mercoledì 31 ottobre 2018

Franco Astengo: Identità

IDENTITA’ di Franco Astengo L’intervista rilasciata da Rossana Rossanda a Repubblica e pubblicata oggi, 31 ottobre, contiene tra gli altri almeno due spunti di grande interesse almeno per quanti restano ancora convinti della necessità di costruzione di un soggetto di sinistra alternativa in Italia, con proiezione internazionalista e sovranazionale. Soggetto che in questo momento manca e al riguardo della cui necessità quanti sono ancora presenti nelle residue forze di sinistra (intenti nel frattempo a seguire rotture e ricomposizioni) non paiono davvero essere pienamente consapevoli. Una consapevolezza rivolta soprattutto al piano della necessità di ricostruzione di un’identità segnata da una piena autonomia di pensiero politico senza seguire in maniera subalterna fallaci mode correnti. Espongo così i due punti che ho ritenuto salienti, facendo seguire poi altrettante brevissime considerazioni. La domanda si riferisce al cambiamento avvenuto nella sinistra italiana: Domanda: questa mutazione quando avviene? Risposta di Rossanda: Direi che inizia con il cambio di nome di Occhetto. Cambiare nome significa mutare la propria identità. Da allora di nomi ne hanno cambiati tre o quattro e ogni volta si sono allontanati un pezzetto dalla loro base. Domanda: E’ favorevole al reddito di cittadinanza? In linea di principio è giusto sostenere i poveri, ma poi cosa resterà? Bisogna creare lavoro. E qui sono d’accordo con quel proverbio cinese che dice: “dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. Nella schematicità delle risposte date a un’intervista, mi pare che si sollevino due questioni assolutamente decisive: 1) Rossanda ( molto modestamente anche lo scrivente che vi insiste da molto tempo, ma credo anche altri) considera irrisolto il nodo dell’eredità storica e politica del Partito Comunista Italiano e dell’intero movimento comunista che in Italia è stato presente nei decenni trascorsi. Eredità storico – politica articolata e complessa che, ancor oggi a trent’anni dalla liquidazione del Partito che era stato il principale portatore di quel complesso sia sul piano culturale, sia su quello organizzativo rimane non solo da approfondire (anche se tanto si è scritto) ma da verificare nello sviluppo di realtà che ne è seguito. Verifica che non c’è stata né da parte di chi approvò la “svolta” e diede vita a un soggetto di natura indeterminata rivelatosi progenitore diretto dell’attuale disastro; né da parte di chi si è mosso sul terreno di un’ipotetica “Rifondazione”, al riguardo della quale sul piano teorico non è mai stato mosso un passo e anzi sono stati acquisiti elementi che via via hanno determinato una sostanziale irrilevanza politica. Il tema del lascito irrisolto da parte del liquidato PCI riguarda anche e naturalmente i temi della strutturazione e della rappresentanza politica nel loro insieme; 2) Il tema del lavoro rimane quello centrale per costruire un’identità alternativa. Essersi arresi sotto questo aspetto privilegiando altri elementi sotto la spinta della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica ha rappresentato l’esiziale punto di caduta proprio sul piano identitario, fino a cadere nel baratro del reddito di cittadinanza. Naturalmente proprio il tema del lavoro richiama l’esigenza di un aggiornamento d’analisi che oggi non si è verificato. Aggiornamento che dovrebbe riguardare prima di tutto la ricostruzione di una teoria delle “fratture” sociali in modo da poter riconoscere l’avvenuto allargamento del meccanismo di sfruttamento ben oltre i tradizionali confini della cosiddetta “contraddizione principale”. Il concetto di sfruttamento rimane basilare per qualsivoglia costruzione politica che si proponga di costruire un’alternativa sistemica. Fin qui un abbozzo d’analisi dell’intervista a Rossanda, ma i temi di discussione sarebbero ben più ampi e complicati.

sabato 27 ottobre 2018

Il piano di Varoufakis per la manovra italiana - Lettera43.it

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Why Italy is the Latest to Question Policy Orthodoxy by Mohamed A. El-Erian - Project Syndicate

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The Global Economy’s Three Games by Jean Pisani-Ferry - Project Syndicate

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Andrea Fumagalli: Il grande business del debito italiano

Andrea Fumagalli: Il grande business del debito italiano: Il grande business del debito italiano
di Andrea Fumagalli
Fa scandalo la richiesta del governo italiano di portare il rapporto deficit/pil al 2,4% e così si alimenta una campagna mediatica – a destra come a sinistra – che ha in realtà il vero...

Etica del lavoro e sviluppo capitalistico secondo Zygmunt Buaman | Avanti!

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Another Thing Trump’s Anti-Socialist Report Gets Wrong

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martedì 23 ottobre 2018

The Fiscal Alternative | Fabian Society

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DEBITO PUBBLICO ITALIANO - E.Marro - Quando, come e perché è diventato enorme - | Sindacalmente

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La crisi economica dell’Italia vista dal nord Europa – Strisciarossa

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Is Italy’s Populist Government Manufacturing The Next Political Crisis? • Social Europe

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Come sbloccare gli investimenti pubblici - Il Foglio

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Reversing The Globalisation Backlash • Social Europe

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lunedì 22 ottobre 2018

WATCH: Corbyn on Brexit – "The alternative is not 'no deal' but a workable plan" | LabourList

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Un altro spread: competitività e inflazione | Economia e Politica

Un altro spread: competitività e inflazione | Economia e Politica

"New" Perspectives For Europe • Social Europe

"New" Perspectives For Europe • Social Europe: "If you in the end ask me, not as a citizen but as an academic observer, what my overall assessment is today, I’ll have to admit to failing to see any encouraging trends right now." Jürgen Habermas shares his thoughts on the future of Europe.

Franco Astengo: Numeri elettorali dal Trentino Alto Adige

NUMERI ELETTORALI DAL TRENTINO – ALTO ADIGE di Franco Astengo I dati provenienti dalle due province di Trento e Bolzano dove si è votato domenica scorsa per eleggere i rispettivi consigli provinciali indicano prima di tutto il permanere di una forte volatilità elettorale che permane come caratteristica costante di tutta questa fase politica che, comunque, risulta ancora essere di transizione. Questa indicazione vale naturalmente quale elemento di valutazione di carattere generale. Nello specifico, invece, è necessario, utilizzando i dati provenienti dalla cifre assolute e non percentuali, dividere il piano d’analisi per quel che riguarda le due province: sarebbe sbagliato, almeno a mio avviso, analizzarli cumulando i dati. Infatti non solo si è votato ad orari diversi e lo spoglio si è svolto in tempi differenti, ma lo stesso sistema elettorale è diverso tra Trento e Bolzano: Trento prevede l’elezione diretta del Presidente e l’assegnazione del premio di maggioranza con la suddivisione dei seggi attraverso l’utilizzo del metodo d’Hondt, a Bolzano invece il presidente è eletto dal Consiglio con la regola dell’alternanza etnica: a metà legislatura al presidente di lingua tedesca subentra, infatti, un presidente di lingua italiana. Andando quindi per ordine e premesso che l’analisi riguarda il voto delle Regionali 2013, Politiche 2018 e Regionali 2018. Le percentuali indicate riguardano il totale degli iscritti nelle liste aventi diritto e non il totale dei voti validi: Provincia di Bolzano: Il primo dato da rilevare riguarda la partecipazione al voto: nel caso si è notato nell’occasione delle Regionali 2018 una ripresa di partecipazione rispetto alle Politiche anche se il dato dei voti validi, alla fine, è risultato inferiore a quello delle Regionali 2013. In occasione delle Regionali 2013 gli aventi diritto erano 373.050 e i voti validi 287.010 pari al 76,93%. Politiche 2018: aventi diritto 388.357, voti validi 243.655 pari al 62,79%; Regionali 2018 aventi diritto 382.964, voti validi 284.351 pari al 74,25%. Nei cinque anni intercorsi tra un’elezione regionale e l’altra il calo è quindi del 2,68%. Partiamo dai dati riguardanti le forze politiche che hanno ceduto terreno. Prima fra queste la SVP: Regionali 2013 131.255 voti (35,18%), Politiche 2018 119.039 ( 30,65%) Regionali 2013 119.108 ( 31,10%). In percentuale sul totale degli aventi diritto la SVP, tra un’elezione regionale e l’altra ha ceduto il 4,08%. Il calo più netto però riguarda i due partiti indipendentisti che non si presentano alle elezioni politiche: nelle regionali 2013 “Die Freiheitlichen” legata alla FPO austriaca aveva ottenuto 51.510 voti ( 13,80%); cinque anni dopo il bottino si è ridotto a 17.620 (4,60%) mentre Sud – Tiroler Freiheit, il partito di Eva Klotz, è sceso da 20.743 voti ( 5,56%) a 17.620 (4,60%), una flessione più contenuta. In calo anche un altro soggetto politico con riferimento oltralpe: i Verdi che, nella provincia di Bolzano, mantengono caratteristiche affatto diverse dal resto del territorio nazionale italiano. Nelle Regionali 2013 i Grunen ebbero 25.070 voti ( 6,72%), nel 2018 19.391 (5,06%), flessione del 1,66%. Esaminiamo adesso l’andamento dei due fenomeni che possiamo definire come “del giorno”. La Lega Nord ha confermato quel trend espansivo del resto assegnatogli da tutti i sondaggi sul piano nazionale (attenzione: in Alto Adige siamo ancora a Lega Nord e non a “Lega” tout court”). Alle regionali 2013 una lista comprendente Forza Italia e Lega Nord ottenne 7.120 voti ( 1,90%). Separati alle Politiche 2018 hanno fatto registrare: Forza Italia 12.421 voti (3,19%) e la Lega Nord 23.472 ( 6,04%) per assestarsi alle Regionali 2018 a quota 31.510 ( 8,22% quindi un più 2,18% sul totale degli iscritti, di conseguenza si può parlare di incremento reale) con Forza Italia in calo fino a 2.825 voti (0,73%, flessione del 2,46%). Si può quindi osservare un interscambio quasi automatico di suffragi. Di grande interesse l’andamento elettorale presentato dal Movimento 5 stelle. Il M5S alle regionali 2013 aveva ottenuto 7.100 voti ( 1,90%) saliti vertiginosamente il 4 marzo a 34.001 ( 8,75%). In occasione delle elezioni regionali 2018 il diavolo però ci mette la coda sotto le vesti del consigliere Kollesperger il quale giudicando il Movimento “troppo rigido” ha promosso una propria lista. Kollesperger ha ottenuto 43.315 voti pescando di conseguenza sia nel bacino del M5S sia in quello dei partiti indipendentisti che abbiamo verificato aver fatto registrare un netto calo. Il M5S, al 21 ottobre, si è fermato a 6.670 voti (1,74%). Un esempio evidente delle possibilità di spostamento elettorale che possono verificarsi sul terreno di quella che è stata definita “antipolitica” anche attraverso la personalizzazione. Fenomeni da studiare. Il Partito democratico ha subito una netta flessione dopo che tra le Regionali 2013 e le Politiche 2018 aveva fatto registrare, in controtendenza rispetto al dato nazionale, un sia pur minimo incremento. Andando per ordine: il PD alle Regionali 2013 aveva ottenuto 19.210 voti ( 5,14%), saliti a 20.658 nelle politiche 2018 ( 5,31%) e scesi seccamente a 10.806 nelle regionali 2018 ( 2,82%, un meno 2,32% sul totale degli iscritti fra un’elezione regionale e l’altra). Da notare come alle politiche del 4 marzo 2018 fossero stati conteggiati anche 12.471 voti per LeU. A destra, tra le politiche e le regionali 2018 aumento per Fratelli d’Italia da 4194 a 4883 suffragi, e flessione per Casa Pound scesa da 4418 a 2451. A sinistra mentre per le Regionali 2013 Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani si erano presentati con liste separate raccogliendo rispettivamente 1.134 e 730 voti, nelle Politiche 2018 il bottino di Potere al Popolo era stato di 2.055 voti,alle Regionali 2018 la lista Sinistra Unita ha messo assieme 1.753 voti. In sostanza per quel che riguarda la Provincia di Bolzano i dati più salienti da segnalare sono questi: 1) Calo contenuto dello SVP che pure vede incrinata la propria egemonia; 2) Affermazione effettiva della Lega (in questo caso Nord) soprattutto rispetto all’area del centro – destra 3) Calo secco dei partiti indipendentisti e del M5S (in questo caso rispetto alle politiche) investiti dal fenomeno della Lista Kollesperger che può essere considerata come una vera novità in grado di aggregare consenso 4) Il Partito Democratico, dimezzato anche in questo caso, non fornisce segnali di una qualche vitalità positiva Provincia di Trento Il primo dato da segnalare, al riguardo del voto espressosi il 21 ottobre nella Provincia di Trento, riguarda il diverso andamento,rispetto a Bolzano, nella partecipazione al voto. Le regionali 2013 avevano fatto registrare un totale di voti validi di 237.539 pari al 57,00% degli aventi diritto, numero di suffragi impennatosi nell’occasione delle politiche del 4 marzo 2018 fino a 313.239 (76,68%) e ridisceso nelle Provinciali del 21 ottobre a 251.786 (58,59%), in lieve incremento percentuale (1,59%) da un’elezione Provinciale all’altra. Se ne deduce che le elezioni Provinciali sembrano suscitare minore interesse di quelle Politiche, a differenza di quanto verificato nella provincia contigua. Anche nella provincia di Trento il dato più saliente appare quello conseguito dalla Lega Nord in questa occasione Lega Salvini Trentino): nel 2013 il Carroccio si era attestato su 14.768 voti (3,54% sul totale degli aventi diritto); alle provinciali 2018 questa cifra è salita a 69.116 voti (15,84% sempre sul totale degli aventi diritto. Domani i giornali parleranno di 30% ma si tratta di una illusione ottica causato dalla diminuzione nel numero dei voti validi). Difatti alle politiche del 4 marzo la Lega aveva ottenuto 83.510 voti pari al 20,44% sul totale degli aventi diritto. L’impressione più significativa rispetto al voto della Lega rimane quella di una redistribuzione all’interno del centro – destra. Infatti Forza Italia pervenuta a quota 10.495 alle provinciali 2013 e risalita a 26.517 in occasione delle Politiche del 4 marzo si è trovata ridotta nelle provinciali del 2018 a 7.204 voti ( 2,81 sempre sul totale degli aventi diritto). Parabola particolare quella realizzata dal M5S in questa occasione. Nel 2013 il Movimento aveva raccolto 13.889 voti pari al 3,33%; Politiche 2018 74.685 ( 18,28%) e capitombolo alle provinciali con 18.437 voti (4,24%, incremento dello 0,91% rispetto al 2013). Risultato a montagne russo determinato sia dall’andamento delle vicende di governo, sia dalla particolarità della competizione locale. Deciso il calo del PD che aveva messo assieme nel 2013 52.412 voti ( 12,57%) risalendo a quota 61.011 il 4 marzo 2018 ( 14,93%) e abbassandosi invece adesso a 35.530 ( 8,18%, un meno 6,75% sempre riferito al totale delle iscritte/i nelle liste elettorali aventi diritto). Più contenuta la flessione del Partito Trentino – Tirolese, passato dai 41.689 voti del 2013 ( 10,00%) a 32.109 del 2018 ( 7,47%). Netto calo invece per i più importanti partiti autonomisti dopo il PATT: UPT scende da 31.653 voti a 10.150 e PT da 21.450 voti a 8.248. Buon risultato per Futura 2018, partito europeista presente per la prima volta che recupera quasi per intero la somma di voti delle liste fiancheggiatrici del PD alle elezioni politiche : 19.850 voti il 4 marzo per più Europa, e la lista Lorenzin; , 17.670 voti il 21 ottobre per Futura 2018. A destra Fratelli d’Italia era passata tra le provinciali 2013 e le politiche 2018 da 3.699 voti a 10.466 per tornare a 3.686 nelle provinciali 2018 ( 0,85%), caduta secca per Casa Pound scesa tra Marzo e Ottobre da 3.142 voti a 1.215. A sinistra si passa dai 4.286 voti di Sel nel 2013 ai 9.334 di Leu a Marzo 2018 ridotti in ottobre a circa un terzo: 3.560 mentre Rifondazione Comunista aveva ottenuto 2.742 voti nel 2013, suffragi saliti a 3.649 con Potere al Popolo nelle politiche 2018 riassestasi a quota 2.101 con la lista “Altro Trentino” nelle provinciali 2018. Da notare, ancora i 5.306 voti ottenuti dalla lista dell’UDC e la crescita della lista civica Trentina da 5.060 voti nel 2013 a 11.777 nel 2018 (da 1,21% a 2,67%, raddoppio anche in percentuale). Nel complesso si può notare, in conclusione, la diversità tra le due province al riguardo della partecipazione al voto tra le politiche e le provinciali che hanno richiamato un maggior numero di elettrici/elettori a Bolzano, la crescita della Lega da un’elezione provinciale all’altra che si verifica soprattutto come travaso di voti all’interno del centro – destra, la caduta del M5S tra le elezioni politiche e quelle provinciali che si verifica anche a Trento dove non sono state presenti liste di fuoriusciti come è successo a Bolzano con grande successo, la caduta delle liste autonomiste (o indipendentiste come nel caso di Bolzano), il calo costante del PD che nel complesso della regione lascia, da un’elezione provinciale all’altra, circa 26.000 voti tra Trento e Bolzano.

sabato 20 ottobre 2018

Altrove si può: il Portogallo aumenta la spesa pubblica nonostante il deficit - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

Altrove si può: il Portogallo aumenta la spesa pubblica nonostante il deficit - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali

A sinistra: da dove ripartire? – Ragioni politiche

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Franco Astengo: Nazionalizzazioni

NAZIONALIZZAZIONI di Franco Astengo La sinistra massimalista scende oggi in piazza per reclamare che” nell’agenda politica del governo e del parlamento torni di forza la questione della nazionalizzazione dei servizi, delle aziende e delle infrastrutture strategiche del paese. Non solo. L’intero sistema di welfare, devastato dai tagli, dalle privatizzazioni e dalle esternalizzazioni del personale, deve tornare in mani pubbliche per riaffermare la priorità degli interessi collettivi rispetto a quelli privati.”. Come si può notare si tratta di un tema molto complesso da declinare in forma articolata al riguardo del quale andrebbe aperta una riflessione approfondita partendo ad alcuni elementi che non possono, nell’essere affrontati, subire semplificazioni: Qual è l’obiettivo della nazionalizzazione di alcuni settori? Forse quello dell’apertura di una fase di transizione a un sistema diverso da quello della democrazia parlamentare in crisi? Il tema delle nazionalizzazioni si pone, infatti, di fronte a due questioni decisive: la prima riguarda la forma dello stato dentro la quale si sviluppa un sistema di nazionalizzazione di settori strategici. Al riguardo sviluppo soltanto un esempio, quello del rapporto tra il Centro del sistema cioè lo Stato nelle sue articolazioni istituzionali e burocratiche e la Periferia, cioè il sistema degli enti locali. Limitati a questo punto gli interrogativi sarà il caso allora, tanto per fornire alcuni spunti, di compiere qualche passo all’indietro nella storia d’Italia. 1) La storia d’Italia offre due modelli di nazionalizzazione nei settori decisivi della produzione industriale e nella diffusione del welfare. Il primo è stato il modello corporativo. Il corporativismo cattolico ispirò lo “Stato corporativo” fascista, sorto nel 1922. I principi generali del nuovo ordinamento erano enunciati nella Carta del Lavoro, varata nel 1927 e posta a cardine del criterio che doveva presiedere “all'interpretazione e all'applicazione della legge”. In questa struttura il corporativismo si concretò nel riconoscimento, per ogni categoria professionale, di un sindacato unico e obbligatorio (chiamato corporazione), inserito nell'organizzazione politico-amministrativa statale retta dal partito unico e dotato di prerogative consacrate dalla legge (come la rappresentanza legale della categoria, la potestà normativa e tributaria, ecc.). L'organizzazione corporativa fascista era dunque ispirata all'esigenza di inglobare l'attività economica nell'apparato burocratico statale, col duplice scopo di appoggiarsi ai centri del potere finanziario e di eliminare, con lo spegnimento della dialettica di classe, l'opposizione di un proletariato per decenni educato dal socialismo. Il regime tentò di realizzare in tutte le implicazioni l'idea corporativa, con una serie di disposizioni legislative che si susseguirono dal 1926 al 1939. All'istituzione effettiva delle corporazioni si giunse solo nel 1934, mentre già dal marzo 1930 era stato reso operante il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, quale organo supremo di collegamento e di rappresentanza di tutte le categorie della produzione unitariamente considerate. Punto d'arrivo del tentativo di trasformare lo Stato in senso corporativo fu l'istituzione nel 1939 della Camera dei fasci e delle corporazioni, assemblea rappresentativa suprema del popolo italiano – composta da membri di diritto del partito e da organi corporativi – in sostituzione della Camera dei Deputati. Le controversie di lavoro facevano capo alla Magistratura del Lavoro, che vedeva allargato il suo campo anche al legislativo con potere di emanare norme interessanti intere categorie. L'Iri nacque come ente temporaneo durante il periodo fascista con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una "Sezione finanziamenti" e una "Sezione smobilizzi". Il nuovo istituto assorbì innanzitutto l'Istituto di Liquidazioni. Poi nel 1934 l'IRI stipulò con le tre banche, Commerciale, Credito e Banco di Roma, tre distinte convenzioni con cui gli istituti di credito cedevano all'IRI le proprie partecipazioni industriali e i crediti verso le imprese, in cambio di liquidità, necessaria a proseguire l'attività bancaria. Conseguentemente furono trasferite all'IRI, e poi messe in liquidazione, la Sfi, la Società Elettrofinanziaria e la Sofindit. Le partecipazioni furono infine trasferite all'IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d'Italia il capitale ricevuto per acquisire le finanziarie. Una volta trasferite le quote all'Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L'operazione fu l'applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l'INA, ovvero l'organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano a impiegare in reali processi di sviluppo. In questo modo l'IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporaneamente proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano con aziende come Ansaldo, Terni, Ilva, SIP, SME, Alfa Romeo, Navigazione Generale Italiana, Lloyd Triestino di Navigazione, Cantieri Riuniti dell'Adriatico. Si trattava, in effetti, di grandi aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse pubbliche. Inoltre, l'IRI possedeva le tre maggiori banche italiane. Nel 1934, il valore nominale del patrimonio industriale italiano era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all'ente figuravano: la quasi totalità dell'industria degli armamenti i servizi di telecomunicazione di gran parte dell'Italia un'altissima quota della produzione di energia elettrica una notevole quota dell'industria siderurgica civile tra l'80% e il 90% del settore di costruzioni navali e dell'industria della navigazione Nel complesso, con la costituzione dell'Iri il 21,49% del capitale delle società italiane esistenti al 31 dicembre 1933 era, direttamente o indirettamente, controllato dall'Istituto. Inizialmente era previsto che l'IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con alcune imprese del settore elettrico (Edison e Bastogi) e tessile[4], che furono cedute ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l'IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d'Etiopia. Per finanziare le sue aziende l'IRI emise negli anni trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L'IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l'Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le "caposettore") che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1934 nacque la STET, nel 1936 la Finmare, e nel 1937 la Finsider, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica. Nel dopoguerra la sopravvivenza dell'Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo Stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l'IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo. Solo dopo il 1950 la funzione dell'IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l'IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un'alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l'IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in "supplenza" dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell'industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell'Autostrada del Sole, iniziata nel 1956. Negli anni sessanta, mentre l'economia italiana cresceva ad alti ritmi, l'IRI era tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula IRI" come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione" perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato. In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori. L'IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell'Italsider di Taranto e quella dell'AlfaSud di Pomigliano d'Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro. Per evitare gravi crisi occupazionali, l'IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i "salvataggi" della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l'acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell'Istituto. Nel 1982 il governo affidò la presidenza dell'IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell'IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. La ristrutturazione dell'IRI durante la presidenza Prodi portò a: la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l'Alfa Romeo, privatizzata nel 1986; la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali; la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat; lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica; la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, operazione che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi, che avanzarono un'offerta alternativa per bloccare la vendita. L'offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME). Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l'IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò: «(Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti.» (S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007) È comunque indubbio che in quegli anni l'IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di "privatizzazioni”, poi realizzate con la chiusura dell’Istituto. 2) Il secondo modello presente nella storia d’Italia fu dunque rappresentato dal sistema a “economia mista” attuato nel periodo intercorso tra la ricostruzione nell’immediato dopoguerra e l’avvento del centrosinistra all’inizio degli anni’60caratterizzato del processo di cosiddetta “Pianificazione Economica. Un processo ideato dal Governo presieduto da Amintore Fanfani e proposto durante il discorso programmatico pronunciato alla Camera dei Deputati il 2 marzo 1962. Fanfani per la prima volta presiedeva un Governo di Centro – Sinistra, che comprendeva: democristiani, socialdemocratici e repubblicani; mentre il Partito Socialista Italiano si asteneva sul voto di fiducia dopo che in precedenza, nel 1960, lo stesso PSI si era astenuto di fronte ad un governo monocolore democristiano (quello delle “convergenze parallele” considerato che contemporaneamente si era avuto l’astensione dei monarchici) presieduto dallo stesso Fanfani che aveva chiuso la tragica parentesi del governo Tambroni appoggiato dall’MSI e respinto in piazza, con un bagno di sangue, nel corso dei moti del Luglio 1960. Erano questi gli anni che gli storici definivano come “boom economico”; quindi pianificare e programmare economicamente lo Stato diventava una priorità per il Governo e i partiti della nuova coalizione di Centro – Sinistra. Il programma economico del governo veniva presentato dal Ministro repubblicano Ugo La Malfa, il quale sottolineava la necessità di una pianificazione economica concordata sia con i sindacati sia con gli industriali. Nel 1962 il Ministro al bilancio la Malfa presentava il documento che prenderà il nome di “Nota aggiuntiva alla relazione annuale di contabilità economica nazionale”. La Nota aggiuntiva tracciava un lucido consuntivo, dei caratteri salienti del processo di sviluppo della fine degli anni ’50. La parte finale della Nota aggiuntiva del Ministro La Malfa segnalava, tra i principali squilibri determinati dalle carenze del passato sviluppo, il persistente squilibrio regionale; lo squilibrio settoriale fra industria da un lato e agricoltura e alcune attività terziarie dall’altro. Per quanto concerneva il Mezzogiorno, la Nota riconosceva che l’intervento straordinario non era stato sufficiente. L’ elaborato, storicamente il testo più importante nel delineare il quadro di economia mista che caratterizzava il periodo (non si entra qui nel merito del rapporto di interscambio con gli USA e il quadro delineato dalla nascente comunità europea in particolare con la CECA), si soffermava sull’anno 1956, analizzando un nuovo Ministero, quello delle Partecipazioni Statali (abolito con referendum popolare nel 1993): questo dicastero aveva il compito di gestire lo sviluppo economico dello Stato , attraverso il controllo di alcune grandi industrie e imprese. Fu da quel momento che il Governo italiano si propose di “entrare” in maniera evidente e chiara nella gestione economica del paese. Fino al 1956 lo Stato gestiva l’ economia italiana attraverso lo sviluppo delle amministrazioni parallele o parastato. Il primo atto di nazionalizzazione fu realizzato agli inizi del 1962 il Governo Fanfani IV ricecendo la fiducia dal parlamento italiano aveva assunto l'impegno di proporre entro 3 mesi dalla fiducia un provvedimento di unificazione del sistema elettrico nazionale. Nella seduta della Camera dei deputati del 26 giugno 1962 fu presentato il disegno di legge di una legge delega che sanciva i principii e le modalità per l'istituzione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica (E.N.E.L.). Enel , a quel punto, acquisiva tutte le attività delle aziende operanti nella produzione, trasformazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, fatto salvo alcune eccezioni, quali gli autoproduttori ovvero aziende che producevano più del 70% di energia elettrica in funzione di altri processi produttivi (a cui successivamente furono equiparate anche le aziende municipalizzate), o le piccole aziende che non producevano più di 10 milioni di chilowattora per anno. A compensazione delle acquisizioni, furono definite le modalità di valutazione del valore delle aziende ed è stato istituito un indennizzo da corrispondere in 10 anni ai creditori al tasso di interesse del 5,5%. Il 1962 è stato considerato un esercizio di transizione in cui tutti gli oneri ed i proventi delle aziende acquisite sono stati trasferiti ad Enel, mentre il 1963 ha segnato il primo anno di esercizio dell'azienda. Nello stesso 1962 il Ministro La Malfa, che come abbiamo visto, aveva già compilato la famosa “Nota aggiuntiva” , istituì una “Commissione nazionale per la programmazione economica” (Cnpe), composta da esperti e rappresentanti delle maggiori organizzazioni di lavoratori e imprenditori. Il lavoro della Commissione doveva assicurare un vero e proprio programma destinato a guidare le azioni di politica economica; la sua composizione aveva suscitato a Sinistra il sospetto che si trattasse di una scelta “modernamente corporativa” , ispirata all’ esperienza francese, avviata da tempo e che veniva rilanciata con il gollismo. La Malfa assicurava la Sinistra della fermezza degli indirizzi che al tempo aveva già adottato proprio nella sua Nota aggiuntiva e la decisione di passare alla direzione programmata dell’economia con una diretta assunzione di responsabilità da parte del Governo. I lavori della Commissione nazionale per la programmazione economica, cominciavano attraverso l’attivazione di una sezione di esperti; venivano riservate per queste sedute plenarie di esperti solo la funzione di raccolta di opinioni. Del resto all’interno del Cnpe si riflettevano tutti i contrasti politici e sociali che emergevano nella società italiana. Un primo rapporto del Vicepresidente della Commissione, Pasquale Saraceno , veniva presentato al Governo nell’ aprile del ’63, poi in un’ edizione riveduta, nel giugno dello stesso anno. Merito del rapporto Saraceno era quello di non essere stato influenzato dall’andamento congiunturale, e di mantenere inalterata la visione dei problemi dell’economia italiana. Dopo un breve preambolo, che veniva dedicato all’indicazione delle prospettive complessive dello sviluppo, il rapporto doveva perseguire tre ordini di finalità: • “assicurare all’economia italiana un alto saggio di sviluppo globale; • eliminare gli squilibri esistenti nel sistema produttivo italiano; • provvedere in modo adeguato a quelle esigenze insoddisfatte, il cui appagamento deve essere direttamente garantito dall’azione pubblica”. La prima parte del rapporto, considerava l’eliminazione degli squilibri esistenti nel sistema produttivo. I problemi che si presentavano erano i seguenti: •le forze di lavoro di determinate zone, in gran parte comprese nel Mezzogiorno, devono in proporzioni eccessive ricercare all’infuori dell’area in cui risiedono le possibilità di un utilizzo pienamente produttivo; • il reddito delle forze di lavoro e, in generale, le condizioni del lavoro agricolo presentano, rispetto al complesso degli altri settori, uno scarto eccessivo. . Un secondo gruppo di problemi si riferiva al fatto che le fondamentali attività culturali, scientifiche e formative che si svolgevano nel paese, non disponevano di strutture organizzative e non ricevevano l’ammontare di risorse che sarebbero state necessarie per consentire a esse, uno sviluppo adeguato al livello di reddito raggiunto nel Paese. La parte terza della relazione, illustrava lo sviluppo dei servizi fondamentali di pubblica utilità: energia, trasporti, comunicazioni. La quarta parte, riguardava, l’efficienza del sistema: più precisamente, al fatto che alcune zone del paese non erano indotte a conseguire i massimi livelli di produttività che sarebbero consentiti dal progresso tecnico e dalle formule organizzative più avanzate. Mentre veniva spiegata in maniera fugace la quinta parte della relazione Saraceno, che riguardava tre campi d’azione pubblica che interessavano la generalità dei cittadini ed erano: lo sviluppo equilibrato dell’edilizia per abitazione, la sicurezza sociale, nelle sue due grandi branche dell’ assistenza e della previdenza e l’assetto urbanistico. L’ultima parte della relazione, riguardava il modo di recuperare i fondi per attuare l’ intero programma; ruolo fondamentale lo giocava la Cassa per il Mezzogiorno, che aveva il compito di vagliare e finanziare tutti i progetti di sviluppo per il Meridione. La conclusione di Saraceno fu nel segno dell’ottimismo. Infatti, lo stesso scriveva nella relazione: “... L’azione pubblica, doveva essere adeguata non solo alle risorse disponibili, ma anche al ritmo con cui le misure in progetto potranno, rovesciando una tendenza in atto, migliorare la capacità dell’azione pubblica.” La linea di continuità della Nota aggiuntiva e del rapporto Saraceno, veniva seguita dal progetto di sviluppo economico, presentato dal governo Presieduto da Aldo Moro. Il Ministro del Bilancio, Antonio Giolitti , presentava alla Commissione nazionale per la programmazione economica il piano del governo per il quinquennio 1965 – 69. Il Piano era concepito come un insieme di decisioni di politica economica da assumersi in sede di Governo e da sottoporre al Parlamento. La novità del Piano Giolitti, rispetto ai precedenti documenti, risiedeva nel tentativo di giungere al momento della definizione delle decisioni di riforma o di investimento che dovevano incidere non nel medio periodo ma nell’immediato. I rapporti con il sistema delle imprese venivano affrontati sulla base di una premessa molto chiaramente formulata: “Il problema di programmazione si compie in una economia mista, nella quale coesistono centri di decisione pubblici e privati, ciascuno dei quali è dotato di una propria sfera di autonomia. Il programma non investe ovviamente la sfera di autonomia dei vari centri se non nella misura in cui coordinamenti e vincoli si rivelano necessari per la realizzazione delle sue finalità” . Per le imprese pubbliche si precisava: “...Una responsabilità riguardante la conformità delle loro decisioni agli obiettivi del programma per un esame preventivo dei programmi specifici e un esame consuntivo dei risultati”. Il documento continuava chiarendo, che le grandi imprese private, quelle cioè le cui decisioni, potevano influire sensibilmente sulla destinazione e ripartizione delle risorse, dovevano comunicare i programmi d’investimento agli organi di programmazione, ai fini di un accertamento della loro conformità agli obiettivi del programma. Per le imprese pubbliche si affermava, inoltre, la necessità di rafforzare i poteri di decisione del governo rispetto alle imprese a partecipazione statale e questo, doveva avvenire attribuendo al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) il potere di approvare i programmi annuali e pluriennali degli enti di gestione delle partecipazioni statali. Il Piano Giolitti continuava facendo notare la scarsa esperienza del Ministero delle Partecipazioni Statali di orientare i programmi delle maggiori imprese pubbliche; si proponeva quindi, la revisione della struttura organizzativa delle imprese a partecipazione Statale, sulla base di grandi gruppi integrati come l’Iri e l’Eni, e inoltre veniva proposto il rafforzamento del controllo del Governo sulle imprese a partecipazione dello Stato. Anche il Ministro Giolitti, nella relazione che illustrava il suo Piano, parlava di Mezzogiorno; egli concentrava la maggior parte delle risorse dello Stato, per garantire la massima industrializzazione nelle aree maggiormente suscettibili di sviluppo. La maggior parte degli investimenti arrivavano al Sud del paese, attraverso progetti finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. Nel 1964, la Commissione nazionale per la programmazione economica, veniva interamente sostituita dall’ “Ufficio del Programma”, era sicuramente una struttura più agile nella quale, intorno al suo Presidente Giorgio Ruffolo , si raccoglievano alcuni dei migliori esponenti della cultura economica dell’epoca; una leva di giovani intellettuali soprattutto di area socialista. Emergevano nel frattempo, profonde fratture tra il nuovo Ufficio per la programmazione e la Ragioneria Generale dello Stato, tensioni, che si manifestavano, a causa delle competenze che essi dovevano avere nel campo economico. L’Ufficio presieduto da Ruffolo, abbozzava il proprio rapporto senza consultare la Ragioneria Generale dello Stato. Era giunto il momento del “tintinnar di sciabole”: Nel luglio del 1964, in un clima politico turbato dalla destra economica contro la politica di programmazione, il primo Ministro Moro, rassegnava le dimissioni prendendo a pretesto la questione del finanziamento delle scuole private e, di conseguenza, anche il Ministro del Bilancio Giolitti, lasciava il suo incarico. Il successivo governo, presieduto ancora da Aldo Moro, aveva come nuovo Ministro del Bilancio Giovanni Pieraccini. Si apriva una nuova fase, nella quale gli obiettivi e i metodi della programmazione sembravano più sbiaditi e, soprattutto, erano meno capaci d’influenzare l’attività del Governo nel suo complesso. Il 1964 fu l’anno della “congiuntura” ma si può affermare che il processo di dismissione dell’intervento pubblico in economia che poi negli anni’90 avrebbe portato alla dismissione dell’IRI e all’adozione di un processo di tipo compiutamente liberista, anche in coincidenza con il mutarsi del quadro di relazioni internazionali, si era già avviato in quel momento, oltre 50 anni fa in quel luglio davvero difficile, caratterizzato anche dal malore che portò alle dimissioni del presidente della Repubblica Segni, fiero avversario della politica di programmazione; 3) Come si collocò il PCI rispetto alla dinamica impressa dal centro-sinistra al tema dell’intervento pubblico in economia e della programmazione ?Alcuni contributi storiografici hanno voluto fornire nella loro ricostruzione un’immagine del PCI tale da raffigurarlo come radicalmente ostile a qualsiasi forma e azione di piano e di programmazione dell’economia in un contesto di regime capitalistico. Piuttosto che dell’assenza della tematica del piano, per il PCI del dopoguerra bisognerebbe parlare, semmai, di un diverso livello di maturazione e di elaborazione di tale tematica rispetto a quella – anch’essa da taluni ignorata o minimizzata – avanzata e fatta propria dai comunisti italiani negli anni Sessanta (discorso, questo, tranquillamente estendibile allo stesso PSI, viste le ovvie e scontate divergenze tra l’elaborazione morandiana intorno al piano socialista e quella lombardiana e giolittiana agli albori del centro-sinistra). È certamente vero che, nonostante le riflessioni togliattiane a proposito del Piano De Man, nei fatti la tematica della programmazione economica non emergerà chiaramente e con forza se non in seguito al 1956, anno in cui prenderà avvio la delineazione della “via italiana al socialismo”. In seguito la riflessione del gruppo dirigente del PCI nella fase del boom economico troverà un primo momento di sistematizzazione nel 1962 in occasione del noto convegno dell’Istituto Gramsci su “Le tendenze del capitalismo italiano”. Quella riflessione si sviluppò a partire dalla qualificazione della trasformazione realizzatasi in quel periodo, come espansione economica «monopolistica». Malgrado però questo comune nucleo analitico, ovvero il riconoscimento del passaggio compiutosi da «paese agrario- industriale» a «industriale- agrario», fu sulle caratteristiche specifiche di questa trasformazione – e in particolare sul rapporto tra modernizzazione e arretratezza nelle strutture del capitalismo italiano – che vene a originarsi all’interno del PCI una profonda divaricazione politico-strategica destinata ad acutizzarsi nella fase post- togliattiana (con l’XI congresso come apice dello scontro) segnando la vita interna del partito per l’intero decennio – fino, grosso modo, alla radiazione del gruppo del “Manifesto”. Il gruppo del “Manifesto” infatti aveva sviluppato uno dei due approcci espressisi nel già citato convegno del 1962 portandolo fino ad un livello di elaborazione tale da provocare (assieme ad altre cause ovviamente9 la rottura con il Partito. In quel Convegno, sul quale si sofferma la nostra attenzione, risultò evidente infatti che era solo in base alla profondità della trasformazione operata dal miracolo economico e alla sua capacità di compiere o meno un salto rispetto alla trama del blocco storico dominante individuato dall’analisi gramsciana (industriali del Nord/latifondisti del Sud) che poteva essere definita e impostata in termini strategici la linea di condotta del partito. Da un lato, rivedendo gli atti, troviamo la linea tratteggiata dalla relazione di Amendola, il quale, ritenendo che «l’originalità della situazione italiana [fosse] data da questo precoce scoppio delle contraddizioni proprie di una società capitalistica avanzata in un paese che non ha ancora risolto le contraddizioni create da uno sviluppo ritardato e distorto del capitalismo». Amendola sembrava così rimanere fedele alla tradizionale idea gramsciano - togliattiana del completamento della rivoluzione democratico- borghese da parte della classe operaia e delle sue organizzazioni politiche. All’interno di questa impostazione, finalità socialista e funzione nazionale (quest’ultima intesa nel senso di quella modernizzazione delle strutture civili del paese che il blocco sociale dominante giudicandolo incapace di realizzare) si trovano a coincidere, concependo conseguentemente la politica delle alleanze come unione di tutti gli interessi offesi, sia dentro sia fuori la fabbrica, dallo strapotere dei monopoli sull’economia italiana. Il blocco sociale così delineato, composto cioè dall’alleanza fra la classe operaia e l’insieme dei piccoli produttori, rappresentava nei fatti la prosecuzione della natura “popolare” del blocco storico già definita da Togliatti nella sua elaborazione, fin dal VII congresso dell’Internazionale comunista. Dall’altro lato invece, gli esponenti della sinistra interna – chi più, chi meno, raccolti attorno alla figura di Pietro Ingrao – come Banfi, Magri e Trentin, pur condividendo l’idea della natura duale della struttura economica italiana, più che sugli elementi di arretratezza posero l’accento sulla modernità dei problemi e delle contraddizioni che il boom stava generando. Contraddizioni tali da inserire l’Italia nel novero dei paesi capitalisticamente maturi e da porre in primo piano non l’obiettivo di una modernizzazione – pur orientata in senso socialista – ma di un vero e proprio ribaltamento del modello di sviluppo. Fu perciò :”la coscienza della «generalizzazione del potere impersonale del capitale […] sull’insieme della società e su tutti i settori della vita civile», della trasformazione dei monopoli da «elemento anomalo e parassitario» a principio «ordinatore e propulsore», dell’estendersi degli effetti del conflitto tra capitale e lavoro ben aldilà della sola realtà di fabbrica”, a condurre i teorici della sinistra interna a considerare insufficiente nella nuova fase non stagnazionistica del capitalismo italiano la semplice lotta antimonopolistica. Appariva così indispensabile la prefigurazione di un’organizzazione sociale alternativa, dettata dall’evoluzione stessa della stratificazione sociale. Evoluzione che vedeva cioè modificarsi profondamente il concetto stesso di “ceti medi”, espressione sempre meno legata alla figura del piccolo produttore autonomo, e sempre più volta ad indicare, al contrario, quella gran varietà di figure professionali ingenerate dalla produzione di massa, sottomesse al salario, ma differenziate per funzioni, cultura e reddito. In presenza di una simile differenziazione, l’estremo corporativismo connesso alle rivendicazioni più immediate di ciascuna categoria imponeva il superamento di una politica delle alleanze basata su una «semplice convergenza con le rivendicazioni delle categorie non monopolistiche» propria del vecchio riformismo». Ciascuna delle due diagnosi proposte in quel convegno proponevauna propria peculiare ricaduta sulle caratteristiche politica di piano da adottare. E se l’approccio antimonopolistico propugnato da Amendola poteva essere definito statalistico - riformatore , volto cioè ad un’azione di democratizzazione degli strumenti del capitalismo di Stato supportata da ampi movimenti di massa, quello della sinistra interna gravitante attorno all’idea ingraiana del «nuovo modello di sviluppo» assumeva invece una connotazione più marcatamente tesa a riconoscere al conflitto industriale e ai suoi momenti di istituzionalizzazione un ruolo più incisivo nella definizione del contenuto e degli obiettivi della programmazione. Se però quest’ultimo approccio risultava più attento alle trasformazioni d ella composizione sociale e alle nuove contraddizioni che a queste erano connesse, l’elemento della modernizzazione nell’analisi della nuova struttura economica tendeva forse ad assumere una valenza quasi idealistica, esagerando e sovrastimando la capacità unificatrice del neocapitalismo italiano e sottovalutando la permanenza e la non risoluzione degli squilibri storici, come ad esempio quello tra regioni settentrionali e regioni meridionali. Come è noto, l’XI congresso avrebbe sancito il prevalere delle posizioni amendoliane e dell’ idea della programmazione democratica, sulla base della quale sarebbe stato elaborato il progetto di “compromesso storico” esplicitamente poi appoggiato anche dal sindacato con l’idea della moderazione salariale contenuta nella cosiddetta “linea dell’Eur” e con l’accettazione della proposta di “austerità”. In questo modo però rispetto allo scopo di questo intervento ci si rivolge troppo in avanti nel tempo ed è bene fermarsi a questo punto. In conclusione:in questa sede si è cercato semplicemente di riassumer alcuni dei passaggi fondamentali sul piano storico verificatisi all’interno della riflessione politica italiana del ‘900 attorno ai temi delle nazionalizzazioni e dell’intervento pubblico in economia. Come si può notare emergono elementi di grande attualità rispetto alle questioni che la stessa manifestazione odierna sulle nazionalizzazioni pone, pur in presenza di elementi affatto diversi rispetto all’epoca in cui queste argomentazioni si sviluppavano. Internazionalizzazione dei processi, innovazione tecnologica, scompaginamento sociale, velocità comunicativa rappresentano naturalmente gli elementi di novità sui quali riflettere, ma forse rimane utile svolgere uno sguardo alle fasi più lontane di una vicenda italiana che rimane di grande interesse. In questo lavoro è stato trascurato un elemento forse dirimente: “nazionalizzazione” implica “nazione”. Ne riparleremo.

giovedì 18 ottobre 2018

“Toward a New Social Contract”: uno studio della Banca Mondiale sulle diseguaglianze - Pandora Rivista

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«Siamo all’anno zero della sinistra italiana» — Intervista con David Broder

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Franco Astengo: Diversità

DIVERSITA’ di Franco Astengo Non è facile declinare in politica il tema di una propria conclamata “diversità soggettiva” senza scivolare nell’arroccamento di una sorta di moralismo che può generare l’idea di una “supremazia di valore” fino al punto di essere fonte odio per il “diverso” e sospetto per tutto ciò che si muove al di fuori della propria sfera, ritenuta intangibile. La “diversità” infatti, è questione di collocazione nella struttura del sistema politico ponendosi sul terreno di un “piano sistemico” e non certo di una “auto proclamazione” a priori. Si ricorda la "diversità" berlingueriana: una "diversità" la cui interpretazione corrente all’epoca nacque , è bene ricordarlo, non tanto per rivendicare una "alterità" nei fini (che rimanevano comunque rivoluzionari) ma soprattutto dalla presa di distanza, secca e inequivocabile, dalla degenerazione che il sistema dei partiti stava attraversando, dopo che erano entrate in scena "decisionismo" e "personalizzazione". In quel tempo (ci trovavamo all’inizio degli anni’80) si prospettava una grande riforma in senso presidenzialista e si attaccava direttamente il sistema politico fondato sui grandi partiti di massa (emergevano già allora fenomeni di corruzione in sede locale, da Torino a Savona, dovuti proprio all'iniezione, nel corpo dei partiti, segnatamente in quelli economicamente più deboli, di quel virus della "antipolitica" che poi avrebbe trovato largo spazio e seguito). Virus dell'antipolitica il "decisionismo" e la "personalizzazione" ? Molti avranno da obiettare. Eppure è da questo elemento che è necessario partire per riflettere al meglio sull'intreccio perverso tra questione politica e questione morale e di conseguenza ricercare le ragioni fondative di una “diversità”. Il cedimento più evidente è avvenuto nella fase di avvio dell’infinita "transizione italiana", all'inizio degli anni'90, quando si scambiò l'idea della "governabilità" con quella della "rappresentanza", consentendo - al momento dell'implosione dei grandi partiti di massa - l'entrata in scena del soggetto "partito-azienda" che avviò la trasformazione completa delle coordinate di fondo sulle quale si era fino ad allora retto il sistema politico italiano. Non ci si è accorti di questo mutamento del tutto - ripetiamo - strutturale e del fatto che i punti di trasformazione del sistema, dalla formula elettorale maggioritaria, alla personalizzazione, all'elezione diretta, al "partito liquido", alla "vocazione maggioritaria" si collocavano, nello specifico del "caso italiano" in maniera affatto diversa da altri sistemi in cui certi meccanismi erano vigenti. Il tutto in coincidenza con una crisi profonda della cosiddetta “democrazia liberale” anche a livello internazionale e il pratico fallimento dei soggetti sovranazionali che avrebbero dovuto rispondere a quella crisi. Non si sono affrontati i nodi che, sciolti, avrebbero potuto davvero "occidentalizzare" il sistema politico italiano (dato e non concesso che questo fatto potesse risultare positivo) come quello "macroscopico" del conflitto di interessi e ci si è incamminati sulla strada di una progressiva "orientalizzazione" nel senso indicato a suo tempo dal prof. Sartori, del "sultanato". E’ partita da lì una complessiva degenerazione del sistema. Sistema reso ancor più fragile da eclatanti fenomeni di distacco di massa resisi evidenti in diverse forme e non soltanto nella crescita dell’astensione. E’ mancata una seria riflessione autocritica su questi punti che sono stati quelli sui quali si è avventato un vortice di denaro, sono saliti all'inverosimile i privilegi del ceto politico (che doveva essere "assimilato" in questo modo, almeno per la sua maggioranza, sempre sensibile a questo tipo di sirene) si è annullato il voto di appartenenza e quello d’opinione ha ceduto il passo al “voto di scambio” praticato su scala di massa. A un certo punto sono arrivati addirittura i “contratti di governo” stilati apposta per consentire l’espressione di promesse legate – appunto – al “voto di scambio”. La parabola che sta seguendo il M5S , soggetto sortito esattamente dallo stato di cose fin qui descritto, appare evidente come indicazione della strutturalità del fenomeno e della sua invasività sull’azione politica: la sola risposta che pare si riesca a fornire per continuare a nascondere il processo di omologazione è quella del sospetto e dell’odio attraverso cui il M5S tenta di mantenere per quanto possibile le proprie stimmate di “diversità”. Forse è il caso di riflettere non tanto sul come inoltrarsi ulteriormente all'interno del disastro che si è costruito come da qualche parte si è pur tentati di fare, ma pensando invece a un’inversione di rotta nel senso di aprire al recupero di un radicamento sociale fondato davvero sulle contraddizioni operanti e alla costruzione di un nuovo “soggetto dirigente” (senza paura delle parole) da costruire per via di crescita culturale e politica e non per via di "cooptazione" personalistica, magari suffragata dalla manipolazione via web. Il quadro generale di riferimento dovrebbe essere, a questo punto, quello di porsi prioritariamente l’obiettivo di ritorno a quella democrazia parlamentare che la Costituzione indica come forma del nostro stato repubblicano.

mercoledì 17 ottobre 2018

Will Italy Sink Europe? by Jim O'Neill - Project Syndicate

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La rivista il Mulino: Washington, 17/10/2018

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Povertà, rapporto Caritas 2018: "Nel 2017 in 200mila si sono rivolti a noi, molti i giovani. Al Nord e al Centro più stranieri" - Il Fatto Quotidiano

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Why Italy could be the epicenter of the next financial crisis - Sbilanciamoci.info

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Manovra generica, brindano solo gli evasori - Sbilanciamoci.info

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Il Trentino al bivio? Temi e immagini di una campagna elettorale atipica

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ytali. - Si sfarina quel che resta dei socialisti francesi

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Franco D'Alfonso: Buone notizie dalla Baviera

BUONE NOTIZIE DALLA BAVIERA FELIX Le elezioni bavaresi dimostrano che il cammino politico dell’Europa può essere altro dal PP di Merkel e dal Pse ancora vedovo di Schroeder dei “ compiti a casa” senza passare dai sovranisti alla Le Pen- Salvini. 1) Nel momento decisivo, la Germania si conferma solida democrazia. Va bene essere conservatori e di destra ( e in Baviera lo sono da sempre), ma la deriva xenofoba al dunque si ferma al 10 per cento dell’Afd , molto meno dei sondaggi della vigilia e tre punti meno delle elezioni federali del 2017. La destra sovranista riesce solo ad assorbire interamente il voto attirato dal populismo pauperista “di sinistra”, incarnato in Germania dalla Linke che in Baviera, come sempre, si muove con numeri da prefisso telefonico . 2) La sconfitta della Csu di Seehofer era annunciata dal risultato dello scorso anno, esattamente uguale a quello di domenica, ma la scelta di inseguire gli xenofobi sul loro terreno non ha fatto recuperare ai Popolari nemmeno un voto. 3) Il tracollo della Spd conferma che la posizione di “junior partner” nella Grosse Koalition è una condanna annunciata per la sinistra socialdemocratica. La politica di sostenere in economia le posizioni di Merkel e sui migranti di scavalcarla “a destra”, sostenendo in pratica di “fare le stesse cose della Cdu, ma meglio”, come prevedibile non hanno arrestato il declino; 4) I vincitori incontestabili sono stati i Verdi della giovane leader Katharina Schultze, che hanno conquistato consensi in uscita dalla Spd e soprattutto dall’astensionismo grazie ad una proposta politica apertamente e chiaramente pragmatica, europeista, ma allo stesso tempo legatissima al proprio territorio : lo slogan “ Mi Heimat es tua Heimat” ad un tempo toglie alla destra il monopolio del patriottismo e conferma la scelta inclusiva in un Land dove tutti si ricordano bene che senza gli operai italiani, spagnoli e turchi la Volkswagen non sarebbe mai riuscita ad essere la più grande fabbrica di auto del mondo. 5) Una quota importante dei voti dei Verdi, almeno 4/5 punti percentuali, provengono da una componente cristiano-cattolica che rifiuta anche l’accenno di xenofobia antimigranti dei vertici Csu : sono gli eredi della tradizione di Bohnhofer e della Rosa Bianca, ma anche del vescovato e papato di Ratzinger, conservatori ma né razzisti né antimoderni. 6) L’altro flusso importante di voti in uscita dalla Csu è stato quello verso i Frei Waehler, liste civiche municipali che non si presentano mai alle elezioni nazionali e che attraverso le figure dei sindaci e degli amministratori locali hanno raccolto quasi il 12 per cento , arrivando in molti importanti Comuni oltre il 30 ed a volte il 40 per cento. 7) L’area metropolitana di Monaco ha confermato una maggioranza di centrosinistra come sempre succede dall’inizio della Bundesrepublik , questa volta con i Verdi davanti all’Spd, Anche nella ricca Baviera il rapporto contado- città resta politicamente divaricato. 8) I temi più rilevanti per la scelta del voto sono stati 1) Istruzione 52% 2) Costo delle abitazioni 51%3) Ambiente e cambiamento climatico 49%4) Rifugiati e richiedenti asilo 33% In questi dati si può leggere l’errore dei partiti tradizionali di inseguire AfD sul suo terreno e non dedicare invece sufficiente attenzione ai temi della qualità della vita, soprattutto nella Regione più sviluppata d’Europa . Non è mai bene estrapolare trend come verità assolute, ma qualche conferma alle ipotesi che timidamente ma decisamente qui a Milano stiamo sviluppando le possiamo trovare: a) La risposta alla sfida sovranista di Salvini e populista dei 5stelle non viene dall’inseguire le loro parole d’ordine, ma da una proposta europeista e federalista chiara e pragmatica b) Difendere la Ue degli Stati nazione e dei partiti della Grande Coalizione Popolari-Pse ( in Germania Cdu/ Spd , in Italia Pd/ Forza Italia) è politicamente utile come accodarsi ad un corteo funebre parlando bene del caro estinto c) La valutazione delle priorità per i cittadini nei diversi territori è determinante per orientare le celte politiche in maniera pragmatica : se in Baviera e nel Nord Italia il tema è sviluppo ed ambiente, nel Sud e nella ex Ddr il problema è la tenuta sociale di un territorio depauperato da ricostruire. Non esiste una risposta unica per le diverse situazioni. d) Anche la politica ed i partiti devono riarticolarsi nei territori omogeni e federarsi su un livello europeo. Le mediazioni nazionali sono in questo momento nella migliore delle ipotesi inutili, nella peggiore dannose. Su questo e altro ci si deve confrontare. Noi continueremo a farlo, anche a Verbania il 27 ottobre nell’incontro “Passaggio a Nord Ovest”.

Officina dei saperi | Riace. Voucher, sconti fiscali a scadenza, Tax Anticipation Notes

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martedì 16 ottobre 2018

L’Economia al tempo dei social network e il tramonto dei tecnici - micromega-online - micromega

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Cosa c'è nel Documento Programmatico di Bilancio - Lettera43.it

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Il successo dei Verdi in Germania riaccende la sinistra - Lettera43.it

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Perché la #ManovraDelPopolo non è Keynesiana | Keynes blog

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Sergio Cesaratto: Regole per chi?

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I numeri dicono che la flat tax non si finanzia da sola | A.Caruso e F. Mazzolari

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giovedì 11 ottobre 2018

Brasile, il boom di Bolsonaro (e le incognite del ballottaggio) - YouTrend

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Watch: The Future of the Left in the Americas | Dissent Magazine

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Genova e la storia di una privatizzazione - Sbilanciamoci.info

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Contratto a tutele crescenti incostituzionale - Sbilanciamoci.info

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Disoccupazione occultata dai lavoretti - Sbilanciamoci.info

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L’occasione persa della Nota di aggiornamento al DEF - Sbilanciamoci.info

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mercoledì 10 ottobre 2018

Bernie’s New Internationalist Vision

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Manovra economica, debito e crescita in Italia | Economia e Politica

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La rivista il Mulino: Che cosa aspettarsi dalla manovra economica

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Italy And The New Eurozone Risk Morphology • Social Europe

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La povertà in Italia secondo l'Istat - Lettera43.it

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L’impossible équation italienne - Telos

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sabato 6 ottobre 2018

Franco D'Alfonso: Chiacchiere e distintivo

CHIACCHIERE E DISTINTIVO Il governo giallo verde ha consolidato questa tipologia di dibattito politico qualsiasi sia l’argomento in discussione : non era mai successo che si discutesse per giorni su tutti i media del mondo di questioni serissime come il crollo del ponte o la politica economica del governo scritta senza avere non dico una riga scritta, ma una idea strutturata di che cosa verrà messo nero su bianco in un provvedimento ufficiale di una Repubblica che rappresenta pur sempre l’ottava economia più grande al mondo. Rimando ogni valutazione sulla questione del giorno, il misterioso Def, alla nota sui 120 giorni di governo che invierò dopo il 4 ottobre, scadenza di tale termine, proprio per cercare di concentrare questa nota su questo inspiegabile minestrone collettivo che ha visto tutti, ma proprio tutti inventarsi ingegneri strutturisti in agosto, gestori di fondi investimento in settembre e chissà cosa altro in ottobre.. Si tratta di una tecnica precisa, che ha il pregio, dal punto di vista di chi la avvia, di dettare non solo l’agenda del dibattito, ma anche le argomentazioni e le vie per … sviare il confronto sul merito e buttare tutto in chiacchiere da bar e vociare da stadio, allineando tutti al livello minimo di competenza e pensiero. L’innalzamento dei toni e degli annunci serve a coprire, con difficoltà ovviamente crescente essendo al governo e dunque dovendo prima o poi fare e non dire, l’impossibile coesistenza di due linee politiche inconciliabili, quella di ispirazione liberista dello Stato minimo, diventata in Italia dello “Stato inutile” e del “non pagare le tasse è giusto” per ..merito del suo vero iniziatore, Silvio Berlusconi; e quella di ispirazione neo-statalista, versione arretrata del centralismo dirigista di una sinistra anni Cinquanta, che sogna il ritorno all’assistenzialismo mascherato da flexsecurity , pensando di risolvere la crisi del welfare socialdemocratico riportando indietro le lancette dell’orologio della storia. La tuttora disorientata opposizione di centrosinistra ( della quale chi scrive sente di essere parte, disorientamento compreso) è caduta subito nella trappola e si è tuffata nella discussione basata sul nulla, finendo per ripresentare come valide solo le fallimentari ricette del recente passato e di arrestare sul nascere le ancora embrionali ricerche di una nuova proposta politica. Il flebile suono delle voci che si intuiscono provenire dal campo di Agramante della sinistra sembra sempre il medesimo : da una parte quelle convinte della giustezza delle politiche dei recenti governi pd, che si centrano sull’irrealizzabilità delle promesse carioca e sulla speranza che sia ancora una volta il voto dello spread a far passare il mazzo di mano; dall’altra i cultori dell’anima di sinistra del populismo, che considerano i Cinquestelle “compagni che sbagliano” da far prima ricredere e poi redimere. In pratica, le stesse illusorie e fallimentari idee che hanno portato alla sconfitta contemporanea e definitiva delle “due sinistre” alle elezioni del 4 marzo ed il pensiero che la tattica delle alleanze - gli uni con il centro-destra, gli altri con una sinistra di popolo sempre immaginata e mai palesatasi – possa sostituirsi alla strategia ed alle idee di una politica chiara e comprensibile . Non si è ancora capito, probabilmente, che il connubio gialloverde si è ormai ritrovato su un piano politico stabile ed irreversibile : le convergenze sulla politica populista, antieuropeista, sovranista si inseriscono in un filone internazionale che va da Trump a Putin passando per Boris Johnson e tutti i movimenti “sovranisti” europei e, come le tempeste tropicali, attinge forza dal calore del mare e dal freddo dell’aria e si può esaurire solo scaricandosi, non certo retrocedendo a forti venti e mare calmo. I gialloverdi prendono forza proprio scaricando il giusto e l’ingiusto sui vecchi nemici, sui governi Pd e sull’Europa, risultando nel breve periodo sul piano dei consensi assolutamente e nuovamente vincenti. Sono andati troppo avanti per pensare che le contraddizioni interne possano portare alla spaccatura, ormai i gialloverdi “simul stabunt, simul cadent”. Meglio faremo, a sinistra, a fare i conti con il fallimento simultaneo che c’è già stato, quello delle politiche dei governi Pd e quello della sinistra che non c’è mai ma sempre per colpa degli altri . Personalmente credo che il fallimento delle “due sinistre” abbia un elemento comune, la cieca fiducia nel ruolo di Governo nazionale e nell’Europa come frutto di accordo fra Governi. Il non aver capito che il centralismo, a tutti i livelli, non è una soluzione che permetta di affrontare i problemi indotti da una globalizzazione che ormai salta completamente le dimensioni degli Stati nazionali e proietta effetti diversissimi su territori contigui è uno degli errori che abbiamo commesso. La sconfitta nel referendum costituzionale , al netto di tutti gli aspetti legati alla personalizzazione, rappresentò il fallimento dell’ultimo tentativo possibile di dare una soluzione centralista , guidata da un leader forte e determinato, alla crisi italiana. Ad essere bocciati nuovamente il 4 marzo furono poi gli elementi-cardine della politica del Pd “renziano”: la distruzione sistematica delle autonomie locali in favore di un rafforzamento senza precedenti del potere di Palazzo Chigi, nemmeno dei ministeri ; riduzione delle tasse “lineare” unita alla politica di elargizione di “bonus” sostanzialmente indiscriminata, alla ricerca del rilancio dei consumi interni ; incremento dei trasferimenti alle imprese come misura di rilancio degli investimenti. Questa politica è stata sostenuta da una utilizzazione di fondi pubblici, questa sì “senza precedenti” almeno recenti : si tratta di almeno 44 miliardi di euro in tre anni, di cui più o meno la metà ricavata da un taglio di risorse al comparto degli enti locali ed i restanti utilizzando i margini di flessibilità (anch’essi senza precedenti). Ma l’azione più decisamente mirata ha riguardato la definitiva alterazione dei meccanismi legislativi di gestione ordinaria, trasformando ogni finanziaria, milleproroghe etc in una “roulette” dalla quale potevano uscire i numeri vincenti senza alcuna logica apparente ed al contempo portando a regola l’intervento eccezionale e fuori schema, generalmente annunciato dal premier prima del lavoro degli uffici in una sorte di regime “de iure condendo..” . La nascita e l’uso dell’ Anac di Cantone come garante di questi processi extracorporei - inizialmente per gli appalti e poi anche su altri settori – ha completato sul versante giuridico l’impianto “commissariale” affermatosi in quegli anni. Per nemesi storica, i gialloverdi oggi al Governo utilizzano , maldestramente sul piano amministrativo, magistralmente sul piano della comunicazione elettorale, proprio l’impianto che il centrosinistra di governo ha costruito in questi anni . L’altra sinistra, quella che non c’è, non è mai riuscita a capire ( o più probabilmente non poteva capire ) che il problema non era e non è Renzi ed il suo carattere più o meno simpatico, ma è proprio quello di cambiare il paradigma centralista. Mi si perdoni l’autocitazione, ma le parole che scrivevo nel novembre 2014, in un articolo dal titolo “Cambio di vento o giro di valzer” , sono state purtroppo profetiche e nello stesso tempo sono attuali : “La finanziaria contiene cose di buon senso , qualche utile correzione, qualche nuovo errore ma è sostanzialmente in linea con tutte le ultime finanziarie….. Per ricostruire (..) l'unica via è un grande piano di investimenti pubblici, (…) esattamente come successe nel dopoguerra . Le nuove infrastrutture ed i nuovi investimenti riguardano il risanamento ambientale, idrogeologico , il recupero del patrimonio edilizio esistente, il trasporto su ferro (…) Occorre farlo prima che si disperda la risorsa principale di cui disponiamo in Italia , la cultura delle arti e dei mestieri. E la dimensione di investimento non è quella dei Piani Marshall nazionali , ma è quella dei territori , quella "locale" che sviluppa le tendenze esistenti e non ne inventa di nuove .” Ecco , la ricostruzione di una nuova politica della sinistra, in Italia ed in Europa, o riparte dai territori o sarà velleitaria e destinata a soccombere come avvenne, tragicamente, nel secolo scorso.

Un colpo al cerchio, uno alla botte. Considerazioni (provvisorie) sul Documento di Economia e Finanza 2019 - Eddyburg.it

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Italy’s Old New Populism by Paola Subacchi - Project Syndicate

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venerdì 5 ottobre 2018

Intervista a Sergio Cesaratto da New Europe – L’Italia distruggerà l’eurozona? | Vocidallestero

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Brazil's Elections: A Political Crossroads | ISPI

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Franco Astengo: L'autobiografia della nazione

L’AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE di Franco Astengo Un articolo di Chiara Saraceno è titolato da Repubblica: “Una certa idea di povertà”. Titolo accompagnato da un catenaccio “Dietro il veto sulle spese immorali c’è il pensiero che i più bisognosi siano inaffidabili”. Una lettura che mi ha riportato alla mente il ricordo di una vecchia abitudine; quando non si faceva l’elemosina ai mendicanti perché i benpensanti sostenevano: “tanto poi se li va a bere”. Così come la si va impostando questa storia del cosiddetto “reddito di cittadinanza” sta rappresentando una logica analoga. Così come la si legge l’idea del sussidio rappresenta uno dei tanti segnali del vuoto di arretramento etico e culturale che sta imponendosi nel nostro Paese. Un vuoto frutto di un meccanismo perverso che risale all’irruzione delle logiche individualistiche di consumo risalenti almeno agli anni ’80 del XX secolo, delle quali non faccio la storia in quest’occasione. Non la faccio lunga perché intendo essere sintetico e brutale. Il populismo di cui si stanno dilettando i signori del governo ha un’origine ben precisa: quella di un’immaginata“autobiografia della nazione” (Gobetti ne scriveva però realisticamente al riguardo del fascismo) per cui il consenso si può aggregare soltanto adeguando la risposta ai desiderata più diffusi e apparentemente più facili da interpretare. Un’immaginaria “Autobiografia della Nazione” composta da due elementi: al Nord l’idiosincrasia per le tasse (e quindi la legittimità dell’evasione: Berlusconi la teorizzò come meccanismo di autodifesa); al Sud la vocazione per l’assistenzialismo (di conseguenza il reddito di cittadinanza pensato però in una forma molto diversa da quella che, in effetti, poi sarà realizzata: ad esempio il REI può essere convertito al 50% in contanti, ben diverso dalla distinzione tra “spese morali” e “spese immorali”). Nord e Sud uniti soltanto dalla “paura del diverso”. Stereotipi si dirà, come quella degli “italiani maccheronì” dell’emigrazione del primo ‘900 ma stereotipi sui quali si è basata la grande bolla di mistificazione nella quale stiamo vivendo pericolosamente (“vivere pericolosamente” altra citazione da non dimenticare). In realtà ci troviamo in un vuoto prima di tutto etico poi culturale e ancora di consapevolezza sociale: un vuoto che sembra comprendere larga parte della società italiana e al quale questa “politica” sta alimenta dolo cercando di corrispondere ai puri fini di mantenimento del potere. Si scrive e si parla di opposizione: il primo dato con il quale, sotto quest’aspetto, sarebbe necessario fare i conti riguarderebbe un vero e proprio processo di ricostruzione culturale. Troppo facile è stato adagiarsi sulla tecnologia e sui processi che l’utilizzo della tecnologia ha introdotto nella vita quotidiana. Il filone di continuità in questo vuoto è rappresentato dalla riduzione dell’individuo in consumatore forzato privandolo di una prospettiva generale di visione della società. Sarà stata cattiva l’ideologia ma almeno per adeguarsi a essa si era costretti a pensare. La confusione di oggi deriva proprio dall’assenza di pensiero e di conseguenza di visione: ben oltre gli schieramenti politici dati e/o futuribili.

No, nationalisation isn't nationalism. We want both public ownership and international solidarity | LabourList

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L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza | Economia e Politica

L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza | Economia e Politica

Se la sinistra tornasse a proporre cose di sinistra? Come il Psoe spagnolo, sembrava morto, ora è all’attacco – Strisciarossa

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mercoledì 3 ottobre 2018

Jobs act, il criterio di indennizzo è incostituzionale. Così crolla uno dei pilastri della riforma Renzi - Il Fatto Quotidiano

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The Refugees’ Tsunami In Italy Turns Out To Be Just A Ripple • Social Europe

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Why The Left Must Resist Wanting A Piece Of The Xenophobic Action • Social Europe

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What happened at Labour Conference? | Red Pepper

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The Left Will Decide Poland’s Future • Social Europe

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The Political-Economy Fallouts Of Universal Basic Income Schemes • Social Europe

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LE NUOVE REGOLE DELL'ECONOMIA - J.Stiglitz - per una svolta dai modelli che hanno impoverito - | Sindacalmente

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OLIMPIADI INVERNALI A MILANO. SÌ, NO, COMUNQUE PRIMA … | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

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martedì 2 ottobre 2018

Europa, è l'ora della post crescita - Sbilanciamoci.info

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Le acque molto agitate intorno al Def - Sbilanciamoci.info

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Enrico Rossi: il documento Renzi-Macron un passo avanti, ora tocca alla sinistra promuovere una costituente socialista per salvare l’Europa – L'Argine

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Jeremy Corbyn un alieno anzi un fratello | Avanti!

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La lezione del QE (che non sarà ascoltata) - micromega-online - micromega

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Tecnologia e disuguaglianze di reddito - Menabò di Etica ed Economia

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Il mercato rende diseguali? Un’introduzione - Menabò di Etica ed Economia

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lunedì 1 ottobre 2018

Franco Astengo: Ricostruzione della sinistra

RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA di Franco Astengo Esiste ancora la suddivisione in classi, fondata sull’antica “contraddizione principale” in una società di massa percorsa dal veleno dall’esigenza insuperabile del consumo dell’immediatezza comunicativa? Agnes Heller (intervista all’Espresso del 30 settembre 2018) lo nega decisamente: l’allieva di Luckas considera la suddivisione in classi un’illusione, e giudica i partiti politici tutti rinchiusi nel recinto del populismo perché si rivolgono a tutto il popolo (“catch all party”) costruendo narrazioni. Un’osservazione da tenere in conto quello della filosofa ungherese che nella stessa intervista sostiene l’impossibilità di superare la linea della “democrazia liberale” pur ammettendone la crisi. Un’opinione da discutere soprattutto se si pensa, come nel caso di chi sta elaborando questa nota, la necessità di “ricostruire” un soggetto della sinistra politica rimanendo convinto che, in questa fase di tumultuosa modificazione nei parametri di riferimento, sia indispensabile un ritorno in profondità nella ricerca teorica. E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica. In Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche. Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della democrazia” cercando proprio di smentire l’assunto di fondo sostenuto da Heller circa l’impossibilità di superare la cosiddetta “democrazia liberale”. In questo caso l’individuazione del permanere della strutturazione in classi all’interno della società dell’informatica e del “messaggio immediato” (nella sostanza dell’individualismo inteso come “forma sistemica”) appare punto del tutto decisivo e fondamentale. La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia pratica. La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l'intero arco cronologico della civiltà occidentale. Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente politica. Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta. Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono. Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”). E’ possibile tentare l’esplorazione del “politico” nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale. Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l'urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo. Oppure si può esplorare l'intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”, formando l'opinione pubblica. Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri. Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto. Disgiungere questi elementi e cercare la via di un pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita. In questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa: a) definire i termini reali in cui si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900. Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di Hegel. Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta (lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi utopie: tragiche utopie?). Questa fase si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”. Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica: in questo si ritorna alle affermazioni di Heller; b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico” cui appunto Heller sembra proprio arrendersi, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del moderno. Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite. Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale. Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando la riduzione delle “fratture” quale sola risposta esaustiva alla legittimità del “comando politico”. Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di formalizzazione data per universalmente acquisita. Occorre recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo all'idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas). Si tratta, prima di tutto, di chiamare a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, dalle dialettica della storia. Una dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione politica ridotta all’“individualismo competitivo”. Il ritorno alla rappresentazione politica della “contraddizione principale”appare, in questo senso, come il fondamento della ricostruzione della sinistra. Beninteso comprendendo appieno come la contraddizione risulti allargata a un insieme di “fratture” (il cui catalogo andrebbe aggiornato rapidamente) a partire dall’apparentemente insuperabile doppia condizione di sfruttamento nella diversità di genere e l’evidente conflitto tra condizione del territorio e sviluppo tecnico, scientifico, della produzione di merci. Sotto quest’aspetto va ricordato il tema de rapporto tra politica e tecnica al riguardo del quale correnti filosofiche considerano ormai come avvenuta la riunificazione tra scienze, tecnica e politica all’interno dell’acquisita egemonia della tecnica. La sinistra è così chiamata al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia”, della semplificazione delle contraddizioni sociali, della tecnica come espressione diretta dell’azione politica e, nella sostanza, del predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’essere che si esprime ormai esclusivamente attraverso il web. Soprattutto questo dovrebbe essere il compito di quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.