martedì 30 aprile 2019

Pagare meno tasse per pagare tutti? Non è così semplice

Pagare meno tasse per pagare tutti? Non è così semplice

Finisce la recessione, ma l’economia è da zero virgola | F.Daveri

Finisce la recessione, ma l’economia è da zero virgola | F.Daveri

Felice Besostri: Spagna 2019

SPAGNA 2019 Non dobbiamo farci deviare dall’ottica italiana per cui se alla sera delle elezioni, grazie a incostituzionali premi di maggioranza, il primo partito non possa formare un governo il paese è a rischio di governabilità. Dopo le elezioni del 2017 il PP con 137, ma 3 di partiti regionalisti alleati, non raggiungeva la maggioranza assoluta nemmeno con i 32 di Ciudadanos( Cs). Hanno governato grazie all’appoggio in Parlamento di partiti regionalisti, e alla benevola astensione del PSOE che si era sbarazzato di Sanchez, contrario ad ogni sostegno al PP. I partiti regionalisti minori, baschi e/o catalani sono sempre stati necessari per formare maggioranze come è sempre avvenuto in tutti i casi in cui PSOE o PP non avessero ottenuto la maggioranza assoluta in solitario. La maggioranza del 2017 è venuta meno grazie all’iniziativa del PSOE di presentare una mozione di sfiducia dopo la pesante condanna del tesoriere del PP per finanziamento illegale, mozione, che trionfa il 2 giugno 2018 per il voto di baschi e catalani, oltre che di Podemos forte allora di 71 seggi, in realtà molto compositi, perché frutto di coalizioni elettorali regionali. Il governo del PP aveva, inoltre, dimostrato di non essere all’altezza di governare la crisi catalana dopo il referendum sull’indipendenza del 1° ottobre 2017. La crisi catalana coinvolge tutto il sistema politico spagnolo: la repressione e l’imprigionamento dei leader indipendentisti non l’hanno risolta. Il voto contrario dei partiti catalanisti al bilancio 2019, presentato dal monocolore socialista, ha provocato le elezioni anticipate. L’indipendentismo estremista e radicale è altresì la causa diretta della nascita, crescita e consolidamento di VOX , un partito di estrema destra centralista. A così breve distanza dalle elezioni è azzardato fare previsioni sulla futura maggioranza e per la formazione del governo ed evitare elezioni anticipate, come la doppietta 20 dicembre 2015-26 giugno 2016, c’è tempo fino al prossimo 4 agosto. La sinistra si è complessivamente rafforzata ora conta 165 seggi (123 PSOE e 42 Unidos Podemos) a fronte dei 156 ( 85 PSOE e 71 Podemos) del 2017,mentre la destra nel complesso si è indebolita, malgrado il successo di VOX. Nel 2017 PP(137) e Cs(32) con 169 seggi erano ad un passo dai 176 voti della maggioranza assoluta. Dopo le elezioni del 28 aprile ne hanno appena 123 (66 PP e 57 Cs) che anche con i 24 di Vox sono più distanti dalla maggioranza assoluta e assolutamente politicamente fuori gioco per raggiungere un’intesa con i partiti regionalisti. A sinistra la leadership della coalizione è sicuramente socialista, Podemos a differenza del 2016 non ha più la forza di tentare il sorpasso ( in italiano nella campagna elettorale 2016). Di contro a destra è aperta la lotta per la supremazia dopo il riequilibrio elettorale nel 2017 Cs aveva un quarto dei seggi del PP, mentre ora una tendenziale parità in percentuale con C

lunedì 29 aprile 2019

Franco Astengo: Spagna 2019

SPAGNA 2019 di Franco Astengo La grande avanzata socialista nelle elezioni spagnole del 29 aprile costituisce senz’altro un segnale molto importante per la sinistra europea. In un quadro generale di crescita nella partecipazione al voto e in una situazione molto complessa da valutare seguendo la traccia delle “fratture” che agitano e dividono la società spagnola i socialisti sono cresciuti da 5.443.846 voti a 7.480.755 suffragi: più 2.036.909, con un incremento in seggi di 38 unità, in percentuale dal 22,63% al 28,68%. Nonostante questo risultato il futuro del governo spagnolo rimane pieno di incognite e legato comunque alla costruzione di un complicato sistema di alleanze delle quali saranno probabilmente protagonisti i partiti delle diversità nazionalità, a partire da quella catalana. E’ il caso allora di verificare che cosa è capitato in quest’occasione analizzando specificatamente la particolarità spagnola della formula elettorale: il meccanismo di traduzione dei voti in seggi. Sotto quest’aspetto la formula elettorale spagnola presenta caratteristiche molto particolari: il “Congreso” (erede delle antiche Cortes) viene eletto, infatti, attraverso collegi di diversa (e in gran parte ridotta) dimensione. All’interno del collegio i seggi in palio sono attribuiti con il metodo d’Hondt, dei quozienti successivi, senza utilizzo dei resti e senza riporto a un collegio unico nazionale. In questo modo oltre a favorire i partiti più grandi risultano privilegiate le concentrazioni locali: ed è da questo tipo di sistema che deriva la complessità dell’esito cui si accennava all’inizio. Il dato più interessante da esaminare diventa allora quello del “costo” di ogni seggio per ciascun partito, comparando questo elemento con quanto accaduto nelle elezioni precedenti per comprendere meglio la “localizzazione” o l’eventuale (per i grandi partiti) estensione o riduzione nel “peso nazionale” del voto. E’ evidente che un’analisi ancor più approfondita in questo senso dovrà essere svolta nei prossimi giorni esaminando i dati collegio per collegio: adesso, però, a poche ore di distanza dall’esito del voto ci si dovrà accontentare di una valutazione di carattere generale. Il quadro generale è comunque quello di un rilevante aumento nella partecipazione al voto come si evince dal numero di voti validi salito tra il 2016 e il 2019 da 23.874.674 a 26.361.051 pari a 2.486.377 suffragi espressi in più dal corpo elettorale. Allora, andando per ordine. Come abbiamo visto il PSOE ha avuto 7.480.755 voti per 123 seggi: ogni seggio è dunque costato 60.819 voti. Nel 2016 i socialisti avevano ottenuto 5.443.846 voti per 85 seggi, con un costo di 64.045 voti ciascheduno: si può dunque pensare non solo a una crescita nel voto socialista, come è evidente, ma anche a una migliore distribuzione territoriale, di una dimensione ancora più accentuata di partito nazionale ed “europeo”, considerata la precisa definizione adottata da Sanchez nelle prime dichiarazioni post – voto. Secca flessione per il PP sceso da 7.941.236 voti a 4.356.023, con un decremento di 3.585.213 voti. I popolari dimezzano praticamente i seggi scendendo da 137 a 66. Nel 2016 per ogni seggio il PP aveva dovuto ottenere 57.965 voti, nel 2019 il costo è salito a 66.000 per ogni singolo suffragio, quindi con una caduta anche nella capacità di dimensione territoriale del Partito. L’entità della caduta dei popolari è stata soltanto compensata dal’incremento di Vox e di Ciudadanos. Vox ha indubbiamente fatto registrare un ottimo risultato e segnato l’inedita presenza dell’estrema destra nel Parlamento spagnolo con 2.677. 173 voti e 24 seggi (111.548 voti a costo unitario) mentre Ciudadanos ha avuto 4.136. 600 voti e 57 seggi (72.571 voti a seggio). Nel 2016 Vox non aveva realizzato rappresentanza parlamentare fermandosi a 47.182 voti, mentre Ciudadanos aveva ottenuto 3.140.570 voti e 32 seggi (98.205 voti per seggio: si può affermare che Ciudadanos si è sicuramente affermata anch’essa come partito nazionale). Nel complesso Vox e Ciudadanos incrementano di 3.626.021 voti: considerata la caduta del PP si può parlare sostanzialmente di un interscambio di voti nel centro destra, ferma restando la registrazione di uno spostamento complessivo, da questo punto di vista, verso l’estrema. Non si può però parlare di “sfondamento” a destra. Risultato mediocre per Unidad Podemos: nel 2016 la lista di sinistra aveva avuto 3.227.123 voti per 45 deputati (71.713 voti a seggio); nel 2019 i voti sono scesi a 3.118.191 (meno 108.932) e i deputati a 35 (89.091 il costo unitario). Nella sostanza Podemos realizza una tenuta sul piano del voto generale, ma un restringimento nelle proprie dimensioni di partito nazionale probabilmente a vantaggio delle liste di sinistra indipendentiste in Catalogna ma non solo. Esaminiamo allora il comportamento di alcune delle principali liste rappresentati le nazionalità. L’Esquerra Repubblicana di Catalogna ha avuto un rilevante incremento passando da 632.234 voti a 1.015.355 con un più 383.121 voti. I deputati sono saliti da 9 a 15: nel 2016 ERC aveva pagato ogni deputato 70.248 voti, nel 2019 67.690. Jxcat Junts, partito catalano indipendentista, ha avuto (senza riscontro con il 2016) 497.638 voti per 7 deputati: costo unitario 71.091. Ogni deputato è costato a Jxcat circa 40.000 voti in meno di quanto è costato a Vox. E’ questa una delle particolarità da notare nel già descritto sistema elettorale spagnolo. Sono cresciuto entrambi i partiti baschi: il PNV da 287.014 voti a 394.627 passando da 5 a 6 seggi (65.771 voti a costo unitario) mentre Bildu da 184.713 a 258.840 raddoppiando i seggi da 2 a 4 (64.710 voti per deputato). Un altro esempio del tipo di distorsione che la formula elettorale spagnola provoca nella traduzione dei voti in seggi parlamentari lo si riscontro evidente nel risultato di NA+, il partito rappresentante della Navarra: 107.124 voti per 2 seggi, costo unitario 53.562 voti, la metà di quello per Vox, 7.000 in meno del costo pagato per ogni seggio dal PSOE. Si è così esaminato in modo molto sommario l’esito delle elezioni spagnole per quel che riguarda i principali partiti sottolineando, com’era nello scopo di questo lavoro, il tipo di distorsione che la formula elettorale realizza oggettivamente nella sua capacità di tradurre i voti in seggi. Ne esce un sistema politico abbastanza frammentato soprattutto sul versante della faglia localistica (che come sappiamo in Spagna ha una valenza, usando un eufemismo, piuttosto “forte”). I partiti che rappresentano questa frattura, nella situazione data, dovrebbero risultare indispensabili per la formazione del governo. Ed è questo un dato su cui riflettere quando si esaminano le formule elettorali nei diversi Paesi, seguendo le particolari conformazioni geografiche, etniche, sociali e politiche.

Book Review: The Political Economy of Italy's Decline by Andrea Lorenzo Capussela | LSE Review of Books

Book Review: The Political Economy of Italy's Decline by Andrea Lorenzo Capussela | LSE Review of Books

sabato 27 aprile 2019

Dialogo con Enrico Pedrelli sul socialismo

Dialogo con Enrico Pedrelli sul socialismo

“Social Democracy at Home Requires Anti-Imperialism Abroad”

“Social Democracy at Home Requires Anti-Imperialism Abroad”

Franco Astengo: Gramsci e Matteotti

GRAMSCI E MATTEOTTI PER UNA SINISTRA DI ANTIFASCISMO MILITANTE di Franco Astengo (Questa nota mi è stata dettata quasi d’impulso dalla notizia dell’imbrattamento della stele, inaugurata lo scorso 15 aprile, davanti a quella che fu la sede dell’Avanti in via Visconti di Modrone a Milano per ricordare l’assalto subito dal quotidiano socialista il 15 aprile del 1919. Ha colpito soprattutto che i fascisti di oggi abbiano usato lo stesso slogan di cento anni fa scrivendo “L’Avanti non c’è più”). Ho così pensato di riprendere un tema, quella della chiaroveggenza antifascista dimostrata dei due martiri Matteotti e Gramsci. Un tema, quello del pensiero di Gramsci e Matteotti, sul quale con il compagno Felice Besostri qualche tempo fa avevamo pensato di realizzare un incontro di riflessione funzionale all’avvio di un processo ricostruttivo della soggettività politica della sinistra italiana. Mi permetto allora di riproporre quel testo denunciando con forza la necessità di riprendere il tema dell’antifascismo militante che deve risultare intrinseco a quello più generale della ricostruzione della sinistra. Perché si proceda in questa direzione si evidenziano due grandi ragioni: 1) Ciò che sta accadendo nel sistema politico italiano ed europeo,ben oltre le situazioni di governo. Verifichiamo nei fatti uno spostamento a destra dal chiaro significato razzistico, individualistico, nazionalista; 2) A questo quadro generale corrisponde ancora, in Italia, una vera e propria escalation di provocazioni grandi e piccole che, in particolare, hanno accompagnato la celebrazione del 25 aprile. Per diverse ragioni la più grave, a mio giudizio, rimane quella compiuta a Milano con l’esposizione di uno striscione inneggiante a Mussolini nei pressi di piazzale Loreto, ma sarebbero tanti gli episodi da elencare. Emergono complicità e ipocrisie da parte del mondo politico. Complicità e ipocrisie che altro non rappresentano che il frutto delle tante e delle troppe concessioni fatte non tanto sul piano storico, ma su quello morale e sui cedimenti avvenuti nella definizione dei principi fondativi non solo della nostra Repubblica ma della stessa convivenza civile a partire dal mutamento di segno del concetto aberrante di razzismo. Il quadro generale è quello di un sistema politico estremamente fragile, di una struttura dello stato che non regge, di un governo basato su di una logica da “voto di scambio” esercitato a livello di massa e su di una società che non riesca a esprimere nulla di più di un corporativismo diffuso e di un “individualismo della paura”. Con grandi pericoli per la democrazia repubblicana. Sono questi i motivi che mi hanno indotto a riproporre i tratti comuni del pensiero anticipatore di Gramsci e Matteotti sul terreno dell’antifascismo. Il testo che segue si propone quale semplice esempio di una base di riflessione per procedere a un’iniziativa che, sulla base di una ripresa dell’antifascismo militante e della piana riaffermazione della Costituzione Repubblicana ,risulti anche utile a verificare tutti gli elementi praticabili per ridefinire un perimetro politico di una sinistra adeguata alle complesse necessità dell’oggi ma posta nel solco delle parti migliori del pensiero espresso dal movimento operaio italiano nel corso del tempo. Cerco di indicare a questo punto perché, a mio giudizio, Gramsci e Matteotti possono rappresentare il pensiero di base per recuperare una capacità concreta di antifascismo militante: “Gramsci in un’analisi molto approfondita perché delineata in una prospettiva storica molto ampia (cfr. “Le origini del fascismo” V edizione Editori Riuniti 1971) rintracciava le radici della reazione in questo modo : “Il terrorismo vuol passare dal campo privato a quello pubblico, non si accontenta dell’immunità concessagli dallo Stato. Vuole diventare lo Stato. La reazione è diventata forte al punto che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale ma intende servirsi di tutti i mezzi dello Stato”. Così stando le cose si comprende come si dovesse proprio a Giolitti la decisione di quelle elezioni anticipate del 1921 nell’occasione delle quali si realizzò quell’alleanza tra liberali e fascisti che doveva aprire a Mussolini e ai suoi (35 eletti) non solo e non tanto le porte del Parlamento, quanto soprattutto la collaborazione attiva e passiva sempre più accentuata da parte dei più importanti esponenti di tutti i gangli dell’alta burocrazia statale (esercito, polizia, magistratura, prefetti) e della vecchia classe dirigente che le elezioni del 1919, svoltesi con la formula proporzionale, avevano spodestato dalla tradizionale posizione egemonica. Se già nel gennaio del 1921 (tre anni prima del suo ultimo fatale discorso) Matteotti poteva denunciare, in un suo intervento alla Camera, una così impressionante serie di sopraffazioni e di violenze fasciste perpetrate con la connivenza degli organi che avrebbero dovuto essere preposti all’ordine pubblico, tanto più ciò doveva avvenire dopo che lo stesso presidente del consiglio Giolitti e con lui l’intero governo, avevano dato il segno dell’orientamento politico filofascista attraverso quell’alleanza elettorale. Da allora lo squadrismo fascista non trovò più ostacolo consistente da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”; da allora i capi del liberalismo e della democrazia “statutaria” non ebbero più né la forza né l’intenzione di opporre al fascismo una resistenza valida ed efficace. Di fatto, attraverso tali complicità e appoggi la via del potere fu aperta al fascismo, mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava, esaurita la spinta rivoluzionaria, una difesa disperata. Le ragioni di tali complicità e appoggi risiedevano proprio nei motivi della divisione di classe che erano alla base della lotta tra fascisti e socialisti e che non sfuggivano fin dal 1920 – 21 né a Gramsci né a Matteotti. E’ questo un punto fermo nella storia del fascismo e dell’antifascismo che non bisogna perdere di vista, perché costituisce ancor oggi una bussola di orientamento non soltanto sul piano storico. Queste le parole di Matteotti ben prima della Marcia su Roma “ La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esca dalla legalità e si arma contro il proletariato”. Gramsci,a quel punto, poteva a buon diritto sostenere che “solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione in seguito alle gravi sanguinanti ferite prodotte dalla guerra nel suo patrimonio umano e nel suo potenziale economico” e Togliatti poteva sottolineare gli “sviluppi inesorabili del fascismo mettendo in rilievo che solo il proletariato avrebbe avuto la volontà di condurre la lotta. In quella fase, precedente alla Marcia su Roma, emergono così le contraddizioni e le debolezze della parte liberale e democratica “statutaria” che risaltano anche nelle prese di posizioni di suoi esponenti antifascisti .” (da un mio testo “Antifascismo e marcia su Roma del 28 ottobre 2017”) Troviamo così in Gramsci e Matteotti la grande ma inascoltata intuizione della capacità della reazione di farsi egemone. Abbiamo bisogno della stessa capacità d’intuizione dimostrata allora allo scopo di definire una base teorica per sviluppare una proposta complessiva di progetto, programma, organizzazione: per una vera e propria ricostruzione politica unitaria della sinistra italiana ricordando ancora una volta come insieme al solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista, il cemento più forte che saldò l’intesa costituzionale fu rappresentato dall’antifascismo, così come questo si era espresso nella lotta di resistenza e nella volontà di ripristinare la libertà e costruire una democrazia dai forti connotati sociali.

mercoledì 24 aprile 2019

Perché alla Germania serve un 'Nuovo Draghi' per la BCE | Megachip

Perché alla Germania serve un 'Nuovo Draghi' per la BCE | Megachip

Rdc Una riforma necessaria ma difficile da realizzare | Economia e Politica

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Sanzioni USA sul greggio iraniano: colpo a Teheran o all’economia mondiale? | ISPI

Sanzioni USA sul greggio iraniano: colpo a Teheran o all’economia mondiale? | ISPI

Alberto Benzoni-Paolo Borioni: Lo spazio della socialdemocrazia

Da Mondoperaio, aprile 2019 Nell’ultimo decennio del secolo scorso, Il socialismo democratico poteva, almeno così sembrava, considerare definitivamente e pacificamente chiusa, per abbandono dell’avversario, la sua partita con il comunismo. Mentre era stato accettato dal capitalismo come partner favorito: in un gioco che vedeva il primo libero di crescere secondo le esigenze dell’economia che erano anche quelle delle società e il secondo libero di redistribuire le risorse a vantaggio di tutti e quindi anche dei ceti più deboli. C’erano, ovviamente, in questo schema una serie di falle ben note e su cui avremo presto l’occasione di tornare. Mentre mancava, invece, qualsiasi riferimento al “popolo”, come parola e come cosa, nella certezza che le classi subalterne dovessero essere automaticamente rappresentate e financo definite da quelle forze politiche abilitate, da sempre, a rappresentarle. Così è curioso che nei decenni del secondo dopo guerra, la parola “popolo”non compaia quasi mai nel nostro frasario rituale; se non nella veste di “popolo lavoratore” , dove l’aggettivo fa chiaramente premio sul sostantivo. Al suo posto il “Movimento operaio” (meglio con la maiuscola e l’acronimo); “le masse”, oggetto di particolare attenzione se “cattoliche”,affidate a particolari uffici se di nostra competenza; e poi i “ceti medi produttivi”, gli “intellettuali organici”, la “borghesia riflessiva” e via discorrendo; in un rapporto di dare e avere all’insegna dell’”io ti difendo e tu rispondi ai miei appelli”. In realtà, come illustra un po’ schematicamente il titolo di questa nota, ci saranno voluti circa cento anni, a partire da quello fatidico della rivoluzione francese, perché il socialismo di Marx e di Engels assumesse la guida del popolo; una conquista che non sarà definitiva nel tempo e che non interesserà, per una serie di ragioni oggettive che non è qui il caso di ricordare, che determinate aree del mondo. Mentre il suo successo sarà il frutto di circostanze storiche specifiche e di una scommessa sul futuro tutt’altro che scontata. Agli inizi dell’età contemporanea c’è il popolo. Quello di Rousseau e di Herder come espressione dell’autentico e del profondo in alternativa alle astrazioni superficiali dell’illuminismo. Quello di Michelet e dei cantori della rivoluzione francese come alternativa morale, politica ma anche fisica ed esistenziale al vecchio mondo della monarchia fondata sul diritto divino e del privilegio. Quello di Mazzini e dei populisti, soprattutto russi come sorgente di verità e luogo di riscatto. Questo popolo ha anche, come dire, una terribile e meravigliosa “fisicità alternativa”fatta di scontri diretti in cui non si danno mediazioni: dalle “giornate”della rivoluzione francese, alle barricate simbolo della sollevazione periodica contro l’ordine costituito in un arco di tempo che va dalle giornate di luglio fino alla comune di Parigi; dalle grande adunate cartiste alle rivolte dei popoli oppressi; sino al mito dell’azione diretta del proletariato agricolo e industriale che sfocerà nella Grande sera da cui è destinato a nascere il Nuovo mondo. Un’epoca, un secolo che si chiude, però con una serie di grandiose ma anche dolorose e sanguinose sconfitte( ci riferiamo all’Europa continentale e al suo “occidente”e, in particolare a quella latina). Un’epoca di “eccidi proletari”. E, a coronare il tutto, il sogno della “Grande sera” diventerà l’incubo della Grande guerra. Sarà, allora, la seconda internazionale, quella di Marx ma soprattutto di Engels, a tenere viva la speranza di un “mondo altro” ma a rimettere ordine nel cammino: la prospettiva di medio-lungo periodo al posto dell’Evento risolutore; leadership e organizzazione al posto della spontaneità spesso irrazionale; gradualità e via parlamentare al posto delle rivolte carsiche; creazione concreta di nuovi strumenti di autogoverno e dei quadri atti a gestirle; ricerca di consensi e degli strumenti multiformi per ricondurre l’Avversario sul terreno del dialogo e del rispetto della legalità; e, nella stessa logica, costruzione di un internazionalismo insieme solidale e pacifista Al fondo di tutto, il rifiuto della violenza individuale e collettiva e, soprattutto, della guerra. Sarà questo, in tutto l’arco del tempo, a definire la base stessa dell’identità socialista: nel passato rispetto a democrazie fortemente interventiste rispetto agli stati e agli imperi rappresentativi dell’ordine costituito; e, dal 1917 in poi, rispetto al comunismo marxista-leninista. Un viaggio lungo il suo, lungo e difficile, e con il duplice e sempre incombente rischio di essere travolti e marginalizzati nel caso di crisi violenta del sistema o di perdere la propria identità nel caso di un suo aggiustamento pacifico e in una prospettiva di lungo termine. In questo quadro, la prima guerra mondiale avrà sulle fortune del nostro progetto un impatto esattamente opposto a quello della seconda. I socialisti non riusciranno ad impedirne lo scoppio (vista retrospettivamente, una “mission impossibile”) ma sapranno, invece, ben presto (cosa che si tende a dimenticare) a separare le loro ragioni e le loro speranze da quelle dei due alleanze in contrasto. E, se non saranno in grado, dal 1916 in poi, di imporre una pace seguendo il modello wilsoniano, non sarà per non averci tentato in ogni modo. Successivamente, la loro lettura dell’antifascismo in chiave pacifista nocquerà non poco alla loro rilevanza e al loro prestigio; ma non sino al punto di annacquarne l’identità o di pregiudicarne il futuro. Naturalmente, lungo tutto il corso di quei due travagliati decenni, nessuno si sarebbe minimamente sognato di definire il ventesimo secolo come secolo socialdemocratico; a dominare il campo e a prefigurare il futuro essendo semmai lo scontro tra le due grandi ideologie totalitarie mentre, sul piano economico, i messagi di Keynes e di Beveridge cercavano ancora la forza politica in grado di farne una bandiera. Sarà, allora, la seconda guerra mondiale a collocarci, di nuovo, nel senso della storia e a consolidare, in modo apparentemente definitivo, il nostro mandato di rappresentanti, non solo delle classi subalterne ma di ceti sociali sempre più vasti. E questi per un insieme di fattori che spingono tutti nella stessa direzione. C’è, in primo luogo, la doppia rappresentazione della seconda guerra mondiale (guerra ideologica, e quindi giusta, per definizione). Un conflitto della democrazia contro il totalitarismo, il che valorizzava il ruolo della socialdemocrazia come alternativa al comunismo. Ma anche la grande guerra antifascista il che collocava in primo piano il socialismo nella lotta contro gli interessi conservatori. E anche in questo caso dalla parte dei vincitori. C’è la scoperta della centralità dello stato nazionale come garante della continuità di un processo di inclusione economica, sociale e democratica. Che poi fossero i socialisti a realizzare, in questa prospettiva, le indicazioni di due pensatori liberali come Keynes e Beveridge garantiva al loro disegno un livello di consenso che andava ben al di là dei loro confini confermando così la necessità storica del loro percorso. E, a supportare il tutto, l’era dei consumi di massa e dell’espansione apparentemente senza limiti della domanda; e un quadro internazionale che, dalla morte di Stalin in poi, vedeva il mondo dei conflitti e dei disordini allontanarsi sempre dal nostro continente. Gli anni della svolta saranno, allora, quelli a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. Agli inizi, il possibile avvento del socialismo; negli anni ottanta l’avvio di un generale disarmo ideologico-intellettuale. Si comincia con la convinzione, suffragata peraltro dai fatti, che l’avanzata incominciata nei primi anni del dopoguerra (generale espansione del ruolo dello stato e del pubblico alimentata da una fiscalità progressiva) abbia raggiunto limiti invalicabili; e che quindi occorra cominciare a “ritirarsi su posizioni prestabilite”. Riconoscendo, contestualmente, anche se ancora a mezza bocca, le ragioni dei propri avversari: sarà il passaggio di Mitterrand dal “cambiamento della vita” all’ortodossia economico-finanziaria, sarà la denuncia del manifesto elettorale di Foot come “l’annuncio di suicidio più lungo del mondo”, sarà la fine degli anni di Brandt, sarà la rivoluzione craxiana e il corrispettivo passaggio del Pci dal comunismo al moralismo. Nulla di male nel ritirarsi, naturalmente: purché non si perda di vista il proprio avversario e non ci si privi degli strumenti atti a combatterlo. Mentre è proprio questo che avviene negli ultimi decenni del novecento. Per dirla in sintesi, il capitalismo rompe i confini dello stato nazionale rinnegando, con ciò, i vincoli e le regole che reggevano il “compromesso democratico”con il suo antagonista socialista senza che questo se ne accorga predisponendo le adeguate contromisure. Se c’era una fase della storia in cui, parafrasando Nenni, occorreva “internazionalizzarsi o perire”il socialismo manca totalmente all’appuntamento, chiudendosi ancor di più nei propri ristretti confini nazionali: il grande Evento del 1989 apparterrà, nella sua interpretazione e nella sua successiva gestione, agli altri. Ultima tappa, la resa. Che nei paesi di antica tradizione socialdemocratica non implicherà il passaggio, armi e bagagli, nel campo dell’avversario; mentre nei partiti iperideologizzati dell’Europa latina (pensiamo, in particolare alla Francia e all’Italia) si configurerà come vera e propria abiura. La nemesi verrà dopo. Nel secondo decennio del nuovo secolo. Quando il popolo subirà in pieno gli effetti di una crisi tutta interna al nuovo capitalismo finanziario, oramai privo di qualsiasi controllo e non troverà al suo fianco i suoi tradizionali referenti; per essere vittima, nel periodo successivo, di una serie di misure di austerità liberista cui avranno aderito, con entusiasmo, coloro cui aveva affidato i suoi interessi e le sue speranze. Non è una sconfitta. E’ una perdita di senso e di identità. Tale da rendere il nostro messaggio e le nostre stesse parole vuote e incomprensibili; e da coinvolgere nel nostro disastro anche le formazioni della sinistra radicale e lo stesso populismo di sinistra. A riempire il vuoto, a rispondere al senso di abbandono di un popolo informe perché formato da una massa di esclusi, sarà allora il populismo di destra: sua l’unica narrazione semplice e convincente del disastro, sua l’invenzione del Nemico, sua la capacità di “essere popolo”, sue le risorse derivanti dall’appoggio dell’”amico americano, sua soprattutto la sua capacità di porsi al centro di un mondo caratterizzato, insieme, dall’ordoliberismo, e dal disordine segnato dalla totale mancanza di regole condivise. E i socialisti? Più di cento anni fa, i promotori della grande avventura del socialismo democratico avevano bene in mente i pericoli insiti nel loro percorso: da una parte il loro riassorbimento da parte del sistema; dall’altra l’impazzimento del medesimo che li avrebbe trascinati con sé. Nel corso degli ultimi trent’anni abbiamo vissuto, in sequenza, ambedue le vicende. Che fare allora ? La prima ineludibile tappa è quella di ridefinire la nostra identità e il nostro ruolo a partire dalla conoscenza del mondo che ci circonda. E qui, non a caso, abbiamo dedicato, a partire dal titolo di questa nota, grande attenzione al rapporto tra socialismo e popolo. Un popolo che non “ci appartiene”per diritto divino o in virtù del processo storico; e nemmeno per i meriti acquisiti. Ma nella misura in cui sapremo tenere fede al percorso che gli abbiamo indicato per la sua emancipazione. Un percorso basato sulla centralità dello stato democratico e sulla “missione del pubblico”e, nel contempo, sulle organizzazioni collettive garanti dell’autonomia delle classi subalterne . Con, a saldare e garantire il tutto, un internazionalismo attivo a sostegno della pace. Una strategia oggi più valida che mai: in un mondo e in un’Europa segnati, ad un tempo dai disastri dell’ordoliberismo e da un progetto alternativo sotto il segno di un populismo di destra di carattere propriamente eversivo. Ma anche una strategia che abbiamo abbandonato lungo la strada; e proprio nel momento in cui era più necessaria . Se è così, il populismo è conseguenza e non causa della nostra uscita dalla scena. Non hanno quindi alcun senso né giustificazione le nostre reazioni paranoiche nei suoi confronti. E men che meno la nostra disponibilità a dire sì senza se e senza agli appelli a serrare i ranghi che vengono da un’Europa collettivamente e politicamente inesistente nei confronti di un nemico ad un tempo terribile ma , insieme, indefinito, in una notte in cui tutte le vacche sono grigie. E invece il significato di “sovranismo”e di “populismo”va attentamente definito. Nel primo caso, ricordando agli immemori che il “sovranismo”non è una dottrina ma la semplice rivendicazione del diritto di ogni popolo- e aggiungeremmo di ogni collettività- di decidere liberamente del suo destino. In quanto poi al populismo non si tratta assolutamente di una novità sgorgata dagli abissi. Ma di un fenomeno presente, in modo endemico e/o epidemico in tutto il mondo: diventando, peraltro, cultura egemonica nei momenti di crisi della democrazia liberale e delle sue istituzioni ( e qui l’esempio estremo della Germania degli anni trenta rimane d’obbligo). E aggiungiamo subito che, in assenza della sinistra- in Europa e altrove- il populismo assume oggi- ancora come negli anni trenta- un carattere di destra. Perché basato sulla caccia permanente contro il nemico esterno e interno: i migranti, i diversi, i difensori dei principi della democrazia liberale, la Russia, l’Islam e quant’altro. Perché volutamente silente sul ruolo dello stato e sul conflitto sociale. E infine perché sempre più nettamente schierato con il “partito americano”nella sua lotta contro i difensori della sovranità nazionale e del ruolo autonomo dell’Europa. E basti, a questo riguardo, pensare alla recenti scelte di Salvini, autonominatosi anello di congiunzione tra Trump e i suoi referenti europei. Così stando le cose, i socialisti devono rifiutare l’alternativa fasulla tra l’Europa di oggi e i populisti: né con il partito americano che vuole distruggere l’Europa per quello che è stata e per quello che potrebbe essere né con le sue dirigenze attuali “forti con i deboli deboli con i forti”. Occorre distinguere il populismo come cultura politica dal populismo come fenomeno storico. In comune con il primo il socialismo può avere convergenze, slogan e qualche tecnica comunicativa. Ad esempio il “chi non lavora non mangia” sulle bandiere rosse conteneva un secolo fa elementi di populismo che si avvicinano molto a Podemos, nato per il “pueblo indignado” contro i profittatori di una finanziarizzazione vissuta come predatoria (e in gran parte realmente tale) la cui ricchezza non nasce da “autentico lavoro”. Lo slogan di Corbyn (“for the many not the few”) anche esso è un discendente molto legittimo di questa tradizione. Corbyn riscopre nel socialismo l’unica forza da opporre ad un capitalismo che non intende di per sé mai civilizzarsi una volta per tutte. Perché questa è l’evidenza dei lustri recenti: Dopo decenni di riformismo efficace (la socialdemocrazia rettamente intesa) e dopo anni di tecnicismo evirato ed acquiescente (la terza via) è ben chiaro che il capitalismo non è mai civilizzato e razionalizzato una volta per tutte. Se la cultura socialista deve laicizzarsi, dinamizzarsi e sempre rinnovarsi non è (come alcuni hanno creduto) per divenire social-liberale o ordo-liberale, ma perché il capitalismo è incivile in modi sempre nuovi e va riformato in modi sempre nuovi. E il populismo di ciò è un effetto inevitabile. Ciò riporta al populismo come cultura politica e al populismo come fenomeno storico: il socialismo sa (ho comunque avrebbe gli strumenti per capire) che il fenomeno populista è uno dei modi in cui le comunità reagiscono agli effetti negativi di un capitalismo non riformato (questo ha detto Polany dei fascismi, e lo avrebbe ripetuto oggi, mutatis mutandis). Insomma, il socialismo deve essere terzo, distinto, rispetto sia al capitalismo, sia alle sue patologie. È il suo compito, oggi come negli anni 1930. Le socialdemocrazie nordiche di quegli anni vinsero anche perché la organizzazione “della classe” (mai negata, nemmeno oggi)avvenne dentro la ricostruzione generale del “popolo”, che la crisi avrebbe potuto condurre pericolosamente lontano. Avvenne rifiutando di abbattere i salari per esportare a tutti i costi (il legno-carta svedese o il bacon danese) e invece proponendo ai ceti agrari di recuperare con la domanda interna la quota esterna che la crisi mondiale decurtava. Così il socialismo divenne “partito della classe” (mai angustamente “di classe) ma anche “partito del popolo”. E lanciò anche obbiettivi e slogan “populisti”: in Svezia si parlò di Folkhem (casa del popolo) strappando lo slogan alla destra e facendone un obbiettivo nazionale, ma non geopoliticamente organicista come avrebbero voluto a destra. Molto simile il ricorso al popolo anche in Danimarca (“la Danimarca per il popolo”) con l’aggiunta della campagna in cui nei manifesti si mostrava il leader Stauning e lo slogan “Stauning o il caos!”. Attuando una profonda riforma del capitalismo, la “ricostruzione del popolo” in un momento di pericolo disgregativo e di nazismo alle frontiere (con numerosi ammiratori interni dei fascismi) non è affatto una pratica aliena al socialismo. Naturalmente, una strategia di questo tipo può svolgersi solo in un contesto esterno neutro, se non favorevole. Un elemento che è stato ben chiaro a tutti i leader socialisti nell’arco di tempo che separa la formazione della Seconda internazionale dalla caduta del muro di Berlino. Dopo, siamo stati travolti dalla grande illusione occidentalista; il che ci ha portato a chiuderci tranquillamente all’interno lasciando tutto il resto alla superiore saggezza dell’Europa, del capitalismo globalizzato e, in ultima analisi, del suo stato guida; tra l’altro molto più esigente e invasivo di quanto fosse ai tempi ai tempi della guerra fredda. Una scelta che noi, e assieme a noi l’Europa, abbiamo pagato caramente; perché la nostra assenza ha aperto la strada ad un mondo in cui noi stessi e il nostro continente stiamo pagando i prezzi e di un ordine ingiusto e di un disordine assolutamente distruttivo. E qui ripartire non significa schierarsi. Ma capire da subito che la difesa di ogni sovranità- per definizione democratica- implica necessariamente il sostegno attivo di un movimento volto a modificare un ordine mondiale insieme ingiusto e basato su conflitti senza limiti e senza regole. In questo quadro il problema dell’Europa è assolutamente centrale. In negativo perché questa Europa è fondata su regole e su politiche che, bloccando sul nascere qualsiasi strategia di espansione della domanda interna, negano, di riflesso i diritti della democrazia e il valore stesso del suffragio universale; in positivo perché cambiare l’Europa significa ricreare una forza e uno spazio essenziali per la creazione di un ordine mondiale degno di questo nome. Mission impossibile ? Almeno così ci dicono i sacerdoti dell’ordine attuale e quelli che con una purezza ideologica miope confondono la forma ( i trattati che non possono essere cambiati e così) con la sostanza della politica, ponendoci nell’alternativa del diavolo tra il subire e l’andarsene. Mentre noi proponiamo delle battaglie politiche, a livello locale ed europeo sul merito delle scelte attuali e di quelle possibili. Nella convinzione che lo scontro politico sulle cose sia di per sé fonte di ogni possibile cambiamento. Siamo, oggi, in una condizione opposta a quella in cui si trovarono i nostri maggiori nel secondo ottocento, Allora si trattava di indirizzare grandi forze già di per sé concretamente in movimento per rovesciare l’ordine costituito. Oggi abbiamo tutte le idee “ a posto”; mentre non riusciamo a vedere le forze disponibili a portarle avanti. Ma non dobbiamo perderci d’animo per questo. Perché la nostra è esattamente la condizione in cui si trovò la nuova destra – insieme liberista e populista- verso la metà degli anni sessanta, negli Stati uniti dominati dalla cultura rooseveltiana, arricchita da quella dei diritti civili; un ciclo che sembrava auto propulsivo e che invece crollò, dando inizio ad una oscillazione del pendolo che, a sua volta, sembra inarrestabile. Ma i cicli finiscono, prima o poi. E anche questo, che lo si creda o no, sta finendo; a partire dal mutamento di segno delle reazioni popolari in particolare nel mondo anglosassone. E, in questa fase, si tratterà semplicemente di esserci: perché l’alternativa sarà, puramente e semplicemente, quella tra socialismo e barbarie.

martedì 23 aprile 2019

Bolle, tassi e tasse - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

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Spain's election: How Pedro Sánchez revived the Spanish socialists | EUROPP

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Antonio Caputo: liberalismo, liberalsocialismo, azionismo, ieri oggi e soprattutto domani | Fondazione Critica Liberale, dal 1969 la voce del liberalismo

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Come cambia la sinistra europea, tra leader assenti e principi dimenticati « gianfrancopasquino

Come cambia la sinistra europea, tra leader assenti e principi dimenticati « gianfrancopasquino

Capitalism’s Great Reckoning by James K. Galbraith - Project Syndicate

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Relazione tra deficit e debito: Francia, Spagna e Italia negli anni dopo la crisi del debito sovrano - Laboratorio

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The Eternally Optimistic IMF by Ashoka Mody - Project Syndicate

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Def 2019, quando la realtà prevale sui sogni – L'Argine

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Thomas Fazi: Per un socialismo del XXI secolo

Thomas Fazi: Per un socialismo del XXI secolo

Sanzioni USA sul greggio iraniano

SANZIONI USA SUL GREGGIO IRANIANO: COLPO A TEHERAN O ALL'ECONOMIA MONDIALE? Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha annunciato ieri che gli Stati Uniti non rinnoveranno le esenzioni sull’acquisto di petrolio iraniano che erano state concesse lo scorso novembre a otto paesi, tra cui l’Italia. L’obiettivo dichiarato dall’amministrazione di Donald Trump è quello di ridurre a zero le esportazioni di petrolio iraniano, costringendo dunque Teheran a tornare al tavolo negoziale per la discussione di un nuovo accordo che tenga in considerazione altri aspetti oltre a quello nucleare. Nonostante le garanzie fornite da Pompeo circa il fatto che Usa, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) compenseranno il vuoto di produzione iraniano, impedendo dunque l’impennata dei prezzi, sorgono numerosi dubbi circa il fatto che questo sia realmente possibile. La decisione di Trump rischia infatti di avere pesanti conseguenze tanto economiche quanto politiche. VERSO UN NUOVO RIALZO DEI PREZZI? Nell’annunciare la decisione di non rinnovare le esenzioni, il segretario di Stato Pompeo ha rassicurato la comunità internazionale circa lo scenario di un aumento dei prezzi del petrolio dovuto alla diminuzione della quantità di greggio immesso sul mercato. Pompeo ha infatti annunciato che Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aumenteranno la propria produzione in modo da compensare l’uscita iraniana dal mercato e scongiurare così l’aumento dei prezzi. Le cose però potrebbero non essere così semplici. In primo luogo, Stati Uniti e Arabia Saudita/EAU hanno obiettivi di prezzo diversi: se per gli Usa è prioritario mantenere prezzi bassi, soprattutto con l’arrivo della stagione estiva, per i paesi produttori del Golfo un rialzo dei prezzi garantirebbe maggiore respiro alle casse statali: nella scelta tra aumentare la produzione per tenere basso il prezzo, e mantenere invariata la produzione garantendosi dunque maggiori entrate, la scelta razionale sembrerebbe la seconda. Fonti vicine alla casa reale saudita avrebbero dichiarato che Riyadh è pronta a compensare per le quote di greggio mancante, ma solo dopo aver valutato gli effetti del mancato rinnovo delle esenzioni sul mercato. Inoltre, Arabia Saudita ed Emirati, così come gli altri paesi produttori, sono soggetti ai tagli di produzione concordati in sede OPEC+ lo scorso dicembre, destinati a durare fino a giugno. Anche l’Iraq – secondo produttore OPEC – ha ribadito il proprio impegno a rispettare la politica dei tagli decisa in sede OPEC, affermando che eventuali decisioni circa la sospensione dei tagli debbano essere prese in maniera collettiva. Nel breve periodo, dunque, anche considerando il prolungarsi delle crisi in Venezuela e in Libia, le possibilità di un aumento del prezzo del petrolio sembrano sempre più concrete. LA REAZIONE DELL'IRAN Dopo aver designato come entità terroristica il corpo dei guardiani della rivoluzione iraniana – ovvero i Pasdaran – la decisione di non rinnovare le esenzioni sull’acquisto di petrolio iraniano rappresenta un altro tassello nella strategia Usa di “massima pressione” verso Teheran. Se l’obiettivo americano rimane quello di costringere l’Iran a tornare al tavolo negoziale per discutere un nuovo accordo dai termini maggiormente favorevoli per Washington, la realizzazione di questo obiettivo rimane al momento assai lontana. L’Iran ha infatti una lunga storia di “resistenza” a politiche percepite come aggressive e arroganti, e cedere di fronte a questo tipo di politiche non rientra nel novero delle opzioni del governo. Occorre anche considerare gli effetti della politica Usa di massima pressione sulla popolazione iraniana: se ufficialmente Washington dichiara che le proprie politiche sono destinate a colpire la classe dirigente, nella realtà dei fatti le sanzioni non hanno avuto finora altro effetto che quello di causare una gravissima crisi economica, con la riduzione delle possibilità di acquisto e l’innalzamento del costo della vita. Se ciò appare mirato a porre la popolazione iraniana contro la propria classe dirigente, in realtà ciò che sta accadendo è un effetto “rally around the flag”, ovvero un compattamento degli iraniani attorno alla propria bandiera. Sul piano pratico, la reazione iraniana consisterà con ogni probabilità nel continuo esercizio della “pazienza strategica”: in vista delle presidenziali del novembre 2020, a Teheran si spera che Trump e i suoi consiglieri lasceranno la Casa Bianca. Nel frattempo, si cercherà di mantenere un flusso accettabile di esportazioni verso i paesi asiatici, e si continuerà a investire nella creazione di meccanismi di scambio alternativi al sistema tradizionale imperniato sull’egemonia del dollaro. È lecito attendersi un inasprimento della retorica, come nel caso della minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz, uno dei principali chokepoint da cui transita circa il 35% del petrolio commerciato via mare a livello globale. Difficile però che Teheran dia realmente attuazione alla minaccia: il mantenimento della libertà di navigazione nelle acque del Golfo Persico è per gli Usa una priorità di sicurezza nazionale, in quanto collegata alla garanzia dei rifornimenti energetici. L’Iran è conscio che chiudere Hormuz sarebbe la premessa a un’escalation anche militare con gli Usa, un’escalation alla quale Teheran non sembra voler arrivare. TO WATCH: COSA FARANNO I PAESI ASIATICI La vera incognita per i prossimi mesi, da cui dipenderà la capacità iraniana di mantenere un flusso accettabile di esportazioni, è rappresentata dalle azioni che intraprenderanno Cina, Turchia e India, i tre maggiori acquirenti di petrolio iraniano, che sono stati colti di sorpresa dalla decisione di Trump di ridurre a zero le esportazioni di greggio di Teheran in maniera così repentina. Se infatti i due europei – Italia e Grecia – non hanno mai fatto uso delle esenzioni concesse da Trump e hanno fin da novembre azzerato i loro ordini di petrolio iraniano, così non è stato per i paesi asiatici, che hanno continuato ad acquistare il greggio iraniano, assicurando a Teheran esportazioni per circa 1,5 milioni di barili al giorno. Tanto la Cina quanto la Turchia hanno reagito all’annuncio di Pompeo dichiarando la propria opposizione alle sanzioni unilaterali statunitensi. All’atto pratico, però, occorrerà aspettare le mosse di questi paesi nei prossimi mesi. La Cina è impegnata con gli Usa in un più ampio negoziato sul commercio internazionale, e la rinuncia all’acquisto di petrolio iraniano, in ottemperanza alle richieste di Washington, potrebbe essere un gesto di “buone intenzioni” per non compromettere l’accordo sulle altre questioni aperte tra i due attori. Rimane però l’urgenza per Pechino di compensare i propri acquisti di greggio iraniano con acquisti da altri fornitori, con l’incognita della effettiva capacità degli altri paesi produttori di assecondare la fame energetica di Pechino. Anche la Turchia proverà a bypassare le sanzioni statunitensi. Teheran e Ankara hanno annunciato negli scorsi giorni la creazione di uno speciale canale per le transazioni che utilizzerebbe rial iraniano e lira turca, evitando dunque le transazioni in dollari. Anche nel caso di Ankara, però, lo stato burrascoso delle relazioni con Washington potrebbe paradossalmente rappresentare un ostacolo al mantenimento delle relazioni con l’Iran: considerate le tensioni, Ankara potrebbe non voler provocare Washington, oppure potrebbe essere pronta a “sacrificare” le relazioni con Teheran in cambio del via libera statunitense su questioni ritenute di maggiore urgenza, come il placet a una presenza turca duratura nel nord della Siria a perenne presidio anti-curdo. Più pragmatica per ora la reazione dell’India, che ha dichiarato di avere la situazione sotto controllo e di essere pronta a fare fronte alla decisione Usa, che considera “non definitiva”. L’India è il secondo maggior acquirente di petrolio iraniano dopo la Cina, e il terzo maggior consumatore di petrolio al mondo. Teheran è per Nuova Delhi il terzo fornitore, dopo Iraq e Arabia Saudita. Lo scorso novembre il governo indiano aveva acconsentito a ridurre le proprie importazioni di greggio da Teheran dai 452.000 barili al giorno dell’anno finanziario 2017-2018 agli attuali 300.000 barili al giorno. E infine la situazione di Corea del Sud e Giappone, gli altri due paesi asiatici a cui erano state concesse le esenzioni e che rientrano nel novero degli alleati Usa. Seoul, che è il quarto maggior acquirente di petrolio iraniano, è stata impegnata nelle ultime settimane in un complesso negoziato con Washington per ottenere il rinnovo delle esenzioni; per l’industria petrolchimica sudcoreana sarebbe infatti fondamentale la continuità del rifornimento di petrolio super leggero iraniano. Il Giappone invece ha già ampiamente ridotto le importazioni di greggio iraniano, che oggi conta solo per il 3% delle importazioni giapponesi. In conclusione, il nuovo tassello della politica Usa di “massima pressione”, volta a punire Teheran e ridurne sensibilmente le entrate monetarie, rischia di avere ripercussioni ben più ampie sui mercati energetici mondiali, sugli alleati di Washington e sugli stessi Stati Uniti.

After the Israeli Elections | Dissent Magazine

After the Israeli Elections | Dissent Magazine

What Comes After Labor Zionism? | Dissent Magazine

What Comes After Labor Zionism? | Dissent Magazine

Fulvio Papi: L'ombra dell'Europa

Da Odissea L’OMBRA DELL’EUROPA di Fulvio Papi Aveva certamente ragione Umberto Eco quando affermava che nel medio evo attraverso le Università (immaginiamo, per esempio la linea Bologna, Parigi, Oxford) si era formata una unità europea. A condurre a questo risultato non era certamente un proposito politico, ma piuttosto la materia stessa dell’insegnamento europeo che aveva al suo centro, come esplicazione, commento e confutazione, l’opera di Aristotele. Fu un insegnamento europeo che durò per secoli, sino alla soglia dell’Illuminismo. Un elemento unificante era certamente il latino come lingua “scientifica” dell’istituzione universitaria che coesisteva con le lingue “nazionali”, le quali avevano la loro diffusione nelle opere letterarie e politiche i cui lettori, una minoranza alfabetica, parlavano e leggevano in volgare, in contrasto tuttavia con la liturgia religiosa che manteneva il latino per tutte le sue pratiche. Come esempio del rapporto, durato a lungo, tra latino “scientifico” e lingua nazionale si può ricorrere a Kant la cui opera scientifica giovanile di carattere cosmologico era scritta in tedesco, mentre le dissertazioni universitarie erano rigorosamente compilate in latino. Queste considerazioni sull’esistenza di fatto di un’area scientifica europea, non hanno niente a che vedere con la problematica di un’unità politica europea. Lo sviluppo storico avrebbe segnato il conflitto permanente tra le grandi unità statali come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra e le interminabili guerre di religione. Anche quando fu trovato con la formula “cuius regio, eius religio” una pacificazione religiosa era esattamente l’opposto di un’unità politica europea. Se poi passiamo al periodo napoleonico e alla sua sconfitta storica, la Restaurazione era costituita da potenze alleate reciprocamente riconosciute come legittimi Stati monarchici. Sarà nel successivo periodo delle rivendicazioni istituzionali che i principi del liberalismo politico ebbero una dimensione europea senza peraltro che l’azione politica varcasse i confini degli Stati nazionali, almeno dal punto di vista di un’azione politica che potesse andare oltre i limiti di un proposito intellettuale. Nel famoso periodo della “lunga pace” - tra il 1870 e il 1914 - nei bilanci di grandi stati europei dopo l’unificazione tedesca, le spese militari erano molto rilevanti, e, anche in Austria, se si sta al racconto di Musil, un generale dello stato maggiore - interprete di un’opinione comune - auspicava un allargamento della spesa pubblica per ammodernare l’apparato militare dell’artiglieria. La lunga latenza riguardo a una aperta conflittualità aveva un freno pacifista nel notevole sviluppo economico e sociale che era comune ai grandi stati europei. E aveva però due punti molto importanti di conflittualità: l’uno relativo alla competizione per una egemonia europea; l’altro per l’estensione del proprio dominio coloniale, comunque, in ogni caso, inferiore all’impero britannico costruito con l’assoluta prevalenza sui mari. Un’unità europea c’era certamente, ma non riguardava lo statuto politico delle potenze europee, quanto il modo schiavistico e razzista con cui dalle centrali europee si guardava all’Africa, una terra e una popolazione che acquistavano un senso storico una volta che fosse realizzato il dominio colonialista, considerato politicamente come uno “spazio vitale” e ideologicamente come un’espansione della civiltà. Una terra e una popolazione (se pure con strategie diverse) che erano considerate più prossime all’universo naturale come luogo di sfruttamento, che alla forma elaborata dai riti della civiltà. Nella competizione imperialistica vi era dunque una solidarietà eurocentrica rappresentata ideologicamente come processo di civilizzazione. Il vecchio Kant pensava che lo sviluppo economico commerciale dei paesi europei avrebbe consentito di raggiungere la pace. Ma la sua previsione era sbagliata poiché in ogni potenza europea vi era stato nell’Ottocento lo sviluppo della conoscenza scientifica, una vasta applicazione tecnica, un aumento della produzione e una trasformazione della vita sociale. Lo spirito e le prassi positivistiche univano l’Europa nella medesima direzione verso uno sviluppo simile. Ma questa omogeneità non escludeva affatto una sotterranea, e pure esplosiva, competizione degli stati come potenze. Rispetto alla famosa analisi degli stati nazionali come realtà storico-etiche in potenziale conflitto, si univa storicamente un nuovo decisivo aspetto materiale. Francesco Albani "Il ratto d'Europa" Gli stati europei miravano ad una propria dimensione imperiale che dava all’età la connotazione di una rivalità politica nel dominio del mondo: la nuova epoca in cui la solidarietà eurocentrica (come nel caso della guerra alla Cina di fine Ottocento) si trasformava in un conflitto imperialistico. La Prima guerra mondiale fu l’epilogo tragico di questa precedente storia: gli stati-potenza parlarono il loro linguaggio militare e le stragi della guerra venivano simbolizzate dall’affermazione di un nazionalismo sfrenato nel quale eran travolti tutti i valori internazionali, a cominciare da quello socialista che, nell’alleanza della classe operaia europea, poneva una garanzia di pace fondata sul lavoro. Ma l’Europa non esistette nemmeno più a livello della comunità intellettuale che si trovò schierata accanto al potere degli stati, sostenendone le ragioni politiche. Su un celebre libro di Julien Benda questo schieramento fu denunciato come “il tradimento dei chierici”: la cultura aveva rinnegato il suo valore “spirituale” per il quale non valgono i confini, per divenire - al contrario - una voce di propaganda nazionalista. In Italia Croce, che aveva sostenuto la libertà filosofica, pur dichiarando la sua fedeltà di cittadino allo stato, fu accusato da qualcuno di sentimenti filo-tedeschi. A Romain Rolland con il suo celebre saggio Al di sopra della mischia costò l’accusa di tradimento. In Germania l’Università tedesca, salvo alcune rare eccezioni, diede un totale appoggio alla politica del Kaiser sostenendo l’identità tedesca con il famoso termine di “Kultur” opposto alla società pragmatica ed esteriore degli altri paesi europei, un radicale nazionalismo che, come è noto, ebbe persino la sua eco nel libro di Thomas Mann pubblicato nel 1918. E poi fu molto difficile, nel dopoguerra, ristabilire una corrispondenza tra le due culture, francese e tedesca. Negli anni Venti furono piuttosto gli intellettuali americani da Gertrude Stein a Hemingway a rivalutare lo “spirito” della cultura europea al di là del loro ambiente d’origine negli Stati Uniti, troppo condizionato dal potere e dalla cultura economica. Quale immensa catastrofe con 60 milioni di morti sia stata la Seconda guerra mondiale, è noto a tutti, se pure con una memoria che appare un poco appannata. Non c’è dubbio che il conflitto sia stato la distruzione dell’Europa, dovuta all’aggressività del regime autoritario e razzista della Germania. Solo il pacifismo cieco della Francia e dell’Inghilterra poteva ritenere che l’equilibrio europeo rimanesse stabile dopo i trattati del 1919. L’Europa, al contrario, era destinata a una strage ancora molto più grave di quella della guerra mondiale 1914-1918. Ma la distruzione, l’azzeramento selvaggio delle nostre risorse umane e civili produceva, a sua volta, un nuovo inizio. Nella Resistenza all’occupazione nazista vide impegnate nuove energie combattive dalla Norvegia alla Francia, dalla Francia all’Italia, alla Slovenia, alla Grecia. Ogni formazione combattente aveva certamente un suo particolare alone ideologico, ma in tutta la Resistenza europea appariva sempre in primo piano la parola ‘libertà’. Forse la celebre poesia di Éluard sulla libertà può rievocare lo spirito che questa parola aveva in ogni forza insorta contro il nazismo. Si può dire, un poco letteralmente, che nella guerra di liberazione l’idea (trascendentale) di libertà segnava spontaneamente un’unità dell’Europa. Naturalmente poi, in periodo di pace, la libertà assunse le forme politiche, costituzionali e giuridiche che erano possibili secondo le tradizioni e le condizioni effettuali in cui si trovava ogni singolo paese. Quello che nella resistenza al nazismo era stato una uniformità europea, ritornava ad essere il problema politico dell’unità europea secondo disegni e propositi che erano maturati prima e durante la guerra. Per l’Italia il famoso “Manifesto di Ventotene”. Questi brevi cenni storici, del resto ampiamente noti, possono spiegare come il desiderio confuso, ma reale, intorno ad un’unità europea che fosse la garanzia di un futuro di pace, costituisse un sentimento diffuso, nel mentre nei paesi occidentali, destinati all’influenza americana da precedenti accordi internazionali, la libertà come movimento di liberazione, prendeva la forma di strutture statali di natura liberaldemocratica, anch’esse da interpretare secondo le concrete condizioni storiche che davano un costume sociale vivente alle strutture politiche di natura formale. Come vedremo sarà lo sviluppo economico e tecnologico mondiale con i suoi plurali effetti sociali, a creare le condizioni di crisi di questo assestamento politico e dei suoi elementi costitutivi. Il problema di un’unità europea prendeva corpo come era possibile in una scena mondiale dominata dalla guerra fredda e dalle pericolose tentazioni che essa provocava nello spazio mondiale, con circostanze di guerra tradizionale come nel caso del conflitto in Corea. Se non si tiene presente lo scenario internazionale con la collocazione politica dell’Europa occidentale già nel 1949 nell’alleanza atlantica, non si possono capire i primi passi verso l’unità europea e la modernità intellettuale che ne voleva garantire l’attualità in una rievocazione di una radice culturale comune. Infatti a livello della argomentazione politica il Trattato di Roma del 1954, la cui importanza non va affatto sottovalutata, comunque siano accaduti i fatti successivi, si presentò soprattutto come una interpretazione politica di una unità culturale europea. Essa si andava lentamente ricostruendo, sulla base sottintesa di un’unità dalla spinta europea, come eredità della complessa tessitura della sua storia. Tant’è che il Trattato fu preceduto dalla “Convenzione culturale europea”. Naturalmente vi furono non pochi tentativi di precisare quale tradizione fosse in posizione preminente: la cultura religiosa, illuminista, storica o scientifica. Iniziative, anche dal punto di vista teorico piuttosto futili se si ha un’immagine corretta e problematica dei processi storici, ma soprattutto ignare che la rivendicazione di uno spazio ‘spirituale’ era l’unica risorsa politica spendibile per un’identità europea nel quadro politico dominante. Non è qui il luogo (e non vi è nemmeno la competenza) per esaminare gli sviluppi di quello che appariva come un processo progressivo di unificazione europea. Ma è certo che l’Europa occidentale per molti anni continuò a rappresentare la linea avanzata per il contenimento di una possibile espansione sovietica, caso molto poco probabile, per il contrasto della sua possibile influenza nel mondo occidentale. In questa situazione l’Europa fu il territorio nel quale si dislocarono alcune fondamentali misure militari americane. Era l’equilibrio della reciproca minaccia atomica con un vantaggio economico europeo che forse non è stato considerato in tutta la sua importanza. Le rovine della guerra e le sue condizioni di vita alla fine degli anni Quaranta erano già superate, e si aveva l’impressione che la vita economica e sociale stesse già superando i livelli che erano propri degli anni Trenta. A consentire questa rapida ricostruzione, come sanno tutti, fu il Piano Marshall che fornì i mezzi finanziari indispensabili, insieme all’insediamento politico e militare in Europa da parte degli Stati Uniti. Contemporaneamente nacque quella situazione che fu considerata come la difesa europea tramite l’ombrello atomico americano. Per quanto riguarda l’Europa questa situazione comportò la circostanza economica che le spese militari fossero ridotte al minimo, e una parte rilevante del bilancio statale garantiva una spesa pubblica in direzione di un ammodernamento della produzione nelle infrastrutture e nei consumi di un paese, si diceva, a economia mista, ma in realtà indirizzato verso un generalizzato stile capitalistico. In questo quadro comune ai paesi europei si manifestarono due fenomeni importanti e, in certo senso connessi tra loro: all’interno della vita nazionale aumentava il peso pubblico e sociale della componente socialdemocratica, in politica estera nasceva il problema di un coordinamento del mercato europeo attraverso una razionalizzazione dei vari fattori che ne costituiscono la realtà economica. Iniziava un processo che veniva spesso interpretato come la strada per l’unificazione europea. Cattaneo, sulla base della sua esperienza sosteneva che era più facile federare degli stati che dei singoli paesi. La storia europea - che questa nota non può certamente evocare - non fu così. E l’immaginazione di un’Europa come soggetto politico unitario con una regolamentazione comune degli elementi che regolano la vita sociale e una propria politica estera, rimase appunto una immaginazione. L’unificazione della moneta che favoriva (chi più chi meno) le condizioni di stabilità del mercato fu una misura importante, man non cambiò per nulla, come era ovvio, la possibilità europea di affrontare i fenomeni che caratterizzavano una nuova epoca: il processo di globalizzazione economica che metteva in crisi rapporti economici e sociali stabilizzati, la crisi che derivava dal processo ben noto di una finanziarizzazione del capitale di contro al suo impiego produttivo, gli effetti sociali della trasformazione tecnologica del lavoro, il fenomeno epocale dell’emigrazione. Una situazione che non aveva più nulla in comune con l’inizio degli anni Cinquanta e che mostrava come l’unità europea non fosse diventata affatto una struttura storica, ma soltanto un insieme di accordi legislativi che interessavano i singoli stati. Tant’è che di fronte ai problemi mondiali che abbiamo ricordato rinascevano le figure storiche e le convinzioni politiche relative agli stati nazionali. Rinascevano forme culturali e socialmente identitarie che, probabilmente, avevano costituito il sottosuolo, mai scomparso, della propria storia. Nel momento in cui l’intelligenza politica mostrava, nell’astrazione, del resto corretta, dei suoi propositi, che solo un’Europa unita avrebbe potuto esistere come realtà storica, nel mondo contemporaneo ormai minacciato definitivamente da un collasso del sistema naturale (colpa d’origine dell’ideologia economica della nostra storia). Se qualcuno avesse dubbi su quello che temo come il tramonto dell’Europa (le civiltà si costituiscono con i mezzi materiali che esistono) cercherò di richiamare facilmente come in generale funziona questo organismo che tuttavia è una forma dell’unità europea. Le leggi che vengono approvate a livello europeo derivano tutte dalle decisioni della Commissione europea, un organismo dominato da una seria competenza burocratica, culturalmente liberista per solida educazione, operativamente onnipotente. Questo organismo delibera norme che possono essere in contrasto con le norme di stati che fanno parte dell’unità europea. Sono leggi importanti che riguardano per lo più i rapporti commerciali e alcune istituzioni sociali, ma che sono altresì impositive per quanto riguarda l’equilibrio di bilancio degli stati. Sono temi complessi i quali, in attesa (un po’ immaginaria) di modifiche, richiedono competenze molto rigorose e non chiacchiere forse degne del mercato ittico e dei suoi frequentatori. In ogni caso il Parlamento europeo, nonostante i Trattati di Lisbona modifichino in parte quelli originari di Maastricht, ha una possibilità modestissima di cambiare le leggi varate dalla Commissione europea, e sempre attraverso procedure così complesse da renderne quasi impossibile una correzione parlamentare. Per capire quale sia il rapporto tra la Commissione e il Parlamento basti pensare che dal 2001 al 2017 su 545 leggi proposte dalla Commissione il Parlamento europeo ne ha contestate solo l’1,1%. Una costituente europea avrebbe certamente mutato questo stato di cose e avrebbe ritrovato la strada maestra per una soluzione politica dell’identità europea. Ma è stata bocciata nel 2007 in Francia (che forse sognava Napoleone) e in Olanda (che forse sognava il tempo delle 7 province unite). Il risultato è che i Trattati sono la sola forma costituzionale europea con tutte le conseguenze che ne derivano. L’Europa non riesce ad affrontare un problema fondamentale del nostro tempo come quello di rimettere la finanza nel quadro produttivo delle imprese, noi sappiamo, anche a livello dell’esperienza comune, che gli aspetti sociali della trasformazione tecnologica del lavoro sociale (la robotica va considerata ben al di là di una prova riuscita dell’intelligenza) pongono il problema di una redistribuzione del reddito, dato l’impiego di una minore forza lavoro e, come è stato giustamente osservato, la modalità della produzione tende a trasformare il capitale variabile (il lavoro umano) in capitale fisso (le macchine). Come ho già detto vi è il problema sociale (non solo umanitario) dell’emigrazione che non viene mai considerato in modo serio ad esempio nella riflessione demografica. Nei nostri paesi va considerato il problema dell’impoverimento delle classi medie che, al di là delle chiacchiere e delle chimere, non torneranno mai più ai livelli di ricchezza sociale dei decenni passati. Anche questo è un problema politico e culturale cui l’attuale unità europea non è in grado, come negli altri temi ricordati, di dare una risposta. È necessario - domandiamo - che il “bene” europeo si identifichi con l’entità dei consumi? Possiamo dire che l’Europa negli ultimi decenni ha subito la trasformazione del mondo senza riuscire ad essere una presenza importante, accettando, nella sua incapacità operativa, ad essere un soggetto storico, la sua relativa emarginazione, o il terreno di una “pacifica” conquista capitalistica. Credo che questa incapacità di riconoscere i problemi che ho ricordato derivi proprio dal “pensiero” del liberismo sfrenato, della sua “ontologia regionale” che ha già trasformato - per fare un solo esempio - il problema dell’energia rinnovabile nella prospettiva di un “affare”, senza rendersi conto dei gravi margini di contraddizione e di insufficienza esistenti. In teoria non è difficile indicare soluzioni diverse, quelle che l’Europa non ha realizzato, e che invece sono sollecitate dalla moralità collettiva. In pratica la vera globalizzazione è data da un intrigo a livello mondiale che coinvolge le forme della riproduzione sociale, produttive, tecnologiche, simboliche, immaginarie che nessun “soggetto” è in grado di dominare, e che rischiano, ancora una volta, l’incontro maligno e imprevedibile di potere. Come il ritorno di esibizioni nazionalistiche secondo i livelli della loro potenza, ridicole o pericolose, sembra un possibile annuncio. E confesso di temere che oggi la possibilità di una unità europea, nonostante fondamentali esigenze pubbliche e buone volontà politiche, sia più difficile che cinquant’anni fa. Ma c’è sempre l’imprevedibile. Jean Cousin "Il ratto d'Europa" Dal punto di vista della cultura la smetterei con la testimonianza, un poco forzata, intorno ad uno “spirito” europeo. Bisognerebbe non aver capito niente delle lezioni che pure ci ha dato l’antropologia contemporanea per ripetere prospettive che a suo tempo, come ho mostrato, avevano un loro valore strategico. Cercherò in qualche modo di trovare una risposta al tema dell’ “intellettuale superfluo” che pure è stato sostenuto con argomenti intellettualmente molto raffinati. Comincerò con l’affermare che nel nostro tempo coesistono forme culturali differenti che non possono e non devono essere omologate. Nella narrazione storica, per lo più, vengono prese in considerazione le forme elevate della cultura in genere in un rapporto tra la ricerca e le circostanze materiali che la comprendevano, il lavoro filosofico, letterario, artistico o di altra natura. In questa direzione è stata molto importante la storiografia che ha preso in considerazione aspetti della vita quotidiana, come le forme del lavoro dell’agricoltura o dell’artigianato, le forme culturali che davano un orizzonte simbolico alla vita sociale, come ad esempio i matrimoni e la loro celebrazione religiosa. Credo che questa lezione vada considerata anche per la nostra epoca, anche se sono certamente valide quelle considerazioni sociologiche e filosofiche che mettono in luce un elemento predominante lo stile sociale di un’età, come quando si parla di una società liquida o di una società dello spettacolo. Oggi vi è certamente l’uniformità di una cultura di massa che deriva dalla prassi capitalistica dello scambio e dalle forme dominanti della comunicazione, cartacea o digitale che decade a informazione esteriore perché non consente quasi mai di collocare la “notizia” su un reticolo relazionale, che è il solo a poter consentire la traduzione di un fatto nel senso del fatto. Sappiamo tutti che questo effetto deriva anche dalle forme più avanzate della comunicazione stessa che costituiscono la forma della nostra relazione con il mondo. Rifiuterei però a pieno la sprezzante definizione di Nietzsche del “gregge”, perché all’eguaglianza del “pensiero comportamentale” si contrappongono spesso importanti - e forse inattese - rivolte pubbliche che potrebbero assumere forme politiche che interpretano, sviluppano e trasformano le nostre norme istituzionali. È un’apertura importante rispetto a quella situazione che molti anni fa venne chiamata “mare dell’essere”. Che la cultura tecnologica sia oggi fondamentale in ogni forma della vita sociale o personale, è un’ovvietà. E, con il mutare delle generazioni, si tace anche la protesta passatista. Il che non significa tacitare la critica in una volgare rinascita dell’uguaglianza hegeliana tra reale e razionale. La cultura tecnologica mostra due aspetti tra loro connessi. C’è una cultura tecnologica, pressoché inconscia, che costituisce la nostra vita quotidiana nella sua generalità ed è, di fatto una prospettiva che abbandona la classica intersoggettività idealistica. E c’è una cultura tecnologica fondamentale per l’apparato produttivo (che non ha niente a che vedere con l’intelletto averroista e con la fine del lavoro “alienato”). È in questa direzione che in Europa si sono sviluppate prevalentemente le lauree triennali che tendono a una formazione professionale: decisione didattica che da noi pare coerente. In ogni caso un’unità europea a livello del mercato che nasce da una cultura efficiente (quando lo è) a livello economico. L’Università attuale, soprattutto nella sua dimensione umanistica, ha le caratteristiche di un ambiente chiuso, dominato da regole metodiche che fondamentalmente garantiscono la propria riproduzione, tolto il prestigio etico di una necessità professionale. L’Università non è stata in grado di provocare l’accademia che rinnovava il contenuto culturale, come è accaduto in altre epoche. Tende invece a diffondersi un atteggiamento ostile ad ogni elemento riflessivo, pago dell’emotività che accompagna un basso atteggiamento pragmatico, a questo stile spesso si accompagna la legittimazione del potere politico, quale che sia la cornice culturale e giuridica, che perduto il suo senso storico per mantenere solo la sua efficacia operativa. E in questa dimensione va cercata buona parte della crisi politica contemporanea che comprende la diffidenza e l’opposizione nei confronti di un’istituzione superiore, obiettivo di un progetto intellettuale lontano dalla valorizzazione individualistica della propria vita. Nei nostri anni però si è formata una cultura che affronta problemi molto seri della nostra epoca attraverso le modalità espressive della musica, del canto, della rappresentazione, con un coinvolgimento etico soprattutto giovanile. È una cultura, come sappiamo che ha giustamente raggiunto il premio Nobel, e che, forse, costituisce una risorsa oggettiva molto rilevante a livello di una educazione fortemente reattiva nei confronti del linguaggio popolare che deriva dalle forme del potere dominante e dalle sue conseguenze identitarie. Vi è, infine, una “alta cultura” che dall’Ottocento sino ad una buona parte del Novecento investe la letteratura, la storia, la filosofia, la poesia, la critica sociale, la musica e altre arti. Essa costituisce intuitivamente la forma dello “spirito europeo” un’eredità che appartiene ad una minoranza sociale che, tuttavia mantiene una sua consistenza, anche se sarebbe stolto ritenere che, nella sua totalità, questo sapere costituisca una sicura trasmissione storica di valori simbolici collettivi. È in questa prospettiva che mi accade di leggere la figura dell’“intellettuale superfluo” all’ombra di un “bene” che storicamente decade come sono già decadute culture religiose, architettoniche, urbanistiche, politiche, artistiche ecc. Parlare di cultura europea credo voglia dire, al di là di ogni retorica, parlare di questa crisi, e riuscire a viverla con una misura intellettuale consapevole del proprio valore e della più che modesta influenza culturale. Quale giovane potrebbe identificarsi con Hans Castorp o quale sognare con Madame Chauchat? Certamente stiamo parlando di un “tramonto” che non ha tuttavia nulla in comune con quello celebre di Spengler, che nella sua tesi sul declino vitalistico finiva talora con l’essere assimilato a forme dell’irrazionalismo più violento. Il “tramonto” è da leggere nella forma sociale e materiale della cultura, niente a che vedere con la morte della filosofia. Tuttavia, prima di far cenno a questo problema “epocale”, vorrei ricordare la sorte della comunicazione linguistica surrogata oggi, da strumenti elettronici pubblici e privati. Il linguaggio ha perduto quella caratteristica importante per cui il suo stesso scorrere apre nuovi piccoli spazi di traducibilità del mondo, che si rifletteva nello stesso orizzonte di senso di chi è nel linguaggio. Oggi il lessico dominante è costituito da qualche centinaio di parole o di sigle sufficienti per riprodurre la forma di esistenza dominante. La crisi del tessuto linguistico, la sua perdita di valore metamorfico, è un sintomo rilevante di quella mutazione (o degrado) che non può essere misurata solo al livello della retorica, ma che investe l’insieme delle modalità di esistenza. Questa situazione inibisce di fatto una comunicazione filosofica, non sfiora nemmeno il senso del silenzio, dopo Heidegger è contrastata dalla memoria di una filosofia presocratica, dalla poesia cui è assegnato il luogo di rivoluzione dell’essere, al punto da divenire una poetica di “mestiere”, più che una rivelazione un manierismo collettivo. La cultura del nostro tempo è segnata a livello alto dalla forza della interpretazione che è, nei casi più elevati, la costruzione della propria verità, non certo la memoria oggettivata del passato, direi piuttosto al limite della propria temporalità. Attraverso il lavoro dell’interpretazione nasce la valorizzazione possibile del nostro patrimonio culturale, l’attualità vivente del ricordare (che è il fare) e simboli della nostra esistenza, e, se proprio vogliamo richiamare Nietzsche, il senso della nostra immanenza che, nel suo essere, è costretta a ricordare e dimenticare la sua origine nell’epoca di Dio. Attraverso l’elaborazione del ricordare si celebra il rito dell’inizio nella personalità indefinita delle forme simboliche. L’interpretazione come compito inconscio ma decisivo, vince sempre - se c’è - la caduta nell’oblio, non ripete, ma costruisce una tradizione e assume la dignità di una forma che si proietta nel mondo con il suo valore simbolico. Le cose migliori filosofiche, inventano teoricamente la propria interpretazione, dei doni di una tradizione, sono la sollecitazione di un compimento più lontano. C’è un geniale mettere ordine in un territorio che ospita pensieri come germogli in attesa. Il pensatore di talento forza la fioritura, vi spende il desiderio di verità che è stata una consegna, il suo pensare, è far accadere la tradizione come possibilità: proprio in quanto è nuova energia, viene da una cultura che è già accaduta: resta l’autore di pagine che si aggiungono ad un racconto nell’essenziale già scritto, parla con animata precisione perché non si spenga una voce. La sua verità, che è la nostra verità umana nella sua luce più accesa, è la vita dell’interpretare, la novità conservativa, che non ha nulla in comune con un prezioso museo, poiché, nel limite, conserva l’ingenuità di una propria destinazione. Se mi sono spiegato bene posso tentare, senza scandalo, una qualche somiglianza con il compito che si diedero i copisti medioevali. I copisti attraverso la scrittura salvarono, come è noto, gran parte della cultura classica che costituì il riferimento fondamentale dell’umanesimo, a cominciare dal contradditorio Petrarca. Essi - i copisti - lavoravano con piena convinzione senza poter dominare per nulla quell’orizzonte futuro che era implicito nella riproduzione scrittoria. Il nostro lavoro compreso come interpreti epocali della pluralità di accezioni della tradizione della cultura europea, ci colloca in una situazione che - come dicevo - ha qualche somiglianza con i copisti medioevali. Ci sono opere filosofiche che, con la loro invenzione, appaiono come l’enciclopedia di un sapere simbolico che quivi trova la sua sapiente trasfigurazione. Ma poiché non esiste alcuna forma di pensiero che possa resistere alle mutazioni simboliche provocate dalle condizioni materiali d’esistenza (tale è la forza del nostro destino), queste filosofie tramandano, nella ricchezza del loro autunno, una civiltà intellettuale che subisce il suo inevitabile deperimento. La forma di verità che è implicita in questo lavoro non può sapere quale potrà essere il suo avvenire. Avrà una archeologia? Conserverà una memoria, comprenderà la sua crisi? Sono domande che aprono in direzione di un incognito “oltre” e, se vogliono invece una risposta, stanno parlando del vuoto temporale con la confidenza del proprio stile di percorso, senza fermare il proprio sguardo sui segni materiali del tramonto della propria virtù egemonica. Le difficoltà finora insormontabili (e, purtroppo, il “finora” va compreso nella sua necessità, piuttosto che nella sua apertura) che hanno impedito un’unità politica europea sembrano parallele alla debolezza materiale e al valore simbolico della tradizione della cultura europea. Quella cultura che avrebbe dovuto costituire un mondo internazionalmente rilevante, al di là dei massacri, delle distruzioni, delle follie ideologiche della storia europea, è in realtà poco più di una nostalgia, che è estranea alle forme del sapere che fanno dell’Europa un’eco delle energie prevalenti nel mondo. Capita di vedere l’Europa come un antico maniero, privo del dono della giovinezza, al margine nel nuovo potente triangolo del mondo: Usa, Cina Russia. Dove però esiste, custodita nell’immensa biblioteca, una preziosa eredità della cui sorte, anche i copisti più preziosi, possono solo fare ipotesi, come in un gioco senza alcuna certezza.

Franco Astengo: Lavoro

Italia ultima per occupazione, gli obiettivi Ue 2020 sono lontanissimi (rielaborazione a cura di Franco Astengo) Di seguito i dati di Open Polis sull’occupazione in Italia a confronto dei livelli europei. Si può notare come appare evidente l’assoluta inefficacia delle politiche per il lavoro elaborate dagli ultimi governi, dal job act al “decreto dignità”. L’Italia insiste con provvedimenti di facilitazioni alle imprese che non possono usufruirne, di incentivo al lavoro nero come nel caso del reddito di cittadinanza, di assoluta trascuratezza (per non scrivere di peggio) nei confronti dell’industria nei suoi settori decisivi, soprattutto dal punto di vista della qualità tecnologica, per una idea di moderno sviluppo, puntando in maniera sbagliata a una crescita impossibile del consumo individualistico in dimensione diffusa. In questo quadro appare particolarmente drammatica la situazione della Liguria, classificata al dodicesimo posto, ultima tra le regioni del Nord (sono lontani i tempi del triangolo industriale) e superata anche da regioni del Centro Italia come le Marche e l’Umbria nelle quali resistono ancora settori del modello fondato sui “distretti” e sulla media industria specializzata in beni di consumo come scarpe e abbigliamento. Senza commento se non il richiamo alla necessità di superare la logica dell’assistenzialismo e del conseguente inevitabile lavoro nero. Servono grandi investimenti pubblici nei settori nevralgici dell’industria e del recupero delle infrastrutture e della difesa del territorio. Si dirà : parole al vento, in quanto nessun partito politico sembra contenere nei propri programmi ipotesi del genere e l’imprenditoria appare legata ai concetti di finanziarizzazione e funziona piuttosto da lobby collocandosi sul terreno delle tangenti pagate ai politici: uno scenario che risale agli anni’80 del XX secolo e che pare proprio non mutare mai. Ecco di seguito Openpolis: L'indagine di Open Polis sulla strategia Europea per lo sviluppo. Italia in difficoltà su donne e giovani, aumenta il precariato e soprattutto si fa sempre più preoccupante la distanza tra Nord e Sud: tra Bolzano e la Sicilia 35 punti di differenza per il tasso di occupazione ROMA - Il 2020 ormai è alle porte, ma gli obiettivi della strategia Ue per la crescita sono lontanissimi. E quello sul lavoro in particolare non potrebbe essere più lontano: l'Italia ha raggiunto appena un tasso di occupazione del 63 per cento, e diventa davvero improbabile che arrivi in pochi mesi al 67 per cento fissato da Bruxelles. Tasso che comunque, ammesso che riuscissimo a raggiungerlo, ci lascerebbe comunque distanti dagli altri Paesi: già nel 2017 la media Ue era al 72,2 per cento, e anche se l'obiettivo del 75 per cento per il 2020 non verrà raggiunto, l'Italia rimarrà comunque fanalino di coda, ultimo Paese europeo per l'occupazione, seguito solo dalla Grecia che sfiora appena il 58 per cento. A fare il punto sul lavoro è la Fondazione OpenPolis, che seguendo il proprio motto "Numeri alla mano" ha appena pubblicato un rapporto che mette a confronto anche le profonde differenze regionali, che rendono la situazione italiana ancora più problematica. I punti di differenza tra il tasso di occupazione della provincia di Bolzano e quello della Regione Sicilia sono 35: un abisso tra il 79 per cento di una delle aree più progredite del Nord e il 44 per cento della Regione più meridionale d'Italia. La classifica ripercorre fedelmente la geografia della penisola: seguono Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, fino ad arrivare al Lazio e alle Regioni del Centro che mostrano tassi di occupazione medi, di poco superiori al 60 per cento, per poi arrivare al Nord che, a partire dal Piemonte, mostra tutti tassi superiori al 70 per cento. (esclusa ovviamente la Liguria, di cui si parla nella nota introduttiva, n.d.r) Due Italia, anche lontanissime, quella degli uomini e quella delle donne. Ci sono 28 punti di differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile, nonostante la situazione delle donne sia migliorata, e il tasso, rimasto a lungo sotto il 50 per cento, adesso abbia finalmente sfondato quello che sembrava un traguardo fin troppo ambizioso. A seguire l'Italia, come sempre, la Grecia. Prima c'era Malta: è un primato negativo del Sud dell'Europa quello di negare opportunità alle donne, e ai giovani. L'Italia mantiene anche il primato negativo della disoccupazione giovanile: la percentuale dei giovani occupati raggiunge appena il 42,7 per cento, anche stavolta ci segue la Grecia ma invece Malta mostra un andamento del tutto diverso, è in cima alla classifica Ue per giovani occupati con un tasso record del 78,5 per cento, superiore persino al 76,5 dell'Olanda e del Regno Unito.

L’effetto di Rdc e quota 100 sul Pil? Non vale il costo

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mercoledì 17 aprile 2019

Paradossi della Brexit infinita « gianfrancopasquino

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Gig economy, le nuove norme europee per diritti dei lavoratori

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Il voto finlandese e la nuova sfida per i socialisti – Strisciarossa

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Rifare l'Unione europea Dibattiti - puntorosso

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CHE FATICA RACCONTARE MILANO | ArcipelagoMilano

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Caro Roberto, caro Michele: Salvati e Tamborini dialogano su adattamento e mutamento del capitalismo - Menabò di Etica ed Economia

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martedì 16 aprile 2019

Hyman Minsky : un économiste visionnaire - La Vie des idées

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Conseguenze Brexit | Gli effetti della brexit e gli scenari alternativi

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Def in Parlamento. Coro di voci critiche alle audizioni delle Commissioni congiunte Bilancio. Cgil: “non c’è sviluppo e la flat tax è dannosa”. Svimez: “si penalizza il sud” | Jobsnews.it

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Alessandro Visalli: Circa Ada Colau, “Agenda Urbana e neomunicipalismo”

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The Roots of Right-Wing Dominance in Israel by Shlomo Avineri - Project Syndicate

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The proposal for a European Minister of Economy and Finance: Germany vs Italy

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Elezioni finlandesi tra crisi della sinistra, sovranismo e nuove polarizzazioni | Global Project

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Documento dei circoli Rosselli: La costruzione dell'Europa garanzia della democrazia italiana

DOCUMENTO DI SINTESI DEI CIRCOLI ROSSELLI DI ROMA, FIRENZE MILANO VENETO, PIETRASANTA, UDINE, UMBRIA, MESSINA, PARMA, MARCHE ,GIUSTIZIA E LIBERTA’ ROMA SUL TEMA “ LA COSTRUZIONE DELL’EUROPA GARANZIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA” I Circoli Rosselli, nell’approssimarsi delle elezioni europee del 26 Maggio prossimo, intendono condividere con i cittadini italiani ed europei che andranno a votare e con i candidati, le seguenti riflessioni. L’Europa è democrazia. Formare una coscienza politica europea, esprimere la volontà dei cittadini dell'Unione e superare il deficit democratico dell'iter decisionale -come richiesto dall'articolo 10, paragrafo 4, TUE - diventa il punto di attacco imprescindibile per il rinnovamento dell’Europa e della nostra vita democratica. Pertanto pensiamo che sia necessario l’impegno delle forze democratiche per superare il modello decisionale intergovernativo di cui stiamo sperimentando le conseguenze negative. Così come è necessario che vi sia un rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo rispetto al Consiglio il quale deve ridurre le materie sulle quali viene richiesta la decisione all’unanimità e adottare decisioni su determinate materie a maggioranza qualificata ('articolo 48, paragrafo 7, TUE) promuovendo una cultura paneuropea del consenso per incoraggiare le culture politiche nazionali fondersi su i valori europei. Per questo è imprescindibile, un nuovo protagonismo del nostro paese, che deve esercitare in Europa la propria sovranità, nella certezza che il nostro sviluppo economico può realizzarsi solo in Europa e che la nostra tenuta democratica può funzionare solo rafforzando l’Unione Europea. Solo l'Europa unita può affrontare con successo le sfide che sono in corso e che stanno cambiando l'assetto geopolitico del mondo. L’Europa è il continente dei Diritti. I diritti sono condizione imprescindibile della democrazia. L’Unione Europea ha approvato nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali, divenuta pienamente vincolante nel 2009, quando entrò in vigore il Trattato di Lisbona. Ricordiamo che per Carlo e Nello Rosselli I diritti sociali sono altrettanto validi come quelli della persona. Sosteniamo perciò una azione più incisiva di controllo della Commissione sulla violazione dei principi fondativi dell’UE . Sosteniamo altresì l’Iniziativa dei cittadini europei sul rispetto dello stato di Diritto, presentato dal Consiglio Italiano del Movimento Europeo per rafforzare la democrazia partecipativa. La tematica dei diritti richiama il problema dei flussi migratori rispetto ai quali l'Unione Europea deve riconoscere che essi sono il sintomo di un processo di riequilibrio mondiale nella distribuzione delle popolazioni e vanno affrontati a livello continentale sia sotto il profilo umanitario sia su un piano strategico. l’Europa é Cultura. L'Europa si è costantemente distinta nella diffusione della propria cultura come fattore di progresso civile, di promozione sociale, di democrazia, di sviluppo e convivenza pacifica. Ma la società europea, quando ha ceduto il passo alla sottocultura che domina il mondo moderno, è entrata in crisi, si è ripiegata su se stessa, ha perso il senso e la bussola e ha ceduto il passo a quei movimenti che individuano nell'identità nazionale il rimedio a tutti i mali. Per aprirsi all'avvenire l'Europa deve ricominciare non solo a promuovere le sue specificità culturali di fronte alla globalizzazione che tutto appiattisce e normalizza. Ma il riferimento ai valori fondanti dell’UE, deve essere costante e attivo per potere interpretare le soluzioni ai vari problemi nel nuovo contesto società moderna: da quelli del lavoro, del rapporto inter-generazionale all’esercizio della cittadinanza democratica. E’ questo riferimento alla Cultura che i Circoli considerano il criterio comune e dominante, che può permettere alla politica di trovare soluzioni nuove ai bisogni dei cittadini ed ai cittadini di trovare le motivazioni necessarie per acquisire una vera cittadinanza europea. L’Europa ha nei suoi obiettivi la crescita economica per consolidare la tenuta democratica. Solo un’Europa che cresce economicamente può proteggere i suoi cittadini con il suo modello di welfare e difenderne le condizioni di vita. Pensiamo perciò che l'Unione Europea debba porre al centro della sua azione una vera concezione della prosperità umana che recuperi il supporto popolare e consenta di ricucire le fratture identitarie e di natura economico-finanziaria che vedono contrapposti paesi e società europee. E’ necessario superare la frattura di ordine economico-finanziario che e contrappone la Germania ed i paesi del Nord al resto dell'Europa e impedisce il completamento dell'unione bancaria e il varo del nuovo bilancio comunitario. In questo senso riteniamo che sia necessario che l’Europa, a partire dai paesi della zona Euro, si doti di un bilancio, come proposto dal Gruppo di lavoro presieduto da Mario Monti, per fare sì che l’appartenenza alla moneta unica diventi motore di sviluppo e di crescita e non soltanto un sistema di stabilità. Se l’Europa , almeno quella della moneta unica, avrà un suo bilancio allora sarà possibile non solo attivare le politiche europee che i cittadini aspettano,(sicurezza, immigrazione), ma permettere agli Stati di liberare risorse da dedicare ad investimenti pubblici che diano sostegno all’economia, rilanciare l'occupazione, soprattutto dei giovani. Se l’Europa é democrazia, economia, diritti e cultura, come abbiamo cercato di motivare, e l'Unione Europea è lo strumento per il consolidamento e l'affermazione di questi valori universali possiamo affermare che il futuro dell’Europa è l’Europa. Le minacce alla democrazia in molti paesi europei debbono renderci consapevoli che solo l'Europa può essere garanzia di salvaguardia delle istituzioni democratiche. “Esiste un evidente rapporto tra crisi della democrazia europea e crisi della democrazia italiana” Il privilegio accordato all'economia speculativa a discapito di valori politici, sociali, culturali e etici (il così detto economicismo), l'Euro considerato un fine e non un mezzo, la gestione della globalizzazione e dell’allargamento, l'indifferenza rispetto ai processi che stanno modificando gli assetti geo-politici del mondo, hanno prodotto lo stallo attuale della politica europea, il disorientamento della gente e l'acredine nei confronti di una Europa matrigna e non madre, l'affermarsi dei movimenti sovranisti i quali, con il nazionalismo, riaffermano valori negativi che il cammino percorso dopo la seconda guerra mondiale sembrava avere definitivamente cancellato. E' indispensabile suscitare una opinione pubblica europeista che unifichi il continente e gli consenta di sviluppare tutte le sue potenzialità sul piano interno e su quello internazionale. Il titolo del nostro convegno invita i cittadini, i partiti, i candidati, ad una riflessione del rapporto complesso che intercorre tra la costruzione europea e lo sviluppo della nostra democrazia e delle implicazioni che questo rapporto presenta sotto l’aspetto istituzionale e politico. Questo rapporto fa riferimento ad una relazione, di conseguenza dinamica, che deve caratterizzare non solo la nostra analisi ma l’impegno per un’Europa che è nelle attese dei cittadini, che invitiamo a impegnarsi per il suo progresso. I Paesi fondatori dell'Unione con la partecipazione della Spagna dovrebbero assumere l'iniziativa di ridisegnare ed aggiornare l'organizzazione dell'Unione mettendo al centro del suo operato lo sviluppo economico e sociale, raccordando organicamente e funzionalmente, le politiche culturali e le politiche di sviluppo, facendo “discendere” le seconde dalle prime. I Circoli considerano questa prospettiva come unica condizione per riavvicinare l'idea di Europa ai cittadini e fornire le risposte che essi attendono. Firmato Circolo Fratelli Rosselli di Roma: cfrosselli@libero.it Fondazione Circolo Rosselli di Firenze: fondazione.circolorosselli@gmail.com Circolo Rosselli di Milano: francesco.somaini@tiscali.it Circolo Rosselli Parma: info@labour.it Circolo Rosselli Veneto: p.ddezen@rosagroup.it Circolo Rosselli, Udine: gianni.ortis@gmail.com Circolo Rosselli di Pietrasanta : info @ rossellipietrasanta.com Circolo Lombardi, Marche: diego.franzoni@gmail.com Circolo La Rosa rossa, Umbria: marasma1980@libero.it Circolo Rosselli, Messina: matasso@psi2000.it Circolo Giustizia e libertà Roma: circologiustiziaelibertaroma@yahoo.it Azione Laburista : loris@lorisofflorence.com