martedì 27 gennaio 2009

Parisella: Memoria di che, memoria perché

dal sito di SD

Memoria di che, memoria per che. Riflessioni per domani sul Giorno della memoria di ieri
La ricorrenza del Giorno della memoria impone alcune osservazioni, per quanto sommarie, per poter riflettere sul rapporto tra fini e mezzi e realizzare gli obiettivi che erano all’origine dell’istituzione.
La prima riguarda il carattere di massa che esso ha raggiunto. Se esso oggi entra nel linguaggio della pubblicità vuol dire che nella popolazione c’è una fascia talmente ampia, per la quale il richiamo al giorno della memoria stabilisce un collegamento positivo per un prodotto, un evento, un’attività. Del resto, non c’è scuola, comune, associazione o gruppo che abbia un legame con attività sociali e culturali che non prenda qualche iniziativa pubblica o didattica al riguardo. Responsabili delle istituzioni, poi, colgono l’occasione per essere presenti in uno dei più significativi “luoghi della memoria” e rilasciarvi dichiarazioni. E potremmo continuare ... Questo fa cadere notevolmente l’impatto comunicativo dell’evento, facendo prevalere la ritualità e gli aspetti organizzativi – a volte veri e propri usi ed abusi pubblici della storia - sui contenuti che in origine erano sconvolgenti ed ora diventano ripetitivi, abituali, talora scontati. Il rischio è che – fatte le debite differenze, non sia offensivo il paragone – nei modi di proporsi esso venga progressivamente banalizzato e diventi qualcosa come San Valentino o la festa della mamma o altra data deliberata da un qualsiasi vertice e mediaticamente imposta più che proposta. In qualche caso, c’è già chi realizza una sorta di “filiera della memoria”, dai viaggi ai libri e cd, a capi d’abbigliamento, a poster, a gadget di vario genere, a pacchetti offerti a scuole e istituzioni per iniziative pubbliche multimediali, artistiche, teatrali, musicali e di turismo scolastico e culturale.
La prima cosa che da ciò consegue è la calendarizzazione della memoria. Dall’esperienza del Museo storico della Liberazione, il 27 gennaio (o, meglio, la settimana in cui capita) sta diventando - al pari del 24 marzo (anniversario delle Ardeatine) e del 25 aprile – una delle date intorno alle quali si concentrano le richieste di visite di gruppo, soprattutto di scuole: credo che altrove accada qualcosa di simile. Quello che mi pare grave è la constatazione che spesso non si tratta di attività inserita in un progetto didattico specifico ed impostato sulla storia del nazifascismo, della guerra o del razzismo, ma di una vera e propria visita rituale (“tanto qualcosa resterà”, “apprenderanno pur sempre qualcosa”), proposta da insegnanti non particolarmente impegnati su quei temi. Facciamo molta fatica a far comprendere che perché diventino formative, queste ricorrenze vanno tematizzate e inserite in una serie di attività di studio e di lettura, di proeizioni, di esercitazioni scritte, grafiche ed audiovisive ben programmate e ben svolte. Facciamo ancora più fatica a far comprendere che – se non vogliamo che la memoria sia solo contemplazione del passato – vada stabilito e rafforzato il rapporto tra memoria e presente, legato alla comprensione delle intolleranze, violenze, razzismi, autoritarsmi, emarginazioni e prevaricazioni dei diritti umani dei nostri giorni. A tal proposito, nessuno – mi sembra – abbia messo e metta adeguatamente in luce la contraddizione tra l’intensificazione delle presenze in luoghi della memoria dello sterminio ebraico di esponenti della destra e le cento occasioni di comportamenti intolleranti e razzisti da essi messi in atto nell’attività di governo centrale e locale (schedatura con impronte digitali per gli zingari, classi differenziali per immigrati, tasse, cauzioni e fideiussioni per i permessi di soggiorno, carcere per i clandestini, ecc...).
La seconda conseguenza mi sembra più grave ancora sul piano culturale. Si tratta di una sorta di sterilizzazione del razzismo e dello sterminio che, insistendo sul momento più tragico e terminale del vortice, impedisce di cogliere ciò che la ricerca storica, sociale e antropologica hanno messo in chiaro in maniera quasi definitiva. Cioè che il legame tra violenza e razzismo è stato coessenziale all’esistenza del nazifascismo in Europa: la Shoah non ci sarebbe stata senza di esso ed il nazifascismo non sarebbe esistito come tale senza la crescita esponenziale di violenza praticata ed istituzionale al cui culmine c’è la Shoah. Lo sterminio degli ebrei è il delitto contro l’umanità più abietto e più tragico, programmazione organizzazione e pratica della eliminazione fisica-biologica di un popolo, ma si è accompagnato alla pratica di eliminazione fisica sistematica di tutti coloro che erano d’intralcio al Nuovo ordine europeo del nazismo: avversari politici interni (prime vittime pianificate di campi di sterminio), menomati fisici e psichici, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, prigionieri militari sovietici, ecc. Ma poi c’è stato anche il tentativo di eliminazione e distruzione del carattere nazionale di un popolo (i polacchi) e l’obiettivo di riduzione in condizioni di “minore umanità” (cioè schiavitù) degli slavi. Se vogliamo, possiamo aggiungere la pratica sistematica dell’uccisione di massa al di fuori delle azioni militari, cioè le innumerevoli stragi di dimensioni variabili, molto spesso non appoggiate neppure al preteso diritto di rappresaglia, delle quali anche l’Italia fece esperienza profondamente dolorosa (da Mascalucia, in Sicilia, ai primi di agosto – quando i nazisti erano ancora alleati dell’Italia fascista – a quelle degli ultimi tempi di guerra a ridosso della via per il Brennero). C’è una definizione significativa di Primo Levi, secondo il quale (cito a memoria) l’organizzazione e la stratificazione del potere nel Lager non è che la metafora o il modello dell’organizzazione del potere nella società fuori del Lager e Vittorio Emanuele Giuntella (storico che ne aveva fatto l’esperienza diretta come internato militare) – già nel 1978, in un libro su Il nazismo e i Lager, oggi ripubblicato da Studium – aveva tracciato le linee fondamentali del rapporto tra Lager e sistema di potere nazista. Non dire queste cose e non farle comprendere alle nuove generazioni di giovani delle scuole, significa non far comprendere in quale abisso il fascismo italiano, complice del nazismo e suo alleato e sottoposto, avesse fatto precipitare l’Italia, le italiane e gli italiani. Significa presentare il fascismo italiano come totalitarismo da burletta, che inviava gli oppositori politici in luoghi di villeggiatura e metteva la nazionale di calcio in condizione di vincere due campionati del mondo.
Ma vanno aggiunte brevemente due cose relative alle finalità della legge, ma che restano sempre un po’ fuori o a lato delle iniziative. Essa propone di ricordare non solo lo sterminio, ma anche l’internamento dei militari italiani e, inoltre, tutti coloro che operarono per impedire che lo sterminio, l’internamento e l’oppressione realizzassero i loro scopi. Il primo caso rinvia ad una situazione a lungo dimenticata (lo stesso Alessandro Natta, nonostante il suo rilievo nel PCI, dovette attendere 50 anni per pubblicare il suo libro di memorie di internato). Oltre 600.000 ufficiali, sottufficiali e militari, soprattutto di complemento e di leva, che preferirono il Lager al collaborazionismo nella RSI, un vero referendum contro il neofascismo di Salò: si tratta di un momento essenziale per l’identità dell’Italia postfascista, di un no al fascismo sui generis, diverso da quello degli altri, ma deciso e gravido di pesanti conseguenze per chi lo pronunciò: “Una Resistenza non armata ma non inerme”, la definì Giuntella. Un patrimonio ideale, morale e civile che non va contrapposto a quello dei partigiani combattenti, ma ad esso affiancato come aspetto non secondario né trascurabile della stessa complessa vicenda della transizione attraverso la guerra e la Resistenza dallo Stato monarchico e fascista alla Repubblica democratica. Gli exinternati hanno una loro associazione ANEI, aperta alle collaborazioni, lontana da retoriche celebrative e sensibile alle iniziative culturali e storiche. Ed è proprio il carattere di Resistenza nonarmata dell’esperienza degli internati che apre all’altro punto: infatti, il richiamo al ricordo di chi operò per impedire al nazifascismo di raggiungere i suoi scopi è un invito a non dimenticare sia i partigiani, armati e non (cui, in genere, si riserva il 25 aprile), sia soprattutto tutti coloro che – in particolare con l’ospitalità spontanea ed organizzata – nascosero, protessero ed aiutarono in mille modi ogni genere di perseguitati, di ricercati e di clandestini. Accanto ai “Giusti” insigniti del titolo dallo Stato di Israele per aver contribuito al salvataggio di ebrei, le centinaia o migliaia di uomini e donne, cittadini e contadini, che attivarono la rete di solidarietà forse più vasta – spesso spontanea – che abbia operato in Italia e che in molti casi pagarono con la vita il loro esercizio di solidarietà. La prima ragione che rende importante questa esperienza appare evidente per la natura del comportamento: si trattava quasi sempre di estranei, rispetto ai quali non si richiesero né documenti né garanzie. Anche questa appare come “Resistenza non armata ma non inerme”. La seconda torna attuale ogni volta che si vogliono equiparare i combattenti della RSI ai Volontari della Libertà. Tra i militari internati, tra coloro che dettero ospitalità ai perseguitati, tra coloro che operarono fuori delle formazioni partigiane con atti concreti contrari all’occupante, tra coloro che furono passati per le armi in numerose stragi, magari perché tentavano di evitarle, c’erano anche dei fascisti, talora persone che avevano avuto anche responsabilità: del resto, il caso di Giorgio Perlasca (dopo quello di Schindler) era stato molto presente nella pubblica opinione nella fase precedente l’approvazione della legge istitutiva del Giorno della memoria. Ora, un riconoscimento pubblico dei combattenti della RSI, oltre che nei confronti degli appartenenti alle formazioni partigiane, è in stridente e offensiva contraddizione nei riguardi di tutti cloro che operarono nella solidarietà nei confronti dei perseguitati d’ogni genere, ma anche proprio di quei fascisti – anche militanti – che non solo non collaborarono con i nazisti e la RSI, ma riscoprirono – talora a prezzo della vita - che quello verso il proprio popolo e verso la propria coscienza morale e civile era il primo dovere di fedeltà e solidarietà.

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