domenica 29 aprile 2018

Franco Astengo: Primo maggio

PRIMO MAGGIO: PER IL LAVORO, CONTRO IL LAVORO di Franco Astengo In principio del ragionamento che s’intende sostenere con questo intervento ecco un breve riassunto del discorso marxiano sul lavoro: “Marx coglie da una parte il lavoro come “essenza dell’uomo”, come ricambio organico “uomo – natura”, mezzo per la realizzazione dei bisogni dell’uomo e perciò dimensione universale del rapporto stesso tra uomo e natura. Dall’altra parte individua nel lavoro salariato, la forma storica e determinata del lavoro produttivo nella realtà dei rapporti di produzione capitalistici, il vero centro, perno della produzione all’interno di questi rapporti. Superando la teoria del valore degli economisti classici, Marx afferma che alla radice della determinazione del valore c’è non una quantità fisica – in termini di orario – di lavoro, ma una quantità storica e sociale di valore, che la concretezza del doppio carattere della merce (attraverso il mercato) – valore d’uso e valore di scambio – e del lavoro che vi mette capo manifesta, ma allo stesso tempo nasconde e mistifica (in quanto i valori quantitativi non rispondono). Lavori produttivi (e all’opposto improduttivi), nei rapporti sociali di produzione capitalistici, sono quelli che mettono capo non alla produzione di merci, fisicamente riscontrabili, ma alla formazione di valore e plusvalore. Non è il lavoro concreto, che realizza il valore d’uso della merce, a determinare il lavoro produttivo, bensì la determinazione formale, puramente quantitativa: il lavoro astratto. E’ la sussunzione formale del lavoro, la sottomissione completa della forza lavoro al capitale, a rendere il lavoro completamente produttivo. Questo caratterizza anche l’appartenenza di classe: la collocazione del rapporto sociale di produzione determina la condizione oggettiva di appartenenza alla classe subalterna.”. Fino a qualche tempo fa sulla base di quest’assunto si sarebbe commentato in questo modo: la condizione soggettiva, la coscienza di classe e lo schieramento nel conflitto con la classe borghese, e quindi con l’espressione politica di questa, determinava lo spazio della politica e della lotta per il potere. Fini qui la valutazione di carattere generale ma si sarebbe constatato anche che: oggi è andato definitivamente in crisi il tentativo che ha segnato i decenni centrali del XX secolo di attenuare la contraddizione di classe attraverso uno sviluppo delle politiche sociali rivolte all’estensione dei diritti (welfare state) e dello sviluppo del “pieno impiego” attraverso politiche attive del lavoro sostenute dall’intervento statale. Aggiungendo inoltre: la crisi acuta di queste politiche ha aperto una fase di pesante ristrutturazione rivolta prima di tutto al ristabilimento dei rapporti di forza dalla parte del capitale. La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza che sta determinando una fase di paurosa regressione. Sorge, a questo punto, un interrogativo di fondo sulla validità di queste risposte che – appunto – avremmo formulato fino a qualche tempo fa. Un interrogativo generato essenzialmente dall’ingresso sulla scena della storia di un processo d’innovazione tecnologica fortemente accelerato, mai immaginabile in precedenza. Un processo d’innovazione tecnologica che sta sottraendo quote molto ampie di quello che poteva essere classicamente considerato come “lavoro vivo” pur in una fase di arretramento di quella che – impropriamente – nel decennio appena trascorso era stata definita come “globalizzazione”. Un fenomeno, questo dell’accelerazione nell’innovazione tecnologica accompagnato dallo spostamento secco verso l’ingigantirsi dello spostamento verso la finanziarizzazione dell’economia, di vastissime proporzioni che si sta imponendo al punto da porre il tema di una chiusura della dimensione lavorativa così come questa l’avevamo compresa tra il XIX e il XX secolo. Siamo al punto in cui questo fenomeno, assieme a quello delle guerre, pare provocare una vera e propria situazione di sopravvivenza per intere fasce di popolazione in varie parti del mondo, cui rispondono imponenti fenomeni migratori rivolti in varie direzioni e non semplicemente verso quello che è stato definito “Occidente sviluppato”. Il quadro complessivo è quindi segnato da una crescita disperante delle disuguaglianze, ben rilevato da molti economisti. La sottrazione di “lavoro vivo” riguarda sia il lavoro manuale sia il lavoro intellettuale. Emerge una vera e propria “crisi del lavoro” che, dalle nostre parti in Occidente, ha posto una questione(in questi termini inedita) che può essere riassunta sotto la voce “reddito di cittadinanza” ma che contempla anche tanti altri elementi sui quali riflettere. Ci troviamo così stretti tra domande molto stringenti che di seguito si riducono in un’assoluta semplificazione. Dobbiamo essere “contro” questo lavoro del soggiacere ai voleri di questo capitalismo dell’ipersfruttamento, dell’allargamento della materialità della contraddizione di classe ben oltre a quella che abbiamo sempre considerato la “frattura” principale, del precariato assunto come quasi forma esclusiva dello stare (in bilico) nel mondo del lavoro, della crescita degli infortuni e delle morti definite “bianche”, della crescita della sopraffazione di genere, dell’adattamento dei ritmi di lavoro ai modelli insensati della società consumistica. Nello stesso tempo esiste la necessità di proporci di essere “per” il lavoro non solo come elemento fondamentale di sopravvivenza soggettiva ma anche come punto di crescita della dignità umana, del concorso di tutti a una maggiore capacità non solo operativa ma cultural. Sono tanti i motivi che ci riportano, non tanto paradossalmente in questa fase di “arretramento storico”, al momento storico nel quale attraverso l’aggregazione sociale realizzata attraverso la comunanza del lavoro e la consapevolezza della lotta contro lo sfruttamento si realizzò la presenza politica del movimento operaio. E’ questo il motivo di fondo per il quale dobbiamo ritrovare la strada per stare dalla parte del lavoro ridefinendo anche idee e modelli di progresso. “Per il lavoro” nella nostra progettualità alternativa a quella dei padroni. Siamo di fronte quindi a un bivio, a una contraddizione storica al riguardo della quale emerge la necessità di una sintesi, di una riunificazione di senso e di proposizione per obiettivi di riscatto in forme cui la riflessione collettiva non è ancora arrivata a determinare. Il punto di partenza per riprendere il cammino perduto potrebbe essere allora quello di essere consapevoli di tutto ciò, delle difficoltà inedite che ci troviamo di fronte e del tentativo in atto di ricacciare il lavoro esclusivamente dentro la categoria dello sfruttamento indiscriminato costringendo a un ritorno alla condizione di “plebe”: una folla indistinta in una condizione di ricerca di mera sopravvivenza materiale. In tempi di ricerca sul lasciato marxiano forse si potrebbe affermare che la ripresa del Marx del lavoro come “essenza dell’uomo” potrebbe rappresentare, a questo punto, l’appoggio ideale non meramente teorico, al fine di recuperare una visione pienamente politica dell’oggi e del futuro. Sull’idea del lavoro come “essenza dell’uomo” si può far riprendere la lotta per il riscatto sociale su tutti i fronti, ponendoci al riparo dall’angoscia di questa presunta avvilente“modernità”.

venerdì 27 aprile 2018

Perché aumenta la disuguaglianza in Italia | M. Baldini

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Fenomenologia del mutualismo (consigli utili per la sinistra) - micromega-online - micromega

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The Upheaval Italy Needs by Jean Pisani-Ferry - Project Syndicate

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Disoccupazione, tre regioni italiane nella top-ten per giovani senza lavoro - Eunews

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Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini: Moneta Fiscale: Aspetti Finanziari e Contabili

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RENZI FARà UN SUO PARTITO COME MACRON? POLITOLOGI E FILOSOFI A CONFRONTO - GLI STATI GENERALI

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lunedì 23 aprile 2018

La rivista il Mulino: Il divorzio tra il Sud e il centrosinistra

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In Germania Andrea Nahles, prima donna eletta leader Spd, ma pochi i voti - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

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Franco Astengo: Numeri dal Molise

NUMERI DAL MOLISE di Franco Astengo Premesso che appare assolutamente fuorviante da parte delle forze politiche far dipendere orientamenti di carattere generale come quelli riguardanti gli equilibri di governo, a circa due mesi dalle elezioni legislativa generali, da un’elezione parziale come nel caso del Molise (domenica prossima toccherà al Friuli) è il caso di scrutare velocemente le cifre assolute al fine di individuare alcuni ,comunque parzialissimi, trend riferibili al piano politico complessivo. Un ulteriore punto di preventivo chiarimento riguarda la questione del voto degli iscritti nelle liste dell’estero che per il Molise rappresentano un elemento da tenere in assoluta considerazione. Andando nel merito sotto questo aspetto: alle elezioni regionali del 22 aprile erano iscritti nelle liste, infatti, 331.253 tra elettrici ed elettori ( nel 2013 in analoga situazione iscritte/i assommavano a 332.379); in occasione delle elezioni dello scorso 4 marzo iscritte e iscritte totalizzavano 254.108 unità. Ciò significa che molisane/i iscritti elettoralmente all’estero ammontano a 77.145. E’ evidente l’incidenza di questo dato (nell’occasione delle Regionali non c’è possibilità di voto all’estero come accade per le Politiche) sulla valutazione riguardante l’astensionismo. Questi comunque i dati del numero complessivo di voti validi a partire dalla Regionali 2013: in quell’occasione si ebbero 192.107 voti per i candidati presidenti e 167.783 per le liste circoscrizionali, con una differenza a vantaggio dei candidati presidenti di 24.324 voti. Alle elezioni politiche dello scorso 4 marzo i voti validi sono stati 174.329 (il riferimento è alla Camera dei Deputati). Nelle elezioni regionali del 22 aprile il totale dei voti validi espressi a favore dei candidati presidenti è stato di 166.201, mentre quelli a favore delle liste hanno raggiunto le 144.391 unità con una differenza, a favore del voto per i candidati presidenti di 21.810 voti. Nel 2018 quindi l’86,87% ha votato sia il candidato presidente sia una lista, mentre nel 2013 era successo per l’87,33%. Una differenza del meno 0,46% che consente di affermare come questo tipo di rapporto sia rimasto inalterato. Nel rapporto fra le due elezioni regionali 2013 e 2018 l’astensione complessiva (astenuti, bianche e nulle) è passata dal 42,21 al 49,83%, rappresentando sempre la maggioranza relativa: su questo punto si può affermare, come valutazione generale, dello scemare dell’interesse per le elezioni regionali che ormai assieme alle europee rappresentano il fanalino di coda nell’attrazione di elettrici ed elettori. La riduzione dell’Ente Regione a solo soggetto di spesa (a prescindere dalle malversazioni accertate o intuite ) rappresenta sicuramente un elemento importante da questo punto di vista. Nell’occasione delle elezioni politiche del 4 marzo l’astensione complessiva aveva toccato il 31,40%. Nell’insieme dunque si può ben affermare di una robusta crescita del fenomeno del “non voto” in tutte le sue espressioni. Passiamo allora all’analisi del voto riguardante le liste e i presidenti. Il successo del candidato presidente del centro – destra, Donato Toma,è apparso particolarmente netto. Su Toma sono confluiti 73.229 voti , mentre le 9 liste d’appoggio hanno assommato 71.645: quota notevole quest’ultima a dimostrazione di una presenza elettorale “forte” dei diversi soggetti politici pur molto distribuita all’interno della coalizione. Forza Italia infatti è risultata prevalente con 13.627 voti ma tra questa e i 10.351 voti di Popolari per l’Italia sono da conteggiare mi voti di Orgoglio Molise (12.122) e della Lega (11.956). Difficile nel campo del centro destra immaginare raffronti con le politiche di marzo data la presenza di liste locali che – appunto – hanno raccolto un numero considerevole di suffragi. Infatti dal punto di vista delle cifre assolute Forza Italia scende da 28.079 voti a 13.627; la Lega da 15.129 a 11.956 mentre sale Fratelli d’Italia da 5.390 a 6.461 e ottengono una notevole affermazione le due liste Popolari per l’Italia ( 10.351 voti) e UDC (7.429). Nell’insieme se si comparano i voti ottenuti dalla coalizione di centro destra alle politiche di Marzo che furono 51.981 e quelli ottenuti dal presidente appena eletto che sono 73.229, il centrodestra progredito di 21.248 unità. Nel 2013, alla regionali, il candidato del centro destra Iorio aveva toccato i 49.567 suffragi. Si può ben dire, a questo punto, che il centro destra ha avuto un effettivo incremento di voti e che l’elezione del presidente non è sicuramente avvenuta “in discesa”. Più articolata l’analisi riguardante il Movimento 5 stelle. Prima di tutto è necessario far rimarcare come si sia verificato un ampio scarto tra il voto destinato al candidato e quello per la lista. Andrea Greco, candidato del movimento, ha infatti ottenuto 63.998 voti mentre la lista si è fermata a 45.415. Un vero e proprio solco tra i due dati di ben 18.583 suffragi. Fenomeno questo della differenza tra i voti raccolti dal candidato presidente e quelli raccolti dalla lista che, per quel che concerne il Movimento 5 stelle, si era già verificato in occasione delle regionali 2013, quando il candidato Antonio Federico aveva raccolto 32.200 voti e la lista 20.347. Il ,raffronto con il dato delle politiche 2018 risulta particolarmente negativo per il Movimento 5 stelle: si è passati, infatti da 78.093 voti delle politiche ai 63.998 per il candidato presidente ( meno 14.095) e ai 45.415 della lista ( meno 32.678). Si può sicuramente affermare che rispetto alla lista i 5 stelle hanno ceduto voti sia all’astensione sia al centro destra. Questo dato rappresenta un segnale politico anche se forse non è il caso di ricordare la “sindrome di Castellamare” (dal primo voto amministrativo dopo le elezioni del 1976, con il calo del PCI che aveva concesso alla DC il “governo delle astensioni”). Flessione, in voti assoluti, per il candidato del centro sinistra Carlo Veneziale: se i 28.267 voti ottenuti non sono eccessivamente distanti dai 31.629 che il 4 marzo erano stati conseguiti dalla coalizione raccoltasi attorno al PD (ai quali però debbono essere aggiunti i 6.483 voti di LeU) appare particolarmente impietoso il paragone con le regionali 2013 :il candidato del centro sinistra, vincente, ottenne 85.881 voti. Siamo nell’arco dei 5 anni, con un numero di iscritti nelle liste più o meno simile, ad una perdita di 57.614 voti che, naturalmente, hanno preso tutte le direzioni. La candidatura Veneziale era sostenuta da 5 liste ma non si può concludere senza rimarcare il calo del PD tra marzo e oggi, da 26.499 voti a 12.762, cioè meno della metà: un altro segnale politico che ci viene dalle elezioni di questa piccola regione. Riassumendo, esaurite le premesse in ragione delle quali è necessario esprimere il massimo della cautela data la limitatezza del test alcune considerazioni politiche possono essere sviluppate: 1) È cresciuta l’astensione, tenendo conto del “fattore Regione” come elemento di poco interesse per l’elettrice/ore medio e quindi non generalizzando il dato come di “sistema”; 2) Il centro destra ha avuto un’affermazione netta anche se per quel che riguarda la competizione interna, l’ampio spettro di forze presenti in ispecie locali non consente una adeguata valutazione; 3) Scricchiolii vengono dalla granitica impalcatura dei 5 stelle che sicuramente non capitalizzano la base di successo verificatasi alle politiche; 4) Prosegue inesorabile il declino del PD. Tenendo ben a mente, infine, l’eccesso di tensione che sul piano generale forze politiche e media hanno mantenuto su questo appuntamento di ridotte dimensioni.

C’è vita a sinistra oltre il destino neoliberale?

C’è vita a sinistra oltre il destino neoliberale?

mercoledì 18 aprile 2018

Franco Astengo: Alternanza/Alternativa

PARTITO DELL’ALTERNANZA / PARTITO DELL’ALTERNATIVA di Franco Astengo Nel sistema politico europeo il Labour Party britannico è sempre stato identificato come il “partito dell’alternanza”, in grado cioè – anche per via del sistema elettorale che a suo tempo (non oggi) favoriva il bipartitismo - di sostituire alternativamente i conservatori al governo dell’Union Jack: clamoroso fu il caso del 1945 quando i tories che avevano guidato il Paese alla vittoria furono sconfitti alle elezioni grazie essenzialmente al programma che il Labour aveva proposto sulla base del Piano Beveridge del “welfare state”. Da qualche tempo, almeno dal fallimento clamoroso del processo d’innovazione del partito che – a partire dagli anni ’90 del XX secolo quale frutto della ventata neo liberista del decennio precedente – era stata avanzata da Tony Blair e dal suo “entourage” questa capacità di alternanza sembrava essersi definitivamente appannata in quanto il Partito aveva imboccato la via di un inarrestabile declino, in coincidenza anche con profonde modificazioni dello stesso sistema politico britannico. Oggi la situazione sembra essersi ribaltata e il Partito Laburista ha ripreso impetuosamente a crescere, sia dal punto di vista elettorale, sia dal punto di vista della struttura di partito. Il fenomeno è stato avviato a partire dall’avvento alla segreteria di Jeremy Corbin e dall’assunzione di una linea più tradizionalmente inserita nei canoni della sinistra sia sul piano della visione complessiva (assunzione delle contraddizioni: pacifismo, femminismo) sia di un recupero della capacità di rappresentare con immediatezza la crescita enorme delle disuguaglianze sociali. “Le Monde Diplomatique” in edicola nel mese di Aprile dedica a questo vero e proprio fenomeno politico un’ampia analisi firmata da Allan Popelard e Paul Vannier. La lettura di questo testo pone interrogativi anche a chi pensa di poter ricostruire non un soggetto politico dell’alternanza, ma un soggetto politico dell’alternativa con riferimenti nazionali (nel “caso italiano”) e sovranazionali (la dimensione “europea” e assieme “internazionalista”). Non mi addentro nella distinzione tra alternanza e alternativa perché credo che i due termini risultino già sufficientemente esplicativi della diversità insita nella stessa terminologia al riguardo della rispettiva proposizione politica. Piuttosto tengo a precisare che, a mio giudizio, alcuni fondamentali elementi emersi nell’analisi delle ragioni per le quali il Labour ha ripreso un moto ascensionale nella propria presenza politica possono essere ben utilizzati, anche in Italia, per costruire quello che manca: un partito dell’alternativa, principiando da una ferma opposizione al quadro politico esistente. Si tratta di essere capaci di rappresentare l’opposizione politica ponendoci in diretto richiamo con le grandi contraddizioni sociali operanti (pesantemente per i ceti più deboli) nella società. Espongo quindi alcuni punti meritevoli di riflessione, con la premessa che tra partito dell’alternanza e partito dell’alternativa non coincidono alcuni elementi posti proprio nell’ipotesi di struttura di partito come, ad esempio, l’utilizzo di elezioni primarie per le cariche interne, in luogo a una conformazione maggiormente connotata da una presenza capillare espressiva di radicamento sociale come quella della rappresentanza di un articolato dibattito a livello territoriale e di specificità sociali (l’ipotesi cioè di una base di partito strutturata su di un modello di tipo consiliare). Andiamo per ordine: 1) La ripresa del Labour si basa essenzialmente, ma non solo, su di un mutamento radicale di posizione politica rispetto al blairismo assumendo, infatti, un quadro di riferimento tipicamente socialdemocratico di stampo tradunionista; 2) Esiste un recupero della struttura di partito con una ricerca della crescita di iscritti. Ciò avviene nonostante l’evoluzione nei rapporti politici (e sociali) dettata dall’innovazione tecnologica nel campo della comunicazione e in presenza del già citato sistema britannico (primarie, collegi uninominali) che scoraggia la strutturazione di un partito a vantaggio di un assemblaggio di comitati elettorali; 3) Si muovono attorno e dentro al Labour soggetti di movimento come “Momentum” capaci – appunto – di intrecciare militanza diretta sul campo e utilizzo delle nuove tecnologie. Importante da questo punto di vista quanto emerso nella conferenza nazionale di “Momentum”: “Noi non siamo un think thank. Non produciamo relazioni. Quello che facciamo è assicurarci che la politica del Labour rifletta le aspirazioni dei suoi membri e non quelle dei tecnocrati”. 4) Si verifica un ritorno alla centralità del sindacato, nel quadro della già richiamata “rappresentanza diretta degli interessi sociali”. Da notare che nel Labour è ripresa la capacità del sindacato di interloquire direttamente con il gruppo parlamentare (all’interno del quale sono ancora molto forti i residui del “New Labour”). Anche questo punto rappresenta però uno specifico della tradizione britannica. 5) Si verifica un forte aggancio con la storia del movimento operaio. Tutti elementi che nel perseguire l’idea, necessaria e urgente, di ricostruzione di un partito dell’alternativa in Italia dovrebbero essere prese in maggiore considerazione evitando i tanti grovigli politicisti che sembrano frenare, all’indomani di un risultato elettorale complessivamente negativo, la possibilità di una riflessione d’ampio e propositivo respiro che appare invece indispensabile collocare fuori da recinti pre – determinati in questa nostra frantumata sinistra.

Il sentiero stretto del Quirinale

Il sentiero stretto del Quirinale

LA DIVERSITÀ SUBALTERNA DELLA SINISTRA | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

LA DIVERSITÀ SUBALTERNA DELLA SINISTRA | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

martedì 17 aprile 2018

Rapport sur les inegalites mondiales

wir2018-summary-french.pdf

Paolo Bagnoli: Ma quando mail il Pd è stato "la sinistra"?

9 nonmollare quindicinale post azionista | 018 | 16 aprile 2018 _______________________________________________________________________________________ la biscondola ma quando mai il pd è stato “la sinistra”? paolo bagnoli Nell’ormai inflazionata pubblicistica sulle sorti del Pd dopo la gelata elettorale ricevuta si intrecciano, peraltro senza rilevanti livelli di maturità riflessiva, sostanzialmente due temi: le ragioni della crisi della sinistra e, molto più tiepidamente, l’assenza di un partito socialista proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Per quanto sia “la Repubblica” che “L’Espresso” abbiamo avuto il merito di lanciare la tematica, ci sembra, tuttavia che, fino a oggi, gli interventi scaldino uno stanco brodo incapace di produrre alcun sapore visto che è un errore culturale, talora sfidante l’onestà intellettuale, definire la crisi del Pd come la crisi della sinistra per il semplice motivo che il Pd non è mai stato di sinistra. Esso, anzi, è nato con volontà ultronica: ossia andare oltre la sinistra oramai data per morta, al pari del socialismo, in tutta l’Europa. Si tratta di un elemento non piccolo fuorviante la discussione che si vuole avviare. Il paniere delle delusioni raccolte non sintetizza una critica politica degna di questo nome; sono delusioni vere, ma ciò non è sufficiente per quel salto qualitativo che sarebbe necessario, ma che non vi può essere poiché il Pd è, ed è sempre stato, altro rispetto a ciò che storicamente si intende per sinistra. Quando, poi, si cerca di intrecciarlo con l’altro problema, il tutto diviene ancor più confuso essendo lapalissiano che non si può parlare della necessità – che c’è ed è bruciante – di un partito socialista se non si parla di socialismo e del suo portato storico, culturale e politico. Potremmo aggiungere che per creare un luogo socialista occorrono in primo luogo i socialisti e nessuno degli interpellati, sempre a ora, si dichiara tale: infatti, non lo è. Non solo, ma rilanciare l’ipotesi di costituzione di un soggetto socialista non può essere solo il richiamo nostalgico a esperienze passate; non significa, in altre parole, cercare di far rinascere il Psi, ma certo non si può prescindere da una riflessione seria su cosa ha rappresentato il Psi nella storia d’Italia evitando di soffermarsi più di quanto è dovuto sulla stagione craxiana e sulla sua amara fine. Con il Psi, infatti, se ne è andato quello che, al netto di tutte le esperienze vissute, è stato il vero e proprio partito della democrazia italiana. Il fatto, comunque, che da qualche parte – se pur timidamente – il problema venga posto è già significativo; è un segnale che, però, va colto nella sua specificità e non come succedaneo alla crisi del Pd che è questione di altra e diversa specificità. La storia della nostra lunga transizione ci dimostra che non c’è stata, né tantomeno c’è adesso, una forza capace di contrastare non solo le tendenze barbariche del capitalismo globalizzato, ma nemmeno la decadenza della democrazia politica democratica, altrimenti non ci troveremmo di fronte allo spettacolo odierno; uno spettacolo inquietante considerato che la scena è padroneggiata da una doppia trazione populisticodemagogica. Ossia, di un tarlo che sfarina dal di dentro lo Stato e la società, l’ordine politico e la coesione sociale in una complessiva decoazione del sistema repubblicano. Il rischio – visti anche i tentativi maldestri di cambiare la Costituzione – è di marciare anche noi verso quella che l’ideologo di Viktor Orban, Zoltàn Kovacs ha teorizzato come “democrazia illiberale”; per Kovacs, infatti, “la democrazia non è per forza liberale”. E’ un qualcosa su cui riflettere seriamente: se la democrazia non è la forma politica della libertà e delle libertà, cos’è? Cosa può essere? Un qualcosa che si chiama sempre democrazia di cui si nega, però, ogni nozione sociale e, quindi della società quale campo autonomo delle libertà e soggetto proprio della sovranità popolare; si spaccia, cioè, per democrazia in sistema affidatario confliggente con la concezione dello stato di diritto cui è strettamente connessa. L’Ungheria, a veder bene, non è poi tanto lontana poiché in Italia i 5Stelle,sostenendo che la democrazia rappresentativa è superata, si affidano addirittura ad una “piattaforma online” e il loro uomo di punta, invece di chiamarlo leader, preferiscono appellarlo “capo”, vale a dire comandante supremo cui, tramite la piattaforma, viene chiesto di affidarsi sulle ceneri, appunto, della democrazia rappresentativa. Basterebbe solo questo motivo per dare ragione del perché occorra un partito della democrazia fondato sui principi della giustizia sociale e delle libertà politiche e civili, cioè un partito socialista. Ma se ciò ha una validità su un piano generale lo ha, forse di più, su quello del “sociale” nel momento in cui le diseguaglianze aumentano e la 10 nonmollare quindicinale post azionista | 018 | 16 aprile 2018 _______________________________________________________________________________________ povertà si incrementa in un processo di disgregante atomizzazione sociale che lacera l’idea stessa di solidarietà – un’idea che non ha niente a che vedere con le pur non irrilevanti forme di carità in essere – poiché essa implica porre al centro della condizione collettiva l’uomo e non stancarsi nel tirare avanti quelli che nascono indietro. E lo ha, ancora, per rilanciare il valore della lotta e della mobilitazione sociale per non rimanere schiacciati dalla potenza dell’economia che privatisticamente insegue la propria ricchezza ricattando chi non può opporre niente e talora, prima del vivere, ha il problema del sopravvivere., Ecco perché servirebbe una forza socialista capace di compattare un blocco sociale e culturale ampio, quale centro promotore di un campo largo di una sinistra non solo socialista, poiché la lotta per la libertà e la giustizia è una battaglia di civiltà. Ed è di civiltà che il mondo di oggi ha principalmente bisogno.

Quella sinistra infastidita dai poveri - Senso Comune

Quella sinistra infastidita dai poveri - Senso Comune

Martins, Mélenchon e Iglesias: “Per una rivoluzione democratica in Europa” - micromega-online - micromega

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Franco D'alfonso: Quattro punti di crisi

Chiosando il mio articolo sulla “ banda dei quattro bari” e la pars destruens di una politica antisistema, Elio Veltri ha scritto : Caro Franco, nessun progetto e nessun contenuto. La battaglia fondamentale è diventata quella sui vitalizi (190 milioni di euro) presenti in tutte le democrazie europee, senza che ne parli o siano oggetto di scontro politico, mentre nessuno ha parlato di Mafia( 200 miliardi di Pil), di evasione fiscale( oltre 150 miliardi) di esportazione di capitali( 30 per cento dell'evasione ), di riciclaggio( 10-12 per cento del pil) di corruzione( 100 miliardi). La progressività del sistema fiscale previsto dalla costituzione viene sovvertito con una tassa uguale per tutti. I morti sul lavoro aumentano.” La pars (re)costruens della politica deve inevitabilmente partire dai fondamentali, dall’individuare i punti dolenti del nostro sistema, condizione preliminare per poter discutere delle soluzioni e non di una ripetizione della partita sostituendo semplicemente la “banda dei quattro bari” con giocatori di tressette con il morto. Il primo è quello che ha indicato Elio Veltri : la dimensione del sistema economico e sociale che vive al di fuori dalle regole è tale da mettere in discussione il primato della legge e dei principi del contratto sociale che è alla base della democrazia occidentale. Le serie televisive su Pablo Escobar o Gomorra sembra abbiano rassicurato le coscienze civili, facendo credere che il male avesse l’aspetto grottesco e tragico di criminali facilmente individuabili che vivono in regni dell’orrore che sì ci minacciano, ma al di là di un immaginario confine presidiabile da uomini puri, che cacceranno i politici corrotti e difenderanno le nostre case ed il nostro benessere. Dopo aver massacrato giustamente i partiti ed il sistema politico della Seconda Repubblica per non aver saputo difendersi dalle infiltrazioni della criminalità, per l’uso della giustizia a fini di lotta politica e soprattutto per non aver saputo ripristinare una etica pubblica e privata, improvvisamente il tema è sparito da tutti i tavoli. Nessuno che si chieda questa volta per chi abbia “votato” la criminalità organizzata, cosa stia succedendo in questa lunga vacanza della guida politica del Paese, chi e cosa guidi l’azione di apparati e strutture che muovono interessi e capitali di dimensioni tali che ormai solo pochi Stati al mondo sono in grado di contrastare. E’ stato semplicemente rimosso il fatto che tra le ragioni principali della perdita di ruolo dei paesi dell’Europa del Sud, dalla derelitta Grecia per arrivare all’Italia protetta finora dal “too big to fail”, c’è proprio la dimensione dell’economia incontrollata, diventata una minaccia per la stabilità stessa delle Istituzioni europee e mondiali, già alle prese con l’impossibilità sempre più palese di affrontare gli effetti della globalizzazione e delle crisi di nuovo tipo del nuovo millennio. Questa considerazione ci porta al secondo punto critico, che riguarda direttamente il funzionamento della nostra democrazia. Il fallimento della riforma costituzionale peraltro ignota al 99,9 % degli italiani, comunque la si voglia giudicare, ha determinato una sorta di effetto-placebo sul tema, come se lo scampato pericolo avesse risolto ogni cosa. Il problema è che siamo in piena emergenza democratica. Le istituzioni della Repubblica che non funzionano sono ormai troppe : sono in crisi gli organi di Governo e Parlamento, protetti ormai da quasi dieci anni esclusivamente dalla Presidenza della Repubblica; gli enti locali e le relative classi dirigenti sono stremati da un decennio di abbandono ed anche quelli che restano il primo e ultimo baluardo della gestione democratica, i Comuni ed i sindaci, cedono in molte parti del territorio e non solo al Sud. La perdita di prestigio della Banca d’Italia, schermata finora dalla Bce di Draghi in scadenza, unita a quella della Magistratura e perfino della Corte Costituzionale ha fatto venir meno quella funzione di riserva e supplenza che, comunque la si voglia giudicare, fu garantita nel passaggio fra la Prima e la Seconda Repubblica . La vera emergenza, di nuovo, è quella legata a partiti e politica: la crisi del sistema dei partiti del 92-94 non è stata risolta e venticinque anni dopo ci troviamo con il primo partito in Parlamento che ha realizzato e non solo teorizzato la manipolazione del consenso attraverso il web, non ha bisogno di alcuna Cambridge Analytica per avere i dati per vincere le elezioni perché Casaleggio ed associati è Cambridge Analytica che ha preso direttamente il potere. Né gli altri partiti e liste sono in condizioni migliori : Berlusconi ora sembra in difficoltà e sorpassato dai giovani rampanti, ma il primo caso di costruzione di un partito personale attraverso i media è Forza Italia, che è stato modello per tutti i tentativi, riusciti o meno, della Seconda Repubblica. Lo è stato anche per il Pd, che è arrivato alla compilazione delle liste dei fedelissimi nella notte del Nazareno partendo dall’imposizione al Mugello del candidato Di Pietro fresco di abbandono della toga passando per affinamenti successivi alle liste bloccate per arrivare alle nomine più o meno dirette di parlamentari totalmente privi di rapporti con il territorio che non sa nemmeno di averli eletti. Il terzo punto critico è quello demografico. Sappiamo tutti che da tempo la differenza nati-morti è negativa nonostante la presenza degli immigrati, che la piramide delle classi di età si è rovesciata con il passaggio dei “baby boomers” nella classe più anziana ed il dimezzamento del numero di giovani . Non è ignoto il fatto che il sistema pensionistico basato sul pagamento delle pensioni con i contributi dei lavoratori è definitivamente saltato e che la legge Fornero, la Dini e le altre intervenute in questi anni, sono tentativi più o meno positivi di aggiustare un meccanismo che non funziona più intrinsecamente e che costa alla fiscalità generale 110 miliardi su poco più di 330 mldi di pensioni pagate, un terzo del totale. Ed è altrettanto noto che nei prossimi anni gli studenti della scuola dell’obbligo diminuiranno di 500 mila rispetto agli attuali 8 milioni, comprensivi già oggi di 820 mila cittadini stranieri (nonostante siano per oltre il 60% nati in Italia) . Si continua a discutere come se il tema fosse una manutenzione del sistema, magari eliminando gli “abusivi” immigrati che “sfruttano” il nostro welfare, quando la drammatica ed irrisolta domanda è come potrà mai funzionare il nostro sistema produttivo nei prossimi dieci anni, quando verranno a mancare fisicamente cinque milioni di lavoratori attivi e la popolazione inattiva aumenterà di almeno sette milioni. Per qualcuno la soluzione è quella digitale, l’industria 4.0 che sostituisce il lavoro umano con la tecnologia, introducendo con questo il quarto punto di crisi del sistema . Senza essere la reincarnazione di John Ludd nel Duemila, si deve chiarire che i posti di lavoro distrutti da Amazon e compagnia non saranno mai, in alcun modo, compensati, dalle nuove professionalità necessarie. E senza essere raffinati macroeconomisti, è necessario porsi il problema di come sostituire i redditi di lavoro persi con altre forme di disponibilità di risorse, prima di doversi chiedere con angoscia a chi mai potremo vendere i magnifici prodotti 4.0 che le fabbriche senza operai produrranno nei prossimi anni.. Chi vuole candidarsi ad un ruolo politico ora deve guardare dritto in questi quattro “buchi neri” che, se non “illuminati” da idee, ipotesi, soluzioni, rischiano di far sparire anche il ricordo della nostra civiltà. Franco D’Alfonso

lunedì 16 aprile 2018

Jeremy Corbyn: Per mettere fine all’agonia della Siria serve la diplomazia, non le bombe – L'Argine

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Understanding the Italian vote: a matter of policy agendas » EuVisions

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Hungary And The Purgatory of Socialists

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Il reddito di cittadinanza è un diritto naturale? | Economia e Politica

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What’s left? Italian movements after the triumph of the Five Star Movement | Red Pepper

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L’INFAUSTO DESTINO DEL PD - GLI STATI GENERALI

L’INFAUSTO DESTINO DEL PD - GLI STATI GENERALI

venerdì 13 aprile 2018

Franco D'Alfonso: Il latinorum politico

Da Affari italiani Affrontare una situazione nuova con rituali politici vecchi non porterà lontano. Si è votato con un sistema proporzionale, pasticciato fin che si vuole ma tale nella sua essenza, avendo condotto una campagna elettorale con toni da maggioritario, pur sapendo perfettamente che nessuno avrebbe vinto le elezioni. Una vera e propria truffa ai danni degli elettori consapevolmente ordita dalla “banda dei quattro” composta da Renzi, Di Maio, Berlusconi e Salvini che come i ladri di Pisa litigavano di giorno per mettersi d’accordo di notte sull’escludere tutti gli altri dalla partita del potere, avere un Parlamento nel quale di fatto ciascuno di loro ha nominato i propri ed una campagna elettorale apparentemente low cost, limitata alla tv dei talk show ed alla rete dove l’accesso era riservato al quartetto ed ai propri sodali stretti . Era stato pianificato il colpo finale al sistema dei partiti-comunità che si sono trovati privi di qualsiasi agibilità politica che non fosse filtrata da uno dei quattro giocatori che si passavano il mazzo di carte fra loro da Vespa alla Gruber con scappatelle dalla D’Urso o dalla Berlinguer. La pars detruens è perfettamente riuscita: nessuna forma di vita politica al di fuori dei cerchi e gigli più o meno magici, dialettica in corso dalla quale sono scomparse tanto le proposte ragionate quanto quelle più o meno cialtrone sulle quali si è giocata la campagna elettorale: del resto, tutti si sono già dimenticati de il manifesto elettorale che al Sud diceva “780 euro al mese reddito cittadinanza – Vota 5stelle” o della risposta di Berlusconi sulla fattibilità della flat tax al 15 % : “ ma sa chi sono io e cosa ho fatto nella mia vita? “. L’attenzione generale è stata subito concentrata sul gioco dei quattro cantoni con in palio le Presidenze dei due rami del Parlamento e quella del Consiglio, in un clima da “qui si lavora, non si fa politica” che ha escluso a priori qualsiasi analisi o dibattito sul voto o sulle ragioni di alleanze e convergenze sempre più simili a quelle che avvengono nelle assemblee societarie contendibili stile Telecom o Banca Carige. La “grattatio capitis” è però cominciata subito dopo perché la “banda” non è composta da quattro giocatori normali, ma da bari (politici) professionali. Ciascuno aveva pensato alle mosse nel giro postelettorale con le carte che avevano previsto l’uno per l’altro : Renzi con il Pd disarticolato ma con il controllo completo degli eletti e la definitiva distruzione della sinistra di tutte le gradazioni; Di Maio con una moltitudine di ignoti parlamentari tendenzialmente di famiglia numerosa che assicurasse almeno venti clic alle “parlamentarie” ed i pieni poteri al “capo politico” passato da Beppe Grillo al Marchese del Grillo ( “io so’ io e voi un siete un c..”) ; Berlusconi con la sua scorta di avvocati difensori e sciurazze botulinizzate a fargli da corte al centro di ogni trattativa e gioco possibile; Salvini con una truppa di parlamentari proveniente dal Centro Nord caduto in suo controllo e da qualche nuova “colonia” delle Due Sicilie, che gli permettesse di essere ad un passo dal controllo del centrodestra facendo fare al vecchio Cavaliere il suo ultimo giro essendo ancora di mazzo. L’imprevedibile in politica è dietro l’angolo ed il successo di proporzioni sorprendenti porta 5stelle ad eleggere più parlamentari che candidati, costringendo Di Maio a giocare quasi una partita secca sul suo nome per impedire che il centinaio di sconosciuti che popolano i suoi gruppi parlamentari comincino a destabilizzare il sistema dell’ “Uno vale tutti” brillantemente imposto/ato dalla Casaleggio e C. . Parallelamente il sorpasso in tromba di Salvini nel centrodestra lo costringe a giocare troppo in fretta e nello stesso tempo la partita per la leadership del centrodestra e del Governo ed a tenere in vita (politica) il Cavaliere Stanco, scegliendogli perfino la badante (politica) al Senato mentre lo stesso è impegnato a licenziare su due piedi Belpietro e Del Debbio, rei di aver spostato voti alla Lega esagerando con i loro lungometraggi su “L’invasione degli immigrati” su Retequattro. Questo scenario può perfino sembrare divertente per gli osservatori esterni : Renzi che teorizza l’immobilità come stile di vita è come vedere Trimalcione elogiare le proprietà delle cene a base di infuso di erbe aromatiche, così come lo sfoggio a tutte le ore di vestiti da prima Comunione da parte di un Di Maio in lotta costante con la consecutio temporis sono oro puro per i comici ancora non “scesi in campo”. Peccato per la politica, che continua ad essere malata o assente. Franco D’Alfonso

Disuguaglianze e immigrazione spiegano il voto di marzo | A.Del Monte, S.Moccia e L.Pennacchio

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Il modello Milano. O si fa sistema o non esiste – MuMe

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mercoledì 11 aprile 2018

La rivoluzione del reddito di base e il lato oscuro della new economy - micromega-online - micromega

La rivoluzione del reddito di base e il lato oscuro della new economy - micromega-online - micromega

Gim Cassano: A proposito di libertà, democrazia, uguaglianza

A PROPOSITO DI LIBERTA’, DEMOCRAZIA, EGUAGLIANZA. dopo un lunghissimo silenzio, del quale mi sento colpevole e scuso, sento il dovere di esprimere qualche opinione su quanto va avvenendo. E vorrei partire proprio da quando mi ero reso conto della sostanziale impossibilità (ma forse non inutilità) di tenere in piedi iniziative come quella di “21 Giugno”. Non si trattava solo della antica questione di una Sinistra litigiosa, nella quale ognuno era fermamente determinato a coltivare il proprio orticello asfittico, senza rendersi conto che nel frattempo il clima generale (non solo quello italiano) li stava disseccando tutti. Si trattava invece di una ragione più di fondo, forse allora non ben chiara, ma che oggi mi appare evidente: ed è quella del progressivo venir meno della capacità della Sinistra di esprimere contenuti e metodi di lotta politica adeguati alla nuova realtà del Paese, avendo dimenticato che la lotta politica va costruita prima di tutto nella società. Venuti meno alle forze di sinistra i tradizionali riferimenti contadini e delle grosse concentrazioni operaie, sia per effetto dei mutamenti della struttura produttiva, che per la percezione da parte di questi di una grande distanza dai comportamenti e metodi delle forze che si definivano di sinistra; non avendo saputo queste interpretare e dar voce a nuove forme di disagio sociale che non coincidono più con le antiche divisioni di classe, interessando masse di precari non sindacalizzati, giovani diplomati e laureati, lower middle-class impoverita, anziani; sono così venute meno, nel Nord laico ed in quello bianco, nel Centro-Nord rosso, nel Sud altalenante, le condizioni del radicamento sociale della Sinistra. Il tutto è stato accelerato ed aggravato dai due equivoci che hanno caratterizzato la politica italiana degli ultimi 25 anni: quello che il partito berlusconiano potesse svolgere le funzioni di un moderno partito liberal-conservatore; e, fatto ancor più grave ancora per la storia che ci riguarda, quello che un partito sorto dagli eredi del partito conservatore per eccellenza e dagli eredi del maggiore e più combattivo partito comunista d’occidente potesse trovare la propria unità nello svolgere le funzioni di un moderno partito socialista, anziché in quella di un riformismo rinunciatario. Non a torto, l’alternanza al governo tra i due blocchi non è mai stata percepita come tale e come portatrice di mutamenti di indirizzo reali. Si è visto come la realtà sia stata ben diversa dai proclami, e come la destra abbia prosperato, aggravandolo, sul degrado morale della Repubblica, e come essa non abbia mai superato i riferimenti a matrici che sono, nelle sue varie componenti, quella postfascista, quella del populismo xenofobo, quella di un populismo tecnocratico, tuttora in essa presenti. E come il Partito Democratico, tenuto insieme dalle necessità elettorali, si sia adeguato ad un’agenda politica dettata dalla destra anche quando esso fu al governo, addivenendo con questa ad intese dettate dall’intenzione di circoscrivere la rappresentanza popolare ed il potere politico all’uno o all’altro dei due blocchi; come abbia dismesso ogni velleità di reale riformismo, dando forma giuridica alla precarizzazione ed alla marginalità del lavoro già emerse dalla crisi economica degli ultimi anni; e come abbia rinunziato ad un qualsivoglia ruolo attivo in Europa. La sguaiataggine renziana ha fatto il resto, limitando discussione e democrazia interna al cerchio magico dei propri fedeli. Non c’è quindi da stupirsi se il Partito Democratico, dismessa ogni capacità e velleità di reale riformismo, sia stato visto come una delle espressioni dell’establishment tecnocratico, anche dal proprio tradizionale elettorato, che difatti lo ha abbandonato in massa, per volgersi, in assenza di reali alternative, ai populismi della Lega al Nord e dei 5 Stelle al Sud. In maniera non molto dissimile, nello scorso ventennio l’Europa ha visto il degrado ed il declino delle forze socialiste e progressiste, la virtuale scomparsa dei liberali, sostituiti (ma solo nelle concezioni economiche) dall’acquiescenza dei governi a visioni liberiste e tecnocratiche, il rafforzarsi delle oligarchie, il progredire delle diseguaglianze, il declino della vita democratica, insieme all’emergere del populismo xenofobo e nazionalista. Questo, anzi, è diventato forza dominante nella gran parte dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e di quelli emersi dalla disgregazione dell’URSS e della Jugoslavia, governati da forze di destra dichiaratamente ispirate al nazionalismo etnico ed alle concezioni autoritarie che ne segnarono il carattere negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale. Ed ancora, un percorso simile è oggi evidente negli Stati Uniti, dove la schizofrenia di Trump mescola il più assoluto liberismo e l’esaltazione delle diseguaglianze all’interno con il protezionismo e l’avventurismo all’esterno, in un mix nazional-popolare che tende a disattivare gli anticorpi non istituzionali che hanno consentito agli USA, per gran parte della loro storia, di preservare la democrazia pur in presenza dei fortissimi poteri del Presidente. Tornando all’Italia ed alle forze che si sono collocate alla sinistra del PD, i consueti esperimenti elettorali, privi dell’idea di fondo di una Sinistra unita, larga, alternativa, e capace di parlare in termini comprensibili al Paese più che ai propri adepti, hanno avuto gli esiti che, al di là di intenzioni e meriti, sono sotto gli occhi di tutti: oggi, in Italia, non esiste più una sinistra, e l’autodefinirsi del Partito Democratico come centrosinistra è una pura finzione autoconsolatoria ed autoassolvente. Così, dopo ogni sconfitta, ci si ritrova a registrare per l’ennesima volta “la più grave sconfitta della Sinistra nella storia della Repubblica”, ed a riconsolarsi con l’affermazione che la consapevolezza di dover “ripartire da zero” sarebbe già un buon inizio. Altri affermano che manca un leader, una figura, o anche un gruppo, di riferimento che possa fungere da centro di attrazione per un’ipotetica ripartenza. Francamente, mi sembrano falsi problemi. Ritengo che invece da troppo tempo, si sia quanto meno affievolita la capacità complessiva della Sinistra, nelle sue diverse componenti, di interpretare il tempo in cui viviamo. E, di conseguenza, la capacità di contrapporsi adeguatamente, in maniera comprensibile e convincente, alla cultura tecnocratica che, oggi come ieri, è l’ideologia dei ceti dominanti. E’ mancata la capacità di interpretare le trasformazioni che hanno caratterizzato il passaggio alla fase postindustriale e di dare quindi, sia sul piano della cultura politica, che su quello dell’organizzazione delle forze e dei movimenti, risposte adeguate a contrastarne gli effetti in termini di illibertà, di crisi della democrazia, di crescenti diseguaglianze. Pur non essendo messe in discussione, almeno in via di principio, le libertà individuali, i fondamenti di una società aperta sono svuotati, in nome della libertà economica dei pochi, dalle crescenti insicurezze e precarietà dei più, che vanificano libertà di scelte, di comportamenti, mobilità sociale, facendo venir meno l’illusione liberale della parità delle condizioni di partenza. La piramide sociale si allarga alla base e si restringe al vertice, e viene a costituire un monte sulle cui pendici è sempre più difficile salire e sempre più facile scivolar giù, ma sul cui vertice, per chi già vi sia, è facile permanere. L’impotenza dei più nei confronti delle concentrazioni di potere economico e politico che monopolizzano senza alcun sostanziale controllo informazioni, conoscenze, e decisioni che la presunzione di libertà di mercato colloca nella sfera del diritto privato, pur avendo rilevanza pubblica e generale, intacca anche le libertà sociali e le premesse della democrazia. Si arriva così a quel funzionamento monco della democrazia che Crouch ha battezzato postdemocrazia e, come è avvenuto in Italia, quando regole e forme istituzionali esistenti confliggano troppo apertamente con le necessità delle oligarchie tecnocratiche, all’esplicito mutamento di queste. Premesso che nessuna società umana potrà mai essere né perfettamente libera né perfettamente egualitaria (e che, oltre che confliggere tra loro, nessuna di queste condizioni è auspicabile), e premesso che la democrazia perfetta è un’utopia, quello che differenzia una società aperta da una società chiusa è la presenza o meno di processi dinamici e conflittuali tali da sostenere, rafforzare ed estendere libertà, democrazia, eguaglianza. Lo sviluppo dei concetti di libertà, democrazia, eguaglianza, che aveva accompagnato l’evoluzione delle società occidentali nei circa 200 anni seguiti all’avvio della Rivoluzione Industriale, si è invece da qualche decennio invertito, per dar luogo ad una società che tende ad essere progressivamente meno libera, meno democratica, più classista, più rassegnata alla subalternità. E, in una spirale che si autoalimenta, tutto ciò è insieme causa ed effetto delle diseguaglianze crescenti che dalla sfera economica si trasferiscono a quella sociale e dei diritti fondamentali. A ciò si sono accompagnate trasformazioni dell’organizzazione produttiva del capitalismo e delle strutture politiche che hanno indebolito lr capacità di difesa e di autoorganizzazione del lavoro ed incrementato quelle di un capitale che, da industriale, è diventato finanziario e speculativo, quando non del tutto virtuale ed alchemico: swaps, derivati, derivati di derivati, bitcoins, sono la pietra filosofale del XXI° secolo. Il lavoro è legato alle persone, ai luoghi della loro vita, alle loro tradizioni ed esperienze; il capitale è anonimo, capace, quasi senza vincoli, di trasferirsi ove sia ritenuto opportuno. I fenomeni di globalizzazione e delocalizzazione, pur non rappresentando un’invenzione del finire del secolo scorso (basti ricordare la struttura economico-finanziaria dell’Impero Britannico) hanno assunto oggi dimensioni e rapidità sconosciute nell’età industriale, determinando un nuovo colonialismo che si fonda non più sul controllo militare e politico, ma sui rapporti economici e sui cross-rates tra lavoro, materie prime, prodotti industriali, finanza. Gli slums del XXI° secolo si sono trasferiti dalle periferie delle città dell’occidente industrializzato alle megalopoli cinesi ed orientali, alle maquiladoras messicane, ai complessi minerari del Terzo Mondo. Di fronte a questo, non solo le organizzazioni sindacali, ma anche gli stati, sono sostanzialmente impotenti. E le poche istituzioni sovranazionali esistenti sono più espressione delle oligarchie tecnocratiche che delle volontà politiche espresse dai Parlamenti, creando, come avviene in Europa, barriere sovranazionali a protezione dell’establishment finanziario. Così, gli effetti della crisi economica dell’ultimo decennio non hanno fatto che aggravare questa situazione, in Italia e nel resto del mondo. Il peso della crisi non è stato condiviso, ma è stato pagato principalmente da chi già in partenza meno aveva e meno contava, sia che si tratti di gruppi sociali, che di interi Paesi. E, pur se si vanno ad osservare quei Paesi che da poco sono usciti da condizioni coloniali di secolare povertà e sottosviluppo e che sono in testa agli indici di crescita del PIL, si osserva che il più delle volte il loro sviluppo si accompagna al monopolio del potere e delle risorse da parte di nuove oligarchie, al dilagare di disparità sociali ed economiche, di carenza di libertà e di diritti, di democrazia simulata se non formalmente impedita che hanno pochi precedenti e determinano le condizioni per cui l’outsourcing internazionale trovi la sua convenienza. Ho accennato sommariamente ad alcuni aspetti del nuovo capitalismo, che lo rendono profondamente diverso dai modelli coi quali le forze di sinistra erano abituate a fare i conti, fiduciose che la base operaia non sarebbe mai venuta meno. Così non è stato, ed oggi manca un pensiero culturale e politico in grado di interpretare questi fenomeni e di darvi spiegazioni comprensibili e traducibili in lotta politica. Checchè si dica delle ideologie e della loro morte, occorre oggi costruire un pensiero che, tenendo criticamente conto della modernità, sia in grado di contrapporsi all’ideologia dominante, più che mai viva ed operante nei suoi caratteri tecnocratici, illiberali ma ammantati di liberismo di convenienza, antidemocratici. La questione se la spirale reciproca tra fenomeni distinti sul piano della scienza politica e dell’analisi sociologica, ma riconducibili tutti ad una comune origine storica ed economica, quali il contrarsi dei margini di libertà effettiva per i più, il degrado giuridico e fattuale del funzionamento della democrazia, il progressivo approfondirsi delle diseguaglianze economiche e sociali, sia da considerare come un elemento strutturale ed ineliminabile della società postindustriale, o ne rappresenti una degenerazione, forse correggibile con azioni politiche opportune, rappresenta il punto nodale del ragionamento che una sinistra moderna dovrebbe fare. Ove si concluda per la seconda tesi, per la quale personalmente propendo, occorre però aver chiaro come la spirale non possa esser interrotta o corretta per via di un riformismo subordinato a logiche tecnocratiche, né con la messianica fiducia in un futuro migliore. Non si tratta di andare alla ricerca di aspiranti leader, né di abborracciare ennesimi e perdenti tentativi politici, quanto di tener vivi confronti e collegamenti culturali, discussione ed approfondimento complessivo su quanto va avvenendo in Italia, in Europa, nel mondo, evitando di ritirarsi nei confini di un pensiero puramente teorico o nella ricerca di una nuova escatologia della sinistra, e cercando di tenere i piedi nelle realtà concrete. E sarebbe utile, a partire da queste, accompagnare e seguire quanto avviene nella politica e nei brandelli sparsi della sinistra, sviluppando ove possibile i collegamenti con movimenti ed iniziative politiche, organizzative, culturali, conformi a queste valutazioni. Ovviamente, non credo vi siano ricette pronte, e men che mai io ne ho. Arrivati a questo punto, ritengo che al “Network per il Soialismo Europeo” vada riconosciuta la capacità ed merito di aver tenuto vive discussioni e rapporti che vanno nel senso che sopra è stato indicato, e che questa esperienza vada il più possibile condivisa ed allargata. Gim Cassano, 10-04-2018

Debito pubblico, una questione di interessi | Economia e Politica

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Carlo Galli: La sinistra e la speranza – Ragioni politiche

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D'Alema: "Il voto italiano è il punto di rottura della crisi europea" - nuovAtlantide.org

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Sinistra Anno Zero. Il discorso di Giuseppe Provenzano – L'Argine

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What’s Been Stopping the Left? by Dani Rodrik - Project Syndicate

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Ungheria, cosa c'è dietro il plebiscito per il populista Orban - Lettera43.it

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TOCCATE TUTTO MA NON ATM | Dario Balotta - ArcipelagoMilano

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sabato 7 aprile 2018

Paolo Zinna: Il partito dell'establishment e gli outsiders

Cari compagni, vi propongo un abbozzo di interpretazione del recente passato – sperando che possa aiutarci a individuare la strada per agire sul futuro. In questi giorni, prima e durante le consultazioni, il palcoscenico pare occupato soltanto dalle due forze “non tradizionali” della politica italiana: Lega e Cinque stelle. Qualche commentatore si spinge a prevedere un bipolarismo futuro fra di loro, ciascuna cementata dal consenso di una metà del paese (il Nord e il Sud) e votata da ceti sociali piuttosto diversi. Non credo a questa visione. Essa presupporrebbe la scomparsa dell’area politica centrista, “responsabile”, conservatrice nei fatti, che ha governato la seconda repubblica. Passati alcuni anni, infatti, possiamo chiederci: ma i governi dell’Ulivo e dell’Unione, di Forza Italia e del PdL, al di là delle ovvie e vistose differenze, al di là delle roboanti affermazioni programmatiche, non avevano forse qualcosa di comune? La lotta contro il debito, la tassa per l’Europa, la spending review, la riduzione delle tasse sempre promessa e mai fatta, le “maggiori entrate dalla lotta all’evasione” che non si sono mai concretizzate, tutto questo suona familiare. A distanza di qualche anno, riesce difficile attribuire questa o quella affermazione a Gianni o a Enrico Letta, a Prodi o a Frattini, a Vincenzo o a Ignazio Visco, a Draghi o a Tremonti. Non parliamo poi della politica estera. Alla superficie, dunque, molto teatro: Berlusconi e le olgettine, Bertinotti e Turigliatto, Sgarbi e Previti e Vendola, la società civile e i girotondi. Sotto, l’eterno mondo di “grand commis” e banchieri e finanzieri, coi suoi nomi simbolo che attraversano i decenni: Bazoli e Guzzetti, per esempio, Bassanini e Chicco Testa, Cosimo Maria Ferri e Gianni De Gennaro …. E politici perfettamente integrati e adottati: Giuliano Amato e Giorgio Napolitano, per citare solo due nomi. La seconda Repubblica è stata governata da un ceto politico economico ben insediato nei gangli del potere, attraversato sì da lotte interne, forse più vistose che reali, ma poi incapace, sia nella variante “di centrodestra” che in quella “di centrosinistra” di realizzare vere riforme radicali. Qui forse risiede una delle spiegazioni del nostro sviluppo interrotto, dello svantaggio in termini di crescita economica rispetto a partners europei molto più dinamici (Germania). E forse questa gestione conservatrice e soporifera, almeno in economia ha radici ben più lontane nel tempo, fin negli anni ’70. Che io ricordi, l’ultimo gesto innovativo, “di rottura”, venuto dall’alto, fu l’accordo sul punto unico di contingenza, firmato da Agnelli - ma è del 1975. Sia in economia che in politica la persistente immutabilità della banchisa ha favorito l’emergere di alcuni outsiders, forti personalità che hanno combattuto per imporsi come “dominus” del sistema, partendo dall’esterno. Fra di loro ci sono state figure molto diverse ed anche episodi di scontri diretti. Però, ad una considerazione attenta, Mario Schimberni, Bettino Craxi, Raoul Gardini, Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi mostrano parecchie caratteristiche comuni. Sia chiaro che, nella loro contrapposizione all’establishment, non vedo eroi del bene né cavalieri bianchi contri i draghi del conservatorismo. Per quel che mi riguarda, nel mio piccolo, in politica li ho sempre considerati rimedi peggiori del male e quindi avversari da contrastare. Sarebbe miope però non coglierne la carica di innovazione e non vedere i bisogni della società che ne hanno favorito la carriera. Ciascuno di loro portava elementi nuovi, spesso importati da paesi più avanzati: il concetto di public company, la comprensione della società postindustriale, la necessità di dimensioni adeguate, in industria, per competere su scala mondiale, la proiezione economica in ambito almeno europeo, la centralità dell’informazione nell’economia globale, la presa d’atto dell’indebolirsi, in politica, dei corpi intermedi. Tutti questi sono salti concettuali indissolubilmente legati ai nomi che ho citato. Guardando all’indietro, chi li contrastava ci appare rappresentare il passato - si tratta magari di figure moralmente molto più stimabili, ma irrimediabilmente superate. Significativamente, molti degli outsiders hanno sentito il bisogno di proporre al paese innovazioni istituzionali: la “grande riforma” ed i due referendum di modifica della Costituzione, tutte proposte volte a rafforzare l’esecutivo per assicurare la governabilità - e il paese le ha sempre rifiutate. Naturalmente, anche altri aspetti collegano fra loro questi outsiders: forte determinazione, prepotenza e arroganza, autoritarismo, antipatia personale, tendenza a circondarsi di yes men (di “nani e ballerine” direbbe Rino Formica). Una assoluta indifferenza verso le regole, scritte o non scritte, dell’ambiente, che spesso ha travalicato nell’illegalità più o meno patente. Tutte le loro vicende, in ogni caso, si sono scontrate con la resistenza dell’establishment che, unito in un riflesso di difesa, li ha combattuti fin dall’inizio, fino ad averne ragione, in tutto o in parte. Nessuno, alla fine, ha raggiunto il suo obbiettivo: chi suicida, chi morto all’estero, chi ridimensionato e in gravi difficoltà economiche. In fondo Berlusconi e Renzi sono quelli che ne sono usciti meglio, ma l’ambizione di essere il “dominus” del paese ormai anche per loro è dietro le spalle. In sintesi: la palude ci soffoca, gli outsiders falliscono (ed io dico: per fortuna) – quale percorso porterà il paese fuori dal declino? (somma di due testi pubblicati su FB).

Franco Astengo: La questione del lavoro

LA QUESTIONE DEL LAVORO SEGNO DELLA DECADENZA POLITICA E MORALE di Franco Astengo “Articolo 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” Mentre si discute astrattamente della formazione di un nuovo governo seguendo esclusivamente la logica del potere nessuno (o quasi) riflette sulla decadenza del Paese: una decadenza stretta tra deficit politico e perdita morale che si verifica nello smarrimento totale di quelle coordinate di fondo che avevano permesso all’Italia di uscire dalla tragedia della seconda guerra mondiale elaborando una nuova Costituzione e ricostruendosi dalle macerie materiali e morali. L’intreccio tra politica e morale era stato stabilito nel testo dell’articolo 1 della Carta fondamentale: era il legame tra lavoro e democrazia che connotava, appunto nell’espressione di quel testo, le nostre aspirazioni migliori. Oggi la memoria di quell’intreccio appare completamente perduta e si trova ormai straordinariamente lontana dalle culture della politica. E’ questo il punto decisivo attorno al quale sono state smarrite identità e idee: uno smarrimento che costituisce la grande responsabilità delle forze politiche che si sono fatte sopraffare dalle logiche del “pensiero unico” e della vanità personalistica, fino ad arrivare a una campagna elettorale come quella recente dove il dominio dell’affabulazione meramente retorica ha toccato estremi tali da rendere pressoché impossibile un recupero di credibilità del sistema. Esistono indicatori estremamente esemplificativi che rendono quest’affermazione concreta e che segnano appunto un quadro di vera e propria decadenza. Il tema del lavoro è stato completamente obliato. L’indice di disoccupazione si mantiene al doppio degli altri paesi europei, con una quota rilevantissima di quella giovanile. Interi settori produttivi risultano del tutto marginali nell’economia del Paese e nel quadro internazionale. Risultano assenti dal dibattito pubblico qualsiasi proposta di programmazione economica , di serio intervento pubblico, di rapporto tra l’innovazione tecnologica, la produzione industriale, l’occupazione. Pesano enormemente i ritardi nelle infrastrutture, i temi ambientali e del dissesto idro geologico. Il segnale più importante del disprezzo che questa classe politica nutre nel confronto del mondo del lavoro è dato però, come evidente esemplificazione, dall’indifferenza con la quale vengono accolte le notizie di crescita esponenziale nel numero d’incidenti con esito mortale. Sono notizie che scivolano via senza commento né spunto di riflessione sulle pagine e sugli schermi della grande comunicazione di massa. Si tratta dell’indicazione di un’indifferenza, di una sottovalutazione, di un’imperdonabile neghittosità collettiva e soprattutto si evidenzia il segno dei livelli d’intensificazione dello sfruttamento che connotano pesantemente lo scenario di questi anni terribili. Di seguito il numero di incidenti mortali sul lavoro registrati nei primi tre mesi di quest’anno. Si noti come il maggior numero d’incidenti si registri nelle Regioni di maggiore sviluppo, a dimostrazione di quell’accenno all’intensificazione dello sfruttamento di cui sopra e anche, con ogni probabilità, per via del conseguente utilizzo di mano d’opera meno qualificata e posta in condizioni di costante pericolo per ragioni legate al mero profitto. Una tragica statistica da mantenere come monito di un’intollerabile situazione verso la quale non assistiamo alla giusta reazione prima di tutto da parte dei sindacati confederali, in secondo luogo dalle forze politiche, dal sistema informativo e dall’opinione pubblica in generale, in particolare da quella parte che si ritiene “democratica”. Traggo dal prezioso blog “La Bottega del Barbieri” questi dati che lascio semplicemente come memoria di una tragedia ormai quotidiana. DAL 1 GENNAIO SONO 162 I MORTI SUL LAVORO Dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro (**) Dal 1° gennaio 162 morti sui luoghi di lavoro in Italia. Almeno altrettanti muoiono sulle strade e in itinere. Morti nelle Regioni e Province italiane nel 2018 per ordine decrescente N.B i morti segnalati nelle Regioni sono solo quelli sui LUOGHI DI LAVORO. Ricordo ancora una volta che ce ne sono almeno altrettanti che muoiono sulle strade e in itinere nelle province non sono conteggiati i morti sulle autostrade. VENETO 21: Venezia (2), Belluno (1), Padova‎ (), Rovigo (1), Treviso (7), Verona (7), Vicenza (2). LOMBARDIA 20: Milano (8), Bergamo (2), Brescia (1), Como (1), Cremona (), Lecco (), Lodi (), Mantova (4), Monza Brianza (1), Pavia (1), Sondrio (2), Varese (). PIEMONTE 12: Torino (5), Alessandria (), Asti (1), Biella (), Cuneo (4), Novara (1), Verbano -Cusio -Ossola (1) Vercelli (). CAMPANIA 10: Napoli (5), Avellino (1), Benevento (), Caserta (), Salerno (4). TOSCANA 10: Firenze (1), Arezzo (), Grosseto (1), Livorno (2), Lucca (1), Massa Carrara (2), Pisa‎ (1), Pistoia (), Siena (2) Prato (). EMILIA ROMAGNA 9: Bologna (), Rimini (1). Ferrara (2) Forlì Cesena () Modena (3) Parma (1) Ravenna (2) Reggio Emilia () Piacenza (). ABRUZZO 8: L’Aquila (4), Chieti (2), Pescara (1) Teramo. LAZIO 8: Roma (4), Viterbo (1) Frosinone (1) Latina (2) Rieti (). SICILIA 8: Palermo (1), Agrigento (1), Caltanissetta (1), Catania (5), Enna (), Messina (), Ragusa (), Siracusa (1), Trapani‎ (). CALABRIA 9: Catanzaro (2), Cosenza (2), Crotone (3), Reggio Calabria (1) Vibo Valentia (1). MARCHE 5: Ancona (), Macerata (1), Fermo (), Pesaro -Urbino (), Ascoli Piceno (4). LIGURIA 4: Genova (3), Imperia (), La Spezia (1), Savona (). SARDEGNA 5: Cagliari (1), Carbonia -Iglesias (), Medio Campidano (), Nuoro (), Ogliastra (), Olbia -Tempio (2), Oristano (), Sassari (2). Sulcis Iglesiente (). UMBRIA 2: Perugia (1) Terni (1). PUGLIA 2: Bari (), BAT (1), Brindisi (), Foggia (), Lecce () Taranto (1). FRIULI VENEZIA GIULIA 2: Trieste (), Gorizia (), Pordenone (), Udine (1). Molise 2: Campobasso (2), Isernia (). BASILICATA 2: Potenza (2) Matera (). TRENTINO ALTO ADIGE: Trento (), Bolzano (). VALLE D’AOSTA (). (**) "L’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro" ha compiuto dieci anni. Aperto il 1° gennaio 2008 dal metalmeccanico in pensione e artista sociale Carlo Soricelli per ricordare i sette lavoratori della Thyssenkrupp di Torino morti poche settimane prima bruciati vivi.

Macron un anno dopo

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giovedì 5 aprile 2018

Lanfranco Turci: LeU - Silenzi e fuori strada - nuovAtlantide.org

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Reddito di cittadinanza: chi ha torto, chi ha ragione? (seconda parte) - Menabò di Etica ed Economia

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martedì 3 aprile 2018

Il Pd senza bussola - Il Ponte

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Disuguaglianza tra le classi o tra i paesi? Branko Milanovic e il futuro che ci aspetta - micromega-online - micromega

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Franco D'Alfonso: Socialdemocrazia a 5 Stelle? – MuMe

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