domenica 29 luglio 2018

Janiki Cingoli: Perché è grave la "legge nazionale" approvata in Israele

Perchè è grave la "Legge Nazionale" approvata in Israele. Di Janiki Cingoli Ciò che è più grave, nella "Legge nazionale" approvata dalla Knesset con una ristretta maggioranza, non è solo il suo carattere autocentrato solo sugli ebrei, o la sua sostanziale inutilità, dati i ripetuti riconoscimenti dell'ONU di Israele come Stato del Popolo ebraico. O l'esaltazione della politica degli insediamenti ebraici, "da consolidare e sviluppare". Il fatto che si riconosca il diritto all'autodeterminazione solo agli ebrei e non alle altre minoranze, quali l'arabo-palestinese e la drusa, è comprensibile, perché riconoscere tale diritto a tali minoranze significherebbe riconoscere il diritto al separatismo, che esse stesse non richiedono (altra questione ovviamente è il diritto aĺl'autideterminazione dei Palestinesi a costruire il loro Stato in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est). Ma la questione è che tali minoranze vengono semplicemente rimosse nella legge approvata, non sono neanche nominate, solo un articolo declassa la lingua araba da seconda lingua nazionale a "lingua speciale". Ma uno Stato che vuole definirsi ebraico deve riconoscere l''identità collettiva delle sue minoranze e fornire loro garanzie e diritti positivi, come l'Italia fa con i Tedeschi in Alto Adige, in base all"articolo 6 della sua Costituzione. Nella Legge approvata non vi è nulla dell'appello contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza del '48 agli arabi di Israele (che oggi rappresentano il 20% della popolazione israeliana) a "partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una piena e uguale cittadinanza e con la debita rappresentanza in tutte le sue... istituzioni". Non è sufficiente assicurare uguali diritti ai cittadini come singoli, su questa base le maggioranze, come in questo caso, possono opprimere o ignorare le minoranze. Le minoranze nazionali, etniche, linguistiche, religiose o di genere vanno riconosciute, tutelate e garantite con specifici provvedimenti positivi.

giovedì 26 luglio 2018

Il PD in mezzo al guado

Il PD in mezzo al guado

Il maxipartito del 60%

Il maxipartito del 60%

Franco Astengo: Partiti

UN PARTITO: UN PARTITO PER IL MIO REGNO ! di Franco Astengo La crisi della democrazia dei partiti appare ormai evidente e di particolare gravità, almeno nel caso italiano, perché il suo processo degenerativo avviatosi fin dagli anni’90 del XX secolo sta trasformandosi, dopo diversi tentativi, in una sorta di “stretta” nella quale si sviluppano fenomeni fortemente negativi fino a far pronosticare la fine del Parlamento, o almeno la sua inutilità. Nel corso degli anni questa crisi è stata analizzata in maniera del tutto insufficiente e in alcuni casi fuorviante, dando luogo a clamorosi equivoci dai quali sono sortite anche scelte politiche clamorosamente sbagliate come quelle legate ai tentativi di riforma costituzionale attorno ai quali via via il sistema si è bloccato fino al loro respingimento, per due volte, da parte del corpo elettorale. Di questo stato di cose si è occupato un politologo del calibro di Peter Mair (con Kaltz autore della fondamentale teoria del “cartel party” nel 1992) con il volume “Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti”, pubblicato da Rubettino, Soveria Mannelli 2016. Un testo di grande importanza la cui analisi è stata affrontata da Eugenio Salvati, in un intervento pubblicato dai “Quaderni di Scienza Politica” n.1, Aprile 2018. Vale la pena allora analizzare alcune argomentazioni portate avanti nel testo di Salvati, cercando di trarne indicazioni di natura politica anche allo scopo di sottolineare alcuni fenomeni fortemente sottovalutati nel corso del tempo e che stanno alla base del difficile stato di cose in atto. Il ragionamento avanzato da Mair si basa, prima di tutto, sul tentativo di rispondere a una domanda che, in verità, in molti ci siamo costantemente posti nel corso di questi anni: “La democrazia può funzionare senza partiti ?” e ancora “O meglio, quale genere di partiti operano nella complicata realtà della democrazia contemporanea, sempre più vittima della disaffezione dei cittadini?”. La premessa è che i partiti che governano le nostre democrazie sembrano sempre più partiti senza “un popolo”, organizzazioni ormai incapaci di adempiere a quella funzione di collegamento tra politica istituzionale e partecipazione interesse/popolare. Entra in scena, sotto questo aspetto, la formula elaborata nel 1960 da Elmer E. Schattschneider sulla “semi – sovranità”: concetto che ci conduce al tema riguardanti le forme che può assumere il rapporto tra governati e governanti. Un rapporto che dovrebbe realizzarsi attraverso la cosiddetta funzione “di rispondenza” da parte dei governanti rispetto alle domande, alle preferenze e agli input provenienti dalla società e che la politica dovrebbe essere poi in grado di tradurre in output. E’ questo un punto di grande delicatezza proprio nella fase che sta attraversando il sistema politico italiano, dove l’intreccio tra “democrazia del pubblico” e utilizzo delle nuove tecnologie sta determinando una miscela micidiale d’incontrollabilità dell’autonomia del politico, fino a determinare un’assoluta separatezza tra le scelte di governo mediate tutte dall’opportunismo tattico del riferimento elettorale, le reali esigenze della “società complessa” mediate dal “corporativismo da Facebook” ,fondato completamente sulle “percezioni” e non sui fatti reali e la corsa “folle” all’accaparramento delle posizioni di potere (corsa “folle” che alla fine favorisce i soliti “gran commis” protagonisti del miglior trasformismo di natura italica”). Nella sostanza il quadro appare segnato dallo scollamento tra procedure/Garanzie costituzionali e partecipazione / ruolo dei cittadini: fenomeni che hanno segnato la crisi strutturale dei partiti stretti ormai tra quella che è stata definita “Illusione Populista” e la razionalità tecnocratica. Fenomeni che alimentano fortemente proprio lo scollamento appena denunciato. Come già accennato in precedenza a questo punto la rappresentanza degli interessi diffusi cede il posto a quella degli interessi particolari, ossia con la necessità che hanno i politici di rispondere semplicemente alle domande a breve termine delle elettrici e degli elettori (dal reddito di cittadinanza, al possesso di armi). Su questo elemento s’innesta quel contrasto all’interno del quale potrebbero farsi largo forme di democrazia (si è addirittura usato l’ossimoro “democrazia autoritaria”) ancora più ibride, modelli in cui alla preminenza della conoscenza e della tecnica si possono associare aspetti di tipo plebiscitario ,contrabbandati da “democrazia diretta” verso la quale da qualche parte si sta recuperando l’idea della “democrazia consiliare” al riguardo della quale chi scrive queste note ha cercato vanamente di impegnarsi nel corso degli anni. Aspetti plebiscitari utili a paventare una patina di consenso e di parziale mobilitazione diffusa, utile a coprire un governo decisamente più sbilanciato verso la dimensione tecnocratico – burocratico. Sotto quest’ aspetto va sottolineato come l’accordo Lega – M5S al riguardo del “contratto di governo” sia stato approvato, attraverso la piattaforma Rousseau 44.796 persone su 10.732.066 che avevano votato il movimento il 4 marzo 2018, pari allo 0,41%. Secondo Mair (riportato da Salvati) al centro dell’analisi deve collocarsi lo svuotamento sostanziale dello spazio politico tra partiti e cittadini, ossia quello spazio dove avviene l’interazione tra politica e società. Quel luogo, insomma, in cui, teoricamente, i partiti dovrebbero raccogliere domande e sostegno e offrire rappresentanza, risposte e assumere responsabilità. Come verifichiamo ogni giorno quello spazio d’interazione è ormai coperto soltanto dagli annunci e l’arena politica sembra essere trasferitasi completamente nella virtualità dei social. Sulle ragioni del determinarsi di questo stato di cose ci si sofferma su tre questioni: partecipazione elettorale, instabilità elettorale, indicatore della fedeltà partitica. Mi soffermo soltanto sul primo punto, al riguardo del quale in passato mi era capitato più volte di riflettere rammaricandomi del quanto la sottovalutazione del fenomeno avesse determinato le difficoltà crescenti che l’intero sistema politico italiano stava via via incontrando. In Italia si è scesi rapidamente da una partecipazione al voto costantemente superiore all’80% degli aventi diritto (oltre il 90% dal 1948 al 1983) a percentuali parecchio inferiori che nel caso di elezioni amministrative e referendarie non raggiungono il 50%. Il fenomeno è stato colpevolmente scambiato, anche da parte di cattedre particolarmente autorevoli, come di un semplice riallineamento al “trend” delle democrazie cosiddette “mature” trascurando almeno due fenomeni di fondo: 1) Il primo riguarda la profondità delle ragioni del non voto: molti, infatti, ritengono che l’offerta politica risulti del tutto insufficiente nello stabilire l’effettiva possibilità che la scelta di un’opzione piuttosto che di un’altra produca effettivo cambiamento. L’offerta politica viene, infatti, considerata omologata nei diversi soggetti che si propongono e non provoca quindi sufficiente reazione. Un elemento, questo, da valutare attentamente, in particolare da parte del M5S che proclama una propria diversità di comportamento, ma non realizza l’effettiva prospettiva di un mutamento nella concretizzazione di contenuti, anzi. E’ per questo motivo che la presenza, formalmente innovativa, del M5S non ha prodotto, all’interno del nostro sistema politico, un qualche recupero di partecipazione elettorale. Al contrario la presenza del M5S e l’assunzione da parte della Lega Nord di connotati più fortemente populistici ha prodotto soltanto un rimescolamento delle carte e la fuga di altre centinaia di migliaia di elettrici ed elettori (nell’occasione delle elezioni politiche del 2013 la partecipazione si collocò al 75,19% diminuendo con le europee 2014 al 58,68% e risalendo nel 2018 al 72,94% con una perdita tra il 2013 e il 2018 di 1.400.000 voti validi). 2) Il secondo elemento riguarda la cosiddetta “riduzione del demos”. La scomposizione sociale (la cosiddetta “società liquida)in atto da tempo nel segno della “modernità” e dell’individualizzazione rispetto all’innovazione tecnologica in materia di comunicazione, ha prodotto – oltre al fenomeno dilagante e crescente dell’individualismo consumistico – l’illusione che la politica non tacchi più la vita delle persone, ma si tratti di fenomeno riservato soltanto a coloro che intendono vivere “di” politica, scalandone i gradini in termini di cursus honorum considerato soltanto nell’ambito ristretto del concetto di governabilità. Questo secondo punto si è scatenata, come abbiamo già avuto occasione di far osservare, la cosiddetta “antipolitica”con l’aggressione dello spazio vuoto, operazione naturale del resto in tutte le dinamiche politiche. Il tema della partecipazione elettorale deve essere collegato, all’interno di un’analisi certamente più accurata e approfondita di quella che mi trovo a sviluppare in questa sede, al fenomeno che Mair definisce “calo della fedeltà partitica” e che, in Italia, ha assunto la vesta dello svuotamento e della relativa conclusione dell’esperienza dei partiti a integrazione di massa sviluppatisi fin dal primo dopoguerra e, successivamente, modellati secondo lo schema di Duverger dei “cerchi concentrici”, di cui era stato prototipo e modello il PCI “partito nuovo” d’impronta togliattiana. E’ evidente che sotto questo aspetto risultasse fondamentale il tema dell’ideologia e del come la diversità delle ideologie attorno alle quali si raccoglievano strati sociali diversi e in lotta fra di loro (e di conseguenza alla ricerca di una rappresentanza politica omogenea ciascuno per i diversi interessi) si sia alla fine risolta nel “pensiero unico” e nella fenomenologia della “fine della storia” ( Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, The National Interest, 1989). Esiste insomma una stretta correlazione (quasi ovvia verrebbe da sottolineare) tra il “Pensiero Unico” e il calo verticale della fedeltà partitica, avvenuta mentre non ci si accorgeva dell’affermarsi egemonico di una nuova ideologia, quella che – in passato – mi sono permesso di definire “dell’individualismo competitivo”. In questo caso, come sottolinea Mair, il dato è strutturale e coinvolge tutte le maggiori democrazie europee, segnando un trend nell’emorragia di iscritti ai partiti cominciato negli anni ’90. In Italia, sotto questo aspetto, è risultato fondamentale lo scioglimento del PCI, vero punto di disequilibrio del sistema ancor di più dei successivi scioglimenti di DC e PSI verificatisi sull’onda di Tangentopoli. Su questo argomento ha scritto proprio in queste ore un socialista coerente come Giovanni Scirocco: Dopo l'89, sgombrato l'equivoco comunista, si è assistito a un clamoroso "sputtanamento semantico" (per usare l'espressione di uno dei miei professori al Liceo Carducci, Salvatore Guglielmino) del termine "socialismo". Se ciò era comprensibile a Est, molto meno lo è, ai miei occhi, in Occidente. Soprattutto, essendo ciò avvenuto con il concorso e la complicità di chi avrebbe dovuto difendere il significato e il valore di quel termine. A me hanno insegnato, per dirne una, che "socialismo" vuol dire stare dalla parte dei lavoratori. Qui abbiamo visto esponenti del maggior partito della sinistra schierarsi tranquillamente con i datori di lavoro e i loro rappresentanti (anche i vari senza vergogna che magari avevano precedente militato nei Quaderni rossi, LC o nel Pci, perfino partecipando all'occupazione della Fiat). I risultati elettorali di questa follia sono sotto gli occhi di tutti. Se si perde il senso della direzione, tutto il resto non ha senso”. ( un testo molto condivisibile a parte il dissenso personale sul passaggio riguardante “l’equivoco comunista”. Non si può ancora dimenticare che gli anni’90 del XX secolo, periodo al quale è necessario fare riferimento al fine di sviluppare un’analisi il più possibile corretta, furono gli anni del Trattato di Maastricht, del poderoso rilancio dell’integrazione europea sulla base del Mercato Unico e della costruzione delle basi per approdare alla moneta unica, all’inizio del nuovo secolo. E’ risultato micidiale l’illusione che uno spazio economico comune potesse essere sufficiente nel tenere insieme paesi diversi senza il collante definito dell’appartenenza a uno spazio politico comune, fino a comprendere 27 membri, fra i quali i paesi dell’Est europeo fuoriusciti dal “socialismo reale” e oggi paradossalmente collegati nel cosiddetto “gruppo di Visegrad” espressione di governo di destra razzista. Fu quella l’avvio della stagione della de-politicizzazione incarnata dalle istituzioni maggioritarie costruite a Bruxelles, istituzioni che poi faranno sentire tutto il loro peso tecnocratico sugli stati nazionali in occasione di quelle che Mair definisce grandi sfide, cominciate nel 2008 con la grande crisi del ciclo capitalistico. La risposta a tale spaesamento è stata fornita dai nuovi attori politici (oppure capaci audacemente di auto riciclarsi come nel caso della Lega Nord), definiti tutti genericamente come “populisti” in una notte in cui tutte le vacche hegelianamente sono nere,e che ottengono sempre più successo grazie alla loro capacità di dare rappresentanza ai bisogni marginalizzati nel mettersi in contrasto con altri gruppi (gli immigrati, le cosiddette “élite”, i politici, ecc,ecc) in un quadro di individualismo estraniante. Concludo sul tema dei partiti, seguendo ancora lo schema Mair – Salvati. Proprio il quadro descritto sembra indicarci che i partiti, almeno in linea teorica, sono ancora importanti e che la crisi strutturale contemporanea è più che altro una crisi dei partiti di cartello, eredi delle grandi famiglie politiche europee. I partiti debbono continuare a esistere con il compito di promuovere scelte politiche alternative e rappresentare gli attori in grado di raccogliere e processare preferenze diverse provenienti dalla società. I partiti sono forti e radicati quando sono in grado di raccogliere e interpretare gli orientamenti e le preferenze delle loro basi sociali. Nel momento in cui la società si atomizza e i partiti non riescono più a proporsi come alternativi sulla base di una visione della società ben precisa, questi ultimi cercando di raccogliere il consenso più ampio possibile ( sulla base di quella concezione negativa dell’autonomia del politico della quale sono campioni gli attuali soggetti al governo in Italia) e si muovono oltre quelli che possono essere gli steccati definiti da basi sociali diverse e ben delineate, portando al parossismo il partito pigliatutti (catch-all party, definizione coniata da Otto Kirchheimer), modello del quale è stato epigono colpevole e sfortunato, in Italia, il cosiddetto PD (R), partito al quale va attribuita la responsabilità della quasi avvenuta cancellazione del concetto di sinistra nel sistema politico italiano. Sembrano aver perso anche valore contraddizioni sociali e politiche decisive come quella riguardante la differenza di genere, ormai totalmente annullata in una politica gestita totalmente “al maschile” (anche da parte delle donne”) tanto è vero che riaffiora la tentazione (limitante se non ghettizzante) delle “quote rosa”. Per concludere: contrastare questa deriva appare oggi operazione pressoché impossibile, tanto è vero che la tendenza (ben alimentata dai risultati elettorali più recenti) è quella dell’auto – marginalizzazione in isole dall’identità incerta tra movimentismo di stampo populista, residualità più o meno ideologizzate, bandiere tenute al vento per pura voglia di testimonianza. Valutata l’insufficienza complessiva (per diverse ragioni) delle soggettività esistenti sul versante della sinistra (senza distinguere tra radicale e riformista)occorre coraggio promuovendo, rivolgendoci a tutti, un’iniziativa del tutto controcorrente, almeno in apparenza: quella della promozione e dell’organizzazione di un partito della sinistra, posto sulle basi delle esperienze storiche e delle necessità incombenti. Un soggetto politico che prima di tutto non consideri la storia finita e il capitalismo (nelle sue varie declinazioni) il solo orizzonte possibile. Un soggetto politico che non può essere definito altrimenti che “partito”, la cui realtà teorica, politica, organizzativa debba essere imperniata su due principi fondamentali: 1) Un partito attrezzato per continuare a considerare l’andamento della storia nel senso di una trasformazione in senso socialista della società, per il superamento del capitalismo; 2) La Costituzione italiana nella sua essenza riguardante il rapporto tra la prima e seconda parte e del tipo di cittadinanza che vi si delinea, intesa quale “tavola” ancora da applicare considerandola come strumento per un passaggio di transizione. Costituzione che contiene in sé anche i necessari elementi di riferimento sul piano della dimensione sovranazionale e di politica estera. 3) La questione del “governo” semplicemente non esiste, almeno per questa fase politica. Questo perché il dato prioritario da conseguire è quello della rappresentanza a tutti i livelli. Rappresentanza fondata su di un’aggregazione radicata nella realtà e posta a diretto confronto con la molteplicità delle contraddizioni che agiscono pesantemente sulla società moderna (le abbiamo tutti presente; evitiamo inutili liste della spesa.) Il tutto considerato che si tratta anche di delineare un orizzonte epocale (e quindi di ricostruire una prospettiva teorica) al riguardo di un tema che non può essere sottovalutato , quello che appare assai complesso da affrontare al riguardo della prospettiva strategica che deve essere posta essenzialmente al riguardo della trasformazione che l’agire politico subirà oggettivamente sotto l’incalzare dell’innovazione tecnologica: una rivoluzione di cui non abbiamo ancora valutato le conseguenze e che ci potrebbe portarci a un altro livello di confronto con una tecnocrazia basta su macchine azionate da dati e algoritmi, in grado di determinare l’orientamento della vita delle persone. Fermiamoci però a questo punto limitandoci alla nostra ricerca del “controcorrente” delineato nella fase e nel medio periodo.

Democratic Socialism Is About Democracy

Democratic Socialism Is About Democracy

Own the Future

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mercoledì 25 luglio 2018

Disobbedire al 3%: come restare nell’Unione europea senza austerità - micromega-online - micromega

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Gli autori di ‘Piigs’: “Così la sinistra ha ucciso Keynes” - micromega-online - micromega

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L'Europa e le false credenze della Sinistra - micromega-online - micromega

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The Question of Russia and the Left

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European Welfare Solidarity in Focus: High Support for European Social Safety Net » EuVisions

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Trump Attacks US Workers And Labor Unions • Social Europe

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mainly macro: Trump and Brexit

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lunedì 23 luglio 2018

Franco Astengo: I diversi piani di costruzione della soggettività politica

I DIVERSI PIANI DI COSTRUZIONE DELLA SOGGETTIVITA’ POLITICA DELLA SINISTRA ITALIANA di Franco Astengo Con questo intervento riprendo, pur introducendo elementi di novità, anche alcune argomentazioni già esposte nei giorni scorsi cercando di fornire una veste il più possibile organica all’argomentazione riguardante la necessità di una soggettività politica rappresentativa della storia e della realtà della sinistra italiana. Mi scuso in anticipo perché alcuni passaggi sono ripresi da interventi precedenti ma mi è parso indispensabile ripetermi proprio per motivi di organicità del discorso. La terza parte poi presenterà aspetti davvero futuribili sui quali mi è però parso di dover porre l’accento, sia pure in una forma assolutamente problematica, proprio ai fini della completezza del discorso. Avvio quest’abbozzo di riflessione partendo da un’intervista rilasciata da Jon Lansman e pubblicata dall’Espresso: argomento il Labour Party e la sua politica interna e internazionale, di cui Lansman cura la strategia. In quel testo mi è parso molto significativo questo passaggio: Domanda: .... Come si pone il Labour rispetto ai suoi colleghi nel Continente: Risposta Noi siamo storicamente diversi da molti altri partiti europei, ma la mia opinione è che dobbiamo avere rapporti più stretti con loro. Domanda: In Italia ? (l’intervista è stata curata da Rosa Fioravanti e Andrea Pisauro) Risposta Non altrettanto. Noi lo vorremmo. Ma con chi e che cosa dovremmo. Ma con chi e con cosa dovremmo legarci esattamente? Domanda Già. Perché oggi nel paese della Thatcher c’è il partito socialista più forte e nel paese di Gramsci c’è la sinistra più debole? Risposta Voi avevate il partito comunista più forte dell’Europa Occidentale, me lo ricordo bene. Ed è curioso che in tutta l’Europa ora parlino di Gramsci mentre da voi si parla solo di Salvini. Comunque, in generale, penso che il crollo del Muro abbia danneggiato la sinistra perchè questa ha abbandonato le sue prospettive sociali molto più di quanto avrebbe dovuto. E’ servito tanto tempo per rivalutare gli aspetti positivi del socialismo. A prescindere dall’opinabilità di alcuni punti specifici di risposta qual è la realtà che emerge da questa intervista? Quella dell’assenza di una soggettività politica in grado in Italia di tenere assieme tre punti, quello dell’internazionalismo, della sovranazionalità e dell’identità nazionale e di dialogare da pari a pari fino in fondo con i principali interlocutori possibili nel quadro europeo, oltrepassando anche schieramenti apparentemente dati ma nella realtà assolutamente artificiosi. Beninteso, non è questo un semplice richiamo alla consueta formula “dell’unità della sinistra”, ma un richiamo a penetrare nel profondo (come si vedrà meglio nella seconda parte di questo intervento) nelle contraddizioni inedite che stanno presentandosi sulla scena della storia. Rimane dunque centrale il problema della costruzione di una soggettività politica della sinistra che oggi svolga una fondamentale funzione di opposizione al quadro dato nel piccolo spazio politico italiano ed europeo, sappia distinguere il meccanismo possibile delle alleanze senza espressioni di subalternità e sviluppi prospettive di egemonia culturale e politica delineando un quadro di alternativa possibile. Nessuno può auto giudicarsi autosufficiente al livello della rappresentazione della propria identità politica: né in nome del portato di una storia pregressa;né in virtù di una presunta capacità di diretta interpretazione dei bisogni delle masse. Questo elemento può essere facilmente arguito analizzando il quadro, assolutamente inedito, che ci troviamo a dover affrontare. Un quadro suddiviso su due piani. 1) Il primo punto da affrontare riguarda il terreno di confronto politico nell’attualità e nel medio periodo. Un piano che può essere così sintetizzato: Il punto da affrontare sul piano dell’analisi è quello della cosiddetta “fine della globalizzazione”. E’ su questo elemento che si rischia di scivolare nell’arretramento sovranista, al punto da favorire un riallineamento a destra come del resto si sta già verificando in una dimensione molto pericolosa. Osservatori di stampo “riformista” come Ian Bremmer o ancora come Tomas Piketty, stanno tirando le somme proprio di questa “fine della globalizzazione” evidenziando due elementi sui quali abbiamo già avuto occasione di riflettere: l’allargamento delle disuguaglianze a ogni livello e dimensione; l’intensificazione dello sfruttamento che ha avuto nelle guerre e nei relativi fenomeni migratori (verificatisi comunque, anche laddove non si sono avuti o non si stanno avendo episodi bellici) il suo fattore propulsivo. Allargamento delle disuguaglianze e intensificazione dello sfruttamento fissano in un’ulteriore pervasività della condizione di classe il dato più evidente che emerge dalle contraddizioni in atto nella fase del ciclo capitalistico (non è questione di ordoliberismo o quant’altro: il tema rimane proprio quello dello “sfruttamento di classe”); 2) Il secondo punto invece appare molto più complesso da affrontare e riguarda la prospettiva strategica che deve essere posta essenzialmente al riguardo della trasformazione dell’agire politico in funzione dell’innovazione tecnologica. Parto da una citazione del tutto irrituale”: “..Prima d’ora, il progresso tecnologico che più di ogni altro aveva cambiato il corso della storia umana era stata l’invenzione della tecnica tipografica nel XV secolo, grazie alla quale la ricerca della conoscenza con mezzi empirici aveva soppiantato la dottrina liturgica, e l’età della ragione aveva gradualmente preso il posto dell’età della religione. L’età della ragione ha prodotto i pensieri e le azioni che hanno plasmato l’ordine del mondo contemporaneo. Ma adesso stiamo assistendo a uno sconvolgimento di quell’ordine, per mezzo dell’avvento di una nuova e ancor più travolgente rivoluzione tecnologica, una rivoluzione di cui non abbiamo valutato le conseguenze, e il cui apice potrebbe consistere in un mondo dipendente da macchine azionate da dati e algoritmi, senza alcuna norma etica o filosofica a guidarle..” Così scrive in questi giorni Henry Kissinger (95 anni) in un articolo molto ampio del quale si è qui riportato soltanto un significativo stralcio e apparso sull’inserto culturale di Repubblica “Robinson” domenica 22 luglio. L’ex capo della politica estera americana ai tempi della presidenza Nixon si pone così un interrogativo di fondo : Chi fermerà lo strapotere delle macchine? No, non lasciatevi incantare dai successi della Silicon Valley, qui sono in gioco i destini del mondo”. Intanto in Africa, per assicurarsi i minerali utili per alimentare questa tecnologia nascono nuove guerre ( non a caso si scrive di “minerali da conflitto”) e si alimentano nuovi terribili schiavismi. Torniamo al punto riguardante l’inoltrarsi dello sviluppo tecnologico: per la prima volta vengono messe in discussione idee, criteri, norme ritenute e lungo incrollabili. Cadono barriere millenarie : gli algoritmi potrebbero dominare la vita dei singoli affermando definitivamente la riduzione della politica a bio politica. L'insieme delle norme e delle pratiche per regolare la vita biologica degli individui nelle sue diverse fasi e nei suoi molteplici ambiti verrebbe stabilito dalle macchine, addirittura alla ricerca della vita eterna (una sorta di Inferno sulla terra alla Glenn Cooper) esulando dalla volontà collettiva esprimibile nelle forme che abbiamo imparato a conoscere dalla storia. Storia che risulterebbe completamente cancellata dall’orizzonte delle conoscenze umane (fenomeni di questo genere se ne vedono già presenti nell’attualità, anche in situazioni ravvicinate alla nostra realtà). Risulterebbe tagliato fuori definitivamente ciò che era considerato risultato di necessità naturale, o di volontà divina, o di oggetto di scelta. Ben oltre a “1984” un regime assoluto tenuto dai pochi in grado di manovrare il flusso delle informazioni che determinano i risultati degli algoritmi potranno orientare la vita delle persone per mantenere un potere ormai da considerare di carattere assoluto ed eterno? E’ questa la prima risposta da fornire da parte di coloro che detengono, in questo momento, le leve del potere politico, economico, tecnologico. Ed è questo il piano strategico sul quale impegnare la ricostruzione di una soggettività della sinistra capace di agire in nome degli ideali di eguaglianza, solidarietà, pace. Una risposta che non pare provenire forse per una carenza di fondo sul piano dell’elaborazione teorica, della ricostruzione di una filosofia “umana” o non semplicemente espressa per servire la tecnologia. E’ questa la nuova “contraddizione principale” verso la quale siamo chiamati a confrontarci? Intanto il livello delle disuguaglianze e dello sfruttamento cresce, si registrano fratture sempre più violente nel corpo sociale in tutte le dimensioni e la risposta sempre essere quella di un neo – trinceramento identitario nell’idea di costruire fortezze in grado di tenere lontano il contagio. C’è chi propone la formazione di “commissioni nazionali” di scienziati per cominciare ad affrontare la questione (naturalmente con l’obiettivo di mantenere comunque il potere delle distanze sociali acquisite e da accrescere). Che cosa succede, invece, dalle nostre parti: di chi lotta per contenere (almeno) la sopraffazione di classe che sempre più si allarga sull’insieme degli ambiti della vita sociale? Quale neosocialismo, quale governo dell’etica, quale “ritorno alla politica” nel tempo in cui il dominio sembra poter essere esercitato soltanto dai nuovi signori delle macchine? Purtroppo soltanto interrogativi, per ora nulla di più sembra possibile esprimere.

venerdì 20 luglio 2018

PS. In Theory: Rethinking Austerity by PS editors - Project Syndicate

PS. In Theory: Rethinking Austerity by PS editors - Project Syndicate

What Is Democratic Socialism?

What Is Democratic Socialism?

Franco Astengo: Competitività, innovazione, intervento pubblico

COMPETITIVITA', INNOVAZIONE, INTERVENTO PUBBLICO IN ECONOMIA di Franco Astengo Il nodo della presidenza della Cassa Depositi e Prestiti sta assumendo l’aspetto di una vera e propria “questione dirimente” all’interno dello schieramento di governo. In ballo pare esserci la volontà della maggioranza Lega – M5S di tentare (riassumo semplificando sulla base di letture giornalistiche) di utilizzare la CDP (5 miliardi di depositi postali) quasi come una “Nuova IRI” o meglio come una “IRI 4.0” per sviluppare una nuova stagione di intervento pubblico in economia, inaugurata con l’acquisizione del 4,9% di Telecom attuata per fermare la scalata di Vivendì e che proseguirebbe con l’acquisizione della maggioranza della super- dissestata Alitalia. Sarebbe il caso, a questo proposito, di ricostruire accuratamente la storia dell’IRI, almeno nel secondo dopoguerra: non mancheranno occasioni in questo senso. Per adesso, invece, sarà il caso di limitarci all’idea di intervento pubblico in economia così come questo potrebbe essere proposta nell’attualità. Attualità molto diversa da quando il tema fu proposto (e bloccato) all’epoca del primo centrosinistra e dell’avvio del “miracolo economico”. Il quadro generale di riferimento oggi è tracciato, da un lato dalla strategia dei dazi da parte degli USA e dalla continuità delle regole di “austerità” dettate dall’UE, a fronte di una complessità del mercato internazionale che presenta fortissimi squilibri strutturali anche da parte di quei paesi che si ritenevano emergenti e che avrebbero dovuto funzionare da nuovi riferimenti complessivi. Si tratta di fattori decisivi che ci richiamano a una necessità di un livello strategico tale attraverso il quale fronteggiare questa fase di fuoriuscita dallo schema della cosiddetta “globalizzazione” così come questo fenomeno si era evidenziato nell’ultimo decennio, a livello planetario. L’Europa impostata su di una logica strettamente monetarista è ancora in una situazione di deficit (che appare a prima vista incolmabile) sui rispettivi piani nazionali e subisce, forse più di altre parti del mondo, l’impatto di questo stato di cose e si trova di fronte alla contesa tra identità e globalismo (ben oltre il tema dei migranti, dominante soltanto per i media e sul piano propagandistico dell’ultradestra nazionalista). Intanto, mentre si verificano questi imponenti spostamenti di capitale, la condizione materiale dei lavoratori peggiora e la situazione economica complessiva dell’Unione Europea appare in una situazione di arretramento complessivo sicuramente non certificata dalle percentuali di crescita o di decrescita del PIL dei rispettivi Paesi L’Italia si trova in una situazione d’incapacità di difesa del proprio residuo patrimonio economico soprattutto perché si trova di fronte ad uno specifico intreccio perverso tra politica ed economia che finisce con il paralizzare scelte di fondo che sarebbero necessarie, soprattutto dal punto di vista dell’intervento del pubblico sia sul piano degli investimenti che della gestione in un quadro complessivo d’insufficienza grave anche dal punto di vista della realtà finanziaria(pensiamo alle difficoltà del sistema bancario, stretto anche dalla “questione morale”) e delle infrastrutture. Il tessuto produttivo nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l'economia del Paese e non si riesce a varare un’efficace programmazione economica, all'interno della quale emerga la capacità di selezionare poche ed efficaci misure, in grado di incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e lungo periodo. Appaiono, inoltre, in forte difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura produttiva, ideati nel corso degli ultimi vent'anni allo scopo di favorire crescita e sviluppo: il caso dei distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito. Da più parti si sottolinea, giustamente, il deficit di innovazione e di ricerca. Ebbene, è proprio su questo punto che appare necessario rivedere il concetto di intervento pubblico in economia: un concetto che, forse, richiama tempi andati, di gestioni disastrose e di operazioni “madri di tutte le tangenti”. Oggi si tratta di riconsiderare l'idea dell'intervento pubblico in economia; non basta (anzi appare pericolosa) l’idea di usare la CDP come salvadanaio per acquisire quote di società già pubbliche poi privatizzate e adesso in totale dissesto. Si evidenzia così un’assoluta mancanza di strategia. Emerge, infatti, la consapevolezza di dover finanziare l'innovazione produttiva: è questo il nodo di fondo di un possibile rinnovamento della capacità di intervento pubblico in economia. Mentre il mercato internazionale si specializzava nei beni di investimento e intermedi, con alti tassi di crescita, l'Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi tassi di crescita. Nel 1990 (queste le responsabilità politiche vere del pentapartito) i paesi europei erano tutti in condizione di debolezza e tutti, tranne Portogallo, Grecia, e Italia, hanno modificato le proprie capacità tecnico – scientifiche diffuse, al fine di agganciare il mercato internazionale. Non a caso i Paesi europei hanno una dotazione tecnologica, costruita anche grazie al supporto e all'intervento diretto del settore pubblico ed è questo il vero elemento di squilibrio all’interno dell’UE mentre l'Italia è rimasta al palo nel campo dell'innovazione rinunciando anche allo sviluppo di segmenti alti del mercato del lavoro, nell'informatica, nell'elettronica, nella chimica, addirittura nell’agroalimentare. Queste sono state le responsabilità dirette e comuni di centro – destra, centro – sinistra, tecnici, larghe e piccole intese avvicendatesi al governo del Paese tra il 1992 e il 2018. Si è così’aperta l’involuzione del sistema, fino al distacco totale di interi settori sociali e all’acquisizione della maggioranza da parte di soggetti fondati, da una parte sul semplice schematismo dell’odio razziale (cresciuto fortemente a livello di massa) e dall’altro sull’improvvisazione e la pura sete di potere. Se si vuol pensare all’intervento pubblico in economia occorre affermare con grande chiarezza che l’approccio dato, in questo senso, alla questione di CDP è – perlomeno – sbagliato (ci sarebbe da dire anche colpevole, perché è colpevole pretendere di governare soltanto sulla base di slogan). L’intervento pubblico in economia necessita prioritariamente di programmazione e di capacità di gestione e, in questo momento, va rivolto prioritariamente, alla capacità di finanziamento e di regolazione verso i soggetti capaci di generare innovazione: l'Università, in primis, L'Enea, il CNR, le grandi utilities, le infrastrutture, al punto di far pensare a una proposta della costituzione di un’Agenzia per la ricerca e la programmazione pubblica. Si tratta di rilanciare un intervento pubblico in economia in grado di stabilire criteri vincolanti di collaborazione anche con imprese miste, nel cui quadro interventi di finanziamento siano collegati alla generazione di processi di alta ricaduta industriale e al perseguimento di precisi obiettivi di crescita occupazionale, nei settori avanzati e non tradizionali. Si delineerebbe così un processo lungo e difficile, il cui presupposto dovrebbe essere quello di non affidarsi al mercato e ai suoi meccanismi, prevedendo una capacità di intervento del pubblico, sia sotto l'aspetto della programmazione, che della correzione degli indirizzi generali. L’idea dell’intervento pubblico, della programmazione, della gestione si pone naturalmente, come accennato all’inizio, in diretta relazione con il quadro internazionale e – in specifico – con il ruolo dell’Italia nell’Unione Europea, nella necessità di rompere la gabbia monetarista. Sarebbe il caso di discuterne sul serio, fuori dalle improvvisazioni e dai propagandismi.

Intervista a Riccardo Staglianò sulla gig economy - Pandora Pandora

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martedì 17 luglio 2018

Rischi e perché della guerra economica Usa-Cina - Sbilanciamoci.info

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Le capitalisme démocratique - La Vie des idées

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Ferrari: “La ricostruzione della sinistra” | LABOUR

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Overcoming Crisis Of Globalisation: Rebuild Politics, Rethink International Cooperation • Social Europe

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Bernie Sanders: Bold Politics Is Good Politics

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The Country With No Left

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domenica 15 luglio 2018

Franco Astengo: Sondaggi e spazio politico

SONDAGGI E SPAZIO POLITICO di Franco Astengo Gli esiti dei sondaggi politici sono sicuramente opinabili e vanno presi con assoluto beneficio d’inventario. Stabilito questo punto fermo, è risultato sicuramente di un qualche interesse l’andamento dell’indagine svolta, per conto del “Corriere della Sera”, da Nando Pagnoncelli: Indagine pubblicata il 14 luglio nel merito del giudizio che, in questo momento, elettrici ed elettori stanno formulando sulla collocazione politica del PD. Le risposte fornite nell’occasione sulle quali appuntare maggiormente la nostra attenzione possono essere considerate quelle che riguardano queste domande: la prima “ Secondo lei oggi il Partito Democratico sta facendo un’opposizione efficace al governo Conte.” ; la seconda “ Secondo lei oggi il Partito Democratico non sta facendo alcuna opposizione ed è sostanzialmente scomparso dalla scena politica?”. A sorpresa, ma forse neppure troppo, prevale la risposta alla seconda domanda, quella riguardante l’assenza di opposizione e di sparizione del PD dalla scena politica: è d’accordo con quest’affermazione il 59% del totale degli interpellati. Ancor più significativo l’esito se si restringe il campo delle risposte agli elettori del PD: anche in questo caso la maggioranza assoluta, il 53%, ritiene il PD assente dall’opposizione e inesistente sul piano politico. La maggioranza assoluta dei suoi stessi elettori giudica, dunque, il PD “inesistente sul piano politico” (risposta naturalmente interpretabile in diversi modi, ma comunque ben chiara nella sua sostanza complessiva). Una percentuale alla stessa domanda che diventa plebiscitaria tra elettrici ed elettori della sinistra (LEU e Potere al Popolo, ma anche delle stesse liste alleate con il PD): in questo caso la dichiarazione di sostanziale scomparsa del PD dalla scena politica raggiunge la percentuale addirittura dell’83%. Quasi tutti gli elettori di sinistra concordano con questo dato e nel caso se ne può arguire più facilmente l’indirizzo politico fornito dalle loro risposte. Concentriamo allora la nostra attenzione su quest’ultimo dato cercando di attribuirgli, sia pure con tutte le cautele del caso, il relativo significato – appunto – sul piano politico. Gli elementi di giudizio, in questo caso, possono essere soprattutto due: 1) Il tipo di richiesta di opposizione a questo governo che emerge dalle elettrici e dagli elettori della sinistra chiude finalmente con l’equivoco del PD come appartenente a quell’area politica. Quanto al governo va comunque segnalato il clima parossistico nel quale sta operando. Si veda ad esempio il continuo richiamo a presunti “complotti” e l’idea di attuare “repulisti” nel personale dei Ministeri. Clima parossistico ed esasperato da non sottovalutare nell’analisi; 2) L’altra valutazione che emerge nel dato fornito dalle risposte di elettrici ed elettori della sinistra, riguardante la sostanziale scomparsa del PD dalla scena politica. Tutto questo significa che: a) Si evidenzia la necessità di riempire lo spazio politico ch il PD ha lasciato dopo l’esaurimento del “rigonfiamento” arbitrario che si era verificato alle Europee 2014. Esistono sicuramente settori che non sono rifluiti nel M5S o addirittura nella Lega e che hanno accordato poca fiducia sia a LeU, sia a Potere al Popolo (si ricorda inoltre, ancora una volta, che tra le elezioni del 2013 e quelle del 2018 i voti validi sono diminuiti di 1.400.000 unità). Esiste, insomma, uno spazio politico lasciato vuoto che può essere occupato soltanto attraverso un’espressione di opposizione molto più incisiva dell’attuale. Opposizione da agire sia sul piano politico, sia – soprattutto – sul piano sociale, fuori e dentro il Parlamento; b) L’opposizione necessita però di essere espressa da soggettività politiche poste all’altezza delle contraddizioni che pesantemente stanno esprimendosi in questa fase sia sul piano progettuale, sia su quello organizzativo. Il tema delle soggettività politiche (o della soggettività politica) della sinistra appare essere, ormai da diverso tempo, la questione dirimente. Una questione che è affrontata finora in maniera esitante, confusa, con inutili accenni conservativi da diversi dei soggetti in campo, sia sul versante di quella sinistra che potremmo definire “riformista”, sia di quella che mi permetto di giudicare come “alternativa” e non semplicisticamente “radicale”; c) Sarebbe necessario uno sforzo di adeguamento del dibattito sul tema della soggettività politica da costruire. Una discussione da portare avanti senza forzature di alcun genere, partendo però da un dato che l’esito del sondaggio citato pone in evidente rilievo: i punti di partenza possono essere due, quello dell’opposizione senza tentennamenti verso questo governo alimentandone soprattutto con l’azione sociale gli evidenti limiti e contraddizioni e quello dell’impossibilità (ormai acclarata) di ricostituzione di un’alternativa di governo nel senso del ritorno al bipolarismo “classico” e al centro sinistra. Uno schema quello del bipolarismo fondato sul maggioritario del quale non è possibile conservare alcuna nostalgia. Centro sinistra e centro destra così come si sono evidenziati nel sistema politico italiano nei primi 15 anni del nuovo secolo, si sono definitivamente “bruciati” e il processo di riallineamento del sistema politico italiano si trova ancora agli inizi di una nuova fase di transizione. Da parte delle esistenti forze di sinistra, allora, chiusure improprie nei rapporti politici e affrettate appropriazioni di identità potrebbero rappresentare errori esiziali per una parte politica, quella della sinistra, che, nelle elezioni del 4 marzo 2018, ha toccato il proprio minimo storico in entrambe le versioni nelle quali si è presentata al giudizio del voto. Per ovvie ragioni di economia del discorso sono state qui tralasciate possibili analisi sulle “forme politiche” che in questo momento potrebbero risultare utili per fronteggiare il difficile stato di cose in atto. Si rimanda, per affrontare quest’ulteriore argomento, alla prossima occasione.

venerdì 13 luglio 2018

La rivista il Mulino: Città del Messico, 13/7/2018

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Felice Besostri: Non sono le soglie di sbarramento la risposta al populismo in Europa | Left

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Are We Still Good Europeans? • Social Europe

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Moruno: “Il governo Sánchez e l’accordo con Melenchon. Vi spiego la nuova Podemos” - micromega-online - micromega

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L’economia di Putin non fa gol | A.Goldstein

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Difesa comune: così l’Europa dovrebbe rispondere a Trump | R.Caruso

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Brexit, la difficile partita di Corbyn – Strisciarossa

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mercoledì 11 luglio 2018

Erdogan presenta il suo nuovo governo, a conduzione familiare - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

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Not An Abdication By The Left • Social Europe

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Franco Astengo: Democrazia diretta e corporativismo

DEMOCRAZIA DIRETTA E CORPORATIVISMO di Franco Astengo L’intervento svolto dal prof. Panebianco e pubblicato dal Corriere della Sera del 10 luglio sotto il titolo “ Il potere dello stato corporativo” va segnalato all’attenzione di chi si sta misurando con l’analisi delle trasformazioni imposte al sistema politico italiano dall’esito delle elezioni del 4 marzo scorso e dalla formazione del governo Lega – M5S. Ribadisco, per introdurre il discorso, un dato già esaminato in altra sede e relativo all’accettazione da parte delle due forze interessate delle definizioni di “populista” e “antisistema”. “Antisistema” che nella visione in particolare del M5S, può essere tradotto nel passaggio dalla democrazia rappresentativa, prevista dal nostro ordinamento costituzionale, alla democrazia diretta. Nel suo intervento il prof. Panebianco sostiene che nelle democrazie complesse l’alternativa alla democrazia rappresentativa non è la democrazia diretta. L’alternativa (che lo stesso prof. Panebianco giudica comunque come “instabile”) è invece, a suo giudizio, lo Stato Corporativo: lo Stato cioè dominato da alcune (poche) potenti corporazioni. Si tratta, sempre secondo l’autore, di un’alternativa che cresce sulla base di una debolezza della struttura dello Stato e delle sue forme democratiche. Un pericolo quello del progressivo indebolimento della struttura dello Stato, denunciato da tempo e snobbato non solo dai partiti ma anche dagli stessi analisti che hanno sempre considerato - ad esempio – l’abbassamento nel numero dei partecipanti al voto come un semplice segnale di riallineamento del sistema italiano a quelli delle democrazie mature (da ricordare sotto quest’aspetto giudizi espressi dal prof. D’Alimonte, poi padre ispiratore dell’incostituzionale “Italikum”). Un sistema indebolitosi progressivamente perchè imperniato per decenni sulla considerazione della governabilità quale fattore esaustivo dell’agire politico. In questo modo si è così generata la reazione opposta: quella della cosiddetta “democrazia diretta” (alimentata anche dall’illusione del web) fino a sfociare –appunto – nel corporativismo. Uno Stato debole che, alla fine, resosi incapace di programmare e gestire i grandi settori dell’economia e della produzione si riduce a cercare di soddisfare gli appetiti di determinate categorie sociali al riguardo delle quali agitare l’idea del consenso esercitata come “scambio politico”. Siamo di fronte dunque alla possibilità concreta d’involuzione del sistema in un quadro che prevede da un lato – come si è già più volte cercato di ricordare - l’espressione di un “imperium” personalistico quale punto di riferimento dell’azione politica e la risposta di tipo corporativo ai bisogni espressi da segmenti della società complessa. Bisogni sempre più spesso derivanti da “paure collettive” piuttosto che da esigenze reali. Così si formano i fenomeni più pericolosi di involuzione nel rapporto tra società e politica che assumono la forma delle cosiddette “democrazie illiberali”. Nel frattempo appaiono, all’interno di questo quadro, del tutto saltate le intermediazioni possibili esprimibili ai diversi livelli in un quadro di democrazia rappresentativa. E’ il caso allora di soffermarci su tre questioni: a) Il corporativismo, in tempi moderni, si configura come l’elemento di raccordo tra l’unità di un potere politico – statale considerato trascendente (quindi incentrato su di un “dominus” individuale o collettivo che sia) e il riconoscimento in esso, in forma totalitaria, dei corpi organizzati attorno ad interessi, non soltanto riducibili alla sfera prettamente economica o sociale. In questo senso la pluralità delle corporazioni sostituisce la pluralità delle espressioni politiche; b) Si presenta, in questo senso, la possibilità di una vera e propria “torsione” nei meccanismi di raccolta del consenso e di aggregazione sociale (e di conseguenza della stessa possibilità di espressione di voto). Una torsione realizzata proprio sulla base della costruzione di soggetti rappresentativi delle diverse corporazioni praticando l’obiettivo del” riconoscimento unico” nel potere dello Stato inteso come demiurgo (si ricorda: “stato trascendente”, incarnato da un “dominus” partito e /o persona che sia). Uno “stato trascendente” basato sull’etica della superiorità di gruppo (in questo caso razziale) e sulla capacità di elargizione diretta di incentivi di massa (verrebbero in mente i “premi di natalità” del fascismo, ma anche gli 80 euro del PD come omologhi del reddito di cittadinanza così come questo era stato promesso in origine). c) Tutto questo dovrebbe avere riflessi anche sul piano della forma istituzionale. Sotto quest’aspetto dal punto di vista storico andrebbe analizzata con attenzione la fase preparatoria del plebiscito fascista del 1929. Quel plebiscito che si svolse quando era ancora recente una pur labile parvenza di pluralismo politico emerso dalle elezioni del 1924 (legge Acerbo). Andrebbe verificato come il lascito di quella parvenza di pluralismo politico fosse stata incorporata dal Regime anche dal punto di vista della formazione della “lista unica” sottoposta – appunto –a Plebiscito (non tutto, infatti, era stato risolto dalle leggi “fascistissime”). In conclusione: l’elemento di analisi sul quale concentrare la nostra attenzione rimane quello della possibilità di saldatura tra M5S e Lega in una sorta di “coalizione dominante” (terreno sul quale sta cercando di muoversi il segretario della Lega, almeno a livello mediatico e prendendo spunto dalla vicenda "migranti" assunta a contraddizione di fase). Se questa prospettiva dovesse essere giudicata come potenzialmente praticabile nella formazione di un vero e proprio “blocco” allora una seria valutazione circa la trasformazione in senso autoritario / corporativo del sistema dovrà pur essere compiuta anche perché la “coalizione dominante” potrebbe essere tentata di trasformare la prossima occasione elettorale proprio in un “plebiscito” (toccherà alle Europee 2019 e in quell’occasione ci sarà anche l’aggancio sovranazionale ai “sovranisti”). Da ricordare, sempre per cercare le origini di questo stato di cose, come l’idea plebiscitaria abbia già percorso la più recente vicenda del sistema politico italiano con il referendum del 2016. Come andò a finire lo ricordano tutti. I risultati elettorali più recenti riguardanti le elezioni amministrative indicherebbero l’ipotesi della saldatura della “coalizione dominante”come molto problematica. In ogni caso l’analisi riguardante questa eventualità di formazione del “blocco” (innervato dalle corporazioni e avendo alla testa il riferimento filosofico dello stato “trascendente”) deve stare al centro della riflessione che la sinistra ha l’obbligo di sviluppare per costruire la propria soggettività e tornare a esprimere opposizione e alternativa. E’ sicuro che il tempo dell’alternanza sulla base del “bipolarismo temperato”, del centrosinistra come del centrodestra si è concluso.

giovedì 5 luglio 2018

Franco Astengo: Bipolarismo consociativo

BIPOLARISMO CONSOCIATIVO? di Franco Astengo L’esito delle elezioni del 4 marzo scorso e la formazione del governo Lega –M5S sta destando hanno creato una situazione molto complessa e per certi versi inedita. L’interesse degli osservatori riguarda soprattutto un punto riguardante la prospettiva politica del Paese nel breve – medio periodo: si profila, infatti, la possibilità di strutturazione di un nuovo bipolarismo dopo quello “temperato” e sostanzialmente omologante tra centrodestra e centrosinistra, che vedrebbe a confronto per l’egemonia i due soggetti attualmente al governo. L’alternativa al nuovo bipolarismo può essere invece configurata in questo interrogativo: gli stessi soggetti saranno costretti a un lungo periodo di convivenza al governo fino a formare una sorta di entità consociativa all’interno della quale dovrà essere costantemente esercitata un’attenta opera di mediazione? Da tener conto, per definire meglio il quadro, come la Lega stia puntando sull’annessione della piccola formazione di Fratelli d’Italia (le cui caratteristiche di fondo si prestano sicuramente all’inglobamento) e di Forza Italia, scesa nei sondaggi a minimi storici francamente impensabili fino a qualche tempo fa, ma fortemente divisa su questa prospettiva. In questo modo la Lega allargherebbe la propria dimensione di destra, in una visione tradizionalmente maggioritaria nel Paese almeno dalle elezioni del 1994 in avanti. Da aggiungere che, nel caso di una stabilizzazione della formula di governo e dell’avvio di una pratica consociativa si aprirebbe oggettivamente uno spazio all’interno del sistema che, a prescindere da programmi e qualità dei soggetti politici e dei loro gruppi dirigenti, non potrà che essere occupato dall’opposizione. Un’opposizione strutturata in forme articolate rispetto alle diverse progettualità e rappresentatività sociali e non necessariamente orientata a sinistra. In più , nel caso della soluzione consociativa (della quale individuiamo già alcuni evidenti segnali fin dai primi atti del nuovo esecutivo: ad esempio nel “decreto dignità”) il piano di governo non potrà discostarsi di molto da quello definito, proprio sul piano dell’espressione di progettualità politica, da quello indicato dai precedenti governi di centrodestra, centrosinistra, “tecnici” e di solidarietà nazionale: le possibilità di utilizzo delle risorse, all’interno del quadro dato, indicano già con chiarezza questo recinto. In sostanza si verificherebbe un’occupazione sistematica del centro, sia sul piano sociale sia politico, con l’asse rivolto verso destra. Lega e M5S si presenteranno comunque all’appuntamento di fase, che prevede come prima scadenza complessiva quella delle elezioni europee 2019, presentando una fondamentale diversità tra loro nel vincolo da affrontare tra “vincolo interno” e “vincolo esterno”. Il M5S, infatti, si troverà a dover essenzialmente affrontare il “vincolo interno”: lo dimostra la composizione geografica del suo elettorato (prevalentemente meridionale) e le aspirazioni che questo esprime legate soprattutto alla concretizzazione del cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Fatto salvo il giudizio sull’approccio sbagliato che il M5S mantiene al riguardo del tema del lavoro (approccio sbagliato che però è stato alla base di buona parte delle sue fortune elettorali), la tensione che dai più diversi settori sociali viene proprio in direzione del “reddito di cittadinanza” è indicativo del clima culturale che si respira in ampie parti del Paese, a dimostrazione anche (come fattore non secondario) del permanere di una profonda spaccatura sul piano geografico. Quasi un’Italia ridotta dalle “tre società” di Bagnasco, a una suddivisione “duale”, con la sparizione del centro assorbito dal Nord nella modificazione profonda del modello di sviluppo avvenuta nel corso degli ultimi 20 anni (i risultati elettorali di Emilia e Toscana non si sono verificati a caso). La Lega dal canto suo, nonostante le iniezioni di sovranismo nazionalista, rimane Partito incentrato sul Nord, dove governa le due regioni fondamentali come Lombardia e Veneto con in più la Liguria regione nella quale esercita una forte azione di vera e propria “trazione”al limite dell’egemonia, in particolare rispetto al rapporto tra Regione e Comune di Genova. Riferirsi al Nord significa rapportarsi a un certo tipo di borghesia produttiva sulla base dell’intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo. Una borghesia per la quale è determinante il cosiddetto “vincolo esterno” fattore decisivo per l’orientamento della produzione soprattutto verso l’export (da qui, tra le altre cose, nasce anche l’ostilità all’euro). Sistemato l’incoraggiamento che la Lega rivolge all’evasione fiscale (mentre la flat – tax dovrà attendere tempi migliori) i punti decisivi sui quali la stessa Lega dovrà incentrare la sua azione di governo (svolta finora in funzione egemonica) riguardano la ristrutturazione che si sta verificando a livello europeo in coincidenza con l’esprimersi di un nuovo quadro globale (dazi, denuncia dei trattati commerciali, “shopping” cinese: perché su questo punto si risolverà la nuova “via della seta”) . Una situazione che sta portando a uno spostamento d’asse verso Est con un diverso ruolo della Germania rispetto al progetto dell’Europa carolingia. Alla fine agitato lo spettro dell’uomo nero ,l’utilizzo del tema dei migranti non si discosterà molto nella visione leghista in funzione di un nuovo “esercito di riserva” al fine di disporre di manodopera a basso costo(come tradizionalmente avvenuto nelle ferriere bresciane o nelle concerie vicentine). Da tener conto, ai fini di un necessario compimento d’analisi, come risulti ben più solido l’insediamento leghista, sia sul piano sociale sia elettorale; mentre l’area elettorale che ha votato 5 stelle appare sottoposta a più rapidi processi di vero e proprio smottamento in un quadro di accresciuta volatilità del voto. Le possibilità di un ulteriore riallineamento del sistema politico italiano sono quindi legate all’emergere di un confronto attorno ai temi proposti dai due differenti vincoli di riferimento al riguardo delle due formazioni di governo. Se si arriverà a questo confronto ci troveremo di fronte ad un inedito schema bipolare, che non conterebbe più la previsione del dualismo destra / sinistra. In caso diverso si proporrà una fase non breve di comunanza al governo e di formazione, com’è già stato accennato, di un quadro di tipo consociativo. In un modo o nell’altro l’eventuale volontà di opposizione e la formazione di una soggettività politica che la rappresenti, sul versante di sinistra, non potrà che avviarsi analizzando con attenzione le priorità sociali emergenti (in specifico nel mondo del lavoro e nei settori che proprio dal mondo del lavoro risultano emarginati) e le possibilità di collegamento con le forze più radicalmente progressiste sul piano europeo, avviando da subito una verifica di possibilità attorno alla prospettiva di una presentazione comune nelle elezioni per il Parlamento europeo che si svolgeranno nella primavera del 2019. Da sinistra è il caso di valutare una possibilità di ripresa partendo dalla condizione materiale di lavoratrici e lavoratori posta in relazione al fenomeno dell’allargarsi dello sfruttamento collettivo e individuale e della marginalizzazione che ha caratterizzato decisamente la fase apertasi dal 2007 in avanti, con l’innesto dei fenomeni migratori resisi particolarmente evidenti nei primi quindici anni del nuovo secolo. Concludendo con una battuta servirebbe, a sinistra, un maggiore attenzione al fenomeno emergente della “proletarizzazione collettiva”.

domenica 1 luglio 2018

Franco Astengo: Lavoro e sviluppo

LAVORO E SVILUPPO: LE COSE SERIE di Franco Astengo Il governo italiano sta inondando l’opinione pubblica di tweet e annunci Facebook sugli argomenti più svariati riguardanti riforme di vario tipo, ordine, grado: reddito di cittadinanza, flax tax, decreto dignità, ecc. ecc. Soprattutto all’ordine del giorno il tema dei migranti elevato a questione epocale, anche per occultare temporaneamente la “mirabolanza münchhausiana” delle promesse avanzate in campagna elettorale. E’ il caso però di ricordare che incombono sull’economia italiana e sulla vita di tutti i giorni questioni molto serie, vitali per il rapporto tutto da ricostruire nel nostro paese tra lavoro e sviluppo . Rapporto tra lavoro e sviluppo messo in un canto, è bene ricordarlo, da tutti i governi precedenti: centro – sinistra; centro – destra; tecnici; solidarietà nazionale, e via discorrendo, da Berlusconi a Monti, da Letta a Renzi per non risalire a Prodi. Romano Prodi che ricordiamlo sempre fu ministro dell’industria nel governo Andreotti e commissario all’IRI allorquando, anni ’80 – ’90 del XX secolo, si procedette allo smantellamento dell’Istituto per la ricostruzione industriale e a una serie di “mortali” privatizzazioni. Proviamo allora ad affrontare un punto, di estrema attualità e importanza: lunedì mattina, 2 luglio, davanti ai portoni del Ministero dell’Industria in via Veneto ci saranno, infatti, i lavoratori dell’ILVA di Taranto che si sono autoconvocati dopo lo slittamento dei termini per la vendita della loro azienda al colosso Arcelor – Mittal, amministratore delegato indiano, sede in Lussemburgo, produzione annua di 97,03 milioni di tonnellate di acciaio. La produzione dei più grandi gruppi italiani è ferma a 4,73 milioni di tonnellate l’ILVA e a 3,19 Arvedi. Da ricordare come l’Italia sia importatrice di materiale. Nel primo semestre del 2017 l’import italiano ha raggiunto queste cifre: tubi (322.522 tonnellate), seguiti dalle materie prime (3,12 milioni di tonnellate), dai piani (5,36 milioni di tonnellate) e dai lunghi ( 1,21 milioni di tonnellate). Acquisti di semilavorati a 1,69 milioni di tonnellate. Per ciò che concerne la tipologia di acciai importati: acciai al carbonio (6,49 milioni di tonnellate) e di acciai inox (669.660 tonnellate), gli acciai speciali ( 1,05 milioni di tonnellate). Perché il tema è proprio quello dell’acciaio e dei suoi comparti limitrofi. L’acciaio rimane il prodotto fondamentale per lo sviluppo industriale di un paese. Sarà il caso ricordare che serve per le strutture che reggono le case, per gli aerei, le automobili, i grandi impianti industriali e dell’energia. Quello dell’acciaio è il settore al centro dello scontro sulla guerra globale dei dazi innestata dalla presidenza Trump. In Italia il settore vale diverse decine di migliaia di posti di lavoro in una situazione complessiva nella quale sono presenti le più importanti emergenze ambientali, si verificano quotidianamente incidenti sul lavoro (che richiamo alla necessità della modernizzazione degli impianti e quindi all’esigenza di investimenti, coem del resto il rapporto con l’ambiente), mentre i lavoratori in molte situazioni stanno con il fiato sospeso per via del declino degli ammortizzatori sociali. Lavoratori che ci auguriamo qualcuno non pensi di spedire a casa per poi disporre di una massa di assistiti costretti alla riconoscenza verso le elemosine della politica e quindi votanti obbligati per conservare la sopravvivenza: altro che clientelismo DC! Il governo Lega – M5S dovrà quindi decidere se onorare l’accordo siglato dal precedente governo PD sull’Ilva di Taranto, oppure se dar seguito agli intenti elettoralistici di indefinita riconversione se non addirittura di chiusura. E’ il caso di ricordare che da quella dello Stabilimento di Taranto dipenda anche la produzione di Genova e Novi . Intanto sale la preoccupazione a Piombino perché sta procedendo a rilento la definizione dell’accordo di programma tra gli indiani di Jindal e il governo italiano: sono già stati rinviati diversi incontri. Egualmente in fase di stallo la situazione dell’ex-Alcoa di Portovesme: il nuovo proprietario svizzero Sider Alloys dovrebbe far ripartire la fabbrica nell’aprile prossimo, ma a dicembre scadono gli ammortizzatori sociali e tutto appare quanto mai incerto, tanto più che il carrozzone Invitalia (quello della piò o meno fantomatica area di crisi industriale complessa a Savona) appare defilato. Crisi anche per la Kme, settore rame proprietà tedesca, stabilimenti in Toscana con 150 esuberi su 1.000 dipendenti. Ancora Terni, il gioiello degli acciai speciali che la Thyssen ha messo in vendita (si annuncia, tra l’altro, che Krupp si fonde con l’indiana Tata e lascia l’acciaio per l’hi – tech), ma gli acquirenti latitano e corrono voci addirittura di smembramento della fabbrica. Sorgono, infine, problemi nel rapporto ambiente – lavoro anche a Trieste al riguardo della Ferriera di Servola (gruppo Arvedi) per la quale la Regione annuncia l’apertura di un dossier. Siamo di fronte, in settori decisivi della prospettiva di sviluppo, a una vera e propria latitanza di iniziativa strategica (nelle nebbie anche la famosa industria 4.0 propugnata dall’ex ministro Calenda) anche da parte della stessa iniziativa sindacale che appare costantemente sulla difensiva. In questo senso appaiono come centrali e assolutamente prioritarie le drammatiche vicende legate al progressivo processo di ulteriore de-industrializzazione in atto nel nostro Paese che chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica tale da rappresentare un’alternativa, aggregare soggetti, fornire respiro a un’iniziativa “di periodo”. Il concetto di fondo che dovrebbe essere raccolto e rilanciato è, ancora una volta, quello della gestione e della programmazione economica pubblica, combattendo a fondo l'idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili. Però siamo bombardati dai messaggi pubblicitari e propagandistici sui temi più diversi che si pensa possano rendere voti, e non pare proprio che ci si accorga di questo drammatico stato di cose . Uno stato di cose che non vale, è il caso di ripeterlo ancora una volta, soltanto per la sorte (importantissima) di decine di migliaia di posti di lavoro ma per il futuro stesso di un Paese di 60 milioni abitanti all’interno di un quadro internazionale in piena evoluzione. Non ci possiamo permettere di abdicare totalmente dall’industria, nei suoi settori portanti e strategici e ridurci sotto questo aspetto alla totale marginalità come, invece, si sta progressivamente verificando ormai da tanto tempo. Per quel che riguarda il Governo, non credo propria possa essere possibile aver richiesto la titolarità del Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico assieme, soltanto per varare il fantomatico reddito di cittadinanza. Se fosse così non sarebbe soltanto illusorio, ma colpevole: un atto di vera e propria funesta disonestà intellettuale.

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