mercoledì 30 dicembre 2015

Andrea Fumagalli: Brevi note sulla sostenibilità sociale del sistema previdenziale pubblico in Italia

Andrea Fumagalli: Brevi note sulla sostenibilità sociale del sistema previdenziale pubblico in Italia

Italicum e referendum, la posta in gioco

Italicum e referendum, la posta in gioco

Renzi e Europa: l'anno che verrà (speriamo diverso) | Gustavo Piga

Renzi e Europa: l'anno che verrà (speriamo diverso) | Gustavo Piga

Fondazione Critica Liberale - L’ITALICUM è IL PEGGIORE DEI MALI

Fondazione Critica Liberale - L’ITALICUM è IL PEGGIORE DEI MALI

Stefano Folli: La strategia del plebiscito

La Repubblica, 30 dicembre 2015 LA STRATEGIA DEL PLEBISCITO STEFANO FOLLI NON è esatto dire che la conferenza stampa del presidente del Consiglio è stata ripetitiva e priva di novità. SEGUE A PAGINA 38 NÉ VALE prendersela con la formula dell’evento, certo un po’ logora dopo tanti anni. È vero, peraltro, che i tempi risultavano troppo lunghi: oltre due ore complessive, con risposte del premier talvolta simili a prolusioni senza fine. Abbastanza strano per un uomo di comunicazione qual è senza dubbio Renzi: come non vedere il rischio di danneggiarsi parlando troppo e non sempre in modo convincente? In ogni caso, l’appuntamento di fine anno non è stato inutile. Dopo quasi ventiquattro mesi di governo, il premier era tenuto a offrire un bilancio non episodico e non meramente propagandistico dell’attività di governo. Così è stato, almeno in parte, benché le cifre e i dati forniti siano al centro delle inevitabili polemiche. Vero è che Renzi è apparso un po’ stanco e provato: pesa forse il pasticcio delle banche, tutt’altro che risolto. L’ingenua spavalderia dei primi tempi ha ceduto il passo a un ottimismo perentorio, sì, ma meno sbandierato, anzi qui e là venato di preoccupazione. L’elenco dei successi dell’esecutivo — dalla riforma del lavoro a quella istituzionale, sullo sfondo di un’economia che ha rivisto il segno più (+0,8) — è legittimo, ma si è avvertita un’ansia di fondo. Forse il timore di non riuscire a convincere il paese, o meglio la paura di aver smarrito la magìa dei primi tempi: quando il giovane sindaco entrato a Palazzo Chigi senza passare per le elezioni politiche riusciva a galvanizzare l’elettorato e a raccogliere il famoso 40,8 delle europee nel maggio 2014. Il che non basta a fare di Renzi “il leader più votato, anche più della Merkel”, secondo la sua stessa auto-definizione, per la semplice ragione che la cancelliera tedesca raccoglie i suoi consensi nel voto per il Parlamento federale, un passaggio che al presidente del Consiglio e segretario del Pd ancora manca. Ieri si è sentito il desiderio di legittimarsi, la spinta a ricreare l’atmosfera di un anno e mezzo fa per sfuggire all’inevitabile logoramento. Del resto, la ripresa economica è ancora troppo fragile per cambiare in meglio la vita delle persone. E il taglio delle tasse è un traguardo che si sposta sempre in avanti, creando delusione soprattutto in quel ceto medio fondamentale per il progetto renziano. Il premier è il primo a sapere che ripetere gli stereotipi non serve a molto. Lo stesso corollario di diapositive e di gufetti che arricchiscono il messaggio agli elettori alla lunga diventa un po’ stucchevole. E infatti il punto centrale del discorso del premier riguardava il referendum confermativo della riforma del Senato. Anche qui nulla di realmente nuovo, salvo l’aver definito in modo esplicito il disegno. Il referendum è lo strumento di piena legittimazione personale che Renzi ha individuato e non certo da ieri: una sorta di plebiscito alla De Gaulle, se il paragone non fosse troppo impegnativo. Con il referendum si va oltre il cabotaggio quotidiano ricco di insidie. Si sorvolano le amministrative, terreno infido per il Pd specie a Roma e a Napoli. Si prepara il terreno per un incontro fra il leader e il corpo elettorale al di sopra delle beghe partitiche e dei condizionamenti istituzionali. Se il “partito della nazione” è una formula poco fortunata, finita prima di nascere, il referendum segnerebbe l’avvento del “partito del premier” a tutti gli effetti. Oltretutto, Renzi giocherebbe in un campo molto favorevole perché anche i suoi più tenaci avversari dubitano che esista nel Paese una maggioranza di italiani disposti a votare “no” all’abolizione del Senato e del Cnel. Quindi c’è una logica. Togliere spessore politico al voto amministrativo di primavera — il più scomodo — e caricare invece di significato il referendum d’autunno. Farne il simbolo del riformismo renziano e della nuova stagione da sancire subito dopo con le elezioni politiche. In base al medesimo principio, è chiaro che una sconfitta nel referendum segnerebbe la fine dell’esperienza di Renzi. Non era necessario sottolinearlo, tanto è evidente. Ma c’è bisogno di drammatizzare, di creare l’alternativa: o me o il caos (leggi Cinquestelle o Salvini). La strategia è chiara, anche questa mutuata dal generale De Gaulle. Il quale, tuttavia, ormai anziano, alla fine perse l’ultimo referendum. Non è il acaso del presidente del Consiglio, il quale semmai deve guardarsi da altri rischi. Dieci mesi sono lunghi e il cammino è carico di incognite. I populisti sono agguerriti e la tentazione di batterli sul loro terreno, quello della demagogia, potrebbe farsi irresistibile. Una sirena dalla quale Renzi farà bene a guardarsi.

martedì 29 dicembre 2015

Emanuele Macaluso: La verità è che l'anno si chiude male

LA VERITÀ È CHE L’ANNO SI CHIUDE MALE L’anno si chiude male, molto male per il nostro Paese. Il presidente del Consiglio, anche nella conferenza stampa di oggi, va predicando che l’Italia è ormai fuori dalla crisi e in condizioni tali per cui può crescere e meglio di altri Paesi europei al punto di diventarne la guida. Nei giorni scorsi Matteo Renzi ha innescato un’altra polemica con la Ue, in particolare con il governo tedesco, e non si capisce dove andrà a parare anche se oggi ha teso ad attenuare, ma non sostanzialmente, queste polemiche. Il “Corriere della Sera” di oggi pubblica un articolo, firmato da Federico Fubini, che riassume uno studio di 3 economisti che lavorano a Bruxelles. Questi studiosi documentano, in maniera inoppugnabile e con statistiche alla mano, che in l’Italia “è da metà degli Anni ’90 che il reddito per abitante perde terreno rispetto a tutte le altre economie europee”. Un ritardo dovuto al fatto che alla fine del secolo scorso, quando finisce la prima repubblica, “la produttività totale dei fattori è in calo (in media dello 0,3% l’anno)”. Commenta Fubini: “È un caso praticamente unico. Mentre questo dato cresce quasi ovunque nel resto d’Europa e ancora più negli Usa, cala in Italia”. È chiaro che la responsabilità di questo dato allarmante e determinante per l’economia, perché investe tutti i fattori - dalla burocrazia all’industria, al commercio, eccetera - non è solo del governo Renzi ma anche dei governi che in questo secolo e in questa seconda repubblica hanno governato. Il fatto contestato a Renzi è che le riforme tanto esaltate, anche se non sono sottovalutate, non hanno inciso proprio sul fattore produttività. Ho detto che il Paese è messo male anche perché c’è un governo che esalta solo quel che fa; e c’è una opposizione a questo governo della destra e del grillismo che muovono critiche e attacchi in una direzione che può solo peggiorare quei dati. Demagogia e pressapochismo dominano nella vita politica del Paese. Le speranze, a mio avviso, per un cambiamento nell’anno che verrà non sono molte ma sono possibili soltanto se ci sarà un mutamento reale nella politica e nel modo d’essere soprattutto del Pd. (29 dicembre 2015)

Senza la democrazia si diffonde il populismo | Avanti!

Senza la democrazia si diffonde il populismo | Avanti!

Franco Astengo: Cultura politica e legge elettorale

CULTURA POLITICA E LEGGE ELETTORALE di Franco Astengo La discussione sulla legge elettorale, avviatasi tra i frequentatori del sito del Circolo Rosselli, appare di estremo interesse e di elevata qualità: fatto non comune nella realtà del dibattito politico italiano. Provo allora ad allargare il tiro cercando di riportare in primo piano il tema del rapporto tra cultura politica (alcuni elementi della quale appaiono del tutto smarriti nella realtà italiana) e la proposizione della legge elettorale. Una relazione necessaria che proprio non si riesce a far decollare. La realtà della profonda crisi economica e sociale richiederebbe, prima di tutto, un salto di qualità sul piano culturale, attraverso l’avvio di un serio tentativo di ricostruzione di una sintesi progettuale. Una sintesi da realizzarsi riuscendo a oltrepassare le espressioni correnti dell’individualismo dominante (frutto dell’approccio neo-liberista ormai introiettato, fin dai primi anni’90, anche dalla sinistra italiana di tradizione socialista e comunista: salvo alcune eccezioni rimaste minoritarie). E’ stato attraverso le espressioni dell’individualismo che si sono affrontate, almeno fin qui, le cosiddette contraddizioni “post-materialiste”. Quelle contraddizioni “post-materialiste” che Inglehart, fin dal 1997, ha definito come “le scelte sullo stile di vita che caratterizzano le economie post-industriali”. Oggi, proprio la realtà della crisi globale (delle quale, almeno in questa sede, non enucleiamo le caratteristiche specifiche per evidenti ragioni di economia del discorso) reclama il ritorno all’espressione di valori orientati, invece: “ alla disciplina e all’autolimitazione, che erano stati tipici delle società industriali”. Appaiono evidenti le esigenze che sorgono nel merito della programmazione, dell’intervento pubblico in economia, della redistribuzione del reddito, dell’eguaglianza attraverso l’espressione universalistica del welfare, del ritorno a una “dimensione geografica” in luogo della speculazione finanziaria su base globale. Il tema della legge elettorale è strettamente collegato a quello della presenza politico-istituzionale di una sinistra capace di elaborare un “progetto di sintesi”. Perché questo stretto legame? Ripercorriamo velocemente le caratteristiche dei due principali sistemi elettorali: il maggioritario (nella cui direzione ci si è rivolti, in Italia, al fine di costruire un artificioso bipolarismo rivelatosi poi del tutto fallace, come è avvenuto del resto anche in altri paesi europei). L’idea del maggioritario è stata frutto, al momento dell’implosione del sistema politico nei primi anni’90, di una vera e propria “ubriacatura ideologica”, strettamente connessa all’ondata liberista: non si sono avuti risultati sul terreno della frammentazione partitica e su quello della stabilità di governo, ottenuta alla fine attraverso forzature inaudite che hanno provocato la formazione di un vero e proprio fossato tra le istituzioni e la società facendo crescere in una dimensione esponenziale l’astensionismo: astensionismo che, per noi, rimane un indicatore molto importante della qualità della democrazia. Inoltre il maggioritario ha aperto la strada allo svilimento nel ruolo delle istituzioni, alla crescita abnorme della personalizzazione (fenomeno che ha colpito duramente a sinistra, al punto da renderla in alcune sue espressioni di soggettività del tutto irriconoscibile), alla costruzione di quella pericolosissima impalcatura definita “Costituzione materiale” attraverso l’esercizio della quale si tende verso una sorta di presidenzialismo – populista, all’allargamento del distacco tra istituzioni e cittadini. “Costituzione materiale” che adesso si tenta di concretizzare mascherandola da progetto di riforma che è necessario appellare come “deformazione costituzionale”, da osteggiare complessivamente preparando una adeguata battaglia politica nel referendum confermativo. Il sistema proporzionale (quello “vero”) è stato accusato di rappresentare, nel passato recente della storia d’Italia, il veicolo di quel consociativismo considerato l’origine di tutti i mali del sistema politico, inefficienza e corruzione “in primis”. Preso atto di tutto ciò cogliamo l’occasione per esprimere una valutazione di fondo favorevole al sistema proporzionale: il proporzionale, infatti, rappresenta un sistema fondato necessariamente sul ruolo dei partiti, quali componenti fondamentali di una democrazia stabile, inoltre lo scrutinio di liste esige, necessariamente, un diverso equilibrio tra le candidature, affrontando così il tema del decadimento complessivo della classe politica. Interessa, però, soprattutto il legame tra sistema elettorale e struttura dei partiti. E’ questo il punto fondamentale del discorso che intendiamo sostenere in questa sede: la sinistra ha bisogno di un’adeguata soggettività politica che, proprio alla presenza di un’articolazione così evidente nelle richieste della società (come abbiamo cercato di mettere in luce all’inizio), produca reti fiduciarie più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni, in grado di essere considerata produttrice e riproduttrice di capitale sociale, di allentare la morsa del particolarismo dilatando anche le maglie delle appartenenze locali e rilanciando il “consolidamento democratico”. Questo si può realizzare riportando in campo l’idea di un soggetto politico u della sinistra italiana capace di produrre un progetto di società alternativa e di diffondere egemonia culturale: un partito capace di recuperare una propria, autonoma, dimensione e struttura di massa presente in profondità nelle pieghe della società italiana, esprimendosi anche con una forte valenza di sintesi al riguardo dei grandi temi internazionali e interloquendo e collegandosi, a quel livello, con soggetti di altri paesi. Un’autonomia politica e culturale della sinistra non potrà mai più essere raggiunta se non ci sarà su questo tema, della rappresentanza, il raggiungimento di un’unità di intenti e di visione politica, fondamentale per costruire le fondamenta di quel nuovo soggetto al quale, uscendo dalle rispettive nicchie di appartenenza si dovrebbe cominciare a lavorare unitariamente, con urgenza. I tempi della crisi, nell’economia e nella politica, non aspettano e la nostra battaglia avverso il progetto ipermaggioritario dell’Italikum deve far parte del complesso di propositività politica alternativa che la sinistra è chiamata a dimostrare allo scopo di recuperare la propria storica capacità di rappresentanza sociale e politica.

lunedì 28 dicembre 2015

La bufala delle tasse che calano - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

La bufala delle tasse che calano - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

Risorgimento Socialista | Il mito del superamento del ‘900

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Risorgimento Socialista | Il Socialismo, la sinistra e il progetto che non parte

Risorgimento Socialista | Il Socialismo, la sinistra e il progetto che non parte

Felice Besostri: A proposito dell'Italikum

L'articolo di Panebianco ( Corriere della Sera, 28.12. 2015)mi ha interessato in sommo grado in quanto sono un cittadino italiano e il coordinatore dei ricorsi presentati in 18 tribunali italiani per far accertare il diritto di votare secondo Costituzione: diritto, secondo i ricorrenti, minacciato dalla legge n.52/2015, come lo era dalla legge n. 270/2005( porcellum ). Quest'ultima legge è stata annullata su ricorso dell'avv. Aldo Bozzi, con la storica sentenza la n.1/2014 della Corte Costituzionale. Proprio la circostanza di aver discusso davanti alla Corte Costituzionale e alla Corte di Cassazione in quella vicenda mi ha motivato a riproporre le stesse doglianze nei confronti dell'Italikum. Se la mutata composizione della Consulta non dovesse riservare sorprese, dei 3 ultimi giudici solo il prof. Barbera si è espresso a favore della nuova legge, resta il motivo principale di incostituzionalità denunciato dalla Corte Costituzionale, cioè che se il legislatore, che è libero di scegliere, adotta un sistema proporzionale, anche in parte, crea l'aspettativa negli elettori che vi sia un corrispondenza tra i voti in entrata e i seggi in uscita. Davanti alle stessa Corte Costituzionale abbiamo detto con chiarezza che un sistema maggioritario, anche all'inglese, sia perfettamente costituzionale, quali che siano le personali preferenze. Le mie vanno al sistema tedesco con una clausola di sbarramento al 5%: è un preclaro esempio di democrazia rappresentativa e governante. Nelle argomentazioni del prof. Panebianco non mi convince come una legge pessima possa essere il male minore. Il premio di maggioranza, in sé non è incostituzionale, ma non è la stessa cosa se si tratta di un premio di maggioranza da legge Acerbo o da "legge truffa" ovvero da Porcellumi, o infine da legge elettorale tedesca o greca. Quello che e intollerabile nell'Italikum è che il premio, con il trucco del ballottaggio sia inversamente proporzionale al consenso elettorale essendo costituito da una percentuale fissa di seggi, alla quale non tutti gli elettori concorrono, ne sono esclusi gli elettori della circoscrizione estero per fare un esempio. Stupefacente è un giudizio in ultima analisi positivo per una legge elettorale ad personam. Mi sembra che siano messi in discussione principi elementari dello stato di diritto, oltre che del principio della divisione dei poteri: il procedimento legislativo sarà nelle mani del Governo. Grazie alla doppia funzione di Primo Ministro e Segretario del PD, partito egemone grazie ad un premio di maggioranza incostituzionale, comporrà le liste a sua immagine e somiglianza. I capilista continuano la tradizione di deputati nominati e non eletti. Essere governati da una minoranza in un sistema maggioritario dipende dal fatto che la percentuale di voto dei singoli partiti non ha importanza, perché la logica è un'altra: la conquista della maggioranza assoluta dei seggi uno per uno. Nel'la valutazione del male minore è poi completamente assente la parallela revisione costituzionale, senza di essa avremmo semplicemente una legge elettorale di sospetta costituzionalità, non l'egemonia di un Partito, in assenza di una legge organica sui partiti politici, sulle istituzioni e sugli stessi organi di garanzia: roba da democrazia popolare dell'Europa orientale prima del crollo del Muro di Berlino Felice C. Besostri

L’evasione fiscale italiana

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BANCHE E BANCHIERI, LA COSA DIVERTENTE È CHE MANCA SEMPRE UNA LEGGE | Informare per Resistere

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La rinazionalizzazione delle masse. Editoriale di Wu Ming 1 per «Nuova Rivista Letteraria» - Giap

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sabato 26 dicembre 2015

Spagna: un sistema partitico a quattro e un equilibrio difficile | Aspenia online

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I tassi della Fed e i dubbi sull’economia mondiale | Aspenia online

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CARLO FORMENTI - Perché gli operai vanno a destra » LA PAGINA DEI BLOG - MicroMega

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I danni della “buona scuola” e la crisi della sinistra - micromega-online - micromega

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Banche, credito e risparmio: l'Europa viola la Costituzione - micromega-online - micromega

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Una nuova tappa per la Spagna - micromega-online - micromega

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giovedì 24 dicembre 2015

LA FEDERAL RESERVE ABBANDONA LA POLITICA DEI TASSI A ZERO | VINCITORI E VINTI

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Banche, dove sono gli scheletri – Vado al Massimo

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Times are changing in Spain | European Council on Foreign Relations

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ANCORA UN TESTO "MOSTRO" - Legge Stabilità 2016 - oltre 1.000 punti senza titoli - | Sindacalmente

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Spagna: Germania, Ue e finanza votano grande coalizione - Limes

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Risorgimento Socialista | Sul concetto di partito politico

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The Political Consequences of Financial Crises by Howard Davies - Project Syndicate

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Spagna: il tramonto del bipartitismo | Pandora Pandora

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Merkel bizzosa, Europa senza rotta

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Otto e Mezzo, LA7 – La Sinistra Potrebbe – MARIANA MAZZUCATO

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The Kurdish Self-Governance Movement in Turkey’s South East: an Interview with Haydar Darici | LeftEast

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Bernie Sanders: The Quiet Revolt

Bernie Sanders: The Quiet Revolt Simon Head. NYRB Bernie Sanders, November 25, 1990 Steve Liss/The LIFE Images Collection/Getty Images Bernie Sanders, November 25, 1990 In 2003 I wrote in my The New Ruthless Economy that one of the great imponderables of the twenty-first century was how long it would take for the deteriorating economic circumstances of most Americans to become a dominant political issue. It has taken over ten years but it is now happening, and its most dramatic manifestation to date is the rise of Bernie Sanders. While many political commentators seem to have concluded that Hillary Clinton is the presumptive Democratic nominee, polls taken as recently as the third week of December show Sanders to be ahead by more than ten points in New Hampshire and within single-figure striking distance of her in Iowa, the other early primary state. Though he continues to receive far less attention in the national media than Hillary Clinton or Donald Trump, Sanders is posing a powerful challenge not only to the Democratic establishment aligned with Hillary Clinton, but also the school of thought that assumes that the Democrats need an establishment candidate like Clinton to run a viable campaign for president. Why this should be happening right now is a mystery for historians to unravel. It could be the delayed effect of the Great Recession of 2007-2008, or of economists Thomas Piketty and Emmanuel Saez’s unmasking of the vast concentration of wealth among the top 1 percent and the 0.1 percent of Americans, or just the cumulative effect of years of disappointment for many American workers. Such mass progressive awakenings have happened before. I remember taking part in antiwar demonstrations on the East and West coasts in the Fall and Winter of 1967–1968. I noticed that significant numbers of solid middle-class citizens were joining in, sometimes with strollers, children, and dogs in tow. I felt at the time that this was the writing on the wall for Lyndon Johnson, as indeed it turned out to be. We may yet see such a shift away from Hillary Clinton, despite her strong performance in the recent debates and her recent recovery in the polls. If it happens, it will owe in large part to Sanders’s unusual, if not unique, political identity. Consider the mix of political labels being attached to him, some by Sanders himself: liberal, left-liberal, progressive, pragmatist, radical, independent, socialist, and democratic socialist. Sanders’s straight talk about the growing inequalities of income and wealth in America has been much written about, notably in a long profile of him in The New Yorker in October. But most of this writing has been of the campaign trail genre, and has not gotten very far in sorting out the strands of radicalism that have come together in Sanders’s run for the presidency and that have attracted large numbers of Americans dissatisfied with their deteriorating economic circumstances and with the politics that has helped create them. Sanders is unusual because he brings together three kinds of radicalism, each with very different roots. First is Sanders’s commitment to bringing the progressive ideas of Scandinavian social democracy to the United States, including free and universal health care, free higher education at state colleges and universities, mandatory maternity and sick leave benefits, and higher taxes on higher incomes. In American political history you have to go back to Lyndon Johnson’s Great Society or even to the early New Deal to find anything comparable. The second strand of Sanders’s radicalism is his excoriating account of contemporary American capitalism, and with this he neither looks nor sounds like a consensus-minded Scandinavian social democrat. Here Sanders is willing to name and denounce the new economic royalists—what he calls collectively the “billionaire class”—in a way that Hillary Clinton, who has relied heavily on their financial backing, has not. These include the leading Wall Street banks and their lobbyists; the energy, health care, pharmaceutical, and defense industries; and the actual billionaires deploying their wealth on behalf of the far right, foremost among them the Koch brothers, the Walton family of Walmart, and the real estate tycoon Sheldon Adelson. From these great concentrations of wealth and power, Sanders argues, derive multiple injustices: the corrupting of electoral and legislative politics with the Supreme Court’s Citizens United ruling; the steady erosion of the American middle class, which has suffered stagnating income and declining benefits, even as corporations return to profitability and enjoy historically low interest rates; and the emergence of an American workplace where most employees are putting in longer hours, earning less, and suffering from less job security than ever before. Sanders can support these claims with substantial bodies of empirical data and research. There are the monthly figures put out by the government’s Bureau of Labor Statistics (BLS), which show a steady decline in real hourly and weekly earnings of most working Americans since the 1970s. There is the work of the French economists Thomas Piketty and Emmanuel Saez documenting a growing and overwhelming concentration of income and wealth in the US in the hands of the top 1 percent—and especially the top 0.1 percent—of taxpayers. There is also the research of Jacob Hacker of Yale, showing how the disposable income of middle-income Americans has been further eroded by health care and pension costs dumped on them by their corporate employers, what Hacker calls the Great Risk Shift. But the challenge for Sanders is not the arguments themselves, which are widely acknowledged (Piketty’s book Capital in the Twenty-First Century was a runaway bestseller last year). The challenge is how to organize those who have suffered in the harsh new economy into a viable political force. In the 1930s and the succeeding decades many of those facing hardship could benefit from the support and solidarity of big labor unions and the Democrats’ big-city political machines. In our own times these networks are largely gone. Those being laid off, downsized, reengineered, or outsourced today are, in comparison with their grandparents and great-grandparents, far more likely to find themselves isolated and alone, especially those from middle-income families, who may be facing a drastic and very visible loss of class identity. It is here that the third and perhaps least understood strand of Sanders’s radicalism comes into play: his ability to organize a previously unrecognized constituency—one that embraces the shrinking middle class, both white- and blue-collar, the working and non-working poor, as well as young, first-time voters with large student-loan debts. One thing that comes over strongly in interviews of those attending Sanders rallies is their sense that they are no longer alone, that they’re joining with thousands who are in much the same predicament as they are, and that together they can change things for the better. Sanders’s success in bringing these people together comes from his grounding, as a student at the University of Chicago in the early 1960s, in the grass-roots politics of Saul Alinsky (1909–1972), the founder of modern American community organizing. Alinsky’s crucial insight was that people at the bottom of the system could fight for local political and economic power by forming alliances with sympathetic community groups sharing many of their interests. From the late 1930s through the 1960s, Alinsky focused on the black ghettoes and white working-class districts of Chicago, Rochester, Buffalo, Oakland, and many other cities. His greatest success—and one of the best examples of his methods at work—was his 1939 campaign to unionize the Armour Company’s Back of the Yards meat packing plant in Chicago. In the late 1930s, working conditions at the Armour plant still evoked the world of Upton Sinclair: an immigrant workforce toiled long hours for poverty wages, in unsanitary and unsafe conditions. With Chicago run by a corrupt political machine, Alinsky took the lead in mobilizing every constituency he could in the local community against Armour—including the churches and especially the Catholic Church, labor unions, neighborhood groups, athletic clubs, and small businesses. He brought in John L. Lewis of the Congress of Industrial Organizations (CIO) to advise him, and after a huge mass demonstration in July 1939, Armour agreed to recognize the union. In a 1999 PBS documentary, Ed Chambers, who was Alinsky’s successor as Director of the Industrial Areas Foundation, described the tactics that had proven so successful—and that would be repeated in many of Alinsky’s postwar campaigns: “All change comes about as a result of pressure or threats. But you can’t get social change or social justice without confronting it. Because if you are a ‘have not,’ ‘the haves’ never give you anything that’s real.” Alinksy is no longer a reference point in contemporary American politics, although his work and influence features in the CVs of both Hillary Clinton and Barack Obama. In a 2007 New Republic profile, Ryan Lizza describes the young Obama’s training as an Alinskian community organizer in 1980s Chicago, though Lizza noted that Obama as a presidential candidate-in-the-making was already distancing himself from this past, omitting all mention of Alinsky in his campaign biography, The Audacity of Hope. For her part, Clinton titled her 1969 BA thesis at Wellesley College “There is Only the Fight…”: An Analysis of the Alinsky Model, something she has not cared to mention in recent campaigning. But it is Sanders who has gone on to put Alinskian methods into practice as both a politician in Vermont and a candidate for president. In a November interview with NPR, Sanders described how his work as a community organizer as a student at the University of Chicago “did a lot to influence the politics I now have.” In fact, Sanders was chair of CORE’s (Congress on Racial Equality) social action committee at the university at a time when the organization, advised by Alinsky, was leading the campaign against segregation in Chicago schools and housing. CORE and its student supporters were fighting the university itself, which upheld segregation through a policy of purchasing vacant homes in its neighborhood to prevent them from being purchased by African Americans. In 1962, Sanders organized a sit-in at the president’s office to protest the university housing policies; the following year, he was arrested while demonstrating against segregation in the Chicago schools. Two decades later, Sanders’s remarkable campaign for Mayor of Burlington, Vermont as an independent was another illuminating case history of successful Alinskian campaigning at the grassroots, adapted from its Chicago origins to the more tranquil setting of Vermont. Sanders followed Alinsky’s cardinal rule of taking on the city’s dominant business interests and their allies in City Hall with a program that was, for Burlington, radical and progressive: curbing real estate development at the city center and providing ample public space there, especially on the waterfront of Lake Champlain; building affordable housing; keeping out the mega-retailers and creating neighborhood associations as participants in city planning decisions. To achieve this Sanders put together an all-embracing, Alinskian coalition of women’s groups, unions, neighborhood activists, environmentalists, even the police patrolman’s association, all of whom saw him as someone who could deliver on his pledge to make Burlington a more affordable and civilized place to live. There are big differences between Burlington, with a population of 42,000, and the United States, with a population of nearly 320 million. Alinsky himself never tried to reproduce his approach on a national scale. But in Alinsky’s time there were no social media, whose potential Sanders, like the Obama campaigns in 2008 and 2012, has deftly exploited. And unlike the president, Sanders has also used social media to rally people behind a truly radical message. Not only has he formed alliances with sympathetic community groups like labor unions, environmental organizations, immigrant advocacy groups, and public sector workers; he has also been able to rely on these groups’ own considerable presence on social media to reach voters. These efforts may be less attention-getting than Trump’s, but they have proven highly effective in building a strong base of supporters. The Sanders campaign has now drawn more than 2.2 million individual donations in 2015, surpassing even Obama’s record for the number of donations to a presidential candidate in a single year. In the third quarter, he raised four times as much money as Clinton from donors contributing $200 or less. The columnist Mark Shields has pointed out on PBS’s Newshour that it was no mean feat for Sanders to attract an audience of 27,500 in Los Angeles in August, a city where, in Shields’s words, the typical campaign event is a party at Steven Spielberg’s house hosted by George Clooney. This was an event at which Sanders said, to thunderous applause, There is something profoundly wrong when one family, the owners of Walmart, own more wealth than the bottom 40 percent of the American people. This is an economy which is rigged, which is designed to benefit the people on top, and we are going to create an economy which works for all people. Sanders has significant weaknesses. His poll numbers have been much lower in the south, where he is far less known. They show Hillary Clinton enjoying strong support among African Americans, who favor her over Sanders by 5–1 or more. But it is surely patronizing to African-Americans to portray them as locked in an unending embrace with the Clintons, impervious to Hillary Clinton’s reliance on big corporate donors, her weaknesses as a candidate, which are still considerable, and the shifting winds of the campaign as it unfolds. Until now, Sanders has largely avoided direct criticism of Clinton. The big question is whether he will extend his critique of the billionaire class and their corrupting political power to what I’ll call the Clinton system. That system will be the subject of a second article. December 23, 2015, 1:19 pm

mercoledì 23 dicembre 2015

La Boschi ce l’ha fatta. Ma è solo il primo tempo. » AldoGiannuli

La Boschi ce l’ha fatta. Ma è solo il primo tempo. » AldoGiannuli

Tutti i limiti delle primarie

Tutti i limiti delle primarie

Lotta alla povertà: purché non sia solo un canto di Natale

Lotta alla povertà: purché non sia solo un canto di Natale

Il 2015 dell’occupazione

Il 2015 dell’occupazione

Rebus spagnolo | Paolo Balduzzi

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Election Results in Spain Are a Stinging End to Europe’s Year - The New York Times

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“AMO DETTO NO.” MA A MILANO IL PROBLEMA È IL PGT, NON GLI SCALI | Gregorio Praderio - ArcipelagoMilano

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ACCORDO DI PROGRAMMA COMUNE-FS. FACCIAMO I CONTI POI RIPARLIAMONE | Gabriele Mariani - ArcipelagoMilano

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GIUSEPPE SALA, LE RAGIONI DEI TRANSFUGHI | Sergio Vicario - ArcipelagoMilano

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VICENDA SCALI TRA MIOPIA, INTERESSI FORTI E CARRIERISMO | Giuseppe Longhi - ArcipelagoMilano

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DOVE LA POLITICA MILANESE È IN COMA. FORSE NON IRREVERSIBILE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

DOVE LA POLITICA MILANESE È IN COMA. FORSE NON IRREVERSIBILE | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

martedì 22 dicembre 2015

Possiamo scegliere da noi. Forse inventare qualcosa di meglio e' proprio il nostro compito.

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Gli stranieri in Italia: costo o beneficio? | Economia e Politica

Gli stranieri in Italia: costo o beneficio? | Economia e Politica

Is a Left Zionism Possible? | Dissent Magazine

Is a Left Zionism Possible? | Dissent Magazine

Toward a Post-Zionist Left | Dissent Magazine

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L’economia italiana nel 2015: non è oro tutto quello che luccica | DEMOCRAZIA E LAVORO

L’economia italiana nel 2015: non è oro tutto quello che luccica | DEMOCRAZIA E LAVORO

A New Plan for Greece And Europe: A Defining Moment For European Social Democracy

A New Plan for Greece And Europe: A Defining Moment For European Social Democracy

Franco Astengo: Ipotesi

IPOTESI DI STUDIO di Franco Astengo Gli esiti delle elezioni regionali in Francia e di quelle legislative in Spagna hanno aperto un dibattito sull’evidente processo di riallineamento partitico in atto all’interno di alcuni grandi paesi europei: Francia, Spagna, Italia, Grecia ai quali andrebbe aggiunta la Gran Bretagna. Semplificando: ci si rammarica, almeno da parte della maggioranza dei commentatori e analisti, di una presunta “fine del bipolarismo” (continuando non distinguere tra bipolarismo e bipartitismo) paventando l’ingovernabilità. Addirittura, il commentatore più rozzo di tutti, il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ha esclamato “benedetto l’Italicum”, facendo finta di dimenticare gli evidenti profili d’incostituzionalità che presenta il nuovo sistema elettorale di quello che un tempo l’abate Stoppani aveva definito “Bel Paese”. Può allora valere la pena avanzare alcuni spunti di riflessione attorno ai fenomeni in atto allo scopo semplicemente di individuare un’ ipotesi di studio da sottoporre all’attenzione di quanti vorranno misurarsi con questi temi così delicati e complessi tanto da meritare serietà di approfondimento e non l’espressione di semplici afflati propagandistici. Prima di tutto è necessario segnalare come ogni paese faccia caso a sé e i processi in corso seguano ciascheduno dinamiche specifiche. Pur tuttavia qualche forzatura interpretativa, sotto quest’aspetto, potrà essere concessa. Da tenere in conto come dato di partenza la questione del rapporto tra società, politica e istituzioni che non è riducibile al solo dato della partecipazione elettorale. La partecipazione al voto rappresenta fattore non secondario nello sviluppo di questo tipo di analisi, ma vanno considerati un insieme di elementi che formano “fratture” particolari: in Spagna la questione regionalista, in Francia l’idea del “fronte comune antifascista” di solidarietà repubblicana come prospettiva politica concreta, in Italia una spaccatura tra varie parti del Paese, non solo tra nord e sud, in una dimensione di diseguaglianza sociale di fortissimo rilievo. Dal punto di vista,comunque, della partecipazione al voto si può notare come in Italia essa si stia abbassando costantemente di elezione in elezione (si prevede per le future elezioni politiche un assestamento attorno al 65% ma verificheremo il dato alle prossime elezioni amministrative e all’eventuale referendum confermativo sulle deformazioni costituzionali approvate dal parlamento) mentre in Francia il calo si è arrestato in occasione del secondo turno delle elezioni regionali e in Spagna si è verificata addirittura una crescita. In questo modo l’entrata in campo di nuovi soggetti o la trasformazione di quelli già esistenti non si verifica, nella generalità dei casi, come risposta a quella che è stata definita “disaffezione”, ma all’interno del quadro già esistente, sfruttando spazi che il sistema politico offre indipendentemente dalle effettive fratture sociali che si vorrebbero (un po’ artificiosamente) rappresentare: è questo il caso più clamoroso, quello del movimento 5 Stelle in Italia. In una dimensione analoga si muove il Front National in Francia attraverso un (apparente, molto apparente) successo frutto di una ristrutturazione d’immagine posta in relazione ad umori dell’opinione pubblica indotti da fattori del tutto esogeni. Diverso potrebbe apparire il caso di Podemos e Ciudadanos che, in effetti, incidono sul gran corpo del “distacco” anche se in una dimensione del tutto limitata. Un elemento appare comune a questi quattro soggetti che possono essere individuati come quelli che hanno fatto saltare il tappo, del bipartitismo in Francia e in Spagna, del bipolarismo in Italia: quello di muoversi assolutamente sul terreno dell’“autonomia del politico”. Si tratta di soggetti frutto del “pensiero unico” condividendo il meccanismo di personalizzazione e di spettacolarizzazione dell’agire politico (realizzando inoltre un regime interno populistico fondato su varie forme di “individualismo competitivo”, come quella, nel caso italiano, delle primarie) che, portato alle stelle dall’esasperazione mediatica ha rappresentato il vero e proprio punto d’attacco per lo svuotamento degli antichi partiti, non tanto quelli a “integrazione di massa” già finiti da tempo, ma anche dei diversi modelli di “catch all party” succedutisi nel tempo (partiti personali, partiti azienda, ecc.). Se vogliamo anche lo stesso PD(R) si è mosso su quest’onda accomunato con il Front National nell’intento dello sfondamento “al centro” attraverso diverse espressioni di vero e proprio “estremismo politicista”. La domanda, allora, è questa: su quali discriminanti si verifica questo processo di riallineamento partitico? I diversi gradi di insoddisfazione per la costruzione europea rappresentano un sottofondo comune non portato però a un livello di “rumorosità sociale” tale da farlo diventare oggi di divisione netta: o di là o di qua. Piuttosto, proprio perché la logica di fondo è quella dell’autonomia del politico, è stata la camicia di forza imposta dai sistemi elettorali maggioritari (diversi da paese a paese, naturalmente) a richiedere uno sfondamento degli antichi equilibri e la formazione di nuovi e/o riciclati soggetti che hanno incontrato favori inediti nel corpo elettorale. Tutto questo è avvenuto senza alcun legame con la scomposizione sociale verificatasi nel frattempo, con l’emergere di nuove fratture imposte da mutamenti culturali, innovazione tecnologica, nuove dimensioni nelle comunicazioni di massa e personali, il ritorno delle geo – politica in luogo della globalizzazione. Tutti elementi che, nel passato, avrebbero provocato aspri dibattiti, rotture e ricomposizioni all’interno degli storici corpi delle grandi famiglie politiche. Oggi, invece, non emergono fenomeni di questo genere: i nuovi soggetti s’impongono in una “dimensione laterale” (nonostante proclamazioni propagandistiche diverse, come l’eredità nazionalista rivendicata dal Front National, o quella del centro sinistra italiano auto attribuitasi dal PD(R) , fuori da quel contesto e ponendosi volentieri nella dimensione del superamento degli antichi concetti di destra e sinistra. Ci troviamo, dunque, alla definitiva “secolarizzazione” della politica? Una domanda alla quale cercare di fornire una risposta che, per adesso, non appare disponibile. Aggiungendo un punto che, probabilmente, è quello più importante: tutto ciò è mosso da un obiettivo. Ed è quello della “sostituzione al potere”. Un potere che rimane là intangibile nella sua essenza di Moloch della sopraffazione. Non si ravvedono discriminanti ideali, programmatiche, politiche se non assunte in forma meramente strumentale. L’obiettivo è quello del “potere per il potere”, da esercitare poi ammantato dall’elaborazione sapiente di un velo mediatico attraverso il quale mistificare le proprie azioni concrete ( il referendum greco di Syriza, l’anno prossimo la crescita all’1,5%: tanto per fare esempi da Tsipras a Renzi). Questi soggetti, attraverso i quali in diversi paesi europei, si sta procedendo a un riallineamento dei sistemi politico – elettorali sono figli, in realtà, di un pensiero unico: quello del potere inteso quale unica finalità (ed anche possibilità) dell’azione politica diventata semplicemente una questione di vincere o perdere. Suscitano davvero perplessità certi entusiasmi di parti dell’antica sinistra di tradizione comunista o socialista per Podemos , il Movimento 5 Stelle , Syriza e dei suoi tentativi d’imitazione oppure l’interessata visione di continuità con il centro sinistra italiano da parte di ceti intellettuali sostenitori del PD(R). Si sta procedendo, invece, oltre le formule (che in politica rivestono sempre una grande importanza) neppure evocando il conflitto generazionale (l’ha fatto, timidamente, Renzi nella prima fase della sua davvero resistibile ascesa) ma semplicemente l’acquisizione del potere in quanto tale, senza riserve, sfrenatamente senza riserve. Uno scenario da “Fattoria degli Animali” senza un Orwell che lo preveda e descriva. Javier Cercas ha scritto “Podemos è troppo affascinato dal potere”. Ecco: è il tema del potere in questa società il possibile oggetto di un’ipotesi di studio. Senza dimenticare che ad Est, tra Ungheria e Polonia, si sta riaffermando il fascismo.

Ma la lezione francese è una vittoria di Pirro | cambiailmondo

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Crisi, la Finlandia è malata come la Grecia anche se ha fatto tutte le riforme | cambiailmondo

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Germania: congresso SPD conferma centrismo neoliberista di Gabriel e dice sì al TTIP | cambiailmondo

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Dominique e il diritto di morire | Avanti!

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Elezioni. Un rebus il nuovo governo della Spagna | Avanti!

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Benedetto Conforti: Francia, lo stato di emergenza e lo stato di diritto

Affari internazionali Francia, lo stato di emergenza e lo stato di diritto Benedetto Conforti 16/12/2015 Tre mesi di stato di emergenza per evitare il ripetersi di altri attacchi. È questo quanto ha dichiarato, dopo gli attacchi del 13 novembre, il presidente della Repubblica francese che ha anche informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa. Deroghe alla Cedu Poiché alcune delle misure conseguentemente prese dal governo avrebbero potuto comportare una deroga ad alcune delle obbligazioni previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), il Segretario generale era pregato di considerare la lettera come un’informazione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione. L’art. 15 prevede che, in caso di guerra o di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione”, qualsiasi Stato contraente possa prendere misure in deroga agli obblighi della Convenzione limitatamente a quanto sia strettamente necessario per fronteggiare la situazione, purché esse non contrastino con gli obblighi di diritto internazionale e con quelli derivanti dagli art. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) e 4 (messa in schiavitù) della Convenzione. Di tali misure il Segretario generale del Consiglio d’Europa deve essere informato. Il Segretario generale non può che prendere atto dell’informazione, non avendo né il potere di vagliare la conformità delle misure prese all’art. 15 né quello di monitorarne successivamente l’applicazione. Soltanto la Corte europea dei diritti umani può decidere se sussistano le condizioni per l’applicabilità dell’art. 15, oppure se norme di diritto internazionale o gli anzidetti articoli siano stati violati. Ciò sempre che essa sia adita da uno degli altri Stati contraenti, cosa che sembra improbabile dato l’attuale contesto europeo, o da individui che pretendano di essere vittime della violazione. L’art. 15 è anche oggetto di una riserva formulata dalla Francia all’atto della ratifica della Convenzione nel 1974, riserva secondo cui le misure previste dalla legge sullo stato d’emergenza dovrebbero ritenersi come “corrispondenti all’oggetto dell’art. 15 della Convenzione”. La riserva è ovviamente assorbita dall’attuale informazione, come lo fu in un altro caso analogo relativo a dei moti occorsi in Nuova Caledonia nel 1988, caso che non diede luogo a controversie. Allo stato attuale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, una simile riserva sarebbe invalida e pertanto come non apposta, essendo di carattere generale e quindi contraria all’art. 57 sulle riserve. La giurisprudenza sull’articolo 15 Cedu Ciò premesso, per quanto riguarda le condizioni di applicabilità dell’art. 15, i numerosi attacchi terroristici verificatisi a Parigi, nonché la ferocia degli ultimi, non lasciano dubbi sulla loro natura di pericolo pubblico minacciante la vita della Nazione francese. D’altro canto, dalla scarsa giurisprudenza della Corte sull’art. 15 si ricava che questa si è sempre in linea di massima adeguata alla decisione dello Stato derogante, ritenendola come rientrante nel margine di apprezzamento di tale Stato. La Corte si è così comportata fin dal primo caso di applicazione dell’art. 15 (Lawless v, United Kingdom, sent. del 19 dicembre 1959) allorché ritenne, con i giudici britannici, che certe misure detentive, considerate dal ricorrente eccessive e viziate dall’abuso di diritto vietato dall’art.17 della Convenzione, fossero invece “strettamente necessarie” nel quadro della lotta ai terroristi dell’Ira. Anche nel recente caso A e a v. United Kingdom, caso anch’esso di lotta al terrorismo internazionale, la Corte (sent. del 19 febbraio 2009), nel ritenere che alcune misure adottate dal Regno Unito dopo l’11 settembre non fossero proporzionate, e quindi strettamente necessarie, rispetto al fine da raggiungere, si è adeguata ad una pronuncia della House of Lords, che aveva già constatato l’illegittimità della deroga ex art. 15. Si trattava, nella specie, della detenzione a tempo indeterminato e senza processo di presunti terroristi stranieri che non potevano essere estradati senza rischiare la tortura nei Paesi di destinazione. Anche la giurisprudenza della Corte circa l’inderogabilità delle norme degli art. 2, 3 e 4 e le norme di diritto internazionale è assai esigua. Per un caso di condanna per trattamenti disumani e degradanti in regime di art. 15 occorre risalire alla sentenza del 12 gennaio 1978, Ireland v. United Kingdom, in cui furono denunciate la violenza durante gli interrogatori e le famose cinque tecniche praticate tra un interrogatorio e l’altro. Si trattò di misure infliggenti sofferenze così intense che oggi la Corte, in base agli sviluppi successivi della sua giurisprudenza, dovrebbe considerare come atti di tortura. Né il diritto alla vita, né il divieto di schiavitù sono mai stati oggetto di decisioni. E come obblighi internazionali si è sempre pensato al diritto internazionale umanitario applicabile alle guerre internazionali o civili, laddove nel nostro caso si tratta di azioni di polizia.Con riguardo al diritto alla vita e al divieto di tortura esiste un’enorme giurisprudenza, tutta utilizzabile che ci si trovio meno in regime di emergenza. Un auspicio Certamente, alcune fattispecie hanno maggiore possibilità di verificarsi durante un regime siffatto. Per fare qualche esempio di violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura più facilmente verificabili in periodi di emergenza, ricordiamo la giurisprudenza sul trattamento dei detenuti; ricordiamo in particolare, per il diritto alla vita, le molte condanne per le sparizioni quando lo Stato detentore non potesse almeno dimostrare di aver svolto una seria inchiesta sulle cause delle medesime, e, per il secondo, le condanne di Stati dalle cui carceri il detenuto era uscito con chiari segni di maltrattamenti fisici o psichici. C’è da augurarsi che siffatti eventi non accadano in un Paese dove la libertà è da secoli la regola. Benedetto Conforti è Professore emerito di diritto internazionale. - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3262#sthash.UcHyIvdY.dpuf

Medioriente A Roma cambio di passo sulla Libia Roberto Aliboni

Affari internazionali Medioriente A Roma cambio di passo sulla Libia Roberto Aliboni 16/12/2015 Il vertice di Roma sulla Libia ha segnalato sviluppi importanti. Non ha chiesto all’Onu uno sforzo di miglioramento dell’accordo proposto dall’organizzazione e avversato da vari gruppi. Ha invece avallato la proposta delle Nazioni Unite così com’è, incoraggiando quelle parti che già l’hanno approvata (e che si riuniranno a Skhirat mercoledì prossimo, 16 dicembre) a farlo in via definitiva, soprassedendo ad ogni ulteriore tentativo di intendersi con gli islamisti di Alba libica e gli altri oppositori della proposta stessa. Verso Skhirat Dal comunicato finale e dalle dichiarazioni del segretario Usa, John Kerry, risulta chiaramente che i partecipanti alla conferenza di Roma hanno ritenuto inutile ogni ulteriore tentativo di raggiungere un comprensivo accordo nazionale e intendono invece sostenere un governo che subirà, sì, una più o meno forte opposizione interna, ma avrà anche un vasto appoggio internazionale per venire a capo di questa opposizione, riprendere in mano l’economia del paese e porre le premesse per un contrasto efficace all’autoproclamatosi “stato islamico”, Isis. Kerry ha detto “È tempo di sbloccare la situazione”, ed ha poi aggiunto che i paesi riuniti a Roma “non appena questo governo sarà formato, sono pronti ad incontrarlo al più presto per cominciare a stabilire cosa è necessario al fine di sostenere le misure da prendere”. Le decisioni prese a Roma mettono in evidenza posizioni nuove. Hanno cambiato posizione innanzitutto gli occidentali che, non arrivando il governo comprensivo ed inclusivo da essi ritenuto necessario a stabilizzare la Libia, hanno deciso di accettare un governo meno comprensivo, ma disposto ad aprire la porta ad interventi di stabilizzazione dall’esterno che evidentemente vengono ormai ritenuti irrinunciabili. Il motore primo è l’espansione dell’Isis in Libia. Ma - il che è forse anche più notevole - hanno cambiato posizione le potenze regionali che finora hanno sostenuto questa o quella delle parti in presenza esercitando forti interferenze. Anche se resta da vedere fino a che punto e fino a quando ad Ankara, Riad e Doha resisterà questo cambiamento di posizione, vale la pena notare che un cambiamento è intanto emerso nel più impervio quadro siriano, dove questi tre paesi hanno, nei mesi scorsi, trovato un’intesa sul piano militare e ora hanno collaborato con successo, nella riunione di Riad del 10 novembre, a formare la delegazione unica che il “processo di Vienna” esige e che sembrava impossibile si potesse mai formare fra milizie e gruppi separati da profondi dissensi se non ostilità. Variabile russa L’entrata in guerra della Russia è probabilmente il fattore che ha convinto questi paesi a mettere da parte le discordie e avvicinarsi agli Usa. L’abbattimento del bombardiere russo da parte della Turchia può anche essere visto in questa chiave (e al tempo stesso come affermazione nella gara per la leadership fra le potenze regionali sunnite). È cambiata anche la posizione russa, sempre molto critica verso le politiche occidentali riguardanti la Libia? Mosca si è tenuta un po’ sui margini della conferenza di Roma, inviando un viceministro degli Esteri invece del ministro.Nella conferenza stampa Kerry ha però riferito di un giudizio positivo e convergente da parte della Federazione Russa. Dietro questo più cauto atteggiamento russo, come dietro la concordia delle potenze sunnite, si intravvedono gli sforzi in corso per trovare nuovi equilibri in Siria e dare possibilmente uno sbocco alla lunga crisi in questo paese e nella regione. Se così è, lo si vedrà al procedere del processo di Vienna nei prossimi trenta-quaranta giorni. Siamo qui di fronte a fattori più o meno tattici che però rafforzano la nascente strategia occidentale e il suo fuoco sull’Isis. La scommessa che gli Usa e gli europei hanno sostenuto a Roma con successo non ha però prospettive facili. Il governo di unità nazionale minoritario che nascerebbe a Skhirat potrebbe essere così debole da non riuscire neppure ad utilizzare il sostegno che gli viene promesso. Un intervento in Libia rischia di restare illegittimo agli occhi della maggioranza del paese e di suscitare problemi poi difficili da risolvere. Non si tratta solo di reazioni negative da parte dei settori islamisti più radicali. Ci sono interessi e contrapposizioni anche da parte di interessi territoriali (come quelli dei così detti federalisti) e personali (come quelle del generale Heftar). Gli ostacoli che abbiamo illustrato in un precedente articolo restano immutati. Inoltre, su una fine duratura delle interferenze da parte delle potenze regionali si può dubitare. Infine, se le cose andranno secondo il percorso auspicato a Roma, l’Italia - con il chiaro appoggio degli Usa, prima che degli europei - è facile che riceva quel ruolo nel sostegno al governo di unità nazionale che il governo Renzi ha tanto auspicato. Ci saranno però difficoltà e occorre prudenza. Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI. - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3261#sthash.dG8YjGFj.dpuf

Rotta di collisione su Nord Stream-2

Affari internazionali Rotta di collisione su Nord Stream-2 Nicolò Sartori 17/12/2015 Il gas russo, d’un tratto, infiamma la politica italiana. Il governo, infatti, si è dichiarato pronto a bloccare l’automatismo delle sanzioni europee nei confronti di Mosca alla luce dell’accordo tra la russa Gazprom e un gruppo di compagnie energetiche europee - pienamente avallato dal governo tedesco - per l’espansione del gasdotto baltico Nord Stream, trasformatosi in un fattore di forte tensione politica in ambito europeo. Al netto delle scrupolose verifiche sull’iter regolatorio del progetto promesse da Bruxelles, l’accordo russo-tedesco - per modi e tempi - rappresenta una sfida ai principi di unità e solidarietà promossi negli ultimi mesi dalla Commissione europea, in particolare dal suo Vice Presidente Maros Sefcovic, attraverso il lancio dell’Unione energetica. Tutti scontenti L’annuncio dell’accordo tra Gazprom e le compagnie europee Basf, E.ON, Engie, Omv e Shell per la realizzazione di due nuove condotte del gasdotto Nord Stream ha creato parecchi malumori nelle capitali europee. I primi a reagire, a inizio settembre, sono stati i paesi dell’Europa centro-orientale, guidati dalla Polonia, ipersensibili di fronte alle politiche energetiche russe e preoccupati dal rafforzamento del già solido asse Mosca-Berlino sul fronte del gas. Di fatto, l’espansione del gasdotto, in grado di assicurare ulteriori 55 miliardi di metri cubi (bcm) di gas russo sulle coste tedesche, non aggirerebbe soltanto l’Ucraina, ma anche la Slovacchia e la Repubblica Ceca, preoccupate per la perdita delle rendite legate al transito del gas e per i possibili costi da pagare alla Germania. Nel 2019, infatti, andranno in scadenza i contratti di transito tra Gazprom e l’ucraina Naftogaz, che potrebbero non essere rinnovati - come peraltro ripetutamente annunciato da Mosca - a favore del rafforzamento dell’interconnessione con la Germania che, grazie a Nord Stream-2, si garantirebbe il monopolio sul flusso dei 110 bcm di gas che la Russia, ad oggi, vende sul continente europeo. L’impatto per l’Italia La situazione non poteva passare inosservata nemmeno da noi, sebbene il nostro Paese si sia dimostrato più lento nel reagire con decisione all’iniziativa russo-tedesca. L’Italia è il secondo importatore di gas naturale russo (26 bcm nel 2014) dell’Unione europea, Ue, alle spalle proprio della Germania. Il gas russo rappresenta circa la metà delle importazioni nazionali, in un contesto in cui il gas - in generale - contribuisce a una fetta significativa della generazione elettrica italiana. Per un Paese manifatturiero come l’Italia, la dipendenza economico-industriale dal gas naturale - in particolare da quello russo - spiega la necessità di mantenere stabili relazioni energetiche con Mosca, nonché quella di garantire una rotta meridionale sicura e competitiva per il suo gas. Tuttavia, prima la sospensione del progetto South Stream su pressioni della Commissione europea e poi le crescenti tensioni tra Russia e Turchia - per qualche mese candidata ideale per il trasporto del gas russo in Europa meridionale - non hanno certamente giocato a favore della strategia energetica italiana. In questo contesto, l’unilateralismo energetico tedesco non può lasciare completamente tranquilla l’Italia che in caso di realizzazione del gasdotto vedrebbe passare quasi il 50% delle sue forniture estere di gas (con i relativi costi di transito) per il territorio di un competitor commerciale come la Germania. Il cui governo, soprattutto quando si tratta della tutela degli interessi economici nazionali, ha dato modo di dimostrare di non essere particolarmente orientato alla collaborazione intra-europea. Verifiche europee La mossa di Berlino, in questo senso, è riuscita a far convergere posizioni particolarmente distanti in materia di strategia europea verso la Russia. Sia l’Italia che i paesi dell’Europa centro-orientale stanno infatti facendo fronte comune nel sollecitare la Commissione a verificare con attenzione l’accettabilità del progetto Nord Stream-2 rispetto al Terzo Pacchetto Energetico, applicato con grande zelo da Bruxelles nel caso di South Stream. La reazione delle istituzioni europee non ha tardato ad arrivare. La necessità di procedere a un attento percorso di valutazione della regolarità del progetto è stata sottolineata più volte dal Commissario per l’Energia e il Clima Miguel Arias Canete, nonché dal Vice Presidente per l’Unione energetica Sefcovic che ha rimarcato la linea decisa, anche se non dura, della Commissione, anche durante la sua visita a Roma di inizio dicembre. Il modo con cui è stata promossa l’espansione di Nord Stream-2 non rappresenta certamente un incipit esemplare per l’Unione energetica, attraverso la quale l’Ue sta cercando di dotarsi di efficaci meccanismi di solidarietà e condivisione delle informazioni, nonché di una capacità di azione diplomatica in materia energetica, nell’ambito di una politica (potenzialmente) sempre più integrata e coesa. Alla luce dalle mosse unilaterali di Berlino verso Mosca, questa non può dirsi di certo tale. Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori). - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3263#sthash.TNJzKnrT.dpuf

Sud, scuola e università: i grandi assenti della legge di Stabilità | Domenico Pantaleo

Sud, scuola e università: i grandi assenti della legge di Stabilità | Domenico Pantaleo

lunedì 21 dicembre 2015

Israeliani e Palestinesi. Un conflitto bloccato

Israeliani e Palestinesi. Un conflitto bloccato

Felice Besostri: Ieri in Francia, oggi in Spagna. Domani in Italia?

Ieri in Francia, oggi in Spagna. Domani in Italia? Oggi si vota in Spagna. Una settimana fa i ballottaggi francesi avevano fatto tirare un sospiro sollievo, ma con una giusta prudenza gravida di preoccupazione, rispetto agli scenari drammatici aperti dal primo turno del 6 dicembre 2016. Con un italikum in salsa francese (franzellum o frankellum ?) o una legge elettorale regionale alla fiorentina Il FN si sarebbe aggiudicato 2 regioni al primo turno con una maggioranza in seggi tra il 54 e il 60 per cento e senza spirito repubblicano altre 2 o 3 regioni in ballottaggi con la Destra unita o i socialisti. A questi ultimi, con il divieto di nuove coalizioni tra primo e secondo turno, sarebbero andate al massimo 2 regioni, più probabilmente la sola Bretagna: tutti gli altri governi regionali alla Destra unita. La Francia è un sistema politico tripolare con un sistema elettorale bipolare aperto, la Spagna è ora politicamente quadripolare (PP,PSOE, Ciudadanos e Podemos) con un sistema elettorale proporzionale con alte soglie di accesso implicite. L’Italia è un sistema politico tripolare in fase di transizione(PD,M5S,Polo di Destra) senza una Sinistra competitiva e un sistema elettorale bipolare chiuso non ancora operativo. Le elezioni italiane non saranno imminenti: non si voterà se non dopo l’entrata in vigore delle deformazioni costituzionali. Le previsioni di voto concordano nel designare il PP come partito di maggioranza relativa con una percentuale di voto del 25,8/27,8%, cioè 107/120 seggi, cioè con una forte perdita rispetto ai 186 seggi , la maggioranza assoluta, su 350 del 2011. Tenendo conto del margine di errore statistico (3%), già l’ordine dei partiti dal secondo al quarto posto varia molto, tenendo buone queste percentuali: PSOE 21,1%, Ciudadanos 19,4%, Podemos 16,5%. Infatti il secondo posto del PSOE è minacciato secondo altre previsioni da Ciudadanos, a sua volta insidiato da Podemos per il terzo posto. In ogni caso il sistema politico bipolare spagnolo, che ha retto il paese dalla prime elezioni libere in seguito alla morte di Franco al 15 maggio 2011 e finito, ma anche il ruolo giocato dai partiti regional-nazionalisti di Catalogna e dei Paesi Baschi. Considerando le ultime 4 elezioni generali dopo il PSOE (primo partito 2004 e 2008) e il PP (2002 e 2011) si collocava come terzo gruppo parlamentare la catalanista CiU. La dialettica destra-sinistra in Spagna si è sempre accompagnata con quella tra centralismo e autonomia regional nazionalista rappresentata da partiti come CiU in Catalogna e dal PNV nei Paesi Baschi, affiliati a livello europeo al PPE. Dopo le ultime elezioni catalane un nuovo asse divisorio è comparso quello tra unitari e indipendentisti, che attraversa tutta le famiglie politiche senza distinzione tra vecchi e nuovi soggetti politici. Per esempio Ciudadanos è fortemente anti-indipendentista, mentre Podemos è per un referendum, rappresentando l’opzione federalista, già del PSOE, quando lasciava giocare un ruolo importante ai socialisti del PSC, che non per caso erano il primo partito in Catalogna nella Generalitat, il Parlamento della Comunità autonoma. Quale scenario per la sinistra? Un’intesa PSOE- Podemos, che come nella Comunità valenciana ponga fine allo strapotere del PP, ha bisogno che la somma dei loro voti superi quella di PP-Ciudadanos. Per fortuna nessuno in Spagna, a differenza dell’Italia teorizza o persegue grandi intese, che pure godrebbe della maggioranza assoluta, sfiorata anche da PP-Ciudadanos. PSOE-Podemos, invece non sarebbero autosufficienti, neppure con il 4% di Sinistra Unita. In Spagna, come in Francia e in Italia, la sinistra non è potenzialmente maggioritaria, a differenza del Portogallo e della Grecia e dei paesi scandinavi, nonché paradossalmente, allargandosi ai Verdi, della stessa Germania. Quale che sia il risultato spagnolo dovremmo aver tratto una lezione dagli avvenimenti politici dell’ultimo decennio in Europa, che la crisi elettorale del socialismo democratico non facilita alcun spostamento a sinistra dell’asse politico, almeno nei più grandi paesi europei. Nelle ultime regionali francesi la dura sconfitta si è accompagnata al peggior risultato di Verdi, sinistra alternativa e comunisti. In Germania la Linke non raccoglie i voti persi dalla SPD. A fronte dell’offensiva generalizzata verso le conquiste democratiche e sociali, per evitare di ripetere l’errore commesso tra le due guerre del secolo scorso di fronte al fascismo e al nazismo, occorre innestare nuove dinamiche a sinistra, che superino le divisioni del passato o quantomeno che innestino una concorrenza virtuosa per la conquista degli elettori perduti. In Spagna c’era un 25% di elettori indecisi alla vigilia delle elezioni, quello dovrebbe essere l’obiettivo principale del PSOE e di Podemos, non di rubarsi i voti. I filoni ideali storici della sinistra socialista, comunista e libertaria, arricchiti dalla coscienza ambientalista, dovrebbero essere capaci di elaborare un’alternativa di sistema economico e sociale, per non lasciare le masse popolari alla mercé del populismo e del nazionalismo xenofobo. L’internazionalismo va riscoperto: non possiamo lasciare al loro destino le popolazioni stremate dal sottosviluppo, dalle guerre e dai disastri ambientali per rinchiudersi nei confini nazionali nell’illusione che basta avere una nostra moneta e un nostro orticello democratico nazionale per mettersi al riparo dalle sfide della globalizzazione e dalle manovre di dominio della finanza internazionale. Milano-Zurigo 20 dicembre 2015 21 dicembre: un dia después La nota che precede era stata scritta prima del conteggio dei voti. La conferma è il passaggio ad un sistema politico quadripolare, ma con ruoli invertiti tra Podemos e Ciudadanos rispetto alle previsioni. La sinistra sinistra è scomparsa: UP-IU passa da 11 seggi a 2, tutti eletti a Madrid, vampirizzata percentualmente molto più del PSOE da Podemos che ha rifiutato ogni accordo pre-elettorale, ai quali peraltro non è stato alieno in particolare in Catalogna e in altre province con forze regionaliste. La vittoria in Catalogna è la rivincita sulla sconfitta alle ultime elezioni elezioni autonomiche, avendo assorbito la tradizione del PSUC e della EUiA e dei Verds. I 69 seggi di Podemos nel Congresso dei Deputati Podemos sono il risultato della somma di PODEMOS, PODEMOS-COMPROMÍS, PODEMOS-En Marea-ANOVA-EU y EN COMÚ. Questa è la grande differenza tra Podemos e il M5S finora alieno da qualsivoglia tipo di alleanze. Una flessibilità che gli ha consentito di conquistare le due più grandi metropoli del Regno, Madrid e Barcellona: un suggerimento per le prossime elezioni municipali italiane? Podemos rifiuta di essere inquadrato nella dialettica sinistra-destra ,ma l’esistenza in Spagna di Ciudadanos ha costretto Podemos a specializzarsi sul versante sinistro, civico ed autonomista. Un altro risultato di queste elezioni è la perdita di potere contrattuale dei nazionalisti catalani e baschi, in altri tempi decisivi per formare maggioranze parlamentari, mai di governo, quando il PP o il PSOE, da soli, non avevano la maggioranza assoluta. Democràcia i Libertat ha 9 seggi, quando CiU ne aveva 16 l rappresentanza catalanista sommando ERC passa comunque da 19 a 18. Il PNV ha 6 seggi, ma i nazionalisti baschi passano da 12 a 7. Il voto utile per il PP ha colpito Ciudadanos, sventando così una maggioranza assoluta PP-C’s, teoricamente possibile in base alle previsioni pre-elettorali. La vittoria del PP è una mezza vittoria, e parafrasando il Talmud sulle mezze verità, che sono una bugia intera, quindi una sconfitta: 62 seggi in meno rispetto al 2011. Se Sparta piange Atene non ride, i socialisti del PSOE hanno avuto il peggior risultato elettorale della loro storia postfranchista, ma sempre meglio di quanto poteva succedere con il sorpasso di Podemos ed anche di Ciudadanos, come si è verificato in alcune circoscrizioni provinciali. Il segno positivo è che il recupero socialista e di Podemos rispetto alle previsioni non è avvenuto a spese dell’altro , ma aumentando i suffragi e il margine di recupero a sinistra è potenzialmente superiore che a destra. In percentuale PP+ C’s e PSOE+P’s sono equivalenti 42,65% v. 42,67%, ma in seggin grazie al metodo d’Hondt e alla mancanza di recupero nazionale dei resti vincono i conservatori con 163 seggi v. 159, che salgono a 161 con i 2 di UP-IU. Se non ci fosse la questione indipendentista catalana a dividere la sinistra (PSOE-P’s-ERC) questa potrebbe raccogliere 170 seggi, sempre meno degli avversari se la stessa questione non dividesse anche i moderati/conservatori spagnoli membri del PPE (PP-DiL-PNV). L’unica maggioranza stabile possibile in voti e seggi è quella di una Grosse Koalition PP-PSOE, verso la quale preme il pensiero unico renziano veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, che imputano alla mancanza di un sistema elettorale tipo italicum l’ingovernabilità spagnola: con l’italikum la governabilità spagnola sarebbe stata assicurata da un ballottaggio tra PP e PSOE, un bel ritorno all’antico! Il PD è il più grande partito del PSE, ma sia in Francia che in Spagna da buoni consigli per far vincere la destra. Se i socialisti e Podemos fossero in grado di far rivivere le scelte della Repubblica di Largo Caballero,che concesse a baschi e catalani una forte autonomia, la soluzione sarebbe un federalismo, che rafforzi tutte le comunità autonome. Una maggioranza progressista federalista potrebbe contare su 184 seggi, ma dovrebbe essere capace di realizzare le revisioni della legge elettorale e la riforma costituzionale, che in Spagna sarebbe comunque soggetta a referendum confermativo. Tuttavia questa scelta contiene un paradosso, che richiede ai partiti di fare una scommessa, che prescinda dal loro interesse tattico di conservare il loro gruppo dirigente, questo vale per il PSOE, ovvero di aumentare i consensi a spese dei possibili alleati, la tentazione di Podemos. La crisi economica, che non è solo finanziaria e produttiva, ma anche politica, sociale e morale richiede un nuovo modello di società che aumenti le libertà e diminuisca la diseguaglianza: questa è la sfida alla sinistra, che non può essere superata senza una nuova dinamica unitaria. Ai partiti socialisti deve essere richiesto di ritrovare le ragioni della loro diversità dal capitalismo e alle altre componenti della sinistra di superare il settarismo e l’egemonismo. L’anno prossimo cade il centenario della conferenza di Kienthal( 24-30 aprile) sarebbe il caso di far rivivere quello spirito, se non vogliamo rinunciare alla speranza di una società più giusta e libera e senza l’incubo di devastanti cambiamenti ambientali, minaccia alla stessa sopravvivenza dell’umanità.

Franco Astengo: Qualche cifra attorno all'esito delle elezioni spagnole

QUALCHE CIFRA ATTORNO ALL’ESITO DELLE ELEZIONI SPAGNOLE di Franco Astengo I commenti attorno all’esito delle elezioni spagnole svoltesi il 20 Dicembre ruotano attorno a due elementi: il successo dei nuovi soggetti, Podemos e Ciudadanos, presentatisi per la prima volta nell’arena elettorale, il risultato di difficile governabilità al riguardo del quale molti cominciano già a pronosticare sul governo delle “leghe intese” tra popolari e socialisti (così tra l’altro, particolare non secondario, vorrebbe l’Europa). E’ il caso, però, di esaminare in profondità alcuni dati utili a formulare un’ipotesi complessiva al riguardo del riallineamento in atto all’interno di quel sistema politico: ipotesi valida anche per un’utile comparazione con altre situazioni. Il primo elemento di analisi, comune a molte altre osservazioni lette in queste ore, riguarda il sistema elettorale storicamente costruito su due elementi: lo schema bipartitico dominante dal ritorno della democrazia dopo il franchismo, la possibilità di accesso parlamentare alle minoranze regionaliste. L’ingresso di nuovi attori sulla scena ha mandato per aria il primo postulato: non c’è sistema elettorale che regga quando il bipartitismo (come in Francia e in Italia) si rompe. Funziona un sistema come quello tedesco (pur con una soglia di rappresentanza molto alta: sbarramento al 5%) che richiama periodicamente lo schema della “grosse koalition”. Il primo dato da sottolineare, comunque, è quello della crescita complessiva di rappresentatività dell’intero sistema. Nel 2011 a fronte di 35.779.491 aventi diritto i voti validi furono 24.272.671 pari al 67,83%. Nel 2015 gli iscritti nelle liste erano saliti a 36.732.023 e i voti validi sono stati 25.349.824 pari al 69,02%. Un incremento del 1,19%, sicuramente significativo (incremento nel dato di rappresentatività del sistema già fatto segnare dal secondo turno delle Regionali in Francia). I due nuovi soggetti, Podemos e Ciudadanos, sono riusciti così a incidere sull’astensionismo, a differenza di quanto accade in Italia con il Movimento 5 Stelle, che è cresciuto in corrispondenza con un aumento verticale del non – voto. I risultati delle elezioni del 2011 avevano, infatti, assegnato alla somma di voti ottenuti da PP e PSOE la cifra di 17.870.077 voti pari al 49,94% del totale degli aventi diritto. I due partiti avevano così sfiorato, assieme, una “vera” maggioranza assoluta. Nel 2015 PP e PSOE assieme sono calati a 12.746.223 voti (una flessione di oltre 5 milioni di voti) per una percentuale, sempre riferita al totale degli aventi diritto, del 34,70%: nel caso quindi di “larghe intese” tra Popolari e Socialisti gli spagnoli saranno governati da un esecutivo espressione di poco più di 1/3 dell’intero corpo elettorale. Podemos e Ciudadanos hanno sommato 8.689.779 suffragi, pari al 23,65% dell’intero corpo elettorale: recuperando quindi un 8% in più rispetto al calo effettivo di PP e PSOE. Sta qui l’incidenza dei due nuovi soggetti sull’astensionismo: anche se rimane da conteggiare una piccola quota passata, con ogni probabilità, da Unidad Popular e Podemos. Unidad Popular, infatti, è scesa da 1.686.040 voti nel 2011 a 923.105 nel 2015 perdendo anche 9 seggi. Notevole, infine, la crescita dei Repubblicani della Catalogna passati da 256.393 voti (3 seggi) a 599.289 (6 seggi). Stabile il PNV basco (che sta assumendo, dal punto di vista elettorale, caratteristiche simili alla SVP trentino-tirolese): 343.317 voti nel 2011 (5 seggi), 301.585 nel 2015 (6 seggi). Nella sostanza si può affermare che l’ingresso di Podemos e Ciudadanos ha sicuramente reso il sistema politico spagnolo maggiormente rappresentativo di fronte al Paese e che di converso una coalizione tra Popolari e Socialisti si presenterà come più debole rispetto ai precedenti governi. Il tema della legge elettorale appare aperto sia in Spagna, sia in Francia dove il riallineamento sistemico appare evidente di proporzioni notevoli. In Italia, tanto per sviluppare un’annotazione complessiva, si insiste in una previsione di esagerato privilegio della governabilità: si rifletta sul fatto che in una situazione analoga a quella spagnola (ma da noi sarà ancora peggio) i due partiti ammessi al ballottaggio rappresenterebbe circa 1/3 dell’elettorato. Di conseguenza il partito vincente (per il secondo turno in Italia non è prevista alcuna soglia di partecipazione) rappresentando 1/6 dell’elettorato otterrebbe circa il 55% dei seggi alla camera dei deputati (unico ramo del parlamento eletto direttamente, con il Senato composto da rappresentanti regionali eletti all’interno dei Consigli, salvo la bufala della “indicazione degli elettori”). Un elemento di squilibrio istituzionale molto più grave di quello, già non secondario, che si presenterà con la coalizione Popolari – Socialisti in Spagna. Due sistemi politici in difficoltà al riguardo dei quali andrebbe aperta una seria riflessione sul rapporto governabilità/rappresentanza e sulle leggi elettorali: leggi elettorali che non rappresentano un tecnicismo bensì il cuore del sistema politico.

Aldo Penna: Il diabolico perseverare del sistema

di Aldo Penna L’azzeramento delle obbligazioni subordinate di Banca Etruria, Marche, Carife e Carichieti, balzate all’onore delle cronache europee dopo il drammatico suicidio di Luigino D’Angelo, pone il problema delle truffe provenienti dal sistema finanziario e creditizio nel nostro paese che imperversano come una nuova peste, distruggendo risparmi e ricchezza e compromettendo la credibilità delle strutture di erogazione e controllo sul credito. Intanto cancellare le obbligazioni da parte del Consiglio dei Ministri rappresenta un’azione confiscatoria che priva i risparmiatori di qualsiasi possibilità di rivalsa quando invece avrebbero potuto utilizzare il congelamento della restituzione del capitale o la conversione delle vecchie obbligazioni in titoli delle nuove banche nate dal falò delle vanità e infedeltà che le aveva distrutte. Evidentemente giocare con i destini della gente è cosa buona e giusta e, come insegnano i numerosi esempi del passato, la truffa è una pratica diffusa. Sia si tratti di banche oppure grandi aziende che decidono di approvvigionarsi sul mercato finanziario, c’è sempre un parco pecore da tosare o addirittura uccidere per far quadrare conti sempre più ballerini. I casi di Cirio e Parmalat, due colossi alimentari all’apparenza solidi, redditizi e con una lunga tradizione alle spalle lo dimostrano. All’inizio degli anni 2000 la Cirio, fortemente indebitata con le banche e a un passo dal default, emette obbligazioni per un miliardo e 100 milioni di euro, le banche creditrici prima le comprano e poi le rivendono a 35000 ignari risparmiatori. Dall’esame dei conti risulterà che il risparmio raccolto è servito non a finanziare investimenti ma a ripagare le banche dei loro prestiti. E nella lunga querelle giudiziaria seguita, la metà dei risparmiatori non ha avuto restituito nulla, una gran parte dei restanti una cifra decurtata di oltre la metà e solo una piccolissima parte l’intera somma. Le banche in quel caso hanno venduto obbligazioni marce conoscendo esattamente lo stato di salute dell’emittente, rifilando agli inconsapevoli acquirenti un prodotto a perdere. L’art. 1490 c.c. “impone al venditore di garantire che la cosa venduta sia immune dai vizi che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore” questa previsione si applica ai piccoli venditori, le banche non sono venditori qualsiasi e spesso non rispondono del loro operato. Qualche anno dopo lo scherzo si ripete. Di mezzo c’è sempre una grande, anzi enorme azienda e grande, anzi enorme, sarà la dimensione della truffa. Lo schema è lo stesso, si fanno acquisizioni con il denaro preso a prestito, con il cash si foraggiano protettori e amici non disdegnando di corrompere e acquisire benevolenze. Per supplire a bilanci sempre più in difficoltà si ricorre ai prestiti obbligazionari e si lascia che a piazzarli siano le banche, le migliori banche, quelle dentro giganteschi palazzi, così enormi che immaginarli cadere è solo un incubo. Alla fine del gioco la truffa sarà di 14 miliardi di euro, i truffati 150mila. E anche se il risanatore della società, oggi in mano francesi, ha operato con meno crudeltà del governo, convertendo in warrant che scadono tra pochi giorni i diritti vantati dai truffati resta il problema della scarsa vigilanza e dei ripetuti imbrogli ai danni dei risparmiatori. L’elenco dei raggiri è lungo a cominciare, negli anni 80, da Sgarlata e 18000 frodati, passando per Finmatica, Giacomelli Sport, Fantuzzi e altri, tutti casi di bond emessi in accordo con le banche, vendute dalle stesse e poi non pagati alla scadenza per insolvenza della società emittente. Ma quella che una volta si sarebbe chiamata la madre di tutte le truffe ha dimensione internazionale, applicazione locale e, con perfetta italica continuità, nessuno chiamato a pagare. Libor ed Euribor sono le sigle che indicano il tasso interbancario, il tasso di riferimento delle transazioni tra banche fissato da un’agenzia cui affluiscono i tassi dichiarati dalle banche scremate, come nelle gare d’appalto, dai quelli troppo alti o troppo bassi. Ma il sistema bancario non mise troppo tempo a capire, come già gli appaltatori quando vogliono pilotare una gara, che facendo cartello avrebbero potuto manipolare il tasso interbancario e di conseguenza aumentare oltre i valori di mercato i tassi da gravare sulla clientela. Così mentre l’inflazione subiva robuste battute d’arresto, i mutui a tasso variabile contratti nell’idea che la stabilità monetaria e la vigilanza europea li avrebbe mantenuti bassi, viaggiavano in libertà trasformando rate, prima compatibili con i bilanci familiari e il sogno di una casa, in vere tragedie. Da 700 euro mensili a 1200 in un semestre e insolvenze a catena. Case confluite nei patrimoni bancari e soldi e sacrifici di migliaia di risparmiatori svaniti. Quando finalmente i governi si accorsero del semplice marchingegno che stava rovinando milioni di famiglie, corsero ai ripari sanzionando i protagonisti. Barclays, Societé Generale, Deutsche Bank, Hsbc e Rbs subirono multe milionarie ma nessuna misura di questo genere è stata applicata in Italia. Negli Stati Uniti, luogo da cui si sono originate buona parte delle tempeste finanziarie degli ultimi decenni, i protagonisti delle truffe sono perseguiti duramente e seppelliti dentro le carceri sotto montagne di anni di detenzione. Ottocentoquarantacinque anni per Sholam Weiss, condannato per aver sottratto milioni di dollari dai fondi pensione, o Bernard Madoff condannato a 150 anni di carcere per una truffa da 65 miliardi di dollari. I mali italiani che riaffiorano con frequenza suscitando indignazione e pochi rimedi, hanno radici antiche. Intanto la scarsa condanna sociale. Nell’Italia che ammira i furbi, i protagonisti dei raggiri milionari o miliardari spesso la fanno franca e riescono persino a godersi i frutti occultati. Oppure, dopo una pausa dorata, sono di nuovo in sella alla guida di grandi istituti finanziari che solo un cavillo lessicale non include tra le attività inibite. A un contesto di tolleranza e protezione corporativa si è aggiunto un ruolo della politica sempre più sottoposta a voleri esterni che la orientano e condizionano. Immaginare che l’Italia di domani non conosca scandali di questo genere, che i risparmiatori siano protetti, i clienti delle banche non vessati è solo un pio desiderio. Le attuali regole, tutte scritte a favore di una parte e a sfavore di tutte le altre, consentono solo timide e inefficaci difese. L‘unica possibile resistenza è vigilare, non dimenticare e indignarsi fino a costringere i governi di turno a difendere i cittadini e non i grandi interessi. A

domenica 20 dicembre 2015

Non c'è ripresa senza spesa

Non c'è ripresa senza spesa

Una follia in mille commi - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

Una follia in mille commi - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

Franco Astengo: Legge di stabilità

LEGGE DI STABILITA’: UNA FINANZIARIA DA VECCHI TEMPI? Di Franco Astengo “ IL Corriere della Sera” di oggi 20 Dicembre dedica molto spazio all’esposizione dei contenuti e all’analisi critica della nuova legge di stabilità: emergono, in particolare negli articoli di Sergio Rizzo e Dario Di Vico, giudizi negativi molto severi, sui quali vale la pena di riflettere. Si tratta di una Legge di Stabilità (o “Finanziaria”) particolarmente farraginosa: 933 commi, seconda soltanto a una celebre “Finanziaria – omnibus” di qualche anno fa, governo Prodi e maxi-coalizione con 1.364 commi. Erano i tempi dell’Unione con membri del governo “rottamati” per far posto alla “limpida efficienza della governabilità espressa dal governo Renzi”. I titoli dei servizi rendono plasticamente la realtà del provvedimento: “Casinò, calciatori, festival, cori e bande. Le mance di una legge da 35 miliardi. Risorge la vecchia finanziaria delle lobby sotto le ceneri della “Stabilità”. E ancora “Mille commi e un salto nel passato”. Alcuni passaggi fanno pensare: l’evidente elettoralismo dell’abolizione della TASI sull’abitazione principale al di fuori da qualsiasi valutazione di reddito e di ricchezza immobiliare; il paternalismo propagandistico dei 500 euro ai diciottenni; il regalo agli evasori con il tetto dei 3.000 euro; il retrogusto di un passato da dimenticare negli sgravi per le famiglie numerose. Nulla per lo sviluppo, nessun provvedimento di riequilibrio delle diseguaglianze, nessun accenno a una logica di minima redistribuzione. Neppure un minimo di visione di stampo – almeno – socialdemocratico. Molti interventi a pioggia, tanto da far esclamare a qualche sperimentato lobbista travestito da parlamentare rispetto al soddisfacimento di qualche esigenza corporativa : “non c’è nemmeno da aspettare il milleproproghe”. Naturalmente per noi, accaniti propugnatori di una forte opposizione da sinistra non si tratta di sorprese ma di conferme: non c’è traccia di una fuoriuscita dalla logica dell’austerità rivolta da rivolgere alle fasce di maggiore difficoltà sociale:in compenso dalle classiche mance si può ben cucire l’antica “veste d’Arlecchino”. E’ giusto sottolineare questi dati sui quali riflette anche la grande stampa di quella che fu la borghesia italiana: una riflessione quella critica di origine “Corriere della Sera” proveniente da una non condivisibile visione liberista proveniente dalle espressioni del capitalismo italiano sempre più in difficoltà anche nel confronto con l’Europa. Non è stato neppure accolto il suggerimento di una nota aggiuntiva che esplicitasse le scelte. Insomma: una legge di stabilità che fornisce il quadro dell’arretramento culturale che questo governo ha fin qui espresso appieno se pensiamo a certe dichiarazioni del ministro del lavoro o di quella della pubblica istruzione assolutamente dimostrative di una vera e propria “cultura dell’indietro”. L’importante per Renzi e il suo giglio magico rimane il mantenimento del potere così com’è, in una chiave sostanzialmente catto – fascista (ripensiamo, in questo, agli sgravi per le famiglie numerose). Contemporaneamente emerge, su di un versante diverso da quello della legge di Stabilità, l’insieme delle relazioni da “familismo amorale” che regge il rapporto al governo tra i tre esponenti toscani. Quel “familismo amorale” che Banfield individuò come uno dei grandi mali italiani e che forse rappresenta la cifra vera della logica che muove l’azione di questo governo. Colleghiamo ancora a questi elementi quelli provenienti dall’impostazione data alle “deformazioni istituzionali” e all’Italikum e l’assoluta negatività del quadro risulterà completa. Parlare di “vecchi tempi”, quelli dello sfruttamento , della democrazia autoritaria, delle corporazioni, può essere giusto, ma forse addirittura riduttivo: e pensare che c’è chi si ritiene alfiere della “modernità”.

sabato 19 dicembre 2015

Crisi costituzionale in Polonia: Varsavia verso una “democratura”? | VoxEurop.eu: notizie europee, vignette e rassegne stampa

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Sul “teorema del bilancio in pareggio” | Sviluppo Felice

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CONTROMANOVRA IN 89 PROPOSTE - Sbilanciamoci - alternative alla Legge Stabilità - | Sindacalmente

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La rivista il Mulino: Cosa si gioca Renzi alle amministrative

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Risorgimento Socialista | Stati Uniti d’Europa ed Euro

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Policy Network - Mind the gap: Capital and labour in the digital economy

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Le stime del Centro Studi Confindustria sono irrealistiche – Associazione Paolo Sylos Labini

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Sulla Nuova Sinistra Italiana – Associazione Paolo Sylos Labini

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Intervista a Salvatore Biasco | Pandora Pandora

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A che cosa serve l'Spd? - micromega-online - micromega

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L’Italia e la lotta internazionale all’Isis a un mese dalle stragi di Parigi.

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Molto rumore per nulla? Il secondo turno delle regionali francesi

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facciamosinistra!: Nel nome del padre... e della figlia

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venerdì 18 dicembre 2015

Luciano Belli Paci: Pacchi e pacco

Non mi pare, obiettivamente, che allo stato siano emerse su madonna Boschi (o Milady, pensando ai Tre Moschettieri …) robuste ragioni a sostegno di una mozione di sfiducia individuale. Altra cosa, ovviamente, è la sfiducia politica, che dal mio punto di vista è massima ma investe l’intero esecutivo. Però il mio metro di giudizio sulla ministra conta poco, mentre dovrebbe contare moltissimo quello del suo capo, il Caro Leader di Rignano. Di lui in questi giorni sono stati ricordati i giudizi implacabili sulle ministre Cancellieri e Idem, che però qualche colpa individuale l’avevano, anche se quella della seconda era piuttosto veniale. Non mi pare invece che sia stato ricordato – oppure mi è sfuggito – il giudizio espresso su Anna Finocchiaro nel 2013. Renzi: «Mi spiace, ma non può diventare Presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea». Ho la netta sensazione che qualcosa non torni. Se gli uomini della scorta aiutano una signora a sollevare dei pacchi all’Ikea, quella signora non può fare il presidente. Se invece una signora rischia un conflitto di interesse perché il padre ha tirato un pacco ai risparmiatori di Arezzo, quella signora può fare il ministro. Certo, sono pacchi diversi. Ma quale pesa di più ? Luciano Belli Paci

Is There A Future For Europe?

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Greece - the only country in the world paying creditors with blood | Left Foot Forward

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We will defeat austerity we will repeal the Trade Union Bill – Jeremy Corbyn’s speech to the STUC | LabourList

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Lo spirito dell’Europa secondo Stefan Zweig | La nostra storia

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The ABCs of Socialism | Jacobin

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What Happened to the Arab Spring? | Jacobin

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Lo strabismo dell’Europa sugli aiuti alle banche - Il Sole 24 ORE

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Jeremy Corbyn, Hilary e Tony Benn - Il Ponte

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Sinistra, ripartire cambiando strada - Eddyburg.it

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Rapporto CER 2/2015 | CER – Centro Europa Ricerche

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Misery index delle famiglie italiane | CER – Centro Europa Ricerche

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Analisi e intelligence: la nuova sfida che ci viene dal Medio Oriente | Aspenia online

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Why this Spanish electoral campaign is different | Aspenia online

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mercoledì 16 dicembre 2015

Franco Astengo: Analisi filosofica e domanda politica

ANALISI FILOSOFICA E DOMANDA POLITICA di Franco Astengo Far emergere una domanda politica da una rigorosa analisi filosofica: operazione che i più considereranno del tutto desueta e tentata, invece, e con pieno successo da Antonio Peduzzi attraverso la redazione di un suo agile testo “Tesi sulla tesi Undici” (Oèdipus editore, Salerno 2015). In questi tempi di improvvisazioni propagandistiche e di una politica “praticata” (parola grossa comunque) attraverso espressioni di dilagante incultura, l’autore ha affrontato uno dei passaggi fondamentali nell’elaborazione marxiana. Scrive Peduzzi : “La tesi undici, nella sua lampeggiante semplicità dice: “I filosofi finora hanno soltanto, in vari modi, interpretato il mondo. Il problema è però di trasformarlo” (ne scrive Engels in “Ludwig Feurbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca”, 1888, allorché sostiene: Invece ho trovato in un vecchio quaderno di Marx le undici tesi su Feurbach che riproduco in appendice. Sono appunti di un lavoro ulteriore, buttati giù in fretta, non destinati in nessun modo alla pubblicazione, ma di un valore inestimabile, come il primo documento in cui è disposto il germe geniale della nuova concezione del mondo) L’edizione italiana dell’opera di F.Engels è a cura di Palmiro Togliatti, Roma 1950. Il volume di cui oggi ci stiamo occupando si sviluppa tra confutazioni frutto di pura speculazione filosofica, ripresa di temi ormai lontani da molto tempo (addirittura dalle “Tesi del Manifesto del 1970) come la ripresa di Son Rethel sull’intreccio tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e sarà giudicato con ogni probabilità del tutto residuale alle necessità della battaglia politica di oggi. Non è così e queste poche righe cercheranno di dimostrarlo: è piena l’attualità della domanda in conclusione delle tormentate vicende del ‘900 e dei tentativi sviluppatisi in varie forme di inveramento politico dei tanti fraintendimenti marxiani che hanno attraversato il secolo scorso. La richiesta di Marx è ancora più che mai pressante: come si trasforma il mondo? Un mondo nel quale sopraffazione ,ingiustizia, dominio appaiono ancora e sempre più essere la cifra fondamentale di un agire politico sempre più riservato ai potenti, cui non si può rispondere soltanto con evocazioni di tipo millenaristico destinate a costruire entità immateriali e impraticabili qual è la “virtù teologale” della speranza. Sembra uscire da queste pagine la sola risposta possibile “quella della lotta”. Una lotta percorsa, dal punto di vista del suo sostegno teorico, da una visione dell’egemonia del proletariato che riprende l’essenza di un altro pensatore, spesso citato ma mai praticato: Antonio Gramsci. Questo elemento richiama direttamente a una modifica nella relazione fin qui determinata sul piano teorico tra struttura e sovrastruttura: proprio la Tesi undici richiama già, infatti, l’attenzione su di una circostanza grave. La filosofia ha sempre preferito occultare l’essenza dello stato di cose, del mondo piuttosto che puntare al problema. In epoca borghese, scrive Peduzzi, la filosofia non ha dismesso la propria vocazione ancillare e non ha conquistato la terra della libertà. Quindi, sempre riprendendo dal testo, la tesi da sostenere è quella che l’andamento ordinario del mondo non è la stasi (qui la critica a Fukuyama e alle espressioni politologiche della destra americana), ma la trasformazione. Si tratta di decidere una volta per tutte chi debba dirigerne le sorti: in questo lo scontro continua, non esiste definitivo arretramento storico. E’ uscita in questi giorni un’opera (meritoriamente) edita da Carocci sulla Storia del Marxismo. Nell’introduzione Stefano Petrucciani scrive: “Si annida qui un problema, o se vogliamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere. La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse diventare anche un’operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano queste teoria come loro punto di riferimento ideale. Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento statutario di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una “dottrina”, di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di un’ininterrotta ricerca critica”. Cosa intende, allora, Stefano Petrucciani con questo passaggio? Forse l’impossibilità di costruire sulla base della teoria marxista, dopo i fraintendimenti da essa subita nel corso del ‘900, un’organizzazione politica di riferimento? Mai come in questo momento, all’interno di un processo di trasformazione di grande portata nel rapporto tra struttura e sovrastruttura e nell’evidenziarsi della necessità di aggiornamento urgente del riferimento teorico alle “fratture” sociali esistenti, il marxismo deve rappresentare la base di costruzione di un’adeguata organizzazione politica del tutto necessaria per poter portare avanti quei termini di lotta cui Marx pensava, come militante e dirigente politico: un aspetto cui lo stesso Petrucciani nel corso del testo già citato dedica un significativo passaggio. Non si può lasciare questo patrimonio come sfondo teorico per successivi approfondimenti. In questo senso il lavoro curato da Antonio Peduzzi, riscoprendo la critica filosofica alla “Tesi undici” può costituire non soltanto una base di riflessione ma anche uno strumento utile all’indirizzo politico. Si può concludere proprio con le frasi conclusive del testo di cui abbiamo cercato di occuparci in quest’ occasione: “Ma noi fummo spinti nel mondo per metterci controvento, non per farci gonfiare le vele da un vento che è nemico” E ancora: “Il problema non consiste nella rivolta moltitudinaria contro l’Impero. Nessuno stato di cose deve ritenersi indenne da catastrofi finché in un qualche suo angolo vivrà un sia pur minimo punto di contrasto”. Ecco: il nostro compito è ancora quello di organizzare quel “punto di contrasto”.