pd aggiungiamo le tensioni interne al Pdl, forse non è avventato pensare che la Seconda Repubblica abbia, se non i giorni, gli anni contati. RIPRODUZIONE RISERVATA
Salvati Michele
Pagina 001.014
(27 ottobre 2009) - Corriere della Sera
il Bipolarismo a Fine Corsa
I tempi della Seconda Repubblica
L a Seconda Repubblica - e il bipolarismo che ne è l' asse portante - hanno sempre avuto molti avversari. Avversari aperti e coerenti, soprattutto tra gli ex democristiani che oggi si raccolgono nell' Udc. E anche avversari meno espliciti, che per convenienza si sono adattati al nuovo regime: molti ex socialisti ed ex democristiani all' interno del Pdl e molti ex comunisti ed ex democristiani all' interno del Pd. Si sono adattati, ma non ci credono: non credono che un sistema politico, il quale conduce a un «o di qua/o di là», alla designazione implicita ma chiara del capo del governo da parte degli elettori, sia adatto a un Paese di guelfi e ghibellini com' è il nostro, a un Paese i cui cittadini sono più esposti che altrove (ma è poi vero?) a ventate populistiche. Chi oggi sulla base delle recenti vicende che hanno riguardato il nostro presidente del Consiglio - soprattutto delle sue reazioni alle sentenze della Corte costituzionale e del tribunale di Milano - parla di «emergenza democratica» erode il consenso per i fondamenti della Seconda Repubblica che sinora è stato prevalente. Se veramente si tratta di emergenza democratica, se veramente siamo alle soglie di un regime autoritario, allora l' attuale impianto bipolare del nostro sistema politico diviene un lusso che un sostenitore di una buona democrazia non si può concedere. L' apparente sillogismo è questo: Berlusconi è un pericolo per la democrazia; il bipolarismo porta Berlusconi a prevalere nel confronto elettorale. Conseguenza normativa: eliminiamo il bipolarismo e torniamo alla Prima Repubblica, a una rappresentanza puramente proporzionale, a governi fatti e disfatti in Parlamento nel corso della legislatura. Personalmente non credo ai primi due passaggi di questo pseudosillogismo e, di conseguenza, alle sue conclusioni. Non credo che Berlusconi sia oggi un pericolo per la democrazia, se uno ragiona un poco sulle circostanze storiche nelle quali la democrazia è stata o può essere in pericolo. Credo invece che il nostro presidente del Consiglio, per i suoi conflitti di interesse e per le sue concezioni aziendalistiche e, diciamo così, un po' spicce di come si governa, non sia adatto a manovrare correttamente i delicati meccanismi di una democrazia costituzionale. E non credo che una logica bipolare conduca a una inevitabile prevalenza elettorale di Berlusconi o, più in generale, del centrodestra. Ma dove sta scritto? La sinistra ha appena vinto in Grecia e in Portogallo anche se, in questa fase storica, sono più numerose le sconfitte delle vittorie. Ma ciò avviene perché essa non trova un messaggio vincente da presentare agli elettori: quando lo troverà, tornerà al governo. Un poco come conseguenza di questo clima emergenziale, un poco per altri motivi, il sostegno che il Pd (e in precedenza l' Ulivo) aveva sempre dato al bipolarismo è oggi fortemente a rischio: è a rischio dopo la vittoria di Bersani e il buon successo di Marino nel congresso open air che si è appena concluso. Marino sembra che condivida il clima di emergenza che ho prima descritto. Bersani, che probabilmente non lo condivide, è un buon politico che ha come obiettivo prevalente quello che i segretari di partito di solito hanno: sconfiggere il più rapidamente possibile l' avversario. Se ritiene, come mi sembra ritenga, che la via più breve sia quella di concedere all' Udc un sistema elettorale alla tedesca in cambio di una alleanza vincente, nulla lo tratterrà dal concederla. Ed è possibile che la stessa maggiore probabilità di questa concessione già anticipi un fenomeno che si produrrebbe inevitabilmente se e quando il proporzionale venisse introdotto: il convergere verso l' Udc di coloro che si trovano a disagio in un Pd bersaniano (Rutelli?) o in un Pdl berlusconiano. Se al clima emergenziale e alla vittoria di Bersani nel congresso del Pd aggiungiamo le tensioni interne al Pdl, forse non è avventato pensare che la Seconda Repubblica abbia, se non i giorni, gli anni contati. RIPRODUZIONE RISERVATA
Salvati Michele
Pagina 001.014
(27 ottobre 2009) - Corriere della Sera
Segnalazione: 14 novembre, convegno su Mario Alberto Rollier
Sabato 14 novembre 2009, ore 10
Sala di rappresentanza dell' Università di Milano - via Festa del Perdono 7
l' Associazione "Piero Guicciardini", in collaborazione con il Centro Culturale Protestante e con il patrocinio del Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica, del Comune di Milano e dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
promuove una giornata di studio e testimonianze su:
La personalità poliedrica di Mario Alberto Rollier
Ricordo di un milanese protestante, antifascista, federalista e uomo di scienza nel centenario della nascita
PROGRAMMA
Mattino, ore 10.00
Benvenuto del Prof. Senatore Paolo Bagnoli, Presidente dell’Associazione Piero Guicciardini
Saluti del Prof. Alfredo Canavero, Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica e del pastore Martin Ibarra, Centro Culturale Protestante
Presiede: Prof. Arturo Colombo
Prof. Mario Miegge: Un laico valdese protagonista del rinnovamento teologico in Italia
Interventi del Prof. Giovanni Mottura e del pastore Giorgio Bouchard
Prof. Stefano Galli: Un valdese federalista
Dott. Filippo Maria Giordano: Il contributo di Cinzia Rognoni Vercelli agli studi sul pensiero di Mario Alberto Rollier
Dibattito
Pomeriggio, ore 15.00
Presiede: pastore Giorgio Tourn
Prof. Giovanni Scirocco: Dall’antifascismo all’impegno politico di un democratico
Dott. Stefano Gagliano: Tra separatismo intransigente e sistema pattizio delle Intese
Prof. Lucio Businaro: L’impegno civile tra politica e ricerca scientifica
Intervento della Prof.ssa Paola Vita Finzi
Dibattito
Considerazioni conclusive.
In tempi di crisi morale e civile, il contributo offerto da Rollier (1909-1980) alla lotta politica ed al pensiero federalista europeo, offrono notevoli spunti di riflessione in vista di un nuovo risorgimento dell’idea di nazione.
La «personalità poliedrica» dello scienziato valdese, sin dalla gioventù aperto a contatti con il protestantesimo internazionale e attivo nel rinnovamento del protestantesimo italiano, è peraltro esemplare. Antifascista partecipa alla lotta partigiana, aderisce al Partito d’Azione, è attivo nel Movimento Federalista Europeo la cui riunione fondativa ebbe luogo il 27-28 agosto 1943 nella sua casa di Milano. Dedica il suo impegno all’insegnamento e alla ricerca al Politecnico di Milano fino al 1956, all’Università di Cagliari per i successivi quattro anni e all’Universutà di Pavia negli ultimi 20 anni.
Come candidato all’Assemblea Costituente, propugna un programma di separatismo tra Chiesa e Stato e di libertà religiosa, assegnando al federalismo Europeo la speranza di pacificazione e rinnovamento politico. Candidato nelle fila dei socialdemocratici per le elezioni amministrative comunali, è consigliere comunale di Milano dal 1951 al 1960. Negli anni settanta matura un progressivo distacco dal Psdi, fino all’iscrizione nel 1976 al Partito Repubblicano.
La sua intensa e appassionata attività di ricerca scientifica sul problema delle fonti di energia e sull’uso pacifico dell’energia nucleare, lo porta, tra l’altro, alla costruzione del primo reattore nucleare subcritico in Italia.
Informazioni sul convegno
Eliana Canesi tel. 347.97.93.765
Samuele Bernardini 340.92.10.781
Il convegno è stato realizzato grazie al contributo Otto per mille della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi)
Sala di rappresentanza dell' Università di Milano - via Festa del Perdono 7
l' Associazione "Piero Guicciardini", in collaborazione con il Centro Culturale Protestante e con il patrocinio del Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica, del Comune di Milano e dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
promuove una giornata di studio e testimonianze su:
La personalità poliedrica di Mario Alberto Rollier
Ricordo di un milanese protestante, antifascista, federalista e uomo di scienza nel centenario della nascita
PROGRAMMA
Mattino, ore 10.00
Benvenuto del Prof. Senatore Paolo Bagnoli, Presidente dell’Associazione Piero Guicciardini
Saluti del Prof. Alfredo Canavero, Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica e del pastore Martin Ibarra, Centro Culturale Protestante
Presiede: Prof. Arturo Colombo
Prof. Mario Miegge: Un laico valdese protagonista del rinnovamento teologico in Italia
Interventi del Prof. Giovanni Mottura e del pastore Giorgio Bouchard
Prof. Stefano Galli: Un valdese federalista
Dott. Filippo Maria Giordano: Il contributo di Cinzia Rognoni Vercelli agli studi sul pensiero di Mario Alberto Rollier
Dibattito
Pomeriggio, ore 15.00
Presiede: pastore Giorgio Tourn
Prof. Giovanni Scirocco: Dall’antifascismo all’impegno politico di un democratico
Dott. Stefano Gagliano: Tra separatismo intransigente e sistema pattizio delle Intese
Prof. Lucio Businaro: L’impegno civile tra politica e ricerca scientifica
Intervento della Prof.ssa Paola Vita Finzi
Dibattito
Considerazioni conclusive.
In tempi di crisi morale e civile, il contributo offerto da Rollier (1909-1980) alla lotta politica ed al pensiero federalista europeo, offrono notevoli spunti di riflessione in vista di un nuovo risorgimento dell’idea di nazione.
La «personalità poliedrica» dello scienziato valdese, sin dalla gioventù aperto a contatti con il protestantesimo internazionale e attivo nel rinnovamento del protestantesimo italiano, è peraltro esemplare. Antifascista partecipa alla lotta partigiana, aderisce al Partito d’Azione, è attivo nel Movimento Federalista Europeo la cui riunione fondativa ebbe luogo il 27-28 agosto 1943 nella sua casa di Milano. Dedica il suo impegno all’insegnamento e alla ricerca al Politecnico di Milano fino al 1956, all’Università di Cagliari per i successivi quattro anni e all’Universutà di Pavia negli ultimi 20 anni.
Come candidato all’Assemblea Costituente, propugna un programma di separatismo tra Chiesa e Stato e di libertà religiosa, assegnando al federalismo Europeo la speranza di pacificazione e rinnovamento politico. Candidato nelle fila dei socialdemocratici per le elezioni amministrative comunali, è consigliere comunale di Milano dal 1951 al 1960. Negli anni settanta matura un progressivo distacco dal Psdi, fino all’iscrizione nel 1976 al Partito Repubblicano.
La sua intensa e appassionata attività di ricerca scientifica sul problema delle fonti di energia e sull’uso pacifico dell’energia nucleare, lo porta, tra l’altro, alla costruzione del primo reattore nucleare subcritico in Italia.
Informazioni sul convegno
Eliana Canesi tel. 347.97.93.765
Samuele Bernardini 340.92.10.781
Il convegno è stato realizzato grazie al contributo Otto per mille della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi)
venerdì 30 ottobre 2009
Andrea Emo: Nuovismo
Niente è più vecchio ormai che la filosofia del nuovo, che la filosofia della rivoluzione permanente o intermittente che sia. Niente è più nuovo che l'abolizione del nuovo, la rinuncia al nuovo (Quaderno 353, 1973)
Segnalazione: 10 novembre I diritti dei lettori
I DIRITTI DEI LETTORI:
UNA PROPOSTA DI STATUTO
10 Novembre 2009
Ore 10:30-14:00
Sala del Refettorio
Biblioteca della Camera dei Deputati
Via del Seminario 76, Roma
Per partecipare al convegno è necessario
registrarsi presso segreteria@societapannunzio.eu
Nella Sala del Refettorio si accede
con un documento di riconoscimento
Introduzione. Per uno statuto dei diritti dei lettori. Una proposta della Società Pannunzio
Enzo Marzo (Portavoce della Società Pannunzio per la libertà d’informazione)
Stefano Rodotà
Cittadini e informazione
Michela Manetti
Diritto a essere informati nella Costituzione
Luigi Ferrajoli
Garanzie e giornali
Contributi di:
Gustavo Zagrebelsky
Salvatore Bragantini
Interventi Programmati:
- Autorità per le garanzie nella comunicazioni
- Autorità garante della concorrenza e del mercato
- Federazione Nazionale Stampa Italiana
- Ordine dei Giornalisti
- Federazione Italiana Editori Giornali
- Federconsumatori
Dibattito
Tavola Rotonda
I LETTORI: PROTAGONISTI O SOGGETTI MARGINALI
Partecipano i direttori dei maggiori quotidiani italiani
UNA PROPOSTA DI STATUTO
10 Novembre 2009
Ore 10:30-14:00
Sala del Refettorio
Biblioteca della Camera dei Deputati
Via del Seminario 76, Roma
Per partecipare al convegno è necessario
registrarsi presso segreteria@societapannunzio.eu
Nella Sala del Refettorio si accede
con un documento di riconoscimento
Introduzione. Per uno statuto dei diritti dei lettori. Una proposta della Società Pannunzio
Enzo Marzo (Portavoce della Società Pannunzio per la libertà d’informazione)
Stefano Rodotà
Cittadini e informazione
Michela Manetti
Diritto a essere informati nella Costituzione
Luigi Ferrajoli
Garanzie e giornali
Contributi di:
Gustavo Zagrebelsky
Salvatore Bragantini
Interventi Programmati:
- Autorità per le garanzie nella comunicazioni
- Autorità garante della concorrenza e del mercato
- Federazione Nazionale Stampa Italiana
- Ordine dei Giornalisti
- Federazione Italiana Editori Giornali
- Federconsumatori
Dibattito
Tavola Rotonda
I LETTORI: PROTAGONISTI O SOGGETTI MARGINALI
Partecipano i direttori dei maggiori quotidiani italiani
Mario Deaglio: Niente sarà più come prima
30/10/2009
Niente sarà più come prima
MARIO DEAGLIO
Il prodotto interno lordo italiano è caduto al livello di dieci anni fa, la produzione industriale italiana, con il suo balzo all’indietro del venticinque per cento rispetto al marzo 2008, è precipitata al livello addirittura di vent’anni fa. Lo ha osservato ieri il governatore della Banca d’Italia nel suo intervento in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio.
Proiettate su questo sfondo sgradevole ma ineludibile, le polemiche relative al taglio dell’Irap appaiono piuttosto meschine, prive del grande respiro necessario per uscire bene dalla crisi.
Occorre infatti osservare che mentre la caduta produttiva è stata all’incirca uguale per tutti i Paesi avanzati - si colloca attorno al 5 - 6 per cento del prodotto lordo rispetto agli ultimi valori pre-crisi - per economie come quelle tedesca, francese e americana che normalmente crescono dell’1,5 - 2,5 per cento l’anno, ci vorranno 2-4 anni per tornare ai livelli produttivi precedenti, sempre che la fragilissima tendenza positiva degli ultimi 2-3 mesi si consolidi davvero. L’Italia, al contrario, se dovesse tornare alla crescita a passo di lumaca alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ci metterebbe cinque, forse sette anni per recuperare il livello di prodotto per abitante del 2007-08: sette anni di vacche magre che seguirebbero a sette anni di vacche solo apparentemente grasse durante le quali non abbiamo messo quasi nulla nei granai.
Ci ritroviamo, infatti, non solo con una popolazione invecchiata ma anche con meccanismi economici e fiscali arrugginiti e con settori in cui punte di straordinaria eccellenza convivono con ampie zone di quasi altrettanto straordinaria mediocrità, con imprese che fanno fatica a muoversi in un panorama mondiale divenuto sempre più competitivo senza avere alle spalle il tipo di supporto sul quale possono contare le loro concorrenti di altri paesi.
Eppure riusciamo solo a pensare - e per di più disordinatamente - al futuro immediato. A trattare l’Irap soltanto come possibile oggetto di «sforbiciate» che tocchino, senza distinzione tra «buoni» e «cattivi», tutte le piccole o medie imprese non porterebbe ad alcun vero vantaggio. Tali «sforbiciate» non migliorerebbero, infatti, la situazione italiana di fronte a concorrenti che, grazie a bilanci pubblici decisamente più solidi e a visioni strategiche più chiare, hanno già messo in atto efficaci politiche di riqualificazione industriale.
E’ deleterio che ci si limiti a parlare dell’Irap in termini di riduzione di quantità e non invece di aumento di «qualità», di modificazione profonda. Occorrerebbe partire dalla constatazione che, quale che sia il giudizio storico che se ne vuol dare, l’Irap è oggi un’imposta inadatta alle condizioni congiunturali e strutturali in cui si trova l’economia italiana, con forti effetti collaterali negativi sulle imprese. A parità di gettito, è sicuramente possibile immaginarne una maggiormente capace di stimolare investimenti e crescita e, in definitiva, di favorire l’occupazione. Basterebbe, all’occorrenza «copiare» a piene mani i meccanismi fiscali tedesco e francese di tassazione delle imprese.
Più ancora del boccon di pane eventualmente dato a imprese affamate con una «sforbiciata» che costerebbe comunque diversi miliardi di euro, è importante uno strumento che permetta alle imprese buone di crescere e a quelle meno buone di essere assorbite o ristrutturate. E occorrerebbero punti di riferimento, l’individuazione di settori nei quali si vorrebbe crescere, di strade da percorrere e obiettivi da raggiungere. Su tutto questo, né dalla maggioranza né dall’opposizione pare esser stata avviata alcuna riflessione veramente importante. L’accenno fatto dal ministro dell’Economia durante la stessa Giornata Mondiale del Risparmio per «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto tra debito e patrimonio» potrebbe contenere qualche novità interessante ma è un fiorellino solitario e striminzito in una landa deserta. Ed appare particolarmente infelice il termine «assistenza»: non abbiamo bisogno di un’economia assistita ma di fornire un sostegno che compensi le maggiori difficoltà strutturali delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri Paesi.
Il Paese appare quindi impreparato ad affrontare i propri problemi del lungo periodo. Purtroppo lo stesso si può dire anche per il breve periodo, dove la minaccia reale, enunciata chiaramente dalla presidente di Confindustria, è quella del collasso, entro brevissimo termine, di una parte consistente del tessuto delle imprese piccole e medie non tanto o non solo per incapacità propria quanto per motivi di liquidità legati a fattori esterni: rimborsi fiscali in irrimediabile ritardo fanno il paio con forniture non pagate, magari dalle stesse amministrazioni pubbliche che dovrebbero occuparsi della buona salute delle imprese. Se il governo vuole davvero far qualcosa, in primo luogo paghi i debiti commerciali; e riformi una legge ormai infelice. Con la consapevolezza che la partita sarà in ogni caso molto difficile. Come ha detto il governatore della Banca d’Italia parlando della situazione mondiale, «le cose non torneranno come prima».
mario.deaglio@unito.it
Niente sarà più come prima
MARIO DEAGLIO
Il prodotto interno lordo italiano è caduto al livello di dieci anni fa, la produzione industriale italiana, con il suo balzo all’indietro del venticinque per cento rispetto al marzo 2008, è precipitata al livello addirittura di vent’anni fa. Lo ha osservato ieri il governatore della Banca d’Italia nel suo intervento in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio.
Proiettate su questo sfondo sgradevole ma ineludibile, le polemiche relative al taglio dell’Irap appaiono piuttosto meschine, prive del grande respiro necessario per uscire bene dalla crisi.
Occorre infatti osservare che mentre la caduta produttiva è stata all’incirca uguale per tutti i Paesi avanzati - si colloca attorno al 5 - 6 per cento del prodotto lordo rispetto agli ultimi valori pre-crisi - per economie come quelle tedesca, francese e americana che normalmente crescono dell’1,5 - 2,5 per cento l’anno, ci vorranno 2-4 anni per tornare ai livelli produttivi precedenti, sempre che la fragilissima tendenza positiva degli ultimi 2-3 mesi si consolidi davvero. L’Italia, al contrario, se dovesse tornare alla crescita a passo di lumaca alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ci metterebbe cinque, forse sette anni per recuperare il livello di prodotto per abitante del 2007-08: sette anni di vacche magre che seguirebbero a sette anni di vacche solo apparentemente grasse durante le quali non abbiamo messo quasi nulla nei granai.
Ci ritroviamo, infatti, non solo con una popolazione invecchiata ma anche con meccanismi economici e fiscali arrugginiti e con settori in cui punte di straordinaria eccellenza convivono con ampie zone di quasi altrettanto straordinaria mediocrità, con imprese che fanno fatica a muoversi in un panorama mondiale divenuto sempre più competitivo senza avere alle spalle il tipo di supporto sul quale possono contare le loro concorrenti di altri paesi.
Eppure riusciamo solo a pensare - e per di più disordinatamente - al futuro immediato. A trattare l’Irap soltanto come possibile oggetto di «sforbiciate» che tocchino, senza distinzione tra «buoni» e «cattivi», tutte le piccole o medie imprese non porterebbe ad alcun vero vantaggio. Tali «sforbiciate» non migliorerebbero, infatti, la situazione italiana di fronte a concorrenti che, grazie a bilanci pubblici decisamente più solidi e a visioni strategiche più chiare, hanno già messo in atto efficaci politiche di riqualificazione industriale.
E’ deleterio che ci si limiti a parlare dell’Irap in termini di riduzione di quantità e non invece di aumento di «qualità», di modificazione profonda. Occorrerebbe partire dalla constatazione che, quale che sia il giudizio storico che se ne vuol dare, l’Irap è oggi un’imposta inadatta alle condizioni congiunturali e strutturali in cui si trova l’economia italiana, con forti effetti collaterali negativi sulle imprese. A parità di gettito, è sicuramente possibile immaginarne una maggiormente capace di stimolare investimenti e crescita e, in definitiva, di favorire l’occupazione. Basterebbe, all’occorrenza «copiare» a piene mani i meccanismi fiscali tedesco e francese di tassazione delle imprese.
Più ancora del boccon di pane eventualmente dato a imprese affamate con una «sforbiciata» che costerebbe comunque diversi miliardi di euro, è importante uno strumento che permetta alle imprese buone di crescere e a quelle meno buone di essere assorbite o ristrutturate. E occorrerebbero punti di riferimento, l’individuazione di settori nei quali si vorrebbe crescere, di strade da percorrere e obiettivi da raggiungere. Su tutto questo, né dalla maggioranza né dall’opposizione pare esser stata avviata alcuna riflessione veramente importante. L’accenno fatto dal ministro dell’Economia durante la stessa Giornata Mondiale del Risparmio per «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto tra debito e patrimonio» potrebbe contenere qualche novità interessante ma è un fiorellino solitario e striminzito in una landa deserta. Ed appare particolarmente infelice il termine «assistenza»: non abbiamo bisogno di un’economia assistita ma di fornire un sostegno che compensi le maggiori difficoltà strutturali delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri Paesi.
Il Paese appare quindi impreparato ad affrontare i propri problemi del lungo periodo. Purtroppo lo stesso si può dire anche per il breve periodo, dove la minaccia reale, enunciata chiaramente dalla presidente di Confindustria, è quella del collasso, entro brevissimo termine, di una parte consistente del tessuto delle imprese piccole e medie non tanto o non solo per incapacità propria quanto per motivi di liquidità legati a fattori esterni: rimborsi fiscali in irrimediabile ritardo fanno il paio con forniture non pagate, magari dalle stesse amministrazioni pubbliche che dovrebbero occuparsi della buona salute delle imprese. Se il governo vuole davvero far qualcosa, in primo luogo paghi i debiti commerciali; e riformi una legge ormai infelice. Con la consapevolezza che la partita sarà in ogni caso molto difficile. Come ha detto il governatore della Banca d’Italia parlando della situazione mondiale, «le cose non torneranno come prima».
mario.deaglio@unito.it
Giuseppe Berta: Mi-TO, prove di megalopoli
da La Stampa
30/10/2009
Mi-To, prove di megalopoli
GIUSEPPE BERTA
Il momento in cui Mi-To, l’ipotesi di integrazione fra Torino e Milano che da anni è tema di confronto, passerà finalmente alla prova dei fatti è ormai prossimo. A metà di dicembre il collegamento ferroviario veloce fra le due città sarà in funzione e davvero, nel volgere di un’ora, ci si potrà spostare dai portici di via Roma alla galleria di piazza Duomo.
Inutile aggiungere che le attese riposte negli effetti virtuosi dell’alta velocità sono molto elevate. In vista della sua realizzazione sono stati sostenuti costi ingenti e sopportati disagi gravi.
Chi abbia la possibilità di gettare uno sguardo dall’alto sul nuovo tracciato ferroviario che costeggia l’autostrada vedrà sotto di sé un’immensa colata di cemento, come un solco che divide la pianura. Per ogni chilometro di binario c’è un cavalcavia, a testimonianza della proliferazione di microinteressi e attività collaterali che la costruzione di una grande opera è destinata a suscitare in Italia. Quanto ai disagi, ne hanno patiti ormai di infiniti gli utenti delle ferrovie come coloro che da tempo immemorabile sono costretti a convivere con progetti come il passante ferroviario di Torino (ne sanno qualcosa, per esempio, quelli che sono costretti all’avventura autentica costituita dall’attraversamento di piazza Statuto da una parte all’altra…).
Eppure, lo stravolgimento di ogni preventivo di costo e persino i ritardi innumerevoli dei treni, le loro cancellazioni, le piccole e meno piccole vessazioni quotidiane cui sono stati sottoposti i viaggiatori, saranno dimenticati presto, se l’alta velocità dimostrerà di adempiere alle sue promesse. Sul piano dei trasporti, ciò non significa soltanto rapidità e frequenza dei collegamenti della linea veloce, ma anche un miglioramento complessivo dell’offerta ferroviaria per i convogli in corsa sulla linea storica, quella che serve i pendolari fra le stazioni dislocate lungo l’asse Torino-Milano. Guai infatti se dovesse prevalere l’idea che il colossale investimento dell’alta velocità sia stato affrontato soltanto per dare agio all’élite degli utenti dei treni veloci, senza conseguenze positive sulla condizione, spesso penosa, di chi si deve servire del cosiddetto trasporto regionale.
Il rinnovamento dell’offerta ferroviaria è la chiave di volta di una politica della mobilità che dovrebbe imprimere una nuova spinta all’integrazione dei grandi poli del Nord-Ovest. Se le conseguenze dell’alta velocità saranno quelle che ci aspettiamo, cambierà persino il nostro modo di sentirsi cittadini. Nel senso che diverremo partecipi di un ventaglio assai più ricco di opportunità per il fatto di poter usufruire allo stesso tempo di ciò che di meglio Torino e Milano hanno da offrire. Migliore capacità di spostamento significa migliori possibilità di lavoro. Ma significa altresì poter combinare i vantaggi che offre il lavoro in un luogo e la residenza in un altro. Significa considerarsi cittadini di una megalopoli dai confini fluidi che, aumentando gli scambi e i contatti fra le persone, moltiplica le loro occasioni di vita, di impiego, di comunicazione, di informazione e formazione. Se ciò avverrà, se la distanza che separa Torino e Milano si ridurrà nei dati concreti e soprattutto nell’esperienza delle persone, avremo messo in moto un volano di sviluppo in grado di moltiplicare le risorse a nostra disposizione.
Ma nel porre a fuoco i vantaggi virtuali indotti dai treni veloci, non si possono trascurare i sospetti, le diffidenze e le resistenze che Mi-To continua a generare. Sarebbe sbagliato passare sotto silenzio le opinioni che si ascoltano sovente presso il pubblico già oggi in perenne transito tra le due città. Un pubblico che non di rado guarda con occhio critico alle intese fra Torino e Milano, denunciandone le asimmetrie e le contraddizioni.
L’integrazione del Nord-Ovest andrà avanti soltanto se Milano mostrerà di credere nella prospettiva di una megalopoli che non consiste semplicemente nell’ampliamento dei confini ambrosiani. La Milano di oggi è una grande città che conserva intatta la sua forza economica, ma relativamente povera di visione e di respiro progettuale, con una consapevolezza appannata del proprio ruolo nel rilancio della società settentrionale. Se Torino ha il difetto di interrogarsi fin troppo su se stessa e sui caratteri del suo mutamento, il capoluogo lombardo soffre semmai di quello opposto. Col rischio di affidarsi, nella costruzione delle alleanze fra città, al semplice rapporto di forze, che va a suo favore. Ma la megalopoli del Nord-Ovest non si crea così, quando occorre pensare a nuove frontiere amministrative per un’area vasta e complessa. Si crea piuttosto su una scommessa condivisa per realizzare una realtà inedita e più ricca per tutti.
30/10/2009
Mi-To, prove di megalopoli
GIUSEPPE BERTA
Il momento in cui Mi-To, l’ipotesi di integrazione fra Torino e Milano che da anni è tema di confronto, passerà finalmente alla prova dei fatti è ormai prossimo. A metà di dicembre il collegamento ferroviario veloce fra le due città sarà in funzione e davvero, nel volgere di un’ora, ci si potrà spostare dai portici di via Roma alla galleria di piazza Duomo.
Inutile aggiungere che le attese riposte negli effetti virtuosi dell’alta velocità sono molto elevate. In vista della sua realizzazione sono stati sostenuti costi ingenti e sopportati disagi gravi.
Chi abbia la possibilità di gettare uno sguardo dall’alto sul nuovo tracciato ferroviario che costeggia l’autostrada vedrà sotto di sé un’immensa colata di cemento, come un solco che divide la pianura. Per ogni chilometro di binario c’è un cavalcavia, a testimonianza della proliferazione di microinteressi e attività collaterali che la costruzione di una grande opera è destinata a suscitare in Italia. Quanto ai disagi, ne hanno patiti ormai di infiniti gli utenti delle ferrovie come coloro che da tempo immemorabile sono costretti a convivere con progetti come il passante ferroviario di Torino (ne sanno qualcosa, per esempio, quelli che sono costretti all’avventura autentica costituita dall’attraversamento di piazza Statuto da una parte all’altra…).
Eppure, lo stravolgimento di ogni preventivo di costo e persino i ritardi innumerevoli dei treni, le loro cancellazioni, le piccole e meno piccole vessazioni quotidiane cui sono stati sottoposti i viaggiatori, saranno dimenticati presto, se l’alta velocità dimostrerà di adempiere alle sue promesse. Sul piano dei trasporti, ciò non significa soltanto rapidità e frequenza dei collegamenti della linea veloce, ma anche un miglioramento complessivo dell’offerta ferroviaria per i convogli in corsa sulla linea storica, quella che serve i pendolari fra le stazioni dislocate lungo l’asse Torino-Milano. Guai infatti se dovesse prevalere l’idea che il colossale investimento dell’alta velocità sia stato affrontato soltanto per dare agio all’élite degli utenti dei treni veloci, senza conseguenze positive sulla condizione, spesso penosa, di chi si deve servire del cosiddetto trasporto regionale.
Il rinnovamento dell’offerta ferroviaria è la chiave di volta di una politica della mobilità che dovrebbe imprimere una nuova spinta all’integrazione dei grandi poli del Nord-Ovest. Se le conseguenze dell’alta velocità saranno quelle che ci aspettiamo, cambierà persino il nostro modo di sentirsi cittadini. Nel senso che diverremo partecipi di un ventaglio assai più ricco di opportunità per il fatto di poter usufruire allo stesso tempo di ciò che di meglio Torino e Milano hanno da offrire. Migliore capacità di spostamento significa migliori possibilità di lavoro. Ma significa altresì poter combinare i vantaggi che offre il lavoro in un luogo e la residenza in un altro. Significa considerarsi cittadini di una megalopoli dai confini fluidi che, aumentando gli scambi e i contatti fra le persone, moltiplica le loro occasioni di vita, di impiego, di comunicazione, di informazione e formazione. Se ciò avverrà, se la distanza che separa Torino e Milano si ridurrà nei dati concreti e soprattutto nell’esperienza delle persone, avremo messo in moto un volano di sviluppo in grado di moltiplicare le risorse a nostra disposizione.
Ma nel porre a fuoco i vantaggi virtuali indotti dai treni veloci, non si possono trascurare i sospetti, le diffidenze e le resistenze che Mi-To continua a generare. Sarebbe sbagliato passare sotto silenzio le opinioni che si ascoltano sovente presso il pubblico già oggi in perenne transito tra le due città. Un pubblico che non di rado guarda con occhio critico alle intese fra Torino e Milano, denunciandone le asimmetrie e le contraddizioni.
L’integrazione del Nord-Ovest andrà avanti soltanto se Milano mostrerà di credere nella prospettiva di una megalopoli che non consiste semplicemente nell’ampliamento dei confini ambrosiani. La Milano di oggi è una grande città che conserva intatta la sua forza economica, ma relativamente povera di visione e di respiro progettuale, con una consapevolezza appannata del proprio ruolo nel rilancio della società settentrionale. Se Torino ha il difetto di interrogarsi fin troppo su se stessa e sui caratteri del suo mutamento, il capoluogo lombardo soffre semmai di quello opposto. Col rischio di affidarsi, nella costruzione delle alleanze fra città, al semplice rapporto di forze, che va a suo favore. Ma la megalopoli del Nord-Ovest non si crea così, quando occorre pensare a nuove frontiere amministrative per un’area vasta e complessa. Si crea piuttosto su una scommessa condivisa per realizzare una realtà inedita e più ricca per tutti.
Fulvia Bandoli: Noi, il PD e la Costituente
dal sito di SD
Noi, il Pd, la costituente
di Fulvia Bandoli
Ven, 30/10/2009 - 07:39
Sul Pd : c’è un cambio ma non sappiamo ancora in quale direzione, io metterei alla prova Bersani e il suo Pd su questioni concrete, sul precariato ( legge che non riuscimmo a cambiare nell’ultimo governo nostro perché le resistenze erano tutte all’interno di quello che oggi è il pd, sulla laicità e sui diritti civili, sul lavoro e sui salari e non ultimo sui temi ambientali e del disarmo (nucleare, riassetto idrogeologico,ponte sullo stretto, diminuzione delle spese militari). Non mi accontenterei solo di un appello ad unire le opposizioni a difesa della Costituzione e della democrazia (questa è una battaglia popolare e democratica che va senza dubbio fatta assieme a tutti coloro che vorranno senza preclusioni di sorta). Ma se veramente anche al Pd sta a cuore la costruzione di un nuovo campo di alleanze, una nuova coalizione politica e programmatica alternativa alle destre, cominci quel partito ad indicarne i terreni e cominci a pronunciarsi su quelli che da noi e da altri vengono proposti, iniziando da alcune questioni che incrociano la vita di milioni di persone. E non da ultimo che il Pd chiarisca quale legge elettorale ha in mente per l’Italia e come intende muoversi qualora venga proposto lo sbarramento del 4 per cento alle regionali.
Su di noi: In Polonia ricostruiscono La Sinistra attorno ad un giornale e ai circoli che sono nati in questi anni (e sottolineo anni) per sostenere le battaglie politiche che quel giornale proponeva e metteva in piedi nei vari territori. Tra un po’ quei circoli e tutta la politica che sono riusciti a fare diventeranno un partito non tradizionale, con pratiche diverse da quelle dei partiti del 900. In Germania la Linke invece è partita come una lista elettorale ma con una forte unità di intenti e di strategia tra i contraenti e anche se non hanno ancora fatto un congresso e se non si può ancora dire che la Linke sia un partito il loro radicamento sociale è tale che la scelta verrà di conseguenza. Quella polacca è una scelta si potrebbe dire più dal basso, attorno ad un giornale, ad un gruppo di intellettuali. Quella tedesca parte da quello che si chiama ceto politico ( la parte di Spd uscita con Lafontaine e i comunisti dell’est di Gysi), ma averlo un ceto politico così, che unitariamente e senza fare delle identità di ognuno una clava prende una strada unitaria e quella mantiene per 5 anni e oltre! Noi non l’abbiamo avuto! Sono due strade diverse tra loro che però stanno dando buoni frutti nei rispettivi paesi. Io non indico modelli, guardo queste realtà e poi la nostra e faccio notare che noi non abbiamo preso con chiarezza né l’una né l’altra strada.
Noi abbiamo preso una ibrida terza strada, scambiando la lista con il soggetto politico e il soggetto politico con la lista a seconda dei casi , e abbiamo perso anni preziosi.
E ancora oggi è bene non confondere i piani : una cosa è una grande alleanza per la difesa della Costituzione se Berlusconi decidesse di mettervi ulteriormente mano per scassarla ( alleanza che si esprimerebbe in iniziative unitarie e in movimenti di popolo, senza esclusione alcuna, per far fronte a una vera emergenza democratica), altra cosa sono le liste elettorali per le regionali ( che non possono essere fatte a prescindere dai candidati presidenti che verranno proposti, e dai contenuti che per quanto attiene l’Udc mi paiono di difficile definizione comune su punti sostanziali di governo, dalla scuola alla sanità, dalla laicità, ai diritti civili alle politiche ambientali ed energetiche, alle questioni del lavoro e del welfare …).
Altra cosa ancora è costruire un partito della Sinistra che provi a durare nel tempo. Solo se vi fosse stata una unità di intenti chiara e una ipotesi strategica condivisa una lista elettorale poteva diventare mano a mano anche un partito (come sta accadendo in germania), ma evidentemente da noi non è accaduto , questa unità di intenti non c’era e non c’è. L’ipotesi di fondare un partito attraverso la somma di piccoli partititi in Italia è dunque fallita due volte . Pur negandola a parole questa è stata nei fatti la strada seguita e in parte lo è ancora: a me pare indispensabile abbandonarla definitivamente e distinguere i percorsi chiamando le cose con il loro vero nome. Una grande alleanza per la difesa della democrazia e della Costituzione raccoglie tutte e tutti coloro che lo decidono ed è una battaglia civile di prima grandezza ma non è detto che diventi anche una ipotesi di governo nazionale alternativa alle destre, le liste elettorali nascono muoiono si allargano a partire da programmi trasparenti e condivisi e possono sostenere questo o quel candidato o anche presentarsi autonomamente , la costruzione di un soggetto politico ( partito) della Sinistra si fa con le donne e gli uomini che vogliono farlo, è un percorso paziente e che dura, chiama alla partecipazione gli iscritti, prova a far uscire con iniziative politiche e precise battaglie il proprio profilo.
Al punto in cui siamo noi abbiamo bisogno che si consolidi la Costituente con tutte le donne e gli uomini che vorranno aderirvi e per fare questo l’apertura deve essere massima e non un’ annessione di qualche “indipendente” o “esterno”, che si facciano circoli territoriali di aderenti e che l’assemblea di dicembre ( composta da aderenti eletti) sia il momento per decidere il nome ( perchè ne circolano troppe versioni) e la legittima attribuzione agli aderenti del simbolo, le prime basilari regole democratiche del nostro funzionamento, i principi ideali del nostro profilo, le questioni programmatiche che più ci caratterizzano. Ho l’impressione che le liste per le regionali saranno invece un bel miscuglio di cose e che le alleanze saranno assai variabili da regione a regione, insomma ribadisco… dire che si fa un partito quando invece si sta facendo una lista elettorale non ci fa bene e troppe volte l’abbiamo fatto e abbiamo sbagliato. So che non pongo un tema semplice ma è una questione seria e non possiamo sempre ignorarla. Per spiegarmi ancora meglio i Verdi o Rifondazione che non vogliono stare nel nuovo partito della Sinistra forse vorranno fare una lista insieme o un cartello o non so cosa e in alcune regioni anche i socialisti che non vogliono rinunciare al loro simbolo….fare con loro una lista si può naturalmente, ma possiamo ancora far finta che stiamo facendo un partito con questi gruppi dirigenti quando non è così?
La Sinistra che vorrei non è socialista perchè c’è Nencini, comunista perchè c’è Vendola , ambientalista perché c’è la Francescato . Il partito della sinistra che immagino è laico e socialista per il meglio che quella tradizione ha prodotto, femminista perchè la libertà femminile è venuta al mondo in questo secolo, è ambientalista e non violento perchè le nuove contraddizioni dello sviluppo lo impongono, mette al centro il lavoro ( pur con tutte le sue trasformazioni )e la giustizia sociale come la migliore tradizione del comunismo italiano ha insegnato a diversi di noi, e poi è anche molto altro ,come ci chiedono coloro che hanno vent’anni o trent’anni che non sanno ancora precisamente perchè si dicono di sinistra eppure lo fanno.
Se poi mi fossi sbagliata e in questi giorni come d’incanto tutte le resistenze a dar vita ad un nuovo soggetto politico fossero sparite da tutti i gruppi dirigenti dei vari piccoli partiti io ne sarei felice, perché vorrebbe dire che anche noi cominceremmo ad avere, come in germania, un gruppo dirigente coeso che sa finalmente dove vuole portare il consenso elettorale che ha ricevuto. Questo non ci esimerebbe dalla necessità di fare comunque una costituente aperta e partecipata e dal darci regole democratiche e non spartitorie.
Noi, il Pd, la costituente
di Fulvia Bandoli
Ven, 30/10/2009 - 07:39
Sul Pd : c’è un cambio ma non sappiamo ancora in quale direzione, io metterei alla prova Bersani e il suo Pd su questioni concrete, sul precariato ( legge che non riuscimmo a cambiare nell’ultimo governo nostro perché le resistenze erano tutte all’interno di quello che oggi è il pd, sulla laicità e sui diritti civili, sul lavoro e sui salari e non ultimo sui temi ambientali e del disarmo (nucleare, riassetto idrogeologico,ponte sullo stretto, diminuzione delle spese militari). Non mi accontenterei solo di un appello ad unire le opposizioni a difesa della Costituzione e della democrazia (questa è una battaglia popolare e democratica che va senza dubbio fatta assieme a tutti coloro che vorranno senza preclusioni di sorta). Ma se veramente anche al Pd sta a cuore la costruzione di un nuovo campo di alleanze, una nuova coalizione politica e programmatica alternativa alle destre, cominci quel partito ad indicarne i terreni e cominci a pronunciarsi su quelli che da noi e da altri vengono proposti, iniziando da alcune questioni che incrociano la vita di milioni di persone. E non da ultimo che il Pd chiarisca quale legge elettorale ha in mente per l’Italia e come intende muoversi qualora venga proposto lo sbarramento del 4 per cento alle regionali.
Su di noi: In Polonia ricostruiscono La Sinistra attorno ad un giornale e ai circoli che sono nati in questi anni (e sottolineo anni) per sostenere le battaglie politiche che quel giornale proponeva e metteva in piedi nei vari territori. Tra un po’ quei circoli e tutta la politica che sono riusciti a fare diventeranno un partito non tradizionale, con pratiche diverse da quelle dei partiti del 900. In Germania la Linke invece è partita come una lista elettorale ma con una forte unità di intenti e di strategia tra i contraenti e anche se non hanno ancora fatto un congresso e se non si può ancora dire che la Linke sia un partito il loro radicamento sociale è tale che la scelta verrà di conseguenza. Quella polacca è una scelta si potrebbe dire più dal basso, attorno ad un giornale, ad un gruppo di intellettuali. Quella tedesca parte da quello che si chiama ceto politico ( la parte di Spd uscita con Lafontaine e i comunisti dell’est di Gysi), ma averlo un ceto politico così, che unitariamente e senza fare delle identità di ognuno una clava prende una strada unitaria e quella mantiene per 5 anni e oltre! Noi non l’abbiamo avuto! Sono due strade diverse tra loro che però stanno dando buoni frutti nei rispettivi paesi. Io non indico modelli, guardo queste realtà e poi la nostra e faccio notare che noi non abbiamo preso con chiarezza né l’una né l’altra strada.
Noi abbiamo preso una ibrida terza strada, scambiando la lista con il soggetto politico e il soggetto politico con la lista a seconda dei casi , e abbiamo perso anni preziosi.
E ancora oggi è bene non confondere i piani : una cosa è una grande alleanza per la difesa della Costituzione se Berlusconi decidesse di mettervi ulteriormente mano per scassarla ( alleanza che si esprimerebbe in iniziative unitarie e in movimenti di popolo, senza esclusione alcuna, per far fronte a una vera emergenza democratica), altra cosa sono le liste elettorali per le regionali ( che non possono essere fatte a prescindere dai candidati presidenti che verranno proposti, e dai contenuti che per quanto attiene l’Udc mi paiono di difficile definizione comune su punti sostanziali di governo, dalla scuola alla sanità, dalla laicità, ai diritti civili alle politiche ambientali ed energetiche, alle questioni del lavoro e del welfare …).
Altra cosa ancora è costruire un partito della Sinistra che provi a durare nel tempo. Solo se vi fosse stata una unità di intenti chiara e una ipotesi strategica condivisa una lista elettorale poteva diventare mano a mano anche un partito (come sta accadendo in germania), ma evidentemente da noi non è accaduto , questa unità di intenti non c’era e non c’è. L’ipotesi di fondare un partito attraverso la somma di piccoli partititi in Italia è dunque fallita due volte . Pur negandola a parole questa è stata nei fatti la strada seguita e in parte lo è ancora: a me pare indispensabile abbandonarla definitivamente e distinguere i percorsi chiamando le cose con il loro vero nome. Una grande alleanza per la difesa della democrazia e della Costituzione raccoglie tutte e tutti coloro che lo decidono ed è una battaglia civile di prima grandezza ma non è detto che diventi anche una ipotesi di governo nazionale alternativa alle destre, le liste elettorali nascono muoiono si allargano a partire da programmi trasparenti e condivisi e possono sostenere questo o quel candidato o anche presentarsi autonomamente , la costruzione di un soggetto politico ( partito) della Sinistra si fa con le donne e gli uomini che vogliono farlo, è un percorso paziente e che dura, chiama alla partecipazione gli iscritti, prova a far uscire con iniziative politiche e precise battaglie il proprio profilo.
Al punto in cui siamo noi abbiamo bisogno che si consolidi la Costituente con tutte le donne e gli uomini che vorranno aderirvi e per fare questo l’apertura deve essere massima e non un’ annessione di qualche “indipendente” o “esterno”, che si facciano circoli territoriali di aderenti e che l’assemblea di dicembre ( composta da aderenti eletti) sia il momento per decidere il nome ( perchè ne circolano troppe versioni) e la legittima attribuzione agli aderenti del simbolo, le prime basilari regole democratiche del nostro funzionamento, i principi ideali del nostro profilo, le questioni programmatiche che più ci caratterizzano. Ho l’impressione che le liste per le regionali saranno invece un bel miscuglio di cose e che le alleanze saranno assai variabili da regione a regione, insomma ribadisco… dire che si fa un partito quando invece si sta facendo una lista elettorale non ci fa bene e troppe volte l’abbiamo fatto e abbiamo sbagliato. So che non pongo un tema semplice ma è una questione seria e non possiamo sempre ignorarla. Per spiegarmi ancora meglio i Verdi o Rifondazione che non vogliono stare nel nuovo partito della Sinistra forse vorranno fare una lista insieme o un cartello o non so cosa e in alcune regioni anche i socialisti che non vogliono rinunciare al loro simbolo….fare con loro una lista si può naturalmente, ma possiamo ancora far finta che stiamo facendo un partito con questi gruppi dirigenti quando non è così?
La Sinistra che vorrei non è socialista perchè c’è Nencini, comunista perchè c’è Vendola , ambientalista perché c’è la Francescato . Il partito della sinistra che immagino è laico e socialista per il meglio che quella tradizione ha prodotto, femminista perchè la libertà femminile è venuta al mondo in questo secolo, è ambientalista e non violento perchè le nuove contraddizioni dello sviluppo lo impongono, mette al centro il lavoro ( pur con tutte le sue trasformazioni )e la giustizia sociale come la migliore tradizione del comunismo italiano ha insegnato a diversi di noi, e poi è anche molto altro ,come ci chiedono coloro che hanno vent’anni o trent’anni che non sanno ancora precisamente perchè si dicono di sinistra eppure lo fanno.
Se poi mi fossi sbagliata e in questi giorni come d’incanto tutte le resistenze a dar vita ad un nuovo soggetto politico fossero sparite da tutti i gruppi dirigenti dei vari piccoli partiti io ne sarei felice, perché vorrebbe dire che anche noi cominceremmo ad avere, come in germania, un gruppo dirigente coeso che sa finalmente dove vuole portare il consenso elettorale che ha ricevuto. Questo non ci esimerebbe dalla necessità di fare comunque una costituente aperta e partecipata e dal darci regole democratiche e non spartitorie.
Paolo Flores d'Arcais: Il DNA della socialdemocrazia
Il Dna della socialdemocrazia
di Paolo Flores d'Arcais, da "Il manifesto", 28 ottobre 2009
Credo di aver scritto il primo articolo su «la crisi della socialdemocrazia» circa un quarto di secolo fa, e molti mi avevano preceduto. Questo per dire che il tema non è nuovo, che la socialdemocrazia in un certo senso è stata sempre in crisi (tranne quelle scandinave, che non hanno mai fatto scuola). La radice della sua crisi sta infatti nello scarto (spesso un abisso) tra dire e fare. La socialdemocrazia doveva costituire un'alternativa al comunismo nella difesa dell'eguaglianza contro il sistema del privilegio. L'alternativa al comunismo è restata (giustamente) ma la battaglia per l'eguaglianza (dunque la lotta contro il privilegio) è regredita a flatus vocis. Anche nella forma minimalista delle «eguali chance di partenza», che pure fu teorizzata da tanti liberali come corollario della meritocrazia individuale.
È perciò più facile ricordare i rari momenti in cui la socialdemocrazia ha davvero alimentato speranze: il laburismo dell'immediato dopoguerra, che realizza con Attlee il welfare teorizzato da Beveridge; gli anni di Brandt, che il 7 dicembre 1970 si inginocchia nel ghetto di Varsavia; la stagione di Mitterrand, che interrompe la lunghissima egemonia gollista che pesava sulla Francia ormai come destino (o dannazione). Realizzazioni riformiste, cui quelle stesse socialdemocrazie non hanno dato seguito.
Il carattere di casta
La politica di welfare si è fermata poco oltre il servizio sanitario nazionale (che si è oltretutto rapidamente burocratizzato). La de-nazificazione radicale della Germania, che i governi democristiani avevano trascurato, non viene radicata in altrettanti mutamenti dei rapporti di forza sociali. E l'unità delle sinistra di Mitterrand, dopo la stagione promettente e brevissima dei «club», si risolve in compromessi fra apparati di partito, non in accrescimento del potere effettivo dei cittadini.
Perché questo è il punto - niente affatto secondario - che le analisi della «crisi della socialdemocrazia» non affrontano mai. Il carattere di apparato, di burocrazia, di nomenklatura, di casta, che sempre più hanno assunto anche a sinistra coloro che, per dirla con Weber, «vivono di politica» e della politica hanno fatto un mestiere. La trasformazione della democrazia parlamentare in partitocrazia, cioè in partiti-macchine autoreferenziali e sempre più simili fra loro, ha vanificato ogni giorno di più il rapporto di rappresentanza tra deputati e cittadini. La politica è diventata sempre più una attività privata, come qualsiasi altra attività imprenditoriale. Ma se la politica, cioè la sfera pubblica, diventa privata, diviene tale in un duplice senso: perché per il politico il proprio interesse (di ceto, di casta) prescinde ormai dagli interessi e valori dei cittadini che dovrebbe rappresentare, e perché il cittadino è ormai privato della sua quota di sovranità, anche nella forma delegata.
Il politico di destra e di sinistra finiscono per avere interessi di ceto fondamentalmente comuni - mediamente: il ragionamento trova sempre eccezioni sul piano delle singole persone - poiché fanno entrambi parte dell'establishment, del sistema del privilegio. Contro cui avrebbe invece dovuto combattere la socialdemocrazia, in nome dell'eguaglianza. Perché, si badi, era la «eguaglianza» il valore in base al quale si giustificava l'anticomunismo: il dispotismo politico è infatti la prima negazione dell'eguaglianza sociale, e il totalitarismo comunista la calpesta dunque a dismisura.
Senza la bussola dell'eguaglianza
La partitocrazia (di cui la socialdemocrazia è parte), poiché costituisce la pratica e crescente vanificazione del cittadino sovrano, la negazione dello spazio pubblico agli elettori, costituisce l'alambicco per ulteriori degenerazioni della democrazia parlamentare, cioè per più radicali sottrazioni di potere al cittadino: nella politica-spettacolo e nelle derive populiste che oggi sempre più attecchiscono in Europa. Ma è vero che la vicenda attuale delle socialdemocrazie sembra manifestare qualcosa di più: interi gruppi dirigenti non solo in crisi ma allo sbando, avvitati (nel senso degli aerei quando precipitano) in un vero e proprio cupio dissolvi. Il fatto è che la colpa originaria, aver dimenticato la bussola del valore «eguaglianza», senza il quale una sinistra diventa priva di senso, presenta ora il conto. Ragioniamo con ordine.
È paradossale che la socialdemocrazia conosca l'acme della crisi proprio quando più favorevoli sono le condizioni per la critica dell'establishment e per proposte di riforme radicali sul piano finanziario ed economico, poiché è sotto gli occhi di tutti, e anzi patito e sofferto da grandi masse, il disastro sociale prodotto dalla deriva del privilegio senza freni e dal dominio senza controlli e contrappesi del liberismo selvaggio, degli «spiriti animali» del profitto.
Ma la crisi produce incertezza per il futuro e la paura spinge le masse a destra, si dice. Solo perché la socialdemocrazia non ha saputo dare risposte in termini di riformismo, cioè di crescente giustizia sociale, al bisogno di sicurezza e di «futuro» di questi milioni di cittadini. Facciamo qualche esempio concreto. La paura rispetto al futuro prende facilmente le sembianze dell' «altro», l'immigrato che ci «ruba» il lavoro. Ma l'immigrato può «rubare» il lavoro solo perché accetta salari più bassi. La socialdemocrazia ha mai provato a fare una politica di sistematica punizione degli imprenditori, grandi e piccoli, che hanno impiegato gli immigrati a salari più bassi, e senza le altre costose garanzie normative ottenute da decenni di lotte sindacali? Analogamente per la de-localizzazione delle imprese, il fenomeno più vistoso della globalizzazione. L'imprenditore tedesco, o francese, o italiano, o spagnolo, spostando le attività produttive verso il terzo mondo, lucrava super-profitti sfruttando manodopera a salari infimi e senza tutela sindacale (per non parlare della libertà di inquinare in modo devastante). Ma i governi hanno strumenti potenti, se vogliono, per «sconsigliare» ai propri imprenditorie la corsa alla de-localizzazione, strumenti che la politica della Comunità europea può rendere ancora più convincenti e rafforzare a dismisura.
La socialdemocrazia si è invece piegata alla mondializzazione, quando non l'ha osannata, ma se l'imprenditore può pagare meno il lavoro, de-localizzando la fabbrica o pagando in nero il clandestino, si creano le condizioni di un «esercito salariale di riserva» potenzialmente infinito, che porterà i salari sempre più in basso, restituendo attualità a categoria marxiste che il welfare - e lotte di generazioni (non la spontaneità del mercato) - aveva rese obsolete. Eppure la socialdemocrazia è organizzata addirittura in una «Internazionale», e nelle istituzioni europee ha avuto a lungo un peso preponderante. Non è dunque che non potesse fare una politica diversa. È che non ha voluto. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Anche la socialdemocrazia ha accettato le più «tossiche» invenzioni finanziarie, e nulla di concreto ha fatto per distruggere i «paradisi fiscali» e il segreto bancario, strumenti dell'intreccio affaristico-mafioso a livello internazionale, col risultato che il potere delle mafie in Europa dilaga, da Mosca a Madrid, dalla Sicilia al Baltico, e neppure se ne parla. E lasciamo stare il problema dei media, assolutamente cruciale, visto che «un'opinione pubblica bene informata» dovrebbe costituire per i cittadini «la corte suprema», a cui potersi «sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l'indifferenza popolare o gli errori del governo», come scriveva Joseph Pulitzer (oltre un secolo fa!), mentre nulla le socialdemocrazie hanno fatto per approssimare questo irrinunciabile ideale.
Un progetto riformista
La socialdemocrazia doveva distinguersi dal comunismo nel metodo, per la rinuncia alla violenza rivoluzionaria, e nell'obiettivo, per la rinuncia alla distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Non era certo nel suo Dna, però, l'abdicazione a condizionare riformisticamente (cioè pesantemente) la logica del mercato, rendendola socialmente «virtuosa», piegandola agli imperativi di una costante redistribuzione del surplus in direzione dell'eguaglianza. Tradendo sistematicamente la sua unica ragion d'essere, la socialdemocrazia è stata in crisi anche quando ha vinto le elezioni e ha governato. Di quanto si sono ridotte le diseguaglianze sociali sotto i governi Blair? Di nulla, semmai il contrario. E con Schroeder? A che può servire una sinistra che fa una politica di destra, se non a preparare il ritorno dell'originale?
Non è difficile perciò delineare un progetto riformista, basta avere come stella polare l'accrescimento congiunto di libertà e giustizia (libertà civili e giustizia sociale). È impossibile però realizzarlo con gli attuali strumenti, i partiti-macchina. Perché appartengono strutturalmente al «partito del privilegio». Non possono essere la soluzione perché sono parte integrante del problema.
(28 ottobre 2009)
di Paolo Flores d'Arcais, da "Il manifesto", 28 ottobre 2009
Credo di aver scritto il primo articolo su «la crisi della socialdemocrazia» circa un quarto di secolo fa, e molti mi avevano preceduto. Questo per dire che il tema non è nuovo, che la socialdemocrazia in un certo senso è stata sempre in crisi (tranne quelle scandinave, che non hanno mai fatto scuola). La radice della sua crisi sta infatti nello scarto (spesso un abisso) tra dire e fare. La socialdemocrazia doveva costituire un'alternativa al comunismo nella difesa dell'eguaglianza contro il sistema del privilegio. L'alternativa al comunismo è restata (giustamente) ma la battaglia per l'eguaglianza (dunque la lotta contro il privilegio) è regredita a flatus vocis. Anche nella forma minimalista delle «eguali chance di partenza», che pure fu teorizzata da tanti liberali come corollario della meritocrazia individuale.
È perciò più facile ricordare i rari momenti in cui la socialdemocrazia ha davvero alimentato speranze: il laburismo dell'immediato dopoguerra, che realizza con Attlee il welfare teorizzato da Beveridge; gli anni di Brandt, che il 7 dicembre 1970 si inginocchia nel ghetto di Varsavia; la stagione di Mitterrand, che interrompe la lunghissima egemonia gollista che pesava sulla Francia ormai come destino (o dannazione). Realizzazioni riformiste, cui quelle stesse socialdemocrazie non hanno dato seguito.
Il carattere di casta
La politica di welfare si è fermata poco oltre il servizio sanitario nazionale (che si è oltretutto rapidamente burocratizzato). La de-nazificazione radicale della Germania, che i governi democristiani avevano trascurato, non viene radicata in altrettanti mutamenti dei rapporti di forza sociali. E l'unità delle sinistra di Mitterrand, dopo la stagione promettente e brevissima dei «club», si risolve in compromessi fra apparati di partito, non in accrescimento del potere effettivo dei cittadini.
Perché questo è il punto - niente affatto secondario - che le analisi della «crisi della socialdemocrazia» non affrontano mai. Il carattere di apparato, di burocrazia, di nomenklatura, di casta, che sempre più hanno assunto anche a sinistra coloro che, per dirla con Weber, «vivono di politica» e della politica hanno fatto un mestiere. La trasformazione della democrazia parlamentare in partitocrazia, cioè in partiti-macchine autoreferenziali e sempre più simili fra loro, ha vanificato ogni giorno di più il rapporto di rappresentanza tra deputati e cittadini. La politica è diventata sempre più una attività privata, come qualsiasi altra attività imprenditoriale. Ma se la politica, cioè la sfera pubblica, diventa privata, diviene tale in un duplice senso: perché per il politico il proprio interesse (di ceto, di casta) prescinde ormai dagli interessi e valori dei cittadini che dovrebbe rappresentare, e perché il cittadino è ormai privato della sua quota di sovranità, anche nella forma delegata.
Il politico di destra e di sinistra finiscono per avere interessi di ceto fondamentalmente comuni - mediamente: il ragionamento trova sempre eccezioni sul piano delle singole persone - poiché fanno entrambi parte dell'establishment, del sistema del privilegio. Contro cui avrebbe invece dovuto combattere la socialdemocrazia, in nome dell'eguaglianza. Perché, si badi, era la «eguaglianza» il valore in base al quale si giustificava l'anticomunismo: il dispotismo politico è infatti la prima negazione dell'eguaglianza sociale, e il totalitarismo comunista la calpesta dunque a dismisura.
Senza la bussola dell'eguaglianza
La partitocrazia (di cui la socialdemocrazia è parte), poiché costituisce la pratica e crescente vanificazione del cittadino sovrano, la negazione dello spazio pubblico agli elettori, costituisce l'alambicco per ulteriori degenerazioni della democrazia parlamentare, cioè per più radicali sottrazioni di potere al cittadino: nella politica-spettacolo e nelle derive populiste che oggi sempre più attecchiscono in Europa. Ma è vero che la vicenda attuale delle socialdemocrazie sembra manifestare qualcosa di più: interi gruppi dirigenti non solo in crisi ma allo sbando, avvitati (nel senso degli aerei quando precipitano) in un vero e proprio cupio dissolvi. Il fatto è che la colpa originaria, aver dimenticato la bussola del valore «eguaglianza», senza il quale una sinistra diventa priva di senso, presenta ora il conto. Ragioniamo con ordine.
È paradossale che la socialdemocrazia conosca l'acme della crisi proprio quando più favorevoli sono le condizioni per la critica dell'establishment e per proposte di riforme radicali sul piano finanziario ed economico, poiché è sotto gli occhi di tutti, e anzi patito e sofferto da grandi masse, il disastro sociale prodotto dalla deriva del privilegio senza freni e dal dominio senza controlli e contrappesi del liberismo selvaggio, degli «spiriti animali» del profitto.
Ma la crisi produce incertezza per il futuro e la paura spinge le masse a destra, si dice. Solo perché la socialdemocrazia non ha saputo dare risposte in termini di riformismo, cioè di crescente giustizia sociale, al bisogno di sicurezza e di «futuro» di questi milioni di cittadini. Facciamo qualche esempio concreto. La paura rispetto al futuro prende facilmente le sembianze dell' «altro», l'immigrato che ci «ruba» il lavoro. Ma l'immigrato può «rubare» il lavoro solo perché accetta salari più bassi. La socialdemocrazia ha mai provato a fare una politica di sistematica punizione degli imprenditori, grandi e piccoli, che hanno impiegato gli immigrati a salari più bassi, e senza le altre costose garanzie normative ottenute da decenni di lotte sindacali? Analogamente per la de-localizzazione delle imprese, il fenomeno più vistoso della globalizzazione. L'imprenditore tedesco, o francese, o italiano, o spagnolo, spostando le attività produttive verso il terzo mondo, lucrava super-profitti sfruttando manodopera a salari infimi e senza tutela sindacale (per non parlare della libertà di inquinare in modo devastante). Ma i governi hanno strumenti potenti, se vogliono, per «sconsigliare» ai propri imprenditorie la corsa alla de-localizzazione, strumenti che la politica della Comunità europea può rendere ancora più convincenti e rafforzare a dismisura.
La socialdemocrazia si è invece piegata alla mondializzazione, quando non l'ha osannata, ma se l'imprenditore può pagare meno il lavoro, de-localizzando la fabbrica o pagando in nero il clandestino, si creano le condizioni di un «esercito salariale di riserva» potenzialmente infinito, che porterà i salari sempre più in basso, restituendo attualità a categoria marxiste che il welfare - e lotte di generazioni (non la spontaneità del mercato) - aveva rese obsolete. Eppure la socialdemocrazia è organizzata addirittura in una «Internazionale», e nelle istituzioni europee ha avuto a lungo un peso preponderante. Non è dunque che non potesse fare una politica diversa. È che non ha voluto. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Anche la socialdemocrazia ha accettato le più «tossiche» invenzioni finanziarie, e nulla di concreto ha fatto per distruggere i «paradisi fiscali» e il segreto bancario, strumenti dell'intreccio affaristico-mafioso a livello internazionale, col risultato che il potere delle mafie in Europa dilaga, da Mosca a Madrid, dalla Sicilia al Baltico, e neppure se ne parla. E lasciamo stare il problema dei media, assolutamente cruciale, visto che «un'opinione pubblica bene informata» dovrebbe costituire per i cittadini «la corte suprema», a cui potersi «sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l'indifferenza popolare o gli errori del governo», come scriveva Joseph Pulitzer (oltre un secolo fa!), mentre nulla le socialdemocrazie hanno fatto per approssimare questo irrinunciabile ideale.
Un progetto riformista
La socialdemocrazia doveva distinguersi dal comunismo nel metodo, per la rinuncia alla violenza rivoluzionaria, e nell'obiettivo, per la rinuncia alla distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Non era certo nel suo Dna, però, l'abdicazione a condizionare riformisticamente (cioè pesantemente) la logica del mercato, rendendola socialmente «virtuosa», piegandola agli imperativi di una costante redistribuzione del surplus in direzione dell'eguaglianza. Tradendo sistematicamente la sua unica ragion d'essere, la socialdemocrazia è stata in crisi anche quando ha vinto le elezioni e ha governato. Di quanto si sono ridotte le diseguaglianze sociali sotto i governi Blair? Di nulla, semmai il contrario. E con Schroeder? A che può servire una sinistra che fa una politica di destra, se non a preparare il ritorno dell'originale?
Non è difficile perciò delineare un progetto riformista, basta avere come stella polare l'accrescimento congiunto di libertà e giustizia (libertà civili e giustizia sociale). È impossibile però realizzarlo con gli attuali strumenti, i partiti-macchina. Perché appartengono strutturalmente al «partito del privilegio». Non possono essere la soluzione perché sono parte integrante del problema.
(28 ottobre 2009)
Pietro Ancona: Veltroni e la morte del socialismo
Da Aprile on line
Veltroni e la morte del socialismo
Pietro Ancona, 29 ottobre 2009, 12:01
Dibattito Perchè gli ideali del socialismo sarebbero falliti? Perchè l'uguaglianza è incompatibile con la libertà? In un certo senso anche la sponda alla quale è approdato Veltroni appartiene al novecento: che cosa è oggi il liberismo se non una involuzione del liberalismo novecentesco? Meglio aprire un dibattito sul novecento prima di voltare le spalle alle rivoluzioni sociali che lo hanno animato
Con una intervista rilasciata al giornale degli industriali italiani Walter Veltroni ribadisce il suo definitivo rifiuto del socialismo dichiarandolo morto assieme al novecento che abbiamo alle spalle e reclamando l'uscita del PD dalla internazionale socialista che, proprio per togliere dall'imbarazzo gli excomunisti italiani e i loro amici della Margherita, ha recentemente cambiato denominazione diventando Asde e cioè alleanza tra socialisti e democratici europei. Il socialismo sarebbe morto -secondo Veltroni- perchè incapace di uscire dal Novecento, di rinunziare alla rappresentanza degli interessi dei sindacati, di capire "la modernità" etc..
Veltroni fa un riassunto della caduta elettorale dei partiti socialisti in Europa e ne trae la conclusione che a stare con loro si perde e quindi si muore.
Vorrei osservare come la perdita di peso e di capacità attrattiva dei socialisti europei sia legato non al loro essere "novecenteschi" cioè rappresentanti degli interessi politici delle classi lavoratrici ma alla fascinazione che alcuni gruppi dirigenti hanno avuto del liberismo nella sua fase reaganiana e tatcheriana. E' vero che Blair ha vinto in Gran Bretagna diventando "altro" dal laburismo dei suoi padri ma la sua vittoria ha rappresentato una secca perdita per il suo stesso elettorato dal momento che ha perduto molti diritti e molto del peso sociale che aveva conquistato in quasi due secoli di lotta. La socialdemocrazia ha perduto in Germania perchè si è alleata con la DC tedesca e per cinque anni ha prodotto una politica insoddisfacente. In Francia i socialisti si sono divisi: una parte di essi ragiona come Veltroni e cioè non è più socialista e la destra francese ha preso il sopravvento. Altro si può dire delle socialdemocrazie scandinave che vivono ancora del bagliore della grande civilizzazione che i loro programmi realizzati hanno prodotto nel Nord Europa facendone una oasi tra le più avanzate di democrazia dell'uguaglianza e della libertà.
La socialdemocrazia tedesca ha perduto una parte del suo elettorato che ha scelto la resistenza alla contaminazione ed alla subalternità alla ideologia liberista rafforzando il movimento socialista radicale di LaFontaine e dei Verdi.
Secondo il pensiero di Veltroni il PD se si apre a sinistra è destinato a perdere. Veltroni considera il Partito uno strumento elettorale per vincere e governare. Ma il governo in sè non può essere lo scopo di un Partito. La sua vocazione "maggioritaria" che Veltroni privilegia chiedendosi alla sinistra ed alle sue formazioni politiche non può prescindere dai "contenuti" e dai "valori" a meno che non si ritenga che questi siano secondari rispetto il fine catartico della vittoria e del governo. Un Partito è l'espressione di un movimento politico che sceglie di rappresentare talune istanze della società e di portarle avanti. Queste istanze sono prevalenti rispetto anche la stessa questione del governo. Un partito può conquistare alle sue idee ed alla gente che rappresenta molto anche stando all'opposizione come ci insegna la lunga e per certi versi da rivalutare esperienza di opposizione parlamentare e sociale del PCI e del PSI italiani che hanno dato al popolo di sinistra un potere sociale, un welfare, diritti che venti anni di destra berlusconiana aiutata dalla gente come Veltroni,Ichino ed altri non è ancora riuscita a distruggere del tutto. Partiti che decidono di recidere le loro radici dal socialismo per ingraziarsi i ceti produttivi oggi rappresentati da tanti partiti di destra e di centro non sono necessari. Sono un di più che la parte pensante ed avvertita del capitalismo non penso che gradisca dal momento che la depressione salariale e la condanna di oltre quattro milioni di lavoratori al precariato dà connotazioni di povertà ed anche di infelicità alla società nella quale viviamo e ne abbassa il tono e la vitalità.
La morte della dialettica politica e sociale con lo spazio parlamentare occupato solo da partiti di centro e di destra e lo spazio sindacale da sindacati collaborazionisti e subalterni paralizza ed impoverisce la società nel suo insieme. La precarietà chiamata flessibilità ed i bassi salari fanno stagnare la società e ne riducono la coesione sociale, la cultura, la voglia di futuro. No, quello che Veltroni chiama socialismo è il lievito salutare della società europea ed il futuro che il fallimento del darwinismo neoliberista non può dare. Basti guardare l'America di Obama ridotta a nascondere dietro parole "nuove" la logora ed asociale politica di Bush e delle multinazionali.
Leggevo oggi una intervista ad un professore irakeno che vive da anni a Londra esule dai tempi di Sadam Hussein che parlava di un Iraq controllato dagli americani in preda a massacri quasi quotidiani e corruzione. Un Irak diventato un inferno popolato da tre milioni di orfani e di vedove, di altri milioni di sfollati, di una immensa porzione di popolazione costituita da mutilati e feriti di guerra. Gli americani hanno portato il terrore permanente nelle aree che le loro multinazionali hanno deciso di colonizzare:Irak, Afghanistan, sempre di più Pakistan e forse domani Iran. Non c'è differenza tra il drone assassino che mandava il Generale di Bush e quello che manda oggi il Generale di Obama.
Questa politica militare dell'Impero, unita alla politica economica e sociale non può e non è certamente migliore dalla politica che la socialdemocrazia ha dato all'Europa ed al mondo in tantissimi anni purtroppo offuscati da sconsideratezze di gruppi dirigenti come quelli che in Italia hanno fatto degenerare la esperienza positiva dell'Ulivo nella fallimentare esperienza del centro-sinistra di Prodi sconfitta clamorosamente perchè ha tradito il suo elettorato di sinistra (come lo stesso Prodi ha riconosciuto con molta onestà).
Infine voglio dichiarare tutta la mia insofferenza verso le critiche al al novecento i secolo caratterizzato dal socialismo e dai movimenti di emancipazione. Perchè gli ideali del socialismo sarebbero falliti? Perchè l'uguaglianza è incompatibile con la libertà? In un certo senso anche la sponda alla quale è approdato Veltroni appartiene al novecento: che cosa è oggi il liberismo se non
una involuzione del liberalismo novecentesco?
Meglio aprire un dibattito sul novecento prima di voltare le spalle alle rivoluzioni sociali che lo hanno animato. La cultura europea di oggi è figlia dei grandi movimenti socialisti che la impregnano ancora dal momento che la libertà non è ed non sarà mai niente senza eguaglianza e senza una giusta ripartizione del potere economico. Alla base della Germania di oggi c'è la grande lezione dell'austromarxismo e dei grandi pensatori socialisti. Il socialismo è stato ed è tanto forte che i programmi degli stessi governi di centro-destra non possono ignorare ed accantonare anche se lo comprimono e vorrebbero sdradicarlo...
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
Veltroni e la morte del socialismo
Pietro Ancona, 29 ottobre 2009, 12:01
Dibattito Perchè gli ideali del socialismo sarebbero falliti? Perchè l'uguaglianza è incompatibile con la libertà? In un certo senso anche la sponda alla quale è approdato Veltroni appartiene al novecento: che cosa è oggi il liberismo se non una involuzione del liberalismo novecentesco? Meglio aprire un dibattito sul novecento prima di voltare le spalle alle rivoluzioni sociali che lo hanno animato
Con una intervista rilasciata al giornale degli industriali italiani Walter Veltroni ribadisce il suo definitivo rifiuto del socialismo dichiarandolo morto assieme al novecento che abbiamo alle spalle e reclamando l'uscita del PD dalla internazionale socialista che, proprio per togliere dall'imbarazzo gli excomunisti italiani e i loro amici della Margherita, ha recentemente cambiato denominazione diventando Asde e cioè alleanza tra socialisti e democratici europei. Il socialismo sarebbe morto -secondo Veltroni- perchè incapace di uscire dal Novecento, di rinunziare alla rappresentanza degli interessi dei sindacati, di capire "la modernità" etc..
Veltroni fa un riassunto della caduta elettorale dei partiti socialisti in Europa e ne trae la conclusione che a stare con loro si perde e quindi si muore.
Vorrei osservare come la perdita di peso e di capacità attrattiva dei socialisti europei sia legato non al loro essere "novecenteschi" cioè rappresentanti degli interessi politici delle classi lavoratrici ma alla fascinazione che alcuni gruppi dirigenti hanno avuto del liberismo nella sua fase reaganiana e tatcheriana. E' vero che Blair ha vinto in Gran Bretagna diventando "altro" dal laburismo dei suoi padri ma la sua vittoria ha rappresentato una secca perdita per il suo stesso elettorato dal momento che ha perduto molti diritti e molto del peso sociale che aveva conquistato in quasi due secoli di lotta. La socialdemocrazia ha perduto in Germania perchè si è alleata con la DC tedesca e per cinque anni ha prodotto una politica insoddisfacente. In Francia i socialisti si sono divisi: una parte di essi ragiona come Veltroni e cioè non è più socialista e la destra francese ha preso il sopravvento. Altro si può dire delle socialdemocrazie scandinave che vivono ancora del bagliore della grande civilizzazione che i loro programmi realizzati hanno prodotto nel Nord Europa facendone una oasi tra le più avanzate di democrazia dell'uguaglianza e della libertà.
La socialdemocrazia tedesca ha perduto una parte del suo elettorato che ha scelto la resistenza alla contaminazione ed alla subalternità alla ideologia liberista rafforzando il movimento socialista radicale di LaFontaine e dei Verdi.
Secondo il pensiero di Veltroni il PD se si apre a sinistra è destinato a perdere. Veltroni considera il Partito uno strumento elettorale per vincere e governare. Ma il governo in sè non può essere lo scopo di un Partito. La sua vocazione "maggioritaria" che Veltroni privilegia chiedendosi alla sinistra ed alle sue formazioni politiche non può prescindere dai "contenuti" e dai "valori" a meno che non si ritenga che questi siano secondari rispetto il fine catartico della vittoria e del governo. Un Partito è l'espressione di un movimento politico che sceglie di rappresentare talune istanze della società e di portarle avanti. Queste istanze sono prevalenti rispetto anche la stessa questione del governo. Un partito può conquistare alle sue idee ed alla gente che rappresenta molto anche stando all'opposizione come ci insegna la lunga e per certi versi da rivalutare esperienza di opposizione parlamentare e sociale del PCI e del PSI italiani che hanno dato al popolo di sinistra un potere sociale, un welfare, diritti che venti anni di destra berlusconiana aiutata dalla gente come Veltroni,Ichino ed altri non è ancora riuscita a distruggere del tutto. Partiti che decidono di recidere le loro radici dal socialismo per ingraziarsi i ceti produttivi oggi rappresentati da tanti partiti di destra e di centro non sono necessari. Sono un di più che la parte pensante ed avvertita del capitalismo non penso che gradisca dal momento che la depressione salariale e la condanna di oltre quattro milioni di lavoratori al precariato dà connotazioni di povertà ed anche di infelicità alla società nella quale viviamo e ne abbassa il tono e la vitalità.
La morte della dialettica politica e sociale con lo spazio parlamentare occupato solo da partiti di centro e di destra e lo spazio sindacale da sindacati collaborazionisti e subalterni paralizza ed impoverisce la società nel suo insieme. La precarietà chiamata flessibilità ed i bassi salari fanno stagnare la società e ne riducono la coesione sociale, la cultura, la voglia di futuro. No, quello che Veltroni chiama socialismo è il lievito salutare della società europea ed il futuro che il fallimento del darwinismo neoliberista non può dare. Basti guardare l'America di Obama ridotta a nascondere dietro parole "nuove" la logora ed asociale politica di Bush e delle multinazionali.
Leggevo oggi una intervista ad un professore irakeno che vive da anni a Londra esule dai tempi di Sadam Hussein che parlava di un Iraq controllato dagli americani in preda a massacri quasi quotidiani e corruzione. Un Irak diventato un inferno popolato da tre milioni di orfani e di vedove, di altri milioni di sfollati, di una immensa porzione di popolazione costituita da mutilati e feriti di guerra. Gli americani hanno portato il terrore permanente nelle aree che le loro multinazionali hanno deciso di colonizzare:Irak, Afghanistan, sempre di più Pakistan e forse domani Iran. Non c'è differenza tra il drone assassino che mandava il Generale di Bush e quello che manda oggi il Generale di Obama.
Questa politica militare dell'Impero, unita alla politica economica e sociale non può e non è certamente migliore dalla politica che la socialdemocrazia ha dato all'Europa ed al mondo in tantissimi anni purtroppo offuscati da sconsideratezze di gruppi dirigenti come quelli che in Italia hanno fatto degenerare la esperienza positiva dell'Ulivo nella fallimentare esperienza del centro-sinistra di Prodi sconfitta clamorosamente perchè ha tradito il suo elettorato di sinistra (come lo stesso Prodi ha riconosciuto con molta onestà).
Infine voglio dichiarare tutta la mia insofferenza verso le critiche al al novecento i secolo caratterizzato dal socialismo e dai movimenti di emancipazione. Perchè gli ideali del socialismo sarebbero falliti? Perchè l'uguaglianza è incompatibile con la libertà? In un certo senso anche la sponda alla quale è approdato Veltroni appartiene al novecento: che cosa è oggi il liberismo se non
una involuzione del liberalismo novecentesco?
Meglio aprire un dibattito sul novecento prima di voltare le spalle alle rivoluzioni sociali che lo hanno animato. La cultura europea di oggi è figlia dei grandi movimenti socialisti che la impregnano ancora dal momento che la libertà non è ed non sarà mai niente senza eguaglianza e senza una giusta ripartizione del potere economico. Alla base della Germania di oggi c'è la grande lezione dell'austromarxismo e dei grandi pensatori socialisti. Il socialismo è stato ed è tanto forte che i programmi degli stessi governi di centro-destra non possono ignorare ed accantonare anche se lo comprimono e vorrebbero sdradicarlo...
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giovedì 29 ottobre 2009
Giovanna Zincone: Immigrati, una risorsa incompresa
da La Stampa
29/10/2009 - DOSSIER CARITAS
Immigrati una risorsa incompresa
GIOVANNA ZINCONE
È rapida, consistente, supera ormai la media europea, ha cospicue immissioni di irregolari, è ben radicata nel tessuto sociale. Nel Dossier Statistico sull’immigrazione italiana, presentato ieri da Caritas, questi caratteri emergono chiaramente.
Gli immigrati sono circa 4.300.000, il 7,2% della popolazione. Con Spagna (+726%) e Irlanda (+400%), l’Italia (+292%) è tra i Paesi europei che hanno visto moltiplicare più in fretta la quantità di stranieri negli ultimi 10 anni. A nutrire la rapida moltiplicazione dei nostri immigrati sono stati anche, e molto, flussi irregolari. Lo dimostrano le cifre delle numerose regolarizzazioni, inclusa l’ultima, quella che ha registrato 300.000 richieste, ed erano solo lavoratori domestici. È una cifra enorme, se si pensa che esclude neo-comunitari come i romeni perché non ne hanno più bisogno. È una cifra enorme, se si considera che la crisi economica sta producendo importanti controesodi e che anche dall’Italia i rientri sono iniziati. In Spagna e in Germania il numero dei residenti immigrati è già sceso. Ma certo gli esodi non modificheranno il fatto che in Europa e in Italia l’immigrazione ha un carattere strutturale.
I nostri immigrati - stando ai dati Caritas - sono lavoratori (2 milioni), studenti (629.000). Sono fonti di benessere perché producono il 10% della ricchezza nazionale e versano 7 miliardi di contributi previdenziali. Caritas, mentre evidenzia questi e altri aspetti confortanti, cerca di attenuare quelli preoccupanti: sbarchi di clandestini, immigrazione come fonte di aumento della criminalità e sfida all’ordine pubblico. Il Dossier, a ragione, rileva che gli sbarchi rappresentano una quota minima (1%) degli ingressi e soprattutto osserva che quelle navi trasportano disperati, molti dei quali hanno diritto all’asilo. Caritas ritorna a segnalare che la percentuale di devianti tra gli immigrati regolari corrisponde a quella tra gli italiani. Rileva pure che i tassi di attività e di occupazione degli stranieri sono più alti di quelli dei nazionali. Consiglia di non temere la comunità musulmana perché la vede in gran parte pacifica.
Questa determinazione all’ottimismo deriva dal suo impegno etico a difesa dei deboli. È degno perciò del massimo rispetto, anche se la realtà ne esce un po’ trasfigurata. Resta il fatto che il tasso di criminalità immigrata nel complesso è troppo alto. L’aumento della disoccupazione tra gli stranieri, che si accompagna a un aumento seppur minore tra gli italiani, genera tensioni. La quieta comunità musulmana ospita in grembo piccoli nuclei sovversivi che potrebbero produrre guai, come l’attentato milanese insegna.
L’immigrazione non è un valzer per signorine. È un percorso doloroso e difficile per chi emigra. È un fatto duro da metabolizzare per gli abitanti dei Paesi di immigrazione. A chi ha oggi difficoltà a metabolizzare suggerisco una visita, anche solo virtuale, al neonato Museo Nazionale dell’Emigrazione: sfata molti luoghi comuni e aiuta a mettersi nei panni degli altri. Gli italiani sono emigrati in massa anche dalla Padania, non solo dallo sciagurato Mezzogiorno. Nel 1890 il Prefetto di Vicenza informa che «all’emigrazione si abbandonano moltissimi contadini, i quali vi devono essere spinti non tanto dalla speranza di trovare in America di che arricchire rapidamente, quanto dall’impossibilità di campare più oltre la vita nella loro Patria». Anche i nostri immigrati varcavano le frontiere di frodo o con poco credibili permessi turistici. L’emigrazione italiana ha portato con sé non solo potenti mafie, ma anche gruppuscoli sovversivi e autori di attentati eccellenti. Le nostre comunità erano quindi considerate pericolose per l’ordine pubblico. Come se non bastasse, agli italiani si rimproverava pure di rubare il posto ai lavoratori locali. E, mentre il grosso dei nostri emigrati di fatto contribuiva ad arricchire i Paesi ricettori, indebite generalizzazioni anti-italiane da parte di politici e opinionisti di spicco finivano per legittimare cacce all’uomo e stragi. Come nel caso del linciaggio di 11 lavoratori italiani ad Aigues-Mortes, seguito dal prevedibile processo farsa. L’immigrazione purtroppo non è un valzer per signorine, perciò è bene che ci si impegni tutti, classi dirigenti italiane e straniere in testa, per evitare che degeneri in una danza macabra.
29/10/2009 - DOSSIER CARITAS
Immigrati una risorsa incompresa
GIOVANNA ZINCONE
È rapida, consistente, supera ormai la media europea, ha cospicue immissioni di irregolari, è ben radicata nel tessuto sociale. Nel Dossier Statistico sull’immigrazione italiana, presentato ieri da Caritas, questi caratteri emergono chiaramente.
Gli immigrati sono circa 4.300.000, il 7,2% della popolazione. Con Spagna (+726%) e Irlanda (+400%), l’Italia (+292%) è tra i Paesi europei che hanno visto moltiplicare più in fretta la quantità di stranieri negli ultimi 10 anni. A nutrire la rapida moltiplicazione dei nostri immigrati sono stati anche, e molto, flussi irregolari. Lo dimostrano le cifre delle numerose regolarizzazioni, inclusa l’ultima, quella che ha registrato 300.000 richieste, ed erano solo lavoratori domestici. È una cifra enorme, se si pensa che esclude neo-comunitari come i romeni perché non ne hanno più bisogno. È una cifra enorme, se si considera che la crisi economica sta producendo importanti controesodi e che anche dall’Italia i rientri sono iniziati. In Spagna e in Germania il numero dei residenti immigrati è già sceso. Ma certo gli esodi non modificheranno il fatto che in Europa e in Italia l’immigrazione ha un carattere strutturale.
I nostri immigrati - stando ai dati Caritas - sono lavoratori (2 milioni), studenti (629.000). Sono fonti di benessere perché producono il 10% della ricchezza nazionale e versano 7 miliardi di contributi previdenziali. Caritas, mentre evidenzia questi e altri aspetti confortanti, cerca di attenuare quelli preoccupanti: sbarchi di clandestini, immigrazione come fonte di aumento della criminalità e sfida all’ordine pubblico. Il Dossier, a ragione, rileva che gli sbarchi rappresentano una quota minima (1%) degli ingressi e soprattutto osserva che quelle navi trasportano disperati, molti dei quali hanno diritto all’asilo. Caritas ritorna a segnalare che la percentuale di devianti tra gli immigrati regolari corrisponde a quella tra gli italiani. Rileva pure che i tassi di attività e di occupazione degli stranieri sono più alti di quelli dei nazionali. Consiglia di non temere la comunità musulmana perché la vede in gran parte pacifica.
Questa determinazione all’ottimismo deriva dal suo impegno etico a difesa dei deboli. È degno perciò del massimo rispetto, anche se la realtà ne esce un po’ trasfigurata. Resta il fatto che il tasso di criminalità immigrata nel complesso è troppo alto. L’aumento della disoccupazione tra gli stranieri, che si accompagna a un aumento seppur minore tra gli italiani, genera tensioni. La quieta comunità musulmana ospita in grembo piccoli nuclei sovversivi che potrebbero produrre guai, come l’attentato milanese insegna.
L’immigrazione non è un valzer per signorine. È un percorso doloroso e difficile per chi emigra. È un fatto duro da metabolizzare per gli abitanti dei Paesi di immigrazione. A chi ha oggi difficoltà a metabolizzare suggerisco una visita, anche solo virtuale, al neonato Museo Nazionale dell’Emigrazione: sfata molti luoghi comuni e aiuta a mettersi nei panni degli altri. Gli italiani sono emigrati in massa anche dalla Padania, non solo dallo sciagurato Mezzogiorno. Nel 1890 il Prefetto di Vicenza informa che «all’emigrazione si abbandonano moltissimi contadini, i quali vi devono essere spinti non tanto dalla speranza di trovare in America di che arricchire rapidamente, quanto dall’impossibilità di campare più oltre la vita nella loro Patria». Anche i nostri immigrati varcavano le frontiere di frodo o con poco credibili permessi turistici. L’emigrazione italiana ha portato con sé non solo potenti mafie, ma anche gruppuscoli sovversivi e autori di attentati eccellenti. Le nostre comunità erano quindi considerate pericolose per l’ordine pubblico. Come se non bastasse, agli italiani si rimproverava pure di rubare il posto ai lavoratori locali. E, mentre il grosso dei nostri emigrati di fatto contribuiva ad arricchire i Paesi ricettori, indebite generalizzazioni anti-italiane da parte di politici e opinionisti di spicco finivano per legittimare cacce all’uomo e stragi. Come nel caso del linciaggio di 11 lavoratori italiani ad Aigues-Mortes, seguito dal prevedibile processo farsa. L’immigrazione purtroppo non è un valzer per signorine, perciò è bene che ci si impegni tutti, classi dirigenti italiane e straniere in testa, per evitare che degeneri in una danza macabra.
Carla Ravaioli: Riproduzione
Da Aprile on line
Carla Ravaioli, 28 ottobre 2009, 13:17
Approfondimento Il ricordo di Claudio Napoleoni e la diagnosi dell'insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo: via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo
Questo intervento è stato parte del seminario promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati per ricordare il pensiero di Claudio Napoleoni a vent'anni dalla sua morte, svoltosi il 27 ottobre nella Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera
Engels ne "L'origine della famiglia" distingueva tra "la produzione delle merci e la produzione degli uomini", che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all'interno del sistema capitalistico) l'oggetto centrale della scienza economica. Mentre "la produzione degli uomini" se n'è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.
Questo non ha però impedito all'economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell'interesse politico ma dell'esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso "valore" prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell'agire collettivo, dall'altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della "produzione delle merci" sulla "produzione degli uomini", ma tendenzialmente inducendo l'assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell'altra.
Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell'economico rispetto a ogni altro momento dell'umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell'esistere che Engels appunto indicava come "produzione degli uomini", e che la moderna sociologia definisce "riproduzione". Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.
In questo senso va letto questo titolo un po' criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell'88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo "Tempo da vendere - Tempo da usare", sottotitolo "Produzione e riproduzione nella società microelettronica". Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell'analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita "venduti" a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo "usato" in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l'ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.
Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l'omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l'azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.
In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell'idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un'equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.
In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi "sacralizzazione" della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d'altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l'occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.
La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti.
E però, notava Claudio, c'è anche altro. C'è "il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica ". Claudio insiste su questo aspetto: "Nella tradizione teorica del movimento operaio non c'è una rottura con l'ideologia borghese del lavoro", dice; e parla di "una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche".
Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.
Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all'obbligo dell'efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi "utili" secondo la convenzione.
E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un'influenza decisiva il superamento dell'attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell'intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l'aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il "femminile", potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell'approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di "appropriarci della realtà come di un tutto", e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.
In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all'ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: "E' dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall'altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l'inquinamento dell'aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E' qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente". Una diagnosi dell'insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell'iperproduttivismo gravemente malato.
Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: "Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta".
Carla Ravaioli, 28 ottobre 2009, 13:17
Approfondimento Il ricordo di Claudio Napoleoni e la diagnosi dell'insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo: via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo
Questo intervento è stato parte del seminario promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati per ricordare il pensiero di Claudio Napoleoni a vent'anni dalla sua morte, svoltosi il 27 ottobre nella Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera
Engels ne "L'origine della famiglia" distingueva tra "la produzione delle merci e la produzione degli uomini", che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all'interno del sistema capitalistico) l'oggetto centrale della scienza economica. Mentre "la produzione degli uomini" se n'è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.
Questo non ha però impedito all'economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell'interesse politico ma dell'esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso "valore" prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell'agire collettivo, dall'altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della "produzione delle merci" sulla "produzione degli uomini", ma tendenzialmente inducendo l'assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell'altra.
Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell'economico rispetto a ogni altro momento dell'umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell'esistere che Engels appunto indicava come "produzione degli uomini", e che la moderna sociologia definisce "riproduzione". Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.
In questo senso va letto questo titolo un po' criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell'88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo "Tempo da vendere - Tempo da usare", sottotitolo "Produzione e riproduzione nella società microelettronica". Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell'analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita "venduti" a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo "usato" in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l'ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.
Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l'omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l'azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.
In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell'idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un'equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.
In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi "sacralizzazione" della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d'altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l'occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.
La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti.
E però, notava Claudio, c'è anche altro. C'è "il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica ". Claudio insiste su questo aspetto: "Nella tradizione teorica del movimento operaio non c'è una rottura con l'ideologia borghese del lavoro", dice; e parla di "una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche".
Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.
Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all'obbligo dell'efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi "utili" secondo la convenzione.
E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un'influenza decisiva il superamento dell'attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell'intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l'aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il "femminile", potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell'approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di "appropriarci della realtà come di un tutto", e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.
In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all'ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: "E' dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall'altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l'inquinamento dell'aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E' qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente". Una diagnosi dell'insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell'iperproduttivismo gravemente malato.
Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: "Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta".
Forlì, inaugurata la biblioteca Gino Bianco
Inaugurata la Biblioteca
"Gino Bianco"
Il 18 ottobre 2009 nella sede della Fondazione Alfred Lewin a Forlì si è inaugurata la Biblioteca “Gino Bianco”. Oltre a tanti amici e “soci” della Fondazione erano presenti Roberto Balzani, sindaco di Forlì, Mario Bocerani, sindaco di Tuoro sul Trasimeno, dove Gino Bianco abitava, l’assessore alla cultura di Forlì, John Patrick Leech, e quello di Tuoro, Lorenzo Borgia.
Dopo l’intervento di Rosanna Ambrogetti, presidente della Fondazione (che riportiamo qui sotto) e i saluti dei due sindaci, ha preso la parola Adriana Montini Bianco che in un breve intervento è riuscita a darci un’idea di una Londra “favolosa”, quella laburista degli anni Sessanta e Settanta, dove poteva capitare di abitare sullo stesso pianerottolo delle nipoti di Gershom Scholem ed essere invitati a una festa dove il grande intellettuale intratteneva per ore i presenti, o in un’altra casa dove Arie L. Aliev, presentava il suo libro che racconta l’odissea della Ulua, la nave carica di ebrei che attraversò mezzo mondo; era la Londra degli esuli polacchi, due dei quali, entrambi ebrei, amici di Gino, Melvin Jonah Lanski e Leo Labedz, dirigevano le prestigiose Survey ed Encounter, e degli strettissimi legami col laburismo israeliano; la Londra dell’Internazionale socialista, in cui Gino conobbe Golda Meir, in cui Willy Brandt gli affidò il rapporto sull’eurocomunismo per poi bocciarglielo perché troppo scettico, ed erano tempi di Ostpolitik...
Ringrazio e do il benvenuto a tutti i presenti. Inizio dandovi una triste notizia. Come sapete la Biblioteca è stata costituita dalla Fondazione Alfred Lewin, fondazione a lui intitolata, per la sua storia che lo lega a Forlì. Alfred, insieme alla madre Jenny e ad altri 16 ebrei, è stato fucilato nel settembre del 1944 da fascisti italiani e SS tedesche nei pressi dell’aeroporto di Forlì. La strage è stata a lungo dimenticata finché nel 1994, grazie anche all’impegno della rivista Una città, non solo “la città ha finalmente ricordato” ma si è potuto dare degna sepoltura, alla presenza del Rabbino, agli ebrei uccisi, i cui resti erano pressoché anonimi in loculi invisibili.
Lissi Pressl Lewin era la sorella di Alfred e figlia di Jenny, e nel ’38, grazie alle insistenze della madre e del fratello, li aveva lasciati per riparare in Inghilterra, dove accoglievano solo ragazze ebree giovani, per lavorare alla pari. Così si salvò. Sposatasi con un tedesco della resistenza antinazista e andata a vivere nella Germania dell’Est, non seppe più nulla della sorte di madre e fratello.
Solo nel 2000, grazie a un giovane berlinese, figlio di amici di famiglia, e venuto a fare servizio civile all’Istituto della Resistenza di Reggio Emilia, seppe che i suoi cari erano sepolti a Forlì.
Nel 2000, dopo 57 anni, Lissi poté visitarne la tomba. Restò poi in stretto contatto con noi, tornò a Forlì in occasione del Giorno della Memoria e dell’Anniversario delle Leggi razziali, per parlare della storia sua e della sua famiglia nelle scuole e nel 2003 fu felice di dare il suo permesso a intitolare la Fondazione che stavamo costituendo al fratello Alfred Lewin e di diventarne Presidente onoraria.
Purtroppo Lissi Pressl Lewin è deceduta il 25 settembre scorso. Le sue condizioni di salute andavano peggiorando da tempo ma aveva continuato a seguire con estremo interesse i progetti della Fondazione. E siamo certi che sarebbe stata molto contenta sapendo della giornata di oggi.
La Biblioteca.
Spiegare perché è intitolata a Gino Bianco è un po’ come raccontarne la storia.
Gino Bianco era giornalista e militante socialista, socialista libertario. Fu corrispondente dell’Internazionale socialista da Londra per più di vent’anni, collaboratore di Critica Sociale negli anni 60, redattore di Tempo Presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, del quale fu allievo e amico. E fu proprio per intervistarlo su Nicola Chiaromonte, e successivamente su Andrea Caffi, che ci conoscemmo. Fu, cioè, il comune interesse per “l’altra tradizione”, quella socialista e libertaria, sempre eterodossa e pluralista, del tutto misconosciuta, a farci incontrare verso la metà degli anni Novanta. Per noi fu un incontro molto fecondo. E nacque anche una bella ed importante amicizia, che si è estesa alla sua famiglia e che è durata fino alla sua morte, nel 2005. Per anni ha prestato la sua firma come direttore responsabile alla rivista Una città ed è stato fra i fondatori della Fondazione.
La Fondazione possedeva già una raccolta di testi sulla Shoà (circa 600 volumi), ma l’idea della biblioteca ha preso forma ed ha cominciato a essere più realistica quando Gino ci ha lasciato gran parte della sua biblioteca di cultura politica, il suo archivio personale, una raccolta di carte tuttora inedite di Andrea Caffi, e numeri molto rari di Giustizia e Libertà degli anni della guerra di Spagna. Altro stimolo poi ci è venuto quando Miriam Rosenthal, vedova di Chiaromonte, conosciuta sempre tramite Gino, ha donato alla biblioteca una collezione della rivista Politics (rivista americana in cui scrivevano oltre a Chiaromonte e Caffi, Hannah Arendt, Simon Veil, Albert Camus) ed una raccolta di libri appartenuti a Caffi. Alla sua morte, poi, ci ha lasciato una parte consistente della biblioteca di Nicola Chiaromonte.
Nel frattempo era arrivata la donazione, da parte di uno dei fondatori, della casa in cui ha sede la Fondazione e le donazioni, sempre da parte di soci, di collezioni di riviste, dal Mondo di Pannunzio, a Tempo Presente, a L’Unità di Gaetano Salvemini, le annate di Critica sociale dell’ultimo decennio dell’800 e del primo del 900, il Ponte di Piero Calamandrei, Preuves, l’alter ego francese di Tempo Presente, ecc. Così il sogno di una biblioteca ha preso corpo.
Presto sarà anche aperta al pubblico, sarà in rete e speriamo che possa diventare un punto di riferimento, in un certo senso -vorremmo dire- anche “militante”, per dei giovani, ricercatori o meno, che vogliano riandare al passato per interrogarsi sul presente.
UNA CITTÀ n. 168/ ottobre 2009
"Gino Bianco"
Il 18 ottobre 2009 nella sede della Fondazione Alfred Lewin a Forlì si è inaugurata la Biblioteca “Gino Bianco”. Oltre a tanti amici e “soci” della Fondazione erano presenti Roberto Balzani, sindaco di Forlì, Mario Bocerani, sindaco di Tuoro sul Trasimeno, dove Gino Bianco abitava, l’assessore alla cultura di Forlì, John Patrick Leech, e quello di Tuoro, Lorenzo Borgia.
Dopo l’intervento di Rosanna Ambrogetti, presidente della Fondazione (che riportiamo qui sotto) e i saluti dei due sindaci, ha preso la parola Adriana Montini Bianco che in un breve intervento è riuscita a darci un’idea di una Londra “favolosa”, quella laburista degli anni Sessanta e Settanta, dove poteva capitare di abitare sullo stesso pianerottolo delle nipoti di Gershom Scholem ed essere invitati a una festa dove il grande intellettuale intratteneva per ore i presenti, o in un’altra casa dove Arie L. Aliev, presentava il suo libro che racconta l’odissea della Ulua, la nave carica di ebrei che attraversò mezzo mondo; era la Londra degli esuli polacchi, due dei quali, entrambi ebrei, amici di Gino, Melvin Jonah Lanski e Leo Labedz, dirigevano le prestigiose Survey ed Encounter, e degli strettissimi legami col laburismo israeliano; la Londra dell’Internazionale socialista, in cui Gino conobbe Golda Meir, in cui Willy Brandt gli affidò il rapporto sull’eurocomunismo per poi bocciarglielo perché troppo scettico, ed erano tempi di Ostpolitik...
Ringrazio e do il benvenuto a tutti i presenti. Inizio dandovi una triste notizia. Come sapete la Biblioteca è stata costituita dalla Fondazione Alfred Lewin, fondazione a lui intitolata, per la sua storia che lo lega a Forlì. Alfred, insieme alla madre Jenny e ad altri 16 ebrei, è stato fucilato nel settembre del 1944 da fascisti italiani e SS tedesche nei pressi dell’aeroporto di Forlì. La strage è stata a lungo dimenticata finché nel 1994, grazie anche all’impegno della rivista Una città, non solo “la città ha finalmente ricordato” ma si è potuto dare degna sepoltura, alla presenza del Rabbino, agli ebrei uccisi, i cui resti erano pressoché anonimi in loculi invisibili.
Lissi Pressl Lewin era la sorella di Alfred e figlia di Jenny, e nel ’38, grazie alle insistenze della madre e del fratello, li aveva lasciati per riparare in Inghilterra, dove accoglievano solo ragazze ebree giovani, per lavorare alla pari. Così si salvò. Sposatasi con un tedesco della resistenza antinazista e andata a vivere nella Germania dell’Est, non seppe più nulla della sorte di madre e fratello.
Solo nel 2000, grazie a un giovane berlinese, figlio di amici di famiglia, e venuto a fare servizio civile all’Istituto della Resistenza di Reggio Emilia, seppe che i suoi cari erano sepolti a Forlì.
Nel 2000, dopo 57 anni, Lissi poté visitarne la tomba. Restò poi in stretto contatto con noi, tornò a Forlì in occasione del Giorno della Memoria e dell’Anniversario delle Leggi razziali, per parlare della storia sua e della sua famiglia nelle scuole e nel 2003 fu felice di dare il suo permesso a intitolare la Fondazione che stavamo costituendo al fratello Alfred Lewin e di diventarne Presidente onoraria.
Purtroppo Lissi Pressl Lewin è deceduta il 25 settembre scorso. Le sue condizioni di salute andavano peggiorando da tempo ma aveva continuato a seguire con estremo interesse i progetti della Fondazione. E siamo certi che sarebbe stata molto contenta sapendo della giornata di oggi.
La Biblioteca.
Spiegare perché è intitolata a Gino Bianco è un po’ come raccontarne la storia.
Gino Bianco era giornalista e militante socialista, socialista libertario. Fu corrispondente dell’Internazionale socialista da Londra per più di vent’anni, collaboratore di Critica Sociale negli anni 60, redattore di Tempo Presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, del quale fu allievo e amico. E fu proprio per intervistarlo su Nicola Chiaromonte, e successivamente su Andrea Caffi, che ci conoscemmo. Fu, cioè, il comune interesse per “l’altra tradizione”, quella socialista e libertaria, sempre eterodossa e pluralista, del tutto misconosciuta, a farci incontrare verso la metà degli anni Novanta. Per noi fu un incontro molto fecondo. E nacque anche una bella ed importante amicizia, che si è estesa alla sua famiglia e che è durata fino alla sua morte, nel 2005. Per anni ha prestato la sua firma come direttore responsabile alla rivista Una città ed è stato fra i fondatori della Fondazione.
La Fondazione possedeva già una raccolta di testi sulla Shoà (circa 600 volumi), ma l’idea della biblioteca ha preso forma ed ha cominciato a essere più realistica quando Gino ci ha lasciato gran parte della sua biblioteca di cultura politica, il suo archivio personale, una raccolta di carte tuttora inedite di Andrea Caffi, e numeri molto rari di Giustizia e Libertà degli anni della guerra di Spagna. Altro stimolo poi ci è venuto quando Miriam Rosenthal, vedova di Chiaromonte, conosciuta sempre tramite Gino, ha donato alla biblioteca una collezione della rivista Politics (rivista americana in cui scrivevano oltre a Chiaromonte e Caffi, Hannah Arendt, Simon Veil, Albert Camus) ed una raccolta di libri appartenuti a Caffi. Alla sua morte, poi, ci ha lasciato una parte consistente della biblioteca di Nicola Chiaromonte.
Nel frattempo era arrivata la donazione, da parte di uno dei fondatori, della casa in cui ha sede la Fondazione e le donazioni, sempre da parte di soci, di collezioni di riviste, dal Mondo di Pannunzio, a Tempo Presente, a L’Unità di Gaetano Salvemini, le annate di Critica sociale dell’ultimo decennio dell’800 e del primo del 900, il Ponte di Piero Calamandrei, Preuves, l’alter ego francese di Tempo Presente, ecc. Così il sogno di una biblioteca ha preso corpo.
Presto sarà anche aperta al pubblico, sarà in rete e speriamo che possa diventare un punto di riferimento, in un certo senso -vorremmo dire- anche “militante”, per dei giovani, ricercatori o meno, che vogliano riandare al passato per interrogarsi sul presente.
UNA CITTÀ n. 168/ ottobre 2009
Katia Ippaso: Claudio Napoleoni, l'economista che pensava in grande
da GLI ALTRI
NAPOLEONI, l'economista che pensava in grande
di Katia Ippaso
La parola "lezione" non piace a nessuno, e il nome di colui da cui si dovrebbe andare a scuola, Claudio Napoleoni, non è proprio di dominio pubblico. Ragion per cui il seminario organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati potrebbe rimanere lettera morta, se non fosse che quella "Lezione di Claudio Napoleoni" sviscerata da economisti, politici, sindacalisti, contiene così tanti elementi di pensiero dinamico da farci rapidamente dimenticare il contesto e l'aria rapida, per certi versi solenne, con cui gli interventi si sono succeduti. Undici uomini e una sola donna, la donna (Carla Ravaioli), che parla alla fine, dopo dieci uomini.
Peccato. Perché questa unica donna immette nel discorso un linguaggio visivo, non arroccato sulla propria specializzazione, capace di "mostrare" anche a chi Napoleoni non lo conosce o lo stava dimenticando la pragmaticità di una visione egualitaria, ecologica e femminista del tempo "riproduttivo", un tempo in cui gli uomini e le donne siano padroni di se stessi e non puri strumenti di produzione: "Claudio Napoleoni si muoveva tra l'osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l'azzardo di una visione più alta" dice Ravaioli, che con l'economista e politico torinese aveva collaborato poco prima della sua morte, avvenuta nel 1988.
La giornata di studio, intitolata "Cercate ancora", è stata introdotta da Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione della Camera dei Deputati, che ha sottolineato due elementi del pensiero di Napoleoni: la scienza critica e la speranza. Indubbiamente, "speranza", è una parola strana, una parola che passa meno facilmente di "utopia", perché non fa parte del patrimonio linguistico di una sinistra laica e comunista. C'era, infatti, in Napoleoni, un anelito ad un "trascendimento dell'ordine esistente".
Il che lo portò, verso la fine della sua vita, ad abbracciare la filosofia heideggeriana e ad interrogarsi su questioni di ordine teologico, come ci racconta Raniero La Valle: "Ad un certo punto, Claudio Napoleoni non è più sicuro della bontà del finito e comincia a chiedersi, con Heidegger, se per caso solo un Dio possa salvarci". "Per quello che riguarda invece il suo rapporto con i comunisti, riconosce che per riscattare l'alienazione umana bisogna uscire dal capitalismo. Altrimenti perché continuate a chiamarvi comunisti? chiedeva ai suoi compagni del Pci…Quando lui ormai non c'era più, i comunisti hanno cessato di chiamarsi comunisti ma le alienazioni non hanno cessato di esistere".
Napoleoni era capace di vedere come l'uomo viene ammazzato di lavoro, come viene "suicidato dalla società", misurava in termini di ore la progressiva riduzione di libertà, disegnava con grande lucidità quel movimento sofisticato, complesso, ma non irreversibile, attraverso cui "il capitale tende a diventare totale, cioè autoritario, mirando a ridurre i soggetti a cosa", e per questo insisteva sulla questione della divisione di classi: "Ristabiliva una dialettica di lotta di classe in un momento in cui il concetto di classe stava scomparendo solo perché alcune classi avevano vinto e altre avevano perso" (Riccardo Bellofiore).
Altra parola strana, oggi a sentirsi: "classe". Chi parla più oggi di rapporti e conflitti di classe? Forse anche per questo l'economista e politico italiano si sentì ripetutamente tradito dalla Sinistra: "Chiedeva al Pci di riflettere sul problema delle nuove alienazioni" (La Valle)".
"Era convinto che la Sinistra dovesse contrapporre al modello degli altri, un altro modello" (Bellofiore); "Nella Sinistra, diceva nel 1987, non c'è più la tendenza a raggrupparsi per grandi idee, grandi problemi, grandi impostazioni" (Mario Tronti). "Pensare in grande" non gli impediva di ragionare in termini pragmatici. Non a caso, tra le sue idee di economia politica è passata alla storia la cosiddetta "lotta alla rendita" ("Napoleoni voleva ristabilire il primato del valore d'uso al valore di scambio, quando il capitalismo fa tutto il contrario" spiega Alessandro Montebugnoli) e la proposta concreta di una settimana lavorativa di 30 ore, il che significava "poter scegliere il proprio tempo e definire una diversa qualità del tempo" (Carla Ravagnoli).
Napoleoni ha impartito importanti lezioni di "politica strutturale", quando "sono proprio le politiche strutturali quelle che cambiano le politiche di sviluppo: non a caso è la linea che oggi sta seguendo Obama" (Silvano Andriani), e ha combattuto battaglie precise per migliorare la vita dei cittadini, come quella sulla scala mobile contro il governo Craxi (ce lo ricorda Giorgio Cremaschi).
Convinto che invece di modificare la natura, si potesse procedere alla modificazione dell'uomo (Giorgio Ruffolo). Alcune di queste battaglie sono ancora tutte da giocare, ma c'è ancora qualcuno disposto a mettere sul tavolo da gioco un'idea di politica come "movimento di liberazione dell'uomo"? Questa è domanda che ci rimane tra le mani, lasciata da un uomo "che si è sporcato le mani" (Bertinotti), un politico che amava lanciare in alto la trama della sua filosofia economica e politica: "Ricordando Napoleoni, mi sento di ripetere quello che Engels disse di fronte alla tomba di Marx: "E' stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario"(Vittorio Tranquilli).
Ma quello che più ci colpisce di tutti questi ritratti diseguali e compositi (che potrebbero anche rimanere appesi all'aula del refettorio del palazzo del Seminario senza prendere mai aria), è il disegno di una figura capace di incarnare l'esigenza di una doppia verità, il più possibile aderente alla complessità dell'essere umano che si trova a vivere oggi: "Napoleoni parlava di due domini del reale: il dominio materiale e un dominio d'altro genere, legato a rapporti non mercificati.
L'uno non escludeva l'altro, perché per lui era possibile essere tutt'e due le cose, cioè stare contemporaneamente dentro e fuori il sistema produttivo" (Alessandro Montebugnoli).
NAPOLEONI, l'economista che pensava in grande
di Katia Ippaso
La parola "lezione" non piace a nessuno, e il nome di colui da cui si dovrebbe andare a scuola, Claudio Napoleoni, non è proprio di dominio pubblico. Ragion per cui il seminario organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati potrebbe rimanere lettera morta, se non fosse che quella "Lezione di Claudio Napoleoni" sviscerata da economisti, politici, sindacalisti, contiene così tanti elementi di pensiero dinamico da farci rapidamente dimenticare il contesto e l'aria rapida, per certi versi solenne, con cui gli interventi si sono succeduti. Undici uomini e una sola donna, la donna (Carla Ravaioli), che parla alla fine, dopo dieci uomini.
Peccato. Perché questa unica donna immette nel discorso un linguaggio visivo, non arroccato sulla propria specializzazione, capace di "mostrare" anche a chi Napoleoni non lo conosce o lo stava dimenticando la pragmaticità di una visione egualitaria, ecologica e femminista del tempo "riproduttivo", un tempo in cui gli uomini e le donne siano padroni di se stessi e non puri strumenti di produzione: "Claudio Napoleoni si muoveva tra l'osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l'azzardo di una visione più alta" dice Ravaioli, che con l'economista e politico torinese aveva collaborato poco prima della sua morte, avvenuta nel 1988.
La giornata di studio, intitolata "Cercate ancora", è stata introdotta da Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione della Camera dei Deputati, che ha sottolineato due elementi del pensiero di Napoleoni: la scienza critica e la speranza. Indubbiamente, "speranza", è una parola strana, una parola che passa meno facilmente di "utopia", perché non fa parte del patrimonio linguistico di una sinistra laica e comunista. C'era, infatti, in Napoleoni, un anelito ad un "trascendimento dell'ordine esistente".
Il che lo portò, verso la fine della sua vita, ad abbracciare la filosofia heideggeriana e ad interrogarsi su questioni di ordine teologico, come ci racconta Raniero La Valle: "Ad un certo punto, Claudio Napoleoni non è più sicuro della bontà del finito e comincia a chiedersi, con Heidegger, se per caso solo un Dio possa salvarci". "Per quello che riguarda invece il suo rapporto con i comunisti, riconosce che per riscattare l'alienazione umana bisogna uscire dal capitalismo. Altrimenti perché continuate a chiamarvi comunisti? chiedeva ai suoi compagni del Pci…Quando lui ormai non c'era più, i comunisti hanno cessato di chiamarsi comunisti ma le alienazioni non hanno cessato di esistere".
Napoleoni era capace di vedere come l'uomo viene ammazzato di lavoro, come viene "suicidato dalla società", misurava in termini di ore la progressiva riduzione di libertà, disegnava con grande lucidità quel movimento sofisticato, complesso, ma non irreversibile, attraverso cui "il capitale tende a diventare totale, cioè autoritario, mirando a ridurre i soggetti a cosa", e per questo insisteva sulla questione della divisione di classi: "Ristabiliva una dialettica di lotta di classe in un momento in cui il concetto di classe stava scomparendo solo perché alcune classi avevano vinto e altre avevano perso" (Riccardo Bellofiore).
Altra parola strana, oggi a sentirsi: "classe". Chi parla più oggi di rapporti e conflitti di classe? Forse anche per questo l'economista e politico italiano si sentì ripetutamente tradito dalla Sinistra: "Chiedeva al Pci di riflettere sul problema delle nuove alienazioni" (La Valle)".
"Era convinto che la Sinistra dovesse contrapporre al modello degli altri, un altro modello" (Bellofiore); "Nella Sinistra, diceva nel 1987, non c'è più la tendenza a raggrupparsi per grandi idee, grandi problemi, grandi impostazioni" (Mario Tronti). "Pensare in grande" non gli impediva di ragionare in termini pragmatici. Non a caso, tra le sue idee di economia politica è passata alla storia la cosiddetta "lotta alla rendita" ("Napoleoni voleva ristabilire il primato del valore d'uso al valore di scambio, quando il capitalismo fa tutto il contrario" spiega Alessandro Montebugnoli) e la proposta concreta di una settimana lavorativa di 30 ore, il che significava "poter scegliere il proprio tempo e definire una diversa qualità del tempo" (Carla Ravagnoli).
Napoleoni ha impartito importanti lezioni di "politica strutturale", quando "sono proprio le politiche strutturali quelle che cambiano le politiche di sviluppo: non a caso è la linea che oggi sta seguendo Obama" (Silvano Andriani), e ha combattuto battaglie precise per migliorare la vita dei cittadini, come quella sulla scala mobile contro il governo Craxi (ce lo ricorda Giorgio Cremaschi).
Convinto che invece di modificare la natura, si potesse procedere alla modificazione dell'uomo (Giorgio Ruffolo). Alcune di queste battaglie sono ancora tutte da giocare, ma c'è ancora qualcuno disposto a mettere sul tavolo da gioco un'idea di politica come "movimento di liberazione dell'uomo"? Questa è domanda che ci rimane tra le mani, lasciata da un uomo "che si è sporcato le mani" (Bertinotti), un politico che amava lanciare in alto la trama della sua filosofia economica e politica: "Ricordando Napoleoni, mi sento di ripetere quello che Engels disse di fronte alla tomba di Marx: "E' stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario"(Vittorio Tranquilli).
Ma quello che più ci colpisce di tutti questi ritratti diseguali e compositi (che potrebbero anche rimanere appesi all'aula del refettorio del palazzo del Seminario senza prendere mai aria), è il disegno di una figura capace di incarnare l'esigenza di una doppia verità, il più possibile aderente alla complessità dell'essere umano che si trova a vivere oggi: "Napoleoni parlava di due domini del reale: il dominio materiale e un dominio d'altro genere, legato a rapporti non mercificati.
L'uno non escludeva l'altro, perché per lui era possibile essere tutt'e due le cose, cioè stare contemporaneamente dentro e fuori il sistema produttivo" (Alessandro Montebugnoli).
Rina Gagliardi: Bipolarismo al capolinea
Da Gli Altri
BIPOLARISMO AL CAPOLINEA
Politica
di Rina Gagliardi
Sul Corriere di ieri, Michele Salvati analizza ma soprattutto piange la fine oramai conclamata del bipolarismo - cioè del sistema politico che ha retto (e sta tutt'ora reggendo) l'Italia dal 1994 in poi. Un quindicennio, quello della "Seconda Repubblica" che, secondo il noto saggista, ha «se non i giorni, gli anni contati». E l'ultima sentenza di morte sarebbe, nientemeno, che l'affermazione di Pier Luigi Bersani alla testa del Pd. Insomma, una iattura, un disastro. Noi, che del commento di Salvati condividiamo la conclusione analitica, ci permettiamo di rovesciare il giudizio: è morta (se è morta) una creatura che ha portato al Paese soltanto danni. E salutiamo la fine del bipolarismo con una certa allegria.
In verità, esso è stato, fin dall'inizio, una delle tante possibili scorciatoie alla crisi dei grandi partiti di massa - effetto non meccanico della bufera di Tangentopoli - sui quali si era fondata la lunga, felice era della Prima Repubblica. Scomparivano il Pci, la Dc e il Psi, morivano (o venivano dichiarate morte) le grandi ideologie novecentesche, andava in soffitta un'idea di politica partecipata e, appunto, nutrita dalle grandi organizzazioni di massa. Fu in questo clima - di fortissima e diffusissima sfiducia nella politica - che scattò l'innamoramento dei politologi per il modello anglosassone, quello in vigore in Inghilterra e negli Usa: dove, per forza di meccanismi elettorali, la dialettica politico-parlamentare era - è - ridotta a due soli grandi contenitori (Laburisti\ Conservatori, Democratici\Repubblicani).
Due grandi "partiti" di opinione che non solo non coincidono con la partizione Sinistra\Destra, ma sostanzialmente configurano ambedue una dimensione centrista e internamente variegatissima.
In Italia, naturalmente, data la difficoltà di produrre per decreto il bipartitismo, si dovette applicare il modello in forma bipolaristica: due schieramenti, insomma due "poli", due candidati premier (che sciccheria l'anglicismo che sostitutiva il vetusto "Presidente del consiglio"!), insomma una maggioranza e un'opposizione. Tutto il resto, niente - il centro era abolito, anzi era "trasfuso", in dosi diverse, nei due poli, le minoranze, quanto a loro, si impiccavano. Si badi bene: tutto questo processo è stato caldeggiato e realizzato soprattutto grazie alla sinistra, cioè agli eredi del Pci. E furono i politologi di sinistra a decretare che una scelta così ridotta tra due sole possibilità , "o di qua o di là", anche qui da noi, anche in un Paese così "multipolitico" e "multi ideologico", avrebbe fatto avanzare la democrazia e, soprattutto, il mitico "potere dei cittadini". I quali avrebbero così potuto eleggere direttamente le loro maggioranze, e soprattutto i loro governanti, bloccando la prassi (e le prerogative) del Parlamento di «fare e disfare gli esecutivi nel corso della legislatura», come scrive Salvati. In breve: proprio questa riscrittura di fatto della Costituzione, questo annullamento (sempre di fatto) della rappresentanza parlamentare, questa quasi sepoltura dei partiti politici erano gli "ingredienti" essenziali della nuova Repubblica. E la garanzia di un sistema più trasparente, più "democratico" e più stabile.
Vogliamo vedere invece che cosa è davvero successo nei tre lustri che ci stanno alle spalle? Primo, la crisi della politica ha galoppato a ritmi pressoché epocali, con i devastanti effetti antropologici nei quali siamo a tutt'oggi immersi - come la personalizzazione, il leaderismo e, soprattutto, il populismo, nel loro perverso intreccio col potere mediatico. Il populismo è andato al governo, con Berlusconi e con la Lega. Ma ha intriso di sé anche l'opposizione - che cos'è stato il veltronismo se non una variante "progressista" del berlusconismo? Idee, contenuti, programmi e progetti sono precipitati a zero - non valgono a nulla, non servono a nulla, quando sono l'immagine, la demagogia, l'urlo, il talk-show televisivo a orientare le scelte elettorali, quando la politica sopravvive soltanto come immediatezza, pseudosimbolismo o emergenza, e abolisce "il tempo lungo".
Naturalmente, in questo processo c'entrato molto il "fattore Berlusconi", l'ossessione o l'anomalia che, sempre da un quindicennio, divide il Paese (politico) in due metà che non si occupano di nient'altro (e si alimentano vicendevolmente). Ma alla radice del processo c'è stato qualcos'altro: l'illusione modernizzante e semplificante che ha distrutto non le culture politiche del '900 ma il paradigma stesso di una cultura politica progettuale, radicata, faticata. Secondo, giust'appunto, la agognata semplificazione si è rovesciata nel suo contrario. Quando gli schieramenti sono ridotti a due, (quasi) chiunque - il più piccolo dei micropartiti - acquista un potere di veto enorme, o diventa in grado, per un pugno di posti, di "ricattare" un intero schieramento. Così è andata, da noi. Così, siamo arrivati, ad un certo punto, alla produzione, in parlamento, della bellezza di 44 gruppi parlamentari (nella famigerata Prima Repubblica, si è arrivati ad un massimo di nove-dieci!). Così le coalizioni si son vestite da Arlecchino - e per sconfiggere il centro-destra, nel 2006 si è dovuta costruire un'alleanza che andava da Turigliatto a Fisichella. Quanto alla trasparenza, mai come nella "Seconda Repubblica" abbiamo assistito alla prassi trasformistica - c'erano, addirittura, gli specialisti del passaggio di gruppo e di "polo", che vi hanno costruito intere fortune politiche. Terzo, la paralisi di ogni intenzione "riformistica". In quindici anni, l'Italia non ha beneficiato, in buona sostanza, di nessuna riforma di grande respiro strategico - scuola, cultura, fisco, ambiente, infrastrutture. Ci si è limitati, questo sì, a peggiorare il più possibile la condizione del proletariato, quello vecchio e "garantito" (gli operai, i lavoratori dipendenti, i pensionati) e quello nuovo (i precari, i migranti, i non occupati) e a ridimensionare seriamente Welfare e diritti. Si son fatte (le ha fatte il centrodestra) molte leggi ad personam, ritagliate sugli interessi del Cavaliere. Si è favorita la diffusione dei cellulari e di qualche altro giocattolo elettronico. Si è contribuito, anche da parte dei governi di centro-sinistra, a quella gigantesca redistribuzione dei redditi a favore dei profitti che, in vent'anni, ha cambiato la faccia dell'Italia. Ma, nell'insieme, quel che ha prevalso è stato soprattutto un "galleggiamento" degenerativo, l'annientamento progressivo della forza della politica. Che poi la causa prima della "questione morale". Anche in questo esito il bipolarismo ha giocato un ruolo possente: in uno schema siffatto, nessuno, specie a sinistra (ma anche a destra), può rinunciare all'ecumenismo, all'interclassismo, alla genericità di un rapporto Stato\cittadino nel quale il cittadino è privo di ogni identità sociale, sessuale, culturale, non ha né corpo né anima, è mera astrazione (di comodo).
Quarto, il depotenziamento, fin sulle soglie della cancellazione, delle istituzioni preposte al controllo democratico. Siamo arrivati a un Parlamento di "nominati", o miracolati, che occupa il novanta per cento del suo tempo a trasformare in legge i decreti del Governo. Un Parlamento che, semplicemente, non esiste - e che perciò davvero costa troppo e diventa, per chi lo abita, una mera sinecura, un insopportabile privilegio. Ma siamo arrivati, anche, ad un esecutivo che, pur pieno di pulsioni neo-autoritarie, a sua volta non ha poi grande potere di intervento e trasformazione. E siamo arrivati, giocoforza, a un potere giudiziario che tende a colmare gli enormi vuoti che, così, si sono spalancati e minano lo stesso equilibrio sociale. Nel delirio bipolaristico, nessuno ha concepito un eventuale, magari pessimo, Grande Disegno di riforma democratica e istituzionale che rimettesse in un qualche equilibrio l'insieme dei poteri. Ci sono state, e ci sono, sì ricorrenti pulsioni di tipo presidenzialistico, ma tese quasi soltanto a mettere al centro la necessità di un forte rafforzamento dei poteri centrali e, quindi, giocoforza, di un ulteriore restringimento della democrazia. Ma, alla fin fine, anche su questo delicato versante, il Paese è stato - ed è - fermo. Quinto (e ultimo, per ora) il bipolarismo ha alimentato un passaggio (di fatto) non solo al modello americano, ma al peggio del modello americano. Ne è parte integrante la trasformazione del dirigente politico (e del governante), appunto, in "modello antropologico" complessivo al quale aderire o non aderire: piuttosto che idee o programmi politici, piuttosto che ricette per la soluzione dei problemi, il leader propone al popolo se stesso, la sua storia, la sua antropologia, la sua vita privata come quella pubblica. Il leader - Berlusconi e Sarkozy, ma anche Obama, a suo modo - si propone di diventare il riferimento della maggioranza del popolo per ciò che è, in toto, per come si muove e si veste, per come è fatta la sua famiglia, per i suoi successi e per le sue speranze. Stiamo vedendo (e scontando) le conseguenze di questa novità nell'insorgenza scandalistica che ci attanaglia e nella fine di ogni distinzione effettiva tra pubblico e privato. Naturalmente, alle radici di questo tipo di fenomeno ci sono molti altri fattori. Intanto, però, se si tornasse ad un sistema più razionale, ad una politica fatta di idee e proposte (e perché no? di partiti, di movimenti e di militanti), nonché al naturale ruolo inclusivo, e di rappresentanza, delle istituzioni elettive, sarebbe un primo serio passo in avanti. Non all'indietro, come teme Salvati. La modernità - ecco una cosa che i politologi faticano a capire - è proprio diversa dalle scorciatoie della modernizzazione.
BIPOLARISMO AL CAPOLINEA
Politica
di Rina Gagliardi
Sul Corriere di ieri, Michele Salvati analizza ma soprattutto piange la fine oramai conclamata del bipolarismo - cioè del sistema politico che ha retto (e sta tutt'ora reggendo) l'Italia dal 1994 in poi. Un quindicennio, quello della "Seconda Repubblica" che, secondo il noto saggista, ha «se non i giorni, gli anni contati». E l'ultima sentenza di morte sarebbe, nientemeno, che l'affermazione di Pier Luigi Bersani alla testa del Pd. Insomma, una iattura, un disastro. Noi, che del commento di Salvati condividiamo la conclusione analitica, ci permettiamo di rovesciare il giudizio: è morta (se è morta) una creatura che ha portato al Paese soltanto danni. E salutiamo la fine del bipolarismo con una certa allegria.
In verità, esso è stato, fin dall'inizio, una delle tante possibili scorciatoie alla crisi dei grandi partiti di massa - effetto non meccanico della bufera di Tangentopoli - sui quali si era fondata la lunga, felice era della Prima Repubblica. Scomparivano il Pci, la Dc e il Psi, morivano (o venivano dichiarate morte) le grandi ideologie novecentesche, andava in soffitta un'idea di politica partecipata e, appunto, nutrita dalle grandi organizzazioni di massa. Fu in questo clima - di fortissima e diffusissima sfiducia nella politica - che scattò l'innamoramento dei politologi per il modello anglosassone, quello in vigore in Inghilterra e negli Usa: dove, per forza di meccanismi elettorali, la dialettica politico-parlamentare era - è - ridotta a due soli grandi contenitori (Laburisti\ Conservatori, Democratici\Repubblicani).
Due grandi "partiti" di opinione che non solo non coincidono con la partizione Sinistra\Destra, ma sostanzialmente configurano ambedue una dimensione centrista e internamente variegatissima.
In Italia, naturalmente, data la difficoltà di produrre per decreto il bipartitismo, si dovette applicare il modello in forma bipolaristica: due schieramenti, insomma due "poli", due candidati premier (che sciccheria l'anglicismo che sostitutiva il vetusto "Presidente del consiglio"!), insomma una maggioranza e un'opposizione. Tutto il resto, niente - il centro era abolito, anzi era "trasfuso", in dosi diverse, nei due poli, le minoranze, quanto a loro, si impiccavano. Si badi bene: tutto questo processo è stato caldeggiato e realizzato soprattutto grazie alla sinistra, cioè agli eredi del Pci. E furono i politologi di sinistra a decretare che una scelta così ridotta tra due sole possibilità , "o di qua o di là", anche qui da noi, anche in un Paese così "multipolitico" e "multi ideologico", avrebbe fatto avanzare la democrazia e, soprattutto, il mitico "potere dei cittadini". I quali avrebbero così potuto eleggere direttamente le loro maggioranze, e soprattutto i loro governanti, bloccando la prassi (e le prerogative) del Parlamento di «fare e disfare gli esecutivi nel corso della legislatura», come scrive Salvati. In breve: proprio questa riscrittura di fatto della Costituzione, questo annullamento (sempre di fatto) della rappresentanza parlamentare, questa quasi sepoltura dei partiti politici erano gli "ingredienti" essenziali della nuova Repubblica. E la garanzia di un sistema più trasparente, più "democratico" e più stabile.
Vogliamo vedere invece che cosa è davvero successo nei tre lustri che ci stanno alle spalle? Primo, la crisi della politica ha galoppato a ritmi pressoché epocali, con i devastanti effetti antropologici nei quali siamo a tutt'oggi immersi - come la personalizzazione, il leaderismo e, soprattutto, il populismo, nel loro perverso intreccio col potere mediatico. Il populismo è andato al governo, con Berlusconi e con la Lega. Ma ha intriso di sé anche l'opposizione - che cos'è stato il veltronismo se non una variante "progressista" del berlusconismo? Idee, contenuti, programmi e progetti sono precipitati a zero - non valgono a nulla, non servono a nulla, quando sono l'immagine, la demagogia, l'urlo, il talk-show televisivo a orientare le scelte elettorali, quando la politica sopravvive soltanto come immediatezza, pseudosimbolismo o emergenza, e abolisce "il tempo lungo".
Naturalmente, in questo processo c'entrato molto il "fattore Berlusconi", l'ossessione o l'anomalia che, sempre da un quindicennio, divide il Paese (politico) in due metà che non si occupano di nient'altro (e si alimentano vicendevolmente). Ma alla radice del processo c'è stato qualcos'altro: l'illusione modernizzante e semplificante che ha distrutto non le culture politiche del '900 ma il paradigma stesso di una cultura politica progettuale, radicata, faticata. Secondo, giust'appunto, la agognata semplificazione si è rovesciata nel suo contrario. Quando gli schieramenti sono ridotti a due, (quasi) chiunque - il più piccolo dei micropartiti - acquista un potere di veto enorme, o diventa in grado, per un pugno di posti, di "ricattare" un intero schieramento. Così è andata, da noi. Così, siamo arrivati, ad un certo punto, alla produzione, in parlamento, della bellezza di 44 gruppi parlamentari (nella famigerata Prima Repubblica, si è arrivati ad un massimo di nove-dieci!). Così le coalizioni si son vestite da Arlecchino - e per sconfiggere il centro-destra, nel 2006 si è dovuta costruire un'alleanza che andava da Turigliatto a Fisichella. Quanto alla trasparenza, mai come nella "Seconda Repubblica" abbiamo assistito alla prassi trasformistica - c'erano, addirittura, gli specialisti del passaggio di gruppo e di "polo", che vi hanno costruito intere fortune politiche. Terzo, la paralisi di ogni intenzione "riformistica". In quindici anni, l'Italia non ha beneficiato, in buona sostanza, di nessuna riforma di grande respiro strategico - scuola, cultura, fisco, ambiente, infrastrutture. Ci si è limitati, questo sì, a peggiorare il più possibile la condizione del proletariato, quello vecchio e "garantito" (gli operai, i lavoratori dipendenti, i pensionati) e quello nuovo (i precari, i migranti, i non occupati) e a ridimensionare seriamente Welfare e diritti. Si son fatte (le ha fatte il centrodestra) molte leggi ad personam, ritagliate sugli interessi del Cavaliere. Si è favorita la diffusione dei cellulari e di qualche altro giocattolo elettronico. Si è contribuito, anche da parte dei governi di centro-sinistra, a quella gigantesca redistribuzione dei redditi a favore dei profitti che, in vent'anni, ha cambiato la faccia dell'Italia. Ma, nell'insieme, quel che ha prevalso è stato soprattutto un "galleggiamento" degenerativo, l'annientamento progressivo della forza della politica. Che poi la causa prima della "questione morale". Anche in questo esito il bipolarismo ha giocato un ruolo possente: in uno schema siffatto, nessuno, specie a sinistra (ma anche a destra), può rinunciare all'ecumenismo, all'interclassismo, alla genericità di un rapporto Stato\cittadino nel quale il cittadino è privo di ogni identità sociale, sessuale, culturale, non ha né corpo né anima, è mera astrazione (di comodo).
Quarto, il depotenziamento, fin sulle soglie della cancellazione, delle istituzioni preposte al controllo democratico. Siamo arrivati a un Parlamento di "nominati", o miracolati, che occupa il novanta per cento del suo tempo a trasformare in legge i decreti del Governo. Un Parlamento che, semplicemente, non esiste - e che perciò davvero costa troppo e diventa, per chi lo abita, una mera sinecura, un insopportabile privilegio. Ma siamo arrivati, anche, ad un esecutivo che, pur pieno di pulsioni neo-autoritarie, a sua volta non ha poi grande potere di intervento e trasformazione. E siamo arrivati, giocoforza, a un potere giudiziario che tende a colmare gli enormi vuoti che, così, si sono spalancati e minano lo stesso equilibrio sociale. Nel delirio bipolaristico, nessuno ha concepito un eventuale, magari pessimo, Grande Disegno di riforma democratica e istituzionale che rimettesse in un qualche equilibrio l'insieme dei poteri. Ci sono state, e ci sono, sì ricorrenti pulsioni di tipo presidenzialistico, ma tese quasi soltanto a mettere al centro la necessità di un forte rafforzamento dei poteri centrali e, quindi, giocoforza, di un ulteriore restringimento della democrazia. Ma, alla fin fine, anche su questo delicato versante, il Paese è stato - ed è - fermo. Quinto (e ultimo, per ora) il bipolarismo ha alimentato un passaggio (di fatto) non solo al modello americano, ma al peggio del modello americano. Ne è parte integrante la trasformazione del dirigente politico (e del governante), appunto, in "modello antropologico" complessivo al quale aderire o non aderire: piuttosto che idee o programmi politici, piuttosto che ricette per la soluzione dei problemi, il leader propone al popolo se stesso, la sua storia, la sua antropologia, la sua vita privata come quella pubblica. Il leader - Berlusconi e Sarkozy, ma anche Obama, a suo modo - si propone di diventare il riferimento della maggioranza del popolo per ciò che è, in toto, per come si muove e si veste, per come è fatta la sua famiglia, per i suoi successi e per le sue speranze. Stiamo vedendo (e scontando) le conseguenze di questa novità nell'insorgenza scandalistica che ci attanaglia e nella fine di ogni distinzione effettiva tra pubblico e privato. Naturalmente, alle radici di questo tipo di fenomeno ci sono molti altri fattori. Intanto, però, se si tornasse ad un sistema più razionale, ad una politica fatta di idee e proposte (e perché no? di partiti, di movimenti e di militanti), nonché al naturale ruolo inclusivo, e di rappresentanza, delle istituzioni elettive, sarebbe un primo serio passo in avanti. Non all'indietro, come teme Salvati. La modernità - ecco una cosa che i politologi faticano a capire - è proprio diversa dalle scorciatoie della modernizzazione.
mercoledì 28 ottobre 2009
Felice Besostri: Intervento alla riunione del gruppo di Volpedo
Dall'ADL
Periscopio socialista
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Quale sintesi
è possibile?
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Conclusioni (interlocutorie) all'assemblea del Gruppo di Volpedo
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di Felice Besostri
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Non è possibile trarre delle conclusioni in un tempo più ridotto di molti degli intervenuti: ma non è un problema quantitativo.
Sono state espresse indicazioni diverse: autonomia socialista, integrazione nel PD, costruzione di una nuova sinistra a partire da Sinistra e Libertà, quale sintesi è possibile?
Soprattutto si sono espressi anche stati d’animo che proprio per essere il frutto di pulsioni individuali non consentono una reductio ad unum.
Prima però di esprimere le mie opinioni, vorrei fare una precisazione rispetto ad una critica all’Appello di Volpedo, perché si rivolge ai socialisti ovunque essi siano.
Non è un appello indiscriminato.
Se qualcuno una volta socialista è andato da certe parti, cioè nel Popolo della Libertà, in ruoli dirigenti o di spicco e si trova bene, a proprio agio, semplicemente non è più socialista! A costoro non si rivolge l’Appello di Volpedo.
Tutti conoscono un passo famoso della Bibbia, un libro che tutti dovrebbero conoscere anche gli atei, come sono io. Mi riferisco all’Ecclesiaste (3.1-13): c’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per seminare ed un tempo per raccogliere. Un tempo per gioire ed un tempo per piangere. Che tempo è questo per la sinistra italiana, ma anche europea? Non certo per gioire, ma nemmeno per piangere e soprattutto non per compiangersi.
Questo è un tempo per riflettere, ma riflessione non è contemplazione del proprio ombelico e neppure rimasticazione del passato, che pure dovrebbe essere rielaborato perché le occasioni perdute sono state molte.
Non dico il 1953, quando a Berlino una protesta operaia è stata soffocata con i carri armati e neppure il 1956 ungherese (dire rivoluzione è ancora troppo conflittuale).
Il 1968 della Primavera di Praga sarebbe stato un terreno di incontro perché il tentativo di riforma partiva dall’interno dello stesso partito comunista.
E il 1981 polacco di Solidarnosč? Quando un sindacato di lavoratori ha raccolto in brevissimo tempo una decina di milioni di aderenti e perciò era evidente una frattura tra il potere ed il popolo.
Sempre troppo presto, ma l’occasione perduta più recente ed importante è stata il crollo del Muro di Berlino nel 1989, cioè venti anni fa.
L’implosione del sistema sovietico avrebbe dovuto essere la consacrazione dell’altra sinistra, quella socialista democratica, ma così non è stato.
Invece di superare la frattura storica fra socialisti e comunisti è passata la vulgata della fine del la storia, non come vittoria della democrazia, ma del capitalismo.
Questo messaggio non è stato soltanto amplificato dalla destra conservatrice, ma è stato condiviso anche da chi sarebbe diventato il leader dell’Ulivo. Romano Prodi sulla rivista Il Regno, dalla Curia di Bologna, cui è sempre stato contiguo, ha sostenuto che con il crollo del muro non sarebbe finito soltanto il comunismo, ma anche il socialismo in Occidente, nella versione socialdemocratica.
La sinistra italiana non è più rappresentata nel Parlamento nazionale ed in quello europeo.
Non c’è altro caso in Europa, ma la debolezza della sinistra italiana rispetto a quella prevalente in Europa è stata soltanto resa evidente dai risultati del 2008 e del 2009.
La debolezza della sinistra italiana nel suo complesso viene da lontano: non ha mai avuto una vocazione maggioritaria o, quando l’aveva (Fronte Popolare del 1948) non era possibile a causa della divisione del mondo in blocchi contrapposti (ed è stato un bene, che non avesse trionfato una sinistra subordinata all’URSS).
Vocazione maggioritaria non significa avere vocazione governativa, ma proporsi alla guida del Paese con propri programmi e propri esponenti alla guida del governo per attuarli.
La sinistra italiana, anche quando PCI e PSI superavano il 40% dei voti, non si è mai proposta alla guida del Paese ed alla lunga gli elettori se ne accorgono: perché votare per chi non si sente di assumere la responsabilità di governare in prima persona?
La vicenda dell’Ulivo è esemplare, nel 1996 si è proposto con l’appoggio determinante del PDS come Capo del Governo proprio Romano Prodi, quello che aveva teorizzato (ed auspicato) la fine della sinistra in Europa, sepolta dalle macerie del Muro di Berlino.
Il giudizio sul presente dipende dall’orizzonte prospettico con il quale analizziamo la situazione.
Per il tipo di problemi dal cambio climatico alla dimensione della crisi economica e finanziaria, dallo sviluppo ineguale alle migrazioni di popolazioni l’orizzonte della sinistra non può che essere europeo se non planetario.
Tutti sono d’accordo, ma voglio fare un esperimento.
Quanti nella sala sanno la data del prossimo Congresso del PSE a Praga?
Si sono alzate sei mani e ho chiesto soltanto la data, quante se ne sarebbero alzate se avessi chiesto i temi che saranno trattati?
Si tratta di analizzare i risultati delle elezioni europee, nella quale la sinistra nel suo complesso ha perso ed i partiti del PSE, salvo le eccezioni svedesi, slovacche, maltese e greche, hanno subito una grossa sconfitta.
Tuttavia la lettura, imposta dalla destra, dei risultati come sconfitta definitiva della socialdemocrazia è pura ideologia.
Si sa o no che in queste elezioni ha votato meno del 50% degli aventi diritto al voto, cioè la percentuale di votanti è la più bassa degli ultimi quarant’anni, da quando c’è l’elezione diretta del Parlamento europeo?
Ha votato soltanto il 43,1% degli aventi diritto e tra gli astenuti sono prevalenti i ceti popolari, cioè il bacino elettorale tradizionale dei partiti socialisti democratici.
In sei paesi le astensioni sono state superiori al 70%, ed in 12 tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia le astensioni sono state tra il 50 e il 70%.
In solo due paesi, Belgio e Lussemburgo, le astensioni sono state meno del 20%.
In sette paesi soltanto, tra cui l’Italia, ha votato la maggioranza degli aventi diritto.
In questo panorama la sconfitta dei partiti socialisti assume una dimensione meno rilevante. Tutti i partiti pro-Europa hanno perso ed hanno guadagnato partiti populisti, nazionalisti e persino razzisti e soltanto in un numero limitato di paesi hanno compiuto significativi guadagni partiti ambientalisti (Verdi), come in Francia, o partiti di sinistra più radicale, come la Linke in Germania.
Da questo a inverare che la strada è quella della Linke è sbagliato per due ragioni, una di carattere generale e l’altra specifica.
In una prospettiva di sinistra la considerazione più rilevante non è il successo della Linke, di cui peraltro si gioisce, ma il fatto che tra il 2005 e il 2009 ci sono stati 4.360.000 elettori in meno, una forza quasi equivalente al partito dei Verdi. Altro dato, la SPD sempre tra il 2005 e il 2009 ha perso più di sei milioni di voti: Verdi e Linke ne hanno recuperato poco più di 1.800.000, cioè meno di un terzo.
Il risultato: SPD, Verdi e Linke nel 2005 avevano il 51,1% dei voti e la maggioranza assoluta nel Bundestag, nel 2009 hanno poco più del 45% dei voti e la maggioranza è liberal-democristiana. La sinistra è stata sconfitta.
La Linke ha avuto successo grazie ad un robusto ed accettato innesto della componente socialdemocratica di Lafontaine, che ha consentito l’espansione nei Länder dell’Ovest tedesco, altrimenti sarebbe stata una Lega Est della Germania Orientale.
In Italia i sostenitori della Linke escludono a priori un decisivo apporto socialista, mai ricercato.
Noi come sinistra e come socialisti, che ne facciamo parte, dobbiamo essere consci che le nostre preoccupazioni non sarebbero minori, se alle ultime elezioni europee Sinistra e Libertà avesse superato di un soffio il 4%, ma in un quadro di ulteriore rafforzamento della maggioranza di governo.
Certamente superare la soglia di accesso dà un maggior peso nella ristrutturazione della sinistra, ma non cambia il segno della sua sconfitta in Italia come in Germania.
Sia chiaro che sono favorevole ad una soglia di accesso, purché non stabilita a ridosso delle elezioni e soprattutto con il rispetto dell’art. 51 della Costituzione, per cui tutti hanno diritto di concorrere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza.
L’Italia è l’unico paese europeo nel quale soglia di accesso e soglia per avere diritto al rimborso delle spese elettorali coincidono per il Parlamento Europeo e per le Regioni. L’effetto paradossale è che candidati ed elettori di liste, che non raggiungono il 4% finanziano con 5 Euro a testa le liste avversarie. Questo è intollerabile, non che vi sia una soglia di accesso.
L’argomento della soglia di accesso non può essere usato per imporre bongré, malgré l’entrata (dalla porta di servizio) nel PD.
Il partito socialdemocratico cecoslovacco alle prime elezioni libere non passò la soglia del 4%, ma nel volgere di pochi anni è cresciuto fino a diventare il primo partito della Repubblica Ceca e di esprimere il primo ministro: nelle prossime elezioni, di data certa dopo l’annullamento della data di Ottobre si gioca la preminenza tra i socialdemocratici ed il partito del Presidente della Repubblica Ceca.
Dobbiamo, altresì, convincerci che la crisi economica non porta automaticamente consensi a sinistra. Le responsabilità dei gruppi dirigenti rimane intatta, ma non si può fare di loro i capri espiatori
Non è vero che il peggioramento delle condizioni favorisca la sinistra, l’abbiamo visto in Italia con il fascismo ed in Germania con il nazismo.
Due grandi crisi economiche nel XX° secolo sono sfociate in due guerre mondiali. Il timore del futuro può rendere le persone più rassegnate ed egoiste, come anche far aumentare la coscienza dell’importanza della solidarietà.
La sinistra deve affrontare un compito finora inedito né quello socialdemocratico di distribuire più equamente le risorse, né quello comunista di dar avvio ad una industrializzazione forzata, sacrificando la libertà ed alla fine anche l’eguaglianza.
La sinistra troverà consenso popolare ed elettorale se sarà capace di proporre un’uscita dalla crisi possibile, praticabile e credibile.
Per illustrare il concetto mi scuso di ricorrere ad un’immagine un può forte.
Chi è caduto in una buca di guano è interessato a sapere come uscirne e non di sapere di chi sia la colpa.
Un anticapitalismo generico non conquista nessun consenso. Voglio riportare una delle Tesi congressuali per il Congresso di Milano del PSI:
“III. La crisi economica e finanziaria mondiale, le cui ricadute sulla nostra Provincia sono consistenti e visibili, richiede analisi e risposte nuove: un anticapitalismo generico e pregiudiziale, puro retaggio di nostalgie sovietiche, non è di nessun aiuto a convincere la popolazione, che la sinistra sia in grado di indicare le strade ed i tempi per l'uscita dalla crisi.
Il fallimento di pianificazioni autoritarie e burocratiche impone la ricerca di modelli di sistema in grado di assicurare sviluppo, libertà, partecipazione, efficienza, efficacia e raggiungimento di obiettivi di crescente eguaglianza di condizioni di vita e lavoro e non solo di pari opportunità.
In una economia di mercato spetta alle istituzioni democratiche di stabilire gli obiettivi prioritari e di programmare gli interventi sul lungo periodo per assicurare l'accesso di tutti ai servizi pubblici universali, quali la salute, l'istruzione e la formazione ed ai beni essenziali come l'acqua potabile e l'alloggio. Non è incompatibile con un'economia di mercato l'esistenza di regole di trasparenza, lo smantellamento di concentrazioni di potere nemiche della concorrenza e dell'interesse dei consumatori e di un sistema sanzionatorio severo, per chi viola le regole. Un mercato socialmente orientato differisce da un mercato orientato unicamente alla massimizzazione del profitto, senza riguardo alle ricadute etiche, sociali e ambientali.”
La situazione apre uno spazio obiettivo per le idee socialiste, cioè una scelta di solidarietà e cooperazione, come molti interventi hanno ricordato: l’alternativa è il prevalere degli egoismi nazionali e dei gruppi economicamente o militarmente più forti.
L’esistenza di uno spazio non è una garanzia, che possa essere occupato, da chi lo individua. Basta ricordare quando si teorizzava, che la scelta dei DS di fondersi nel PD,avrebbe aperto uno spazio per una formazione a sinistra di quel partito: così non è stato ne per i socialisti, né per Sinistra Arcobaleno, e non solo a causa della legge elettorale e il richiamo forte al voto utile. Le proposte non erano credibili non sono state credute da milioni di elettori di sinistra, che si sono astenuti. Lo spazio da coprire si è rivelato un vuoto,che come un buco nero nello spazio ha inghiottito le speranze della sinistra. La natura ha paura del vuoto (natura abhorret a vacuo), ma la politica li registra.
Sinistra e Libertà è stato un tentativo - e su altro versante la lista di unità comunista- di riempire il vuoto per occupare lo spazio. Il risultato è stato migliore di Sinistra Arcobaleno,perché si sono raccolti voti superiori al 6%,con un incremento del 50% ( è questo il fascino delle percentuali) rispetto alla somma dei voti socialisti e della Sinistra Arcobaleno, ma la soglia non è stata passata da nessuna delle due liste di sinistra.
L’uscita dei Verdi da Sinistra e Libertà indebolisce il progetto, ma ogni crisi è una sfida ed un’opportunità. SeL può essere più coesa con l’uscita di una forza che a livello europeo si vuole porre al centro e che ha un suo riferimento a un gruppo parlamentare distinto da quello del PSE.
In Finlandia i Verdi sostengono un governo di destra, in Germania se FDP e CDU/CSU non fossero stati autosufficienti non era a priori esclusa una partecipazione dei Verdi, come già avviene in alcuni Länder.
Finora i Verdi, dove hanno avuto guadagni, lo hanno fatto a spese della sinistra. È una strategia che non sempre premia, per esempio in Grecia non hanno superato la soglia del 3%, mentre il PASOK (Partito Socialista Panellenico) ha raggiunto da solo la maggioranza assoluta.
Il PSI fa parte del PSE, il nome ufficiale di Sinistra Democratica è Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo, lo MPS di Vendola non potrà mai confluire nella Sinistra Unita Europea per il veto di Rifondazione.
A sinistra non vi è altro orizzonte diverso dal socialismo europeo, anche se il PSE va profondamente riformato: così, come è, non è uno strumento per il rinnovamento del socialismo europeo e della sinistra nel suo complesso.
Il PSE deve diventare un partito vero e proprio, non una confederazione di gruppi dirigenti socialisti nazionali: un partito sovranazionale e transnazionale che tracci le linee programmatiche e ideali della presenza socialista nelle istituzioni europee (UE e Consiglio d’Europa) ed in quelle internazionali dove l’Europa sia presente.
Senza i Verdi possiamo pensare ad un’altra SeL, cioè SOCIALISMO ECOLOGIA LIBERTA’ primo passo per la costruzione in Italia, come in Europa, di una sinistra che sia socialista, autonoma, europeista, democratica, libertaria e laica.
Periscopio socialista
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Quale sintesi
è possibile?
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Conclusioni (interlocutorie) all'assemblea del Gruppo di Volpedo
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di Felice Besostri
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Non è possibile trarre delle conclusioni in un tempo più ridotto di molti degli intervenuti: ma non è un problema quantitativo.
Sono state espresse indicazioni diverse: autonomia socialista, integrazione nel PD, costruzione di una nuova sinistra a partire da Sinistra e Libertà, quale sintesi è possibile?
Soprattutto si sono espressi anche stati d’animo che proprio per essere il frutto di pulsioni individuali non consentono una reductio ad unum.
Prima però di esprimere le mie opinioni, vorrei fare una precisazione rispetto ad una critica all’Appello di Volpedo, perché si rivolge ai socialisti ovunque essi siano.
Non è un appello indiscriminato.
Se qualcuno una volta socialista è andato da certe parti, cioè nel Popolo della Libertà, in ruoli dirigenti o di spicco e si trova bene, a proprio agio, semplicemente non è più socialista! A costoro non si rivolge l’Appello di Volpedo.
Tutti conoscono un passo famoso della Bibbia, un libro che tutti dovrebbero conoscere anche gli atei, come sono io. Mi riferisco all’Ecclesiaste (3.1-13): c’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per seminare ed un tempo per raccogliere. Un tempo per gioire ed un tempo per piangere. Che tempo è questo per la sinistra italiana, ma anche europea? Non certo per gioire, ma nemmeno per piangere e soprattutto non per compiangersi.
Questo è un tempo per riflettere, ma riflessione non è contemplazione del proprio ombelico e neppure rimasticazione del passato, che pure dovrebbe essere rielaborato perché le occasioni perdute sono state molte.
Non dico il 1953, quando a Berlino una protesta operaia è stata soffocata con i carri armati e neppure il 1956 ungherese (dire rivoluzione è ancora troppo conflittuale).
Il 1968 della Primavera di Praga sarebbe stato un terreno di incontro perché il tentativo di riforma partiva dall’interno dello stesso partito comunista.
E il 1981 polacco di Solidarnosč? Quando un sindacato di lavoratori ha raccolto in brevissimo tempo una decina di milioni di aderenti e perciò era evidente una frattura tra il potere ed il popolo.
Sempre troppo presto, ma l’occasione perduta più recente ed importante è stata il crollo del Muro di Berlino nel 1989, cioè venti anni fa.
L’implosione del sistema sovietico avrebbe dovuto essere la consacrazione dell’altra sinistra, quella socialista democratica, ma così non è stato.
Invece di superare la frattura storica fra socialisti e comunisti è passata la vulgata della fine del la storia, non come vittoria della democrazia, ma del capitalismo.
Questo messaggio non è stato soltanto amplificato dalla destra conservatrice, ma è stato condiviso anche da chi sarebbe diventato il leader dell’Ulivo. Romano Prodi sulla rivista Il Regno, dalla Curia di Bologna, cui è sempre stato contiguo, ha sostenuto che con il crollo del muro non sarebbe finito soltanto il comunismo, ma anche il socialismo in Occidente, nella versione socialdemocratica.
La sinistra italiana non è più rappresentata nel Parlamento nazionale ed in quello europeo.
Non c’è altro caso in Europa, ma la debolezza della sinistra italiana rispetto a quella prevalente in Europa è stata soltanto resa evidente dai risultati del 2008 e del 2009.
La debolezza della sinistra italiana nel suo complesso viene da lontano: non ha mai avuto una vocazione maggioritaria o, quando l’aveva (Fronte Popolare del 1948) non era possibile a causa della divisione del mondo in blocchi contrapposti (ed è stato un bene, che non avesse trionfato una sinistra subordinata all’URSS).
Vocazione maggioritaria non significa avere vocazione governativa, ma proporsi alla guida del Paese con propri programmi e propri esponenti alla guida del governo per attuarli.
La sinistra italiana, anche quando PCI e PSI superavano il 40% dei voti, non si è mai proposta alla guida del Paese ed alla lunga gli elettori se ne accorgono: perché votare per chi non si sente di assumere la responsabilità di governare in prima persona?
La vicenda dell’Ulivo è esemplare, nel 1996 si è proposto con l’appoggio determinante del PDS come Capo del Governo proprio Romano Prodi, quello che aveva teorizzato (ed auspicato) la fine della sinistra in Europa, sepolta dalle macerie del Muro di Berlino.
Il giudizio sul presente dipende dall’orizzonte prospettico con il quale analizziamo la situazione.
Per il tipo di problemi dal cambio climatico alla dimensione della crisi economica e finanziaria, dallo sviluppo ineguale alle migrazioni di popolazioni l’orizzonte della sinistra non può che essere europeo se non planetario.
Tutti sono d’accordo, ma voglio fare un esperimento.
Quanti nella sala sanno la data del prossimo Congresso del PSE a Praga?
Si sono alzate sei mani e ho chiesto soltanto la data, quante se ne sarebbero alzate se avessi chiesto i temi che saranno trattati?
Si tratta di analizzare i risultati delle elezioni europee, nella quale la sinistra nel suo complesso ha perso ed i partiti del PSE, salvo le eccezioni svedesi, slovacche, maltese e greche, hanno subito una grossa sconfitta.
Tuttavia la lettura, imposta dalla destra, dei risultati come sconfitta definitiva della socialdemocrazia è pura ideologia.
Si sa o no che in queste elezioni ha votato meno del 50% degli aventi diritto al voto, cioè la percentuale di votanti è la più bassa degli ultimi quarant’anni, da quando c’è l’elezione diretta del Parlamento europeo?
Ha votato soltanto il 43,1% degli aventi diritto e tra gli astenuti sono prevalenti i ceti popolari, cioè il bacino elettorale tradizionale dei partiti socialisti democratici.
In sei paesi le astensioni sono state superiori al 70%, ed in 12 tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia le astensioni sono state tra il 50 e il 70%.
In solo due paesi, Belgio e Lussemburgo, le astensioni sono state meno del 20%.
In sette paesi soltanto, tra cui l’Italia, ha votato la maggioranza degli aventi diritto.
In questo panorama la sconfitta dei partiti socialisti assume una dimensione meno rilevante. Tutti i partiti pro-Europa hanno perso ed hanno guadagnato partiti populisti, nazionalisti e persino razzisti e soltanto in un numero limitato di paesi hanno compiuto significativi guadagni partiti ambientalisti (Verdi), come in Francia, o partiti di sinistra più radicale, come la Linke in Germania.
Da questo a inverare che la strada è quella della Linke è sbagliato per due ragioni, una di carattere generale e l’altra specifica.
In una prospettiva di sinistra la considerazione più rilevante non è il successo della Linke, di cui peraltro si gioisce, ma il fatto che tra il 2005 e il 2009 ci sono stati 4.360.000 elettori in meno, una forza quasi equivalente al partito dei Verdi. Altro dato, la SPD sempre tra il 2005 e il 2009 ha perso più di sei milioni di voti: Verdi e Linke ne hanno recuperato poco più di 1.800.000, cioè meno di un terzo.
Il risultato: SPD, Verdi e Linke nel 2005 avevano il 51,1% dei voti e la maggioranza assoluta nel Bundestag, nel 2009 hanno poco più del 45% dei voti e la maggioranza è liberal-democristiana. La sinistra è stata sconfitta.
La Linke ha avuto successo grazie ad un robusto ed accettato innesto della componente socialdemocratica di Lafontaine, che ha consentito l’espansione nei Länder dell’Ovest tedesco, altrimenti sarebbe stata una Lega Est della Germania Orientale.
In Italia i sostenitori della Linke escludono a priori un decisivo apporto socialista, mai ricercato.
Noi come sinistra e come socialisti, che ne facciamo parte, dobbiamo essere consci che le nostre preoccupazioni non sarebbero minori, se alle ultime elezioni europee Sinistra e Libertà avesse superato di un soffio il 4%, ma in un quadro di ulteriore rafforzamento della maggioranza di governo.
Certamente superare la soglia di accesso dà un maggior peso nella ristrutturazione della sinistra, ma non cambia il segno della sua sconfitta in Italia come in Germania.
Sia chiaro che sono favorevole ad una soglia di accesso, purché non stabilita a ridosso delle elezioni e soprattutto con il rispetto dell’art. 51 della Costituzione, per cui tutti hanno diritto di concorrere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza.
L’Italia è l’unico paese europeo nel quale soglia di accesso e soglia per avere diritto al rimborso delle spese elettorali coincidono per il Parlamento Europeo e per le Regioni. L’effetto paradossale è che candidati ed elettori di liste, che non raggiungono il 4% finanziano con 5 Euro a testa le liste avversarie. Questo è intollerabile, non che vi sia una soglia di accesso.
L’argomento della soglia di accesso non può essere usato per imporre bongré, malgré l’entrata (dalla porta di servizio) nel PD.
Il partito socialdemocratico cecoslovacco alle prime elezioni libere non passò la soglia del 4%, ma nel volgere di pochi anni è cresciuto fino a diventare il primo partito della Repubblica Ceca e di esprimere il primo ministro: nelle prossime elezioni, di data certa dopo l’annullamento della data di Ottobre si gioca la preminenza tra i socialdemocratici ed il partito del Presidente della Repubblica Ceca.
Dobbiamo, altresì, convincerci che la crisi economica non porta automaticamente consensi a sinistra. Le responsabilità dei gruppi dirigenti rimane intatta, ma non si può fare di loro i capri espiatori
Non è vero che il peggioramento delle condizioni favorisca la sinistra, l’abbiamo visto in Italia con il fascismo ed in Germania con il nazismo.
Due grandi crisi economiche nel XX° secolo sono sfociate in due guerre mondiali. Il timore del futuro può rendere le persone più rassegnate ed egoiste, come anche far aumentare la coscienza dell’importanza della solidarietà.
La sinistra deve affrontare un compito finora inedito né quello socialdemocratico di distribuire più equamente le risorse, né quello comunista di dar avvio ad una industrializzazione forzata, sacrificando la libertà ed alla fine anche l’eguaglianza.
La sinistra troverà consenso popolare ed elettorale se sarà capace di proporre un’uscita dalla crisi possibile, praticabile e credibile.
Per illustrare il concetto mi scuso di ricorrere ad un’immagine un può forte.
Chi è caduto in una buca di guano è interessato a sapere come uscirne e non di sapere di chi sia la colpa.
Un anticapitalismo generico non conquista nessun consenso. Voglio riportare una delle Tesi congressuali per il Congresso di Milano del PSI:
“III. La crisi economica e finanziaria mondiale, le cui ricadute sulla nostra Provincia sono consistenti e visibili, richiede analisi e risposte nuove: un anticapitalismo generico e pregiudiziale, puro retaggio di nostalgie sovietiche, non è di nessun aiuto a convincere la popolazione, che la sinistra sia in grado di indicare le strade ed i tempi per l'uscita dalla crisi.
Il fallimento di pianificazioni autoritarie e burocratiche impone la ricerca di modelli di sistema in grado di assicurare sviluppo, libertà, partecipazione, efficienza, efficacia e raggiungimento di obiettivi di crescente eguaglianza di condizioni di vita e lavoro e non solo di pari opportunità.
In una economia di mercato spetta alle istituzioni democratiche di stabilire gli obiettivi prioritari e di programmare gli interventi sul lungo periodo per assicurare l'accesso di tutti ai servizi pubblici universali, quali la salute, l'istruzione e la formazione ed ai beni essenziali come l'acqua potabile e l'alloggio. Non è incompatibile con un'economia di mercato l'esistenza di regole di trasparenza, lo smantellamento di concentrazioni di potere nemiche della concorrenza e dell'interesse dei consumatori e di un sistema sanzionatorio severo, per chi viola le regole. Un mercato socialmente orientato differisce da un mercato orientato unicamente alla massimizzazione del profitto, senza riguardo alle ricadute etiche, sociali e ambientali.”
La situazione apre uno spazio obiettivo per le idee socialiste, cioè una scelta di solidarietà e cooperazione, come molti interventi hanno ricordato: l’alternativa è il prevalere degli egoismi nazionali e dei gruppi economicamente o militarmente più forti.
L’esistenza di uno spazio non è una garanzia, che possa essere occupato, da chi lo individua. Basta ricordare quando si teorizzava, che la scelta dei DS di fondersi nel PD,avrebbe aperto uno spazio per una formazione a sinistra di quel partito: così non è stato ne per i socialisti, né per Sinistra Arcobaleno, e non solo a causa della legge elettorale e il richiamo forte al voto utile. Le proposte non erano credibili non sono state credute da milioni di elettori di sinistra, che si sono astenuti. Lo spazio da coprire si è rivelato un vuoto,che come un buco nero nello spazio ha inghiottito le speranze della sinistra. La natura ha paura del vuoto (natura abhorret a vacuo), ma la politica li registra.
Sinistra e Libertà è stato un tentativo - e su altro versante la lista di unità comunista- di riempire il vuoto per occupare lo spazio. Il risultato è stato migliore di Sinistra Arcobaleno,perché si sono raccolti voti superiori al 6%,con un incremento del 50% ( è questo il fascino delle percentuali) rispetto alla somma dei voti socialisti e della Sinistra Arcobaleno, ma la soglia non è stata passata da nessuna delle due liste di sinistra.
L’uscita dei Verdi da Sinistra e Libertà indebolisce il progetto, ma ogni crisi è una sfida ed un’opportunità. SeL può essere più coesa con l’uscita di una forza che a livello europeo si vuole porre al centro e che ha un suo riferimento a un gruppo parlamentare distinto da quello del PSE.
In Finlandia i Verdi sostengono un governo di destra, in Germania se FDP e CDU/CSU non fossero stati autosufficienti non era a priori esclusa una partecipazione dei Verdi, come già avviene in alcuni Länder.
Finora i Verdi, dove hanno avuto guadagni, lo hanno fatto a spese della sinistra. È una strategia che non sempre premia, per esempio in Grecia non hanno superato la soglia del 3%, mentre il PASOK (Partito Socialista Panellenico) ha raggiunto da solo la maggioranza assoluta.
Il PSI fa parte del PSE, il nome ufficiale di Sinistra Democratica è Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo, lo MPS di Vendola non potrà mai confluire nella Sinistra Unita Europea per il veto di Rifondazione.
A sinistra non vi è altro orizzonte diverso dal socialismo europeo, anche se il PSE va profondamente riformato: così, come è, non è uno strumento per il rinnovamento del socialismo europeo e della sinistra nel suo complesso.
Il PSE deve diventare un partito vero e proprio, non una confederazione di gruppi dirigenti socialisti nazionali: un partito sovranazionale e transnazionale che tracci le linee programmatiche e ideali della presenza socialista nelle istituzioni europee (UE e Consiglio d’Europa) ed in quelle internazionali dove l’Europa sia presente.
Senza i Verdi possiamo pensare ad un’altra SeL, cioè SOCIALISMO ECOLOGIA LIBERTA’ primo passo per la costruzione in Italia, come in Europa, di una sinistra che sia socialista, autonoma, europeista, democratica, libertaria e laica.
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