domenica 18 gennaio 2009

Lorenzo Sacconi: Sciocchezzaio neo-liberista

Econometica
Ieri 17 gennaio 2009, 14.00.00

Sciocchezzaio neo-liberista
mercoledì 14 gennaio 2009, 19.48.27 | Lorenzo Sacconi
Buongiorno. Questo blog si occuperà nei prossimi mesi di due temi: a) l’economia, vista con gli occhi dell’etica (razionale, non teologica) ; b) la responsabilità sociale di impresa.

Di tanto in tanto un certo spazio sarà dato allo “sciocchezzaio neo-liberista”, con il quale oggi cominciamo. Gli autori preferiti a tale proposito sono - non me ne vogliano - due ottimi economisti italiani, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina (il primo tra i migliori della Bocconi, il secondo - che conosco dai tempi del liceo - addirittura ha avuto successo nella mitica Harvard) che assieme sono autori di due pamphlet Il liberismo è di sinistra (2007) e La crisi (2008) - uno all’anno, come Vespa!

Vi domanderete come sia possibile che autori di questa levatura (nient’affatto sciocchi) siano protagonisti di uno “sciocchezzaio”. E’ semplice. Loro hanno un programma ideologico da sostenere, quello del laissez faire come ricetta per ogni problema del’Italia. Come le vestali di un dogma religioso (mercato, concorrenza, e “valore per gli azionisti” sopra ogni cosa) non usano argomenti scientifici, la loro tecnica argomentativa è retorica: raccogliere fior da fiore esempi a favore del dogma centrale, non curarsi affatto dei contro-esempi, delle falsificazioni o incongruenze tra un caso e l’altro. Se l’intenzione è ideologica - il che è legittimo per un partito, meno ovvio per due accademici - allora è consentito approfittare (a fin di bene, si capisce) delle debolezze cognitive del gregge che si vuole portare sulla retta via. Insomma gli sciocchi, direi (secondo loro) sono i lettori, e agli sciocchi si può dare in pasto uno “sciocchezzaio” (what else?).

Facciamo un esempio dal primo libro (2007): il programma ideologico prevedeva allora che il centro-sinistra facesse una politica liberista. Il dogma è che il mercato è buono perché, anche se genera diseguaglianza, promuove sempre la meritocrazia e premia i talenti dando gli incentivi giusti per svilupparli (i manuali dicono invece che solo nell’equilibrio di “concorrenza perfetta - quindi quasi mai - i fattori , come il lavoro, sono remunerati in base alla produttività marginale), cosicché la meritocrazia è “di sinistra” perché favorisce la promozione dei giovani di talento contro le caste corporative chiuse (cfr. p.31).

Ovviamente non è vero affatto che la meritocrazia come tale sia “di sinistra”. Il merito e il talento sono importanti solo come valori derivati e secondari rispetto ad altri principi di giustizia - questo almeno per i liberal, cioè per la cultura di sinistra, democratica americana che ci si aspetterebbe i nostri autori conoscano.

Ad esempio per Rawls, il teorico della ”giustizia sociale come equità” , massimo filosofo liberal della fine del ‘900 (forse ci torneremo un’altra volta) noi non abbiamo alcun merito di avere i nostri talenti, così come non meritiamo la fortuna di esser nati in un paese ricco del G8. Il talento è frutto di una ”lotteria naturale” moralmente arbitraria. Così esso non deve essere premiato in base al merito che non ha, ma in modo da produrre benefici per tutti -anche per gli svantaggiati. Una distribuzione giusta dei beni più importanti è infatti quella che nasce non dal mercato ma dal “contratto sociale”, e questo deve essere imparzialmente accettabile da chiunque, avvantaggiato o svantaggiato che sia. Remunerare il base al merito e al talento quindi può semplicemente essere ingiusto.

Si badi , non è che il merito non conti. Solo deriva da altri principi. I beni principali -come l’istruzione, la sanità, i mezzi economici, l’accesso alle carriere - devono essere distribuiti in modo proporzionale al bisogno di chiunque, in modo da dare capacità e opportunità proporzionali. La giustizia nel disegnare sistemi formativi, sanità e mercato del lavoro è perciò distribuire a chiunque non solo opportunità ma risorse e capacità (diritti) in base al bisogno - in modo che poi ciascuno possa meritarsi, grazie a questi beni (e allo sforzo), ciò di cui ha bisogno. Laddove le capacità non possano essere eguagliate (come è ovvio se il talento è frutto della lotteria naturale) , allora le disuguaglianze ammissibili sono solo quelle che al massimo grado tornano a vantaggio di tutti - e quindi quelle migliori per gli svantaggiati (non le briciole che cadono dalla tavola dei privilegiati, intendiamoci!).

Col pensiero liberal (di sinistra) però i “nostri” non si confrontano, poiché il mercato qui svolge solo una funzione secondaria (rilevare lo sforzo individuale in casi particolari - se ad esempio non vale il lavoro di gruppo). Ecco allora una proposta degna dello “sciocchezzaio “. Si paghi un premio monetario agli studenti (e ai loro docenti) che hanno risultati scolastici migliori. Allora avrete una specie di mercato che premia i talenti. Un esperimento condotto in un villaggio povero del Kenya lo confermerebbe: pagando agli studenti migliori (e loro scuole) un premio monetario, non solo i premiati, ma tutti gli studenti avrebbero migliorato la performance scolastica (cfr.p.27-28) .

Domanda: siamo sicuri di misurare il miglioramento della preparazione culturale in modo oggettivo, oppure stiamo usando una misura approssimata, non indipendente dal comportamento strategico di insegnati e studenti? Altrimenti, ecco cosa potrebbe essere accaduto. Gli insegnanti hanno aumentato i voti di tutti in modo da massimizzare la probabilità di premi (anche per le loro scuole). Un po’ come le università italiane, che se sottoposte all’ incentivo finanziario a ridurre i fuori corso, faranno certamente esami più facili. In altri termini se mi pagate in base ai questionari compilati dai miei studenti, anziché insegnare i contenuti del mio corso, spiegherò come avere punteggi elevati nei questionari.

Gli incentivi monetari agiscono, ma non sempre nel senso giusto. Inoltre gli incentivi monetari possono pervertire le motivazioni: se prima facevi qualcosa spontaneamente (per “senso del dovere”), dopo esser stato esposto all’incentivo, non lo farai più senza un premio finanziario. Sono idee abbastanza semplici, ampiamente trattate dalla recente microeconomia (teoria dei giochi, economia del comportamento e sperimentale), che ottimi economisti certamente conoscono.

Veniamo ora al libro più attuale (2008) sulla crisi finanziaria globale dei nostri giorni. Abbiamo preso l’impegno a guardare l’economia con gli occhi dell’etica. Ecco quindi una citazione appropriata, a proposito del fattore scatenate della crisi - ovvero l’incapacità degli americani poveri di far fronte ai mutui immobiliari concessi loro troppo allegramente:

“Va ricordato che spesso queste case sono state comprate versando un bassissimo anticipo: perderle equivale a perder molto poco, come mostra anche il sito (…..) , in cui si spiega come lasciare una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo però si è vissuti in una casa gratis o al più pagando alla banca l’affitto sotto forma di mutuo. Spesso si dimentica che la perdita della casa azzera un grosso debito con la banca [che avrebbe dovuto essere restituito pagando il mutuo, dunque non proprio stando in casa gratis, ndr] . Il danno psicologico è forte ma a conti fatti la perdita economica non è così grave” (p.41).

Si osservi che i “nostri” hanno prima magnificato il valore sociale della “finanzia facile “americana: “essere proprietari di casa significa diventare sensibili al problema del crimine, dell’ordine e della pulizia del quartiere, diventare cittadini attenti e non rimanere ai margini” (p.40). Dobbiamo così concludere che perdere tutto questo è “un danno psicologico forte, ma una perdita economica non grave”.

Vi domanderete come si possa essere così insensibili al dramma di tante famiglie povere, e avere una visione così grettamente economicistica del benessere sociale. Che idea di equità abbiamo? (forse: “case così belle loro non se la meritavano”). L’ affermazione inoltre è sbagliata dal punto di vista strettamente economico, perché induce a pensare che lasciare che le famiglie povere perdano la casa non sia grave. Invece, se si vuole tamponare la crisi di fiducia tra operatori finanziari, terrorizzati dal rischio di trovarsi “in pancia” titoli spazzatura, si dovrebbe proprio intervenire a garantire ai titolari l’acquisto delle case (o almeno il pagamento dell’affitto a un ente che le compri per conto loro), in modo da assicurare una qualche risalita del valore dei titoli - oggi a valore zero - associati ai mutui, a causa dei quali nessuno più si fida.

Ma minimizzare a metà 2008 serviva ancora - oggi farebbe ridere - a difendere il “dogma ideologico” : non è il mercato finanziario ad avere fallito, chi ha sbagliato è la politica. La politica sbaglia quando regola i mercati eccessivamente, ma anche quando ascolta le lobby finanziarie nelle politiche di de-regolazione dei mercati. La politica sbaglia sempre, non è la soluzione del problema, semmai è parte del problema. Dopo qualche aggiustamento, chi ci salverà saranno ancora i mercati finanziari (cfr p. 50, p.56)

Ora, è vero che la politica sbaglia. Però quelli citati sono errori diversi. Quando sbaglia per eccesso di de-regolazione il problema nasce dal fatto che i meccanismi di scelta collettiva che vengono posti in auge non sono più quelli della politica democratica, ma quelli del mercato, dell’impresa , del rating e della sorveglianza interni al mercato ecc. Perciò - se ci sono - emergono allora i cosiddetti “fallimenti del mercato”. L’errore della politica in tal caso è non capire e non prevenire i probabili “fallimenti del mercato”.

Questa ovvietà è ignorata dai liberisti poiché mette in dubbio il “dogma centrale”: se il mercato fosse lasciato essere quel “mercato perfetto” che sarebbe in sé stesso (insomma un sorta essenza metafisica) allora non fallirebbe affatto (cfr. p.48). Insomma è solo perché qualcuno (teoria cospirativa) ci ha messo le mani che il giocattolo si è rotto.

Non insisterò sull’analogia col dogmatismo degli strenui sostenitori del comunismo di circa un ventennio fa. La verità è invece che il mercato finanziario lasciato a se stesso nel mondo reale è largamente imperfetto e quindi pretendere che esso funzioni sulla base dell’incentivo egoistico del massimo del valore per gli azionisti produce effetti perversi.

Le ragioni di questa “imperfezione” sono molteplici: gli operatori economici hanno conoscenza incompleta, cioè fabbricano e vendono titoli che si comportano in modi per loro stessi imprevedibili negli stati futuri; i compratori ne sanno meno di loro: cioè non sanno cosa comprano. Gli amministratori, i manager (come i capitalisti di cui devono simulare il comportamento secondo il dogma centrale) sono avidi razionali e opportunisti, cioè cercano di guadagnare a tutti i costi dalle stock option, senza prendersi cura degli effetti, se non dello “shareholder value” a breve. La posta in gioco è alta e se ne possono appropriare a condizione che colludano con i loro sorveglianti (agenzie di rating, revisori, certificatori ecc.), il che regolarmente accade, poiché i sorveglianti hanno gli stessi scopi e ideologia dei sorvegliati.

L’errore del liberista è fare del mercato anziché un mezzo che deve servire altri scopi, un “programma ideologico” - cioè sostituire il fine con il “meccanismo”. E poi cercare di costringere la società a funzionare secondo il “meccanismo”, obbligarci a soddisfare certe ipotesi (‘siate egoisti sennò la macchina non funziona, ma - si basi bene - razionali e perfettamente informati’). Nella realtà tutto ciò genera esiti diversi perché il mondo reale non soddisfa mai le premesse, e quando la gabbia gli viene imposta troppo dogmaticamente produce effetti perversi.

Con un po’ di inventiva istituzionale, sarebbe invece ora di cambiare ”dogma centrale”: sostituire ad es. al criterio dello “shareholder value” come guida di tutte le decisioni di banche e imprese delle economie capitalistiche , quello di “stakeholder value”, cioè il perseguire in modo imparziale, cauto e bilanciato non i “propri interessi - date le stock option” - ma l’interesse di tutti gli stakeholder (azionisti, risparmiatori, lavoratori, clienti, fornitori, comunità circostante, generazioni future …). Usare l’equilibrio equo tra essi come la stella polare della gestione strategica. Adottare una governance in cui gli amministratori devono salvaguardare la relazione fiduciaria con tutti gli stakeholder - cioè adempiere a doveri di responsabilità sociale - e non solo con chi ha il “controllo”.

Ciò può essere favorito da un regolazione pubblica imparziale, abilitante e non invasiva, e da un’autoregolazione sociale (agenzie di rating e certificazione sociale) non collusiva né accomodante, in quanto le sue organizzazioni (meglio se non profit) non abbiano gli stessi interessi di coloro che controllano, ma rappresentino un bilanciamento tra gli interessi di molteplici stakeholder.

L’impresa governata in base al principio del “valore per tutti gli stakeholder”, ad esempio, non remunerando il manager con la variazione di valore delle azioni su cui lui ha un’opzione (e che può manipolare), non venderebbe ai consumatori (clienti) false promesse e al contempo non adotterebbe condotte così rischiose (se è una banca: trascurare di fare il suo compito di analisi del profilo di rischio dei clienti, confidando poi sulla possibilità di rivendere i debiti, come titoli, ad altri risparmiatori) da mettere a rischio i posti di lavoro. Così, in cambio di una redditività più moderata, difenderebbe nella sostanza anche i piccoli investitori.

Vorrei evitare di esser frainteso: c’è oggi un ritorno di fiamma dell’idea che la politica dovrebbe intervenire in economia in modo discrezionale, decidendo chi salvare e chi no, sulla base di scopi politici e interessi di consenso elettorale, costruzione di cordate politico-economiche ecc. Questa politica sarebbe in effetti una soluzione peggiore del male.

Non si tratta di sostituire il comando dello “shareholder value” con la decisione discrezionale della politica che persegue i propri scopi attraverso l’ interferenza negli affari privati, senza rispettare l’autonomia dei soggetti privati. Al contrario, la politica dovrebbe favorire l’affermarsi di nuovi criteri per la presa delle decisioni nella sfera dell’autonomia e autogoverno dei soggetti privati.

Cosa distingue l’dea di “stakeholder value” dall’intervento discrezionale e arbitrario della politica? Anche la politica si impegna in trattative con gli stakeholder, ma il criterio e il fine sono diversi. Mentre la responsabilità sociale cerca di massimizzare il valore aggregato per gli stakeholder, dividendolo equamente, la politica discrezionale segue obbiettivi di potere ed elettorali propri.

Il caso Alitalia docet. E’ proprio grazie al criterio del valore per gli stakeholder che possiamo riconoscere la differenza. Quale è il saldo dell’operazione CAI fortemente voluta dal governo e in cui si sono impegnati vari ministri (persino nella creazione della compagine dei soci)?

Si prenda a riferimento l’offerta Air France del marzo scorso. Rispetto a quella offerta abbiamo un costo assai maggiore del debito aziendale messo a carico dei contribuenti, più esuberi e cassa integrazione a danno dei dipendenti, un esito non migliore per l’aeroporto di Malpensa, e quindi un danno per un’economia locale assai importante, inoltre con ogni probabilità i clienti vedranno crescere il prezzo della tratta Milano-Roma, causa il venir meno dell’unico concorrente (Air One è stata assorbita in CAI). Gli stakeholder (contribuenti, dipendenti, economie locali, e consumatori) hanno più costi e nessun beneficio.

A guadagnare sembrano essere un gruppo di imprenditori non specializzati nell’industria del traffico aereo, che con ogni probabilità entro pochi anni si ritireranno a vantaggio di Air France, senza avere molto investito e massimizzando il valore per sé stessi (parleremo allora di shareholder value?), ma soprattutto il governo che ha potuto così mantenere un’improbabile promessa elettorale.

La sostanza è che due soggetti dotati di potere discrezionale (governo e imprenditori) scaricano costi maggiori sugli stakeholder non meno interessati, ma deboli e non controllanti l’impresa. E’ l’opposto della responsabilità sociale.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi pare una lettura molto interessante,
anche perché la riflessione nasce (finalmente) dentro il PD, incrinando uno
dei dogmi ideologici sui quali è stato fatto nascere quel partito.