venerdì 22 dicembre 2017

Capitalismo finanziario, diritti umani e conflitto sociale - micromega-online - micromega

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Intervista a Barba e Pivetti su “La scomparsa della Sinistra in Europa” (con una domanda) | Vocidallestero

Intervista a Barba e Pivetti su “La scomparsa della Sinistra in Europa” (con una domanda) | Vocidallestero

C'è FORSE UN LUOGO OSCURO DOVE NACQUE L'IDEA «MATTEO RENZI»? - GLI STATI GENERALI

C'è FORSE UN LUOGO OSCURO DOVE NACQUE L'IDEA «MATTEO RENZI»? - GLI STATI GENERALI

Franco Astengo: Numeri dalla Catalogna

NUMERI DALLA CATALOGNA di Franco Astengo I numeri che nella notte arrivano dalla Catalogna dimostrano una debole “volatilità elettorale” rispetto ai dati del 2015 ma assumono un forte significato politico se li andiamo ad analizzare andando al cuore della questione che era in gioco in questa tornata: quella dell’indipendenza. Dalle elezioni del 2015 al referendum di ottobre non riconosciuto dal Governo Centrale alla repressione imposta dal governo Rajoy, le cariche della polizia durante lo svolgimento delle operazioni referendarie, l’incarcerazione del gruppo dirigente indipendentista, l’esilio in Belgio del Presidente della Generalitat Puigdemont, tutto sembrava far pensare a un arretramento del blocco sociale e politico che reclamava l’indipendenza del Paese che aveva raccolto 2.044. 038 sì appunto al referendum di fine ottobre. Ne risulta, in sostanza, un Paese seccamente diviso dove il peso della frattura indipendentista rimane intatto nonostante il difficile e complicato percorso fin qui intrapreso (del quale non debbono essere nascoste le contraddizioni). Non è certo questa la sede per delineare scenari futuri: nella notte dei risultati elettorali occorre, prima di tutto, far parlare i dati. Dati dai quali è possibile far emergere due considerazioni preliminari: 1) La crescita della partecipazione al voto,svoltosi del resto in un clima di assoluta tranquillità. Si è verificato infatti un aumento di circa 200.000 presenze al seggio : da 4.130.196 del 2015 a 4.345.363 del 2017. Un dato in controtendenza rispetto a ciò che sta accadendo nel resto d’Europa che permette di notare come la “single issue” sulla quale si è giocata la partita elettorale ha stimolato l’afflusso alle urne; 2) Il secondo dato di grande importanza risiede nel fatto che la somma dei voti dei tre partiti indipendentisti (Junts xCat; Erc – Cat Sì, CUP) supera la somma dei voti favorevoli espressi nel referendum di ottobre. Infatti JuntsxCat ottiene 938.249 voti, Erc – Cat sì 926.602, CUP 192.795 per un totale di 2.057.646 con un incremento rispetto al “SI” di ottobre di 13.606 voti, francamente non pronosticabile in partenza. Dal punto di vista dei soggetti politici in campo è indubbio che l’affermazione più rilevante è quella di Ciudadanos C’s : in due anni il partito civico centrista assolutamente contrario all’indipendenza sale da 736. 364 voti a 1.097. 517, una crescita di 361. 163 suffragi passando da 25 deputati a 37. Ciudadanos approfitta prima di tutto del calo secco del Partito Popolare che scende da 349.193 voti a 183.333 una flessione di 165.86° voti con una perdita di 8 seggi. Lieve incremento anche per il Partito Socialista di Catalogna che sale da 523.283 voti a 600.392 con un incremento di 77.105 suffragi con un seggio in più. Flessione invece per l’area di Podemos catalana: nel 2015 la lista Catalunya Si ques Pot ottenne 523.283 voti mentre nel 2017 la lista CatComù Podemos ne ha avuti 322.220 220 con un calo di 201.063 suffragi e la perdita di 3 seggi: è probabile che la lista parzialmente intitolata all’Alcadesa di Barcellona abbia pagato un prezzo a una ricerca di posizione mediana proprio sul tema dell’indipendenza. Sul fronte indipendentista è necessario far notare che nel 2015 si presentò una sola lista Junts pel Sì che ottenne 1.628.714 voti e 62 deputati: nel 2017 le liste presenti erano due. JuntsxCAT del presidente uscente Puigdemont con 938.249 voti ed ERC – Catsì con 926.602 per un totale di 1.846.851 voti, quindi con una somma in crescita di 236.137 suffragi e un incremento di 2 seggi, in quanto JuntsxCat ne ha avuti 34 ed ERC-Catsì 32. La presenza di Esquerra Repubblicana (ERC-Catsì) ha probabilmente inciso – all’interno dell’area indipendentista – sulla flessione della CUP che è scesa da 337.794 voti a 192.795 con una flessione di 144.995 voti e la perdita di 6 deputati: ragione per la quale la parte indipendentista dell’Assemblea si trova con una maggioranza di 70 voti in luogo dei 72 avuti in precedenza. In conclusione però non si può che ribadire il punto di vero esito politico di questa consultazione: il blocco favorevole all’indipendenza della Catalogna ha tenuto nonostante la repressione violenta del governo di Madrid e la crescita di partecipazione elettorale. Il grande tema della Catalogna repubblicana rimane per intero sul tappeto degli equilibri politici non solo in Spagna ma in Europa. Se qualcuno trovasse una differenza di qualche decimale nei dati qui forniti faccio infine presente di aver lavorato sul 99,5% dei voti scrutinati. La sostanza, ed anche di più dal punto di vista aritmetico, è assolutamente valida.

mercoledì 20 dicembre 2017

"Disuguaglianza: che cosa si può fare?" di Anthony Atkinson - Pandora Pandora

"Disuguaglianza: che cosa si può fare?" di Anthony Atkinson - Pandora Pandora

Antistatalisti e ferventi pro mercato, attenti al ridicolo!

Antistatalisti e ferventi pro mercato, attenti al ridicolo!

Franco Astengo: Sfruttamento, salari, innovazione tecnologica

SFRUTTAMENTO, SALARI, INNOVAZIONE TECNOLOGICA (a cura di Franco Astengo) Per il tramite della cortesia sempre dimostrata dal compagno socialista Claudio Bellavita di Torino ho ricevuto un articolo sul tema del rapporto tra salari e innovazione tecnologica e di conseguenza – aggiungo – oggettivamente dello sfruttamento pubblicato da Keynesblog. Di seguito se ne troveranno stralci con un commento conclusivo che riporto in precedenza agli stralci del testo in questione e che mi sono permesso di elaborare. 1) E’ evidente che il tema non è quello dei salari ma quello dello sfruttamento. La forza – lavoro è, infatti, adoperata secondo l’antica logica dell’“esercito di riserva”, oggi agita soprattutto attraverso la leva della precarietà che si accompagna oggettivamente ai bassi salari; 2) In questo senso si comprende benissimo il deficit d’innovazione, assolutamente voluto per tenere al minimo il profilo produttivo accentrato in settori marginali sia rispetto alla necessità di produzione interna sia al riguardo delle esportazioni; 3) Questo quadro è riconducibile alla quasi completa sparizione, in Italia, della produzione nei settori industriali strategici derivante dal fallimento dei processi di privatizzazione seguiti alla liquidazione dell’IRI. Processi di privatizzazione che hanno generato due fattori fondamentali della crisi: l’emergere di un vero e proprio “ritardo tecnologico” e una gigantesca “questione morale”; 4) Si è anche verificato, com’è possibile notare dal testo seguente, un’assoluta carenza d’investimenti. Contemporaneamente alla crisi dell’industria registriamo un’obsolescenza delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti) e l’esplosione della vicenda bancaria che in questo momento tiene banco sul terreno dello scacchiere politico, ma al riguardo della quale quasi nessuno fa notare come stia all’origine del complesso delle difficoltà economiche del Paese; 5) Si è rivelata sbagliata anche la logica dei “distretti” e della “fabbrichetta del Nord – Est” (fenomeno, come stiamo notando, strettamente collegato con la situazione delle banche). Risultato: estrema debolezza della struttura ormai sede di assalto da parte di compagnie di ventura oltre alla mai abbastanza ricordata intensificazione dello sfruttamento; 6) Completamente dismessa la possibilità d’investimenti pubblici in un quadro di programmazione economica (impedita tra l’altro, è bene ricordare, dai Trattati Europei, con la tagliola degli “aiuti di stato”) e di gestione pubblica diretta di alcuni comparti assolutamente strategici (ferrovie,aerei,utilities energetiche, ecc) oltre alla confusione legislativa al livello degli Enti Locali la situazione italiana presenta sostanzialmente tre punti da evidenziare che qui elenchiamo raccogliendo le fila del ragionamento: 1) deficit strutturale nei settori strategici della produzione industriale e delle infrastrutture; 2) intensificazione dello sfruttamento nel segmento occupato del mercato del lavoro: sfruttamento realizzato attraverso essenzialmente la leva del precariato; 3) assenza d’investimenti pubblici rivolti soprattutto all’innovazione tecnologica, mentre la gestione delle principali aziende italiane appare in forte ritardo (permangono anche, com’è ben noto, forti frizioni nel rapporto tra industria e ambiente, anch’esse derivanti dal deficit d’investimento.). Questo lo stralcio del testo già citato (dal Keynesblog) Secondo la teoria mainstream i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. I lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero invece maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. E' questa la spiegazione dei bassi salari italiani? No, secondo gli autori di questo articolo, Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito) . All’interno del dibattito sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante, ripresa su Econopoly in un recente articolo firmato da Luca Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. Si consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla tecnologia. Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori. Mantenendo per un attimo da parte quest’ultimo aspetto che tuttavia è dirimente nello spiegare perché la tesi di una polarizzazione (e quindi diseguaglianza) indotta dalla tecnologia non sia in grado di spiegare la situazione italiana, è opportuno guardare ai fatti che caratterizzano il mondo del lavoro italiano. Rimanendo quindi ancorati alla teoria mainstream, ci si chiede se in Italia l’impoverimento dei salari sia dovuto alla polarizzazione e/o un’insufficienza di capitale umano capace di soddisfare le richieste tecnologiche del mercato. Partendo dal rapporto Eurofound (2016) sulla struttura lavorativa dei Paesi europei, si nota che l’Italia, insieme all’Ungheria è il paese in cui la polarizzazione tra lavori qualificati e non qualificati non ha luogo. Tra il 2011 e il 2015 è un vero e proprio declassamento generalizzato: ad aumentare sono soltanto il numero di posizioni lavorative peggio retribuite (quelle appartenenti al primo quintile delle retribuzioni). Inoltre, si legge nello stesso rapporto, la struttura occupazionale italiana si caratterizza per maggiori livelli di lavoro fisico e per un uso inferiore delle ICT, soprattutto rispetto a paesi come la Francia e la Germania, ma non solo. Quindi, non è l’offerta di lavoro a non essere adeguata, ma la struttura produttiva in costante impoverimento. In altre parole, più che un problema di offerta di lavoro l’Italia attraversa un problema di quantità e qualità di domanda di lavoro. Quanto alla quantità, è sufficiente ricordare che il monte ore lavorato è ancora inferiore ai valori precrisi e che la domanda di lavoro in Italia è tra le più basse in Europa, come riporta l’Eurostat. La scarsa qualità della domanda di lavoro, è dimostrata dall’esodo di lavoratori teoricamente più qualificati (cioè in possesso di una laurea) verso altri paesi, come rileva di recente l’Istat: nel 2016, si legge nel rapporto Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, i laureati italiani che lasciano il Paese, sono quasi 25 mila nel 2016 (+9% sul 2015) anche se tra chi emigra restano più numerosi quelli con un titolo di studio medio - basso (56mila, +11%), a riprova del fatto che scarsa qualità e quantità di domanda di lavoro vanno di pari passo nel nostro Paese. Inoltre, per confermare i dati Eurofound sulla scarsa qualità delle offerte di lavoro in Italia, basta guardare alla distribuzione delle nuove assunzioni nel nostro paese, riportati mensilmente dall’Osservatorio sul precariato Inps, secondo cui circa il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2017 si concentrano nei settori dei servizi a scarsa produttività: commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione. clip_image002 Non stupisce, allora, ritrovare una distanza profonda tra le retribuzioni dei salariati e quelle, in aumento, di dirigenti e lavoratori ai piani alti della piramide, la quale però non rappresenta un cambiamento neutrale nelle forme retributive. Infatti, l’aumento delle seconde è determinato da forme di retribuzione non legate al salario ma appunto ai profitti; non a caso esse avvengono tramite bonus e stock options. Alcuni economisti (vedasi Lazonick e O’Sullivan, 2000; Mason, 2015) inseriscono questo fenomeno all’interno della denominata shareholders revolution, che negli ultimi decenni ha contribuito a spostare le imprese verso un modello in cui vengono privilegiati investimenti speculativi, principalmente orientati al breve periodo, con l’obiettivo di massimizzare i ritorni di un numero ridotto di azionisti. Come contropartita diminuiscono gli investimenti produttivi di lungo periodo, già colpiti dal basso livello di domanda aggregata. Il risultato è una diminuzione della quota di profitti reinvestiti nell’economia “reale”, mentre aumenta quella destinata alla distribuzione di dividendi. Sono allora premiati coloro che lavorano per aumentare i rendimenti finanziari e/o i risparmi negli investimenti reali da drenare nelle attività speculative. Fin qui quindi nulla conferma la teoria della polarizzazione indotta dalla tecnologia. La ricerca della competitività da parte del settore privato sembra passare unicamente dalla riduzione dei salari e del costo del lavoro in generale, più che da investimenti produttivi e innovazione. In Italia, infatti, si investe meno che nel resto d’Europa: gli investimenti in rapporto al PIL sono costantemente al di sotto della media europea, sin dagli inizi degli anni Ottanta. Lo stesso vale per la spesa in ricerca e sviluppo: secondo dati Eurostat, in Italia il settore privato destina 207 euro pro capite mentre la media europea è di 427 euro per abitante. Per non parlare degli investimenti in istruzione che languono in basso alla classifica dei paesi europei. A questo si deve aggiungere una retorica che spesso ha enfatizzato le piccole e medie imprese, dimenticandosi che queste imprese sono meno innovative e meno produttive rispetto alle grandi aziende. Occorre poi riflettere su come l’aumento della disuguaglianza del reddito ha effetti a livello macroeconomico. Una società più diseguale implica che una quota sempre minore del reddito è assicurata ai piani alti della piramide. Questa distribuzione del valore aggiunto prodotto, però, ha effetti negativi su crescita economica e occupazione. La maggior propensione al consumo delle classi popolari rispetto a quelle più abbienti fa sì che una distribuzione più egualitaria porterebbe a una più rapida crescita economica, per via dell’effetto moltiplicatore. In questo contesto, le politiche di restrizione della domanda aggregata (meglio conosciute come austerity) non fanno che peggiorare la situazione, determinando crollo degli investimenti pubblici, blocco degli stipendi del settore pubblico e riduzione della spesa sociale (reddito indiretto per le famiglie), minori consumi. Considerati questi aspetti sembra quantomeno improbabile raggiungere aumenti di produttività che invertano il declino italiano. La produttività è, infatti, un fenomeno prociclico nel lungo periodo, legato alla crescita (che non può avvenire in assenza o in stagnazione di domanda aggregata e forti diseguaglianze).

AGENDA AL FUTURO. MOLTE OVVIETÀ E UNA NOVITÀ | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

AGENDA AL FUTURO. MOLTE OVVIETÀ E UNA NOVITÀ | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

martedì 19 dicembre 2017

Paolo Bagnoli: Le regole non scritte

le regole non scritte paolo bagnoli da Non mollare Il motore della campagna elettorale ha già cominciato a surriscaldarsi, ma il vento gelido che avvolge la Repubblica non ha terminato di vorticare. È chiaro che la fase delle possibili alleanze renda il clima nervoso e in esso si riversi il peso di quell’eccesso di personalismo e di protagonismo di cui soffriamo da tanto, troppo, tempo. Ed è altresì naturale che, mentre alcune forze cercano convergenze che sanno tanto di ancore di salvataggio per tornare sui banchi del Parlamento, i soggetti maggiori vogliono evidenziare i prodotti da offrire all’elettorato per attirare quanti più consensi possibili. Tutto è nella fisiologia del passaggio politico il quale denota, però, anche una preoccupante patologia. Infatti, quello che dovrebbe essere il focus del confronto elettorale, vale a dire la visione d’insieme che si offre al Paese, in altri termini la proposta politica, stenta a venire fuori. Il tutti contro tutti non equivale al confronto, anche aspro se tale deve essere, ma l’insieme è segmentato in dichiarazioni, apparizioni, richieste, ostracismi, accuse velenose, comportamenti non ortodossi e tanto, tanto altro di strampalato come l’annuncio del candidato premier 5Stelle il quale non perde occasione per testimoniare della propria improvvisazione quando afferma che, se la parte che rappresenta risulterà la più votata loro chiederanno al Presidente della Repubblica l’incarico per formare il governo. Forse non guasterebbe all’on. Di Maio sapere che l’incarico lo conferisce il Presidente, certo non prescindendo da una valutazione sui risultati, ma facendo prevalere su tutto la possibilità reale che si possa creare un governo capace di riscuotere la fiducia. E non è assolutamente detto che all’aver ricevuto più voti corrisponda una capacità effettiva di potercela fare nel far nascere il governo. Oltretutto la campagna elettorale dei 5Stelle stereotipata nell’immagine del rinnovamento totale di tutto si svolge modulata nel nulla e nell’improvvisazione cotta e mangiata: l’ultima perla, l’uscita sulle pensioni. Con loro al potere ci sono buone ragioni per temere che l’Italia diventerebbe un grande comune di Roma a guida Virginia Raggi! La democrazia e le istituzioni che la incarnano, è cosa risaputa, vivono per leggi scritte – l’osservanza della norma – ma sono autorevoli soprattutto per quelle non scritte, ossia quelle che non troviamo da nessuna parte se non nel galateo civico che anima moralmente una comunità. Quanto emerge dalla Commissione sulle banche lo conferma. Il presidente del Senato Pietro Grasso ha assunto la guida del partito nato dalla scissione bersaniana dal Pd e, mentre ribadiamo che Grasso è sicuramente un uomo delle istituzioni, dalla salutare figura sobria e che ha fatto bene alla testa del Senato, ci è parso stridente con l’autorevolezza e la correttezza che anche gli avversari gli riconoscono, vederlo in una trasmissione televisiva fare una televendita del simbolo del proprio partito: un’inimmaginabile caduta di stile. Va bene che siamo oramai alla fine della legislatura e ciò può essere motivo scusante per comportamenti che rispondano alle leggi non scritte di cui sopra, ma vogliamo ricordare che quando Giuseppe Saragat – allora presidente dell’Assemblea Costituente – divenne il leader del partito nato dalla scissione socialista, egli lasciò l’incarico e gli subentrò Umberto Terracini che, di tale Assemblea, era vicepresidente. E pure Giovanni Spadolini, quando assunse l’incarico di Presidente del Senato, lasciò il giorno stesso gli incarichi di partito. Altro clima e pure altra Italia, pur tuttavia, se anche un uomo come Grasso, che per di più è stato un alto e importante magistrato, dimentica le leggi non scritte, vuol dire che questo brutto clima di dissolvenza dell’etica repubblicana sta sempre più prendendo campo. Ci rendiamo benissimo conto di due fattori: che cosa sarebbe potuto succedere nel procedere alla scelta di un nuovo Presidente e che il mantenimento della carica dà alla nuova formazione una spinta in più per penetrare nell’elettorato del Pd per far perdere a Matteo Renzi la partita elettorale che è, poi, il fine vero della loro campagna elettorale. Vediamo cosa farà Grasso: se sarà veramente un leader politico oppure solo un uomo della situazione. È la crisi di un sistema, è la nebbia di una classe politica che non si pone il problema della ragione politica e delle ragioni della politica. Tanti uomini politici non fanno una classe politica; dovrebbero essersene resi conto in tanti. Infine due parole su Angelino Alfano il quale, nell’impossibilità di tenere in piedi un partito vissuto solo per il 4 nonmollare quindicinale post azionista | 011 | 18 dicembre 2017 _______________________________________________________________________________________ governo e senza presa reale alcuna come hanno dimostrato le elezioni siciliane, ha gettato la spugna tirandosi fuori. Lo ha fatto con dignità: una dimostrazione di stile democristiano. Sicuramente si è trattato di una scelta tanto coraggiosa quanto dolorosa; in ogni modo, una scelta da uomo politico vero. Pur in una specificità di segno diverso rispetto a quella nella quale galleggia il segretario del Pd, quella di Alfano, ci è parsa proprio una lezione per Renzi che, se fosse un politico vero, dopo il risultato referendario avrebbe potuto scegliere tra due strade: lasciare il campo e magari prepararsi a tornare con ben altra statura oppure cercare di andare alle elezioni anticipate e forse, allora, la possibilità di raccogliere una buona porzione dei sì ricevuti al referendum poteva anche realizzarsi. Invece ha inseguito, basandosi sulle primarie del proprio partito, la rivincita non all’insegna della politica bensì della riconquista del governo. Che gli bastino a corte i pasdaran prodiani, i sedicenti socialisti privi anche del figlio di Craxi, talune residualità di quello che fu il partito di Alfano, professionisti del gruppo misto, i centristi di Casini, la Lorenzin e pure Cicchitto per farcela, sembra assai improbabile. Parleranno le urne. Cosa succederà del gruppo di Emma Bonino ancora non è del tutto chiaro. Non più brillante quanto succede nell’altro campo caratterizzato dalla quotidiane baruffe tra Salvini e Berlusconi; baruffe che termineranno appena trovato l’accordo sui collegi. Berlusconi è sicuramente in grande spolvero e recita il copione del 1994 convinto che funzioni e chissà che non abbia ragione. Ma povera Italia quella che vedrebbe nel ritorno al passato la soluzione per il futuro. Insomma un grande annodamento che, da qualunque parte lo si consideri, assomiglia tanto a una paralizzante corsa sul posto. Che dopo un quarto di secolo di transizione annunciata si possa cadere nella paralisi politico-istituzionale della Repubblica provoca più di qualche brivido. Ci auguriamo che il Presidente Mattarella sappia tenere ben saldo il timone della navigazione Italia e che, nei modi e nelle forme proprie della responsabilità che ricopre, imponga un cammino di ricostruzione della politica democratica e dell’etica repubblicana.

venerdì 15 dicembre 2017

Il futuro del lavoro: quanto pesa la demografia | G. Della Zuanna

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Che fine ha fatto la classe media | R. Targetti Lenti

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Stefano Rolando: Le vite diverse e connesse di Giuseppe Di Vittorio e Francesco Saverio Nitti - Linkiesta.it

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Testamento biologico: una grande battaglia vinta - micromega-online - micromega

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Elezioni in Catalogna, tramonta l’indipendenza | Avanti!

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Parti Socialiste: Squeezed Between Macron and Mélenchon

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sabato 9 dicembre 2017

"The desire to help create a better life for all burns within us" – Corbyn speech at UN | LabourList

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Il dilemma socialista | Risorgimento Socialista

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Islanda, la nuova premier è un'ecologista di sinistra. E donna. Ancora una volta | Left

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Mercato del lavoro (rapporto Istat): l’Italia sempre in affanno. Occorre una “nuova proposta” – L'Argine

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UK Labour: Credibly Redefining Left Of Centre

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Joseph Stiglitz: La globalizzazione del malcontento – L'Argine

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UN MILIONE DI OCCUPATI - Sì o No? - statistiche: basta un'ora di lavoro a settimana - | Sindacalmente

UN MILIONE DI OCCUPATI - Sì o No? - statistiche: basta un'ora di lavoro a settimana - | Sindacalmente

giovedì 7 dicembre 2017

Andrea Ermano: Giuliano se n'è ghiuto

Dall'Avvenire dei lavorati Giuliano se n'è ghiuto… di Andrea Ermano «Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato», così Togliatti titolava un articolo apparso su Rinascita, mensile del PCI, nell'agosto 1951 commentando, in modo estremamente polemico, la rottura del grande scrittore con il suo partito. «A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora», aggiunge Togliatti irridente. Chi mai direbbe oggi lo stesso in occasione dell'uscita di scena annunciata da Giuliano Pisapia? Lui lo annunciava da mesi, che non aveva nessuna intenzione di candidarsi. Glielo si leggeva in faccia, che stava impersonando controvoglia una leadership poco confacente al suo carattere. Aveva governato Milano nella migliore tradizione amministrativa della metropoli lombarda. E da circa un anno, dopo la fine del suo mandato, teneva insieme la sinistra a sinistra del PD. Ora, con la nomination di Grasso, papa straniero alla guida di "Liberi e Uguali", si registra un cambio di fase. E Pisapia esce di scena. Con il che il panorama intorno al PD renziano si fa sempre più solitario. E ripropone la questione delle alleanze, questione antica e dimenticata, che la natura stessa di quel partito, fin dal suo atto di fondazione, rimuoveva come "obsoleta". Questione "obsoleta" in forza della vocazione maggioritaria agitata da ex-democristiani ed ex-comunisti nell'amalgama di codesta loro invincible armada. Ma "obsoleta" anche a causa della cornice giuridica statuita da leggi elettorali fatte per manipolare geneticamente talune minoranze elettorali in talaltre maggioranze parlamentari, affinché i cittadini potessero sapere chi governava la loro Repubblica (parlamentare) ancor prima di aver riunito le assemblee di Camera e Senato. La "vocazione maggioritaria", oggi, sta poco bene, dopo la bocciatura della Legge Calderoli operata dalla Consulta su istanza del pool guidato da Felice Besostri, che per altro ha portato a una (fatale) verifica di costituzionalità anche il cosiddetto Italicum. cid:image003.jpg@01D36F80.B1FF4530 Giuliano Pisapia con la presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini Al momento il livello di consenso "democrat" è quello noto, intorno al 25%. "Liberi e Uguali" si attesta al 6%, ma può rafforzarsi di qualche punto grazie all'effetto Grasso. Il Centrodestra assomma un 36%, a fronte del 26% attribuito al M5S. Allo stato attuale, dunque, e non diversamente da precedenti legislature, la guida del Paese dovrà essere affidata a un governo di coalizione. Tutti in qualche modo ne parlano già, persino i grillini. La retorica giornalistica sugli "inciuci" appartiene perciò al bipolarismo che fu. Non ha mai risolto nessun problema in passato e men che meno ne risolverà domani. Renzi sembra, dunque, condannato a quella solitudine nella quale il suo partito si è manovrato con troppa sicumera per troppi anni. E meriterebbe una seconda lezione. Ma il nostro spartiacque politico reale è l'Europa. Perché senza un'Unione forte, le nostre piccole nazioni, come diceva il vecchio Helmut Schmidt, verranno misurate "in Promille", espressione tedesca che significa "in millesimi", ma esprime anche il tasso alcolimetrico alla guida di un veicolo. La coalizione di centrodestra non fornisce alcuna seria garanzia in questo senso, anche se il partito di Berlusconi, riconciliatosi con la Merkel, cresce di qualche punto, attestandosi intorno al 15% dei consensi. Ma Lega e postfascisti (che insieme fanno il 20% circa dei consensi sondati) mantengono posizioni decisamente anti-europee. E lo stesso vale per parte consistente degli elettori grillini. Sicché, in tema d'Europa il paese è spaccato a metà. E ciò avviene in un passaggio cruciale per l'Europa stessa, che ha bisogno assoluto di un effettivo sostegno da parte italiana. Nessuna coesione europea appare possibile senza superare in senso "sociale" l'ideologia ordo-liberista, rivelatasi una mera variante del pensiero unico globale. Ma nessuna stabilità di consenso democratico, indispensabile a compiere questo superamento "sociale", sarà possibile nel nostro paese senza mettere in moto una vera politica d'integrazione capace di governare l'emergenza migratoria in una prospettiva di accoglienza, impegno civile e cooperazione internazionale. C'è poco da scherzare, e chi riveste alte responsabilità istituzionali non può non saperlo. È decisivo che prevalgano in Italia politiche europeiste, attive sul fronte sociale e impegnate nell'accoglienza. E perciò – repetita iuvant – occorre che le forze di centro-sinistra si coalizzino, pur mantenendo le ragioni delle loro differenti realtà, per non disperdere seggi e consensi preziosi in un passaggio d'epoca dai contorni abbastanza "weimariani".

L’appello: superare il Fiscal compact per un nuovo sviluppo europeo | Economia e Politica

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Chi è il portoghese Mário Centeno, il nuovo presidente (socialista) dell’Eurogruppo – L'Argine

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Dal Pacchetto Treu al Jobs Act: venti anni di precarizzazione selvaggia - nuovAtlantide.org

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La legge elettorale, i sistemi politici e 5 cose da non dimenticare @StudiElettorali « gianfrancopasquino

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The Return of Chile’s Left

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mercoledì 6 dicembre 2017

Gerusalemme capitale d'Istraele, la mossa di Trump contro Iran e Russia - Linkiesta.it

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Brexit, il tormentone infinito | G. De Fraja

Brexit, il tormentone infinito | G. De Fraja

Giampaolo Mercanzin: 4 dicembre

Non so perché, non so per cosa, probabilmente i vari maggiorenti sono impegnati esclusivamente su grandi discussioni sulle liste elettorali. Certo è che la data del 4 dicembre mi sembra già dimenticata. Personalmente speravo che si ricordasse invece un fatto così importante successo un anno fa. So benissimo che il risultato del referendum costituzionale non è solo merito nostro, ma di tutto un arco di forze sociali che hanno rutenuto di cassarlo in quanto pericoloso per le libertà collettive ed individuali. Ma non posso trascurare quella grande dimostrazione di volontà popolare che si è espressa ai più alti livelli di partecipazione da quando si è sperimentato il voto in una sola giornata elettorale. Per cui è il POPOLO che ha vinto, non le varie fazioni politiche. E chi dovrebbe farsi carico di ricordarlo, se non noi che l'abbiamo vissuto alla stregua dei nostri "padri costituenti" Di questo, forze di sinistra dovrebbero tener conto, primo perché sono per l'integrità della Costituzione, che nel suo impianto fondamentale è garante delle libertà e dei diritti dei cittadini; secondo perche le garanzie costituzionali servono soprattutto a chi si sente a sinistra in questo Paese, dove l'applicazione della stessa latita da parecchi anni. So che vi sono vari problemi che vanno risolti: Certo il "rosatellum" - che nome schifoso dopo che la legge elettorale del decennio scorso è stata definita dal suo mentore "porcellum" - è un grosso bastone tra le ruote di una democrazia che vuole rimanere tale e migliorarsi So che illustri giuristi, primo dei quali il nostro Felice Carlo Besostri, meritano tutti i nostri elogi ed il nostro sostegno (anche economico perché sacco vuoto non sta in piedi). Ma so anche che una vittoria va gestita e implementata. "A nemico in fuga nti d'oro" ricorda un adagio molto sensato, mi pare però che pochi lo seguano e si industrino per incalzare questo "avversario" fino a ridurlo a più miti consigli. Per citarvi un esempio: come socialisti padovani, associati nel "centro studi Francesco Feltrin" abbiamo prodotto una storia della Resistenza padovana (e limitrofa): La lotta partigiana a Padova e nel suo territortio" edita da CLEUP, iniziata dal defunto Feltrin stesso, segretario per anni del rispettivo Istituto Storico associato alla nostra univesità. L'abbiamo fatto pervicacemente in sua memoria, pur con nulle risorse economiche e tanta volonta di far conoscere quelle duemilatrecentodiciotto (2318) pagine cariche di fatti, di episodi e di nomi. non per noi, ma per i posteri. Stessa cosa speravamo e speriamo per quel referendum popolare di cui , a mio avviso, si dovrebbero riportare i maggiori argomenti ed i maggiori interventi. Spetta a noi, al "popolo di sinistra" sostenere questa propaganda, ma vedo che la grande carica idealistica e se posso anche agonistica, si è di molto assopita. Non sono un ideologo, né uno specialista, né un filosofo, né uno studioso; né un luminare. Sono solo un cittadino che da il proprio impegno a iniziative che ritiene giuste. Non vorrei che, come tante altre battaglie vinte, anche questa finisse nel dimenticatoio, o al massimo nelle ricorrenze. Grazie dell'attenzione. Giampaolo Mercanzin, pres. del Circolo E. Meneghetti di Padova.

Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente | Vocidallestero

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Mario Centeno (Pse) alla guida dell’Eurogruppo | Avanti!

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Germania: chi è Nahles, la vice Schulz che studia da cancelliera - Lettera43.it

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Socialism Won’t Be Built in a Day

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Il futuro dell’Italia: come uscire dalla crisi? | Economia e Politica

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BRAND LOMBARDIA. LA LETTURA "IDENTITARIA"COME ELEMENTO DI PROGRAMMA | Stefano Rolando - ArcipelagoMilano

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martedì 5 dicembre 2017

Canfora: “Dopo il disastro torna qualcosa di sinistra” - nuovAtlantide.org

Canfora: “Dopo il disastro torna qualcosa di sinistra” - nuovAtlantide.org

Rosa Fioravante: Libere e Uguali – L'Argine

Libere e Uguali – L'Argine

Scenari politici e compiti della Sinistra | Risorgimento Socialista

Scenari politici e compiti della Sinistra | Risorgimento Socialista

Paolo Bagnoli: Il vuoto della politica - Il Ponte

Il vuoto della politica - Il Ponte

Paolo Bagnoli: Alla ricerca della sinistra

Da Non Mollare alla ricerca della sinistra paolo bagnoli L’argomento non è certo di quelli nuovi, ma un recente articolo di Massimo Recalcati – “la Repubblica”, 28 novembre 2017 – l’ha riproposto in una fase convulsa e confusionaria della vita politica italiana quale la presente. Di cosa si tratta: della «malattia cronica della sinistra» a dividersi. Lo schema del ragionamento, sia in quanto viene esplicitato e in quanto va letto tra le righe, non è nemmeno esso nuovo. Si parte, infatti, da Filippo Turati e dal suo discorso al Congresso di Livorno del \1921 e si finisce a Matteo Renzi il quale «dichiara che il punto di riferimento ideale della sinistra oggi non è più Gramsci, Togliatti o Berlinguer, ma Obama», invitandoci, così, non «a cancellare il passato ma a incorporarlo per guardare avanti». In tutto il filo di questo ragionamento di Turati e del socialismo si perdono le tracce per ricadere nell’identificazione tra la sinistra e il partitico comunista italiano che, scioltosi e trasformatosi prima in Pds poi in Ds è finito, almeno quel che restava, nel Pd, ossia in un contenitore di centro che ama guardare a destra e non certo a sinistra. Tuttavia, grazie alla rappresentazione di un’Italia bipolare che avrebbe contraddistinto la transizione verso non si sa che cosa, ma che comunque avrebbe segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, per sinistra si è inteso il polo che si contrapponeva a quello di destra incardinato su Silvio Berlusconi. L’antiberlusconismo è stato il collante di una situazione politica, storicamente contingente, ma non ha certo rappresentato lo sviluppo della sinistra come deve essere storicamente concepita dopo il suicidio del Psi e quanto è successo ai comunistipostcomunisti. Tramontata la stella Berlusconi e sorto il Pd ereditando tutto il senso di una stagione basata su un antiberlusconismo senza Berlusconi e fecondata dalle esperienze dell’Ulivo, prima, e dell’Unione poi. Ecco come si è arrivati a definire di sinistra un soggetto che voleva essere di centrosinistra e che, strada facendo, ha perso le presenze di sinistra faticando, nel contempo, a rimanere un soggetto di centro. Ma il Pd con la storia della sinistra che – concordiamo con Recalcati – non può essere ritenuta solo quella del Novecento, non c’entra assolutamente niente. Per cui, chi si pone alla sinistra del Pd, o per scissione o per cammino autonomo, non testimonia di una tragicità ideologica o di una incomprensione politica del momento storico, quanto di uno sbandamento dovuto a ragioni molteplici che possono essere riassunte in due punti: la liquidazione della categoria stessa della sinistra e al fatto che, il mancato approdo del postcomunismo su lidi socialisti, non poteva non implicare modi di salvaguardia dell’identità fondante la quale, per un verso, era stata frustrata dalla vicenda Pd oppure aveva ritenuto di resistere arroccandosi in gruppi più o meno grandi motivati da irrinunciabili motivi ideali. Aggiungiamo che su tutto ha gravato, e continua a gravare, il richiamo tanto costante quanto usurato al “centro-sinistra”; sinceramente, non riusciamo a capire di cosa si tratti, come se una formula fosse sufficiente a spiegare il mondo per cui ci si batte in un progetto rivolto al futuro che vorremmo. Insomma, un pasticcio pieno di furberie e confusionismi animato da soggetti che perseguono ognuno la propria affermazione in ragione del proprio essere fuori di ogni dimensione storica e conseguente necessità ideologica. Ognuno, così, fa il proprio gioco in un contesto che potrebbe essere geograficamente definito di centro-sinistra il quale, per esistere, abbisogna che la forza maggiore, il Pd, voglia non essere il solo a guidare la danza. Ma, siccome Renzi ha scelto il solipsismo politico come propria categoria espressiva, non si riesce a capire di cosa parliamo. Il quadro futuro non dipende né dai bonus caritatevoli della legge di stabilità, né dalla Leopolda che si sforza di essere sempre la solita start-up riuscendoci sempre meno, né dal giusto richiamo al tema del lavoro e alla reintroduzione dell’articolo 18 e di tanto altro che potremmo aggiungere. Esso dipende solo da come si esprimeranno gli italiani tra qualche mese. Tralasciando andare i sondaggi, tutto è possibile anche che sia veramente difficile arrivare a un qualche equilibrio di governo. L’asse rintracciabile della democrazia lo vediamo nella comune volontà di Pd e Fi di sbarrare la strada ai 5Stelle e forse questa è l’unica cosa saggia che emerge dall’arruffato presente. Eugenio Scalfari, novello Montanelli, ha invitato a turarsi il naso e a scegliere, tra i due mali – Berlusconi e 5Stelle – 6 nonmollare quindicinale post azionista | 010 | 04 dicembre 2017 _______________________________________________________________________________________ quello minore, vale a dire il primo. Carlo De Benedetti lo ha severamente bacchettato. Ma perché, per tornare a Recalcati, non vi è unità? Semplicemente si può rispondere perché non c’è una sinistra se pur al plurale, come peraltro è sempre stato in Italia, ma non solo da noi. La verità è che in Italia sono stati recisi tutti, o quasi, i legami con la storicità della medesima e se non si ricrea culturalmente la categoria della stessa non sarà possibile nemmeno sperare in una ripresa politica. La questione non è organizzativa, come se una soluzione tecnica potesse risolvere un problema politico. Anche l’idea dei una modernizzazione astratta basata sulla messa in soffitta del Novecento non regge. Sicuramente non si possono trovare nel secolo passato le ricette per il presente e per il futuro, ma senza la cognizione vivente del passato il presente non ha senso e il futuro è solo una fumosa speranza da evocare nei discorsi, ma fuori dal concreto della storia. I secoli passati continuano a insegnarci che la sinistra e i suoi soggetti si formano e maturano nel conflitto sociale per una società più giusta, libera e democratica; ma oggi di tutto ciò non c’è traccia. Vediamo solo solchi di rabbia e di malessere. I secoli passati ci dicono, ancora, che solo guidandolo si può credere nella possibilità di un vero cambiamento, non subendolo rifugiandosi dietro a quella che potremmo definire l’ideologia del cambiamento tanto cara alla retorica Pd. È sicuramente vero che, se l’opposizione alla destra è divisa, questa è più forte. In Italia, tuttavia, la destra, o per meglio dire le destre, sono forti non tanto per le divisioni della sinistra, ma perché questa non c’è, anche se la si invoca di continuo insieme a un ritornante centro-sinistra. In Europa la sinistra è a larghissima maggioranza rappresentata dai socialisti ed è sotto gli occhi di tutti quale e di quanta portata sia la crisi del socialismo continentale, ma questa sinistra, storicamente più debole rispetto alla destra, è riuscita talora a vincere segnando lunghi cicli politici. Sarebbe ciò avvenuto se il socialismo non avesse avuto il senso di se stesso? Crediamo proprio di no. Massimo Recalcati ha ragione quando scrive: «il frazionamento politico a sinistra del Pd rileva il carattere elitario del narcisismo delle piccole differenze; ciascuno rivendica la propria maggiore coerenza ideale senza tener conto che nel frattempo il mondo è cambiato». Con tutto il rispetto per l’autore l’osservazione è banale. Ci domandiamo: se tale frazionamento non ci fosse, potremmo parlare di “sinistra” così come essa deve essere intesa? E se tale sinistra ci fosse, in che relazione sarebbe con il mondo che è cambiato e quale analisi dovrebbe fare per centrare il cambiamento, dotarsi di una ideologia identitaria e promuovere una ficcante azione politica? Inoltre, problema sul problema: che profilo dovrebbe avere: quello derivante dal postcomunismo, da un aggregato di centro-sinistra oppure quello di un socialismo nuovo che, a nostro avviso, è la via che dovrebbe essere perseguita non solo per una battaglia politica contingente, ma per una riguardante la Storia e, con essa, per la libertà, la democrazia e la giustizia sociale; per cambiare gli assetti di potere nella società italiana. Oltre le parole riportate di Turati a Livorno quando l’unità dei socialisti era fondamentale per difendere la democrazia, sarebbe opportuno anche aggiungere che, per Turati, il socialismo è “rivoluzione sociale”. Questa rimane la ragione e la sfida del socialismo, di quello di ieri, di oggi e di domani; questa rimane la strada maestra della sinistra senza bisogno di ricordare quale sia stato il fallimento del comunismo. Certo che le considerazioni di Recalcati sono da riflettere, ma se si rimane ad esse non si va da nessuna parte. Il titolo dell’articolo è Cara sinistra, per guarire rileggi Turati: una lettura o rilettura, quella di Turati, che, per chi è di sinistra, male non fa; ma certo non basta. Rimaniamo nel secolo scorso e rimandiamo a quanto Carlo Rosselli scrive su Turati nel 1932 quando il padre storico del socialismo italiano muore nell’esilio di Parigi. La lettura di Turati, tuttavia, continua ad avere un senso se la logica dell’intenzione politica è socialista e, con ciò, consustanzialmente di sinistra. Se non lo è, tanto vale leggere un buon romanzo. In Italia, al momento, non c’è né sinistra né intenzione di socialismo; i buoni romanzi, invece, abbondano

Franco Astengo: Vicenda bancaria e corrompimento sistemico

VICENDA BANCARIA E CORROMPIMENTO “SISTEMICO” di Franco Astengo I giornali titolano: “La campagna elettorale sulle Banche”. Forse sarebbe meglio scrivere: “La campagna elettorale e il corrompimento sistemico”. Un corrompimento sistemico che davvero ci permette di osservare un quadro politico, economico, di difesa dei privilegi di un establishment sempre più vorace e in grado di trasformarsi nei ruoli, nelle funzioni, nella logica di scambio del potere. Banca d’Italia, lobbies, partiti più o meno fantasma, finanzieri vari o inventati sui quali emerge l’intoccabilità della BCE e dei suoi massimi dirigenti, banche e banchette curatrici di interessi personali, di gruppo e /o elettorali, questi gli attori della vicenda bancaria della quale stiamo seguendo le vicende di confusa lotta. Si potrebbe però scrivere lo stesso della privatizzazione delle grandi imprese italiane oppure del trasferimento totale alla logica del profitto della sanità, del residuo stato sociale, della scuola, della pseudo – accoglienza ai migranti trasformata in affare per i predoni libici. Una storia, per tornare alla vicenda delle banche, che richiama immediatamente alla necessità di analizzarla usando la categoria della “questione morale” intesa non tanto e solo in senso propriamente morale. Uno spregevole trasformismo utilizzato – sia ben chiaro – ben oltre il classico terreno parlamentare (quello del “discorso di Stradella” tanto per intenderci) ma che percorre l’insieme delle funzioni che collegano privato e pubblico, prima fra tutte quelle che comportano la distribuzione del denaro come fattore di soddisfacimento delle esigenze dell’individualismo competitivo. “Corrompimento sistemico” e “individualismo competitivo”: queste le categorie dominanti della classe che si vorrebbe dirigente in questo Paese. Una classe autoproclamatasi dirigente (vieppiù peraltro priva di consenso) la cui caratteristica dominante è quella di non vedere altra contraddizione oltre a, del proprio interesse personale, al massimo di gruppo o di cordata. Se intendiamo svolgere la similitudine più coerente al riguardo della situazione che stiamo vivendo forse. è stata quella con la società del secondo impero francese e del ruolo che la finanza aveva in quel contesto. Una società dominata da una casta di privilegiati nella quale si sovrappongono e intrecciano affari e politica, anzi dove politica e finanza si sostengono nel malaffare. Lo stesso periodo nel corso del quale, anzi pochi anni dopo, in Italia esplose lo scandalo della Banca Romana. Anche in quel tempo dominava il trasformismo eletto, anzi, a modello istituzionale. Quando si legge che Banca Etruria emetteva bond senza esserne autorizzata, vengono in mente Edmondo Dantes che elabora il trucco del telegrafo ottico per fare insider trading con i titoli d Spagna oppure - appunto - la Banca Romana che fa stampare le banconote false in Inghilterra. Tutto si teneva allora, tutto si tiene adesso: controllori e controllati. Assente da sempre il tanto proclamato “senso dello Stato” prevale il senso dell'egoismo, dell'accumulazione indiscriminata, della conservazione del potere. Una questione, prima di tutto, di cultura politica del cui senso si è ormai smarrito il significato profondo nel grande mare della tranquillità del privilegio e del soffocamento degli altri: senza nessuna pietà, senza nessuna visione di una moralità alternativa. Non ci si azzardi, infine, a sostenere che argomentazioni del tipo di quelle contenute in questo intervento alimentano il qualunquismo perché non aiuterebbero a distinguere: la distinzione c’è ed è ben precisa, quella eterna tra sfruttati e sfruttatori, con buona pace di Menenio Agrippa.

lunedì 4 dicembre 2017

Luciano Belli Paci: La bufala del jobs act

Come ho già avuto occasione di dire altre volte, Pietro Ichino è persona di grande valore. È un sostenitore serio, coerente e preparatissimo di tutte le posizioni liberiste e blairiane che io personalmente avverso. Ma la cosa straordinaria, che lo distingue dai campioni del renzismo, dagli intellettuali cortigiani e dall’informazione di regime, è che porta avanti le sue idee dicendo la verità. Lo ha fatto ancora una volta intervenendo all’Assemblea nazionale di LibertàEguale, tenutasi a Orvieto il 2 e 3 dicembre 2017. Nella sua relazione su “Le ragioni forti del Jobs Act e l’uso corretto delle statistiche” (cfr. www.pietroichino.it/?p=47551 ) ha detto tra l’altro: “ … noi che due anni fa abbiamo progettato, approvato e sostenuto con la maggiore convinzione la riforma del lavoro dobbiamo resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione registratosi da allora, pur molto rilevante, come dimostrazione della bontà di quella legge. Può servire per uscire bene da un talk show, ma è un argomento privo di consistenza: nessuno può dire seriamente se e quale aumento dell’occupazione si sarebbe verificato in Italia, come effetto della incipiente crescita economica, se la riforma non fosse stata fatta. Viceversa, sul fronte delle politiche attive del lavoro – quelle che dovrebbero sostenere sul piano economico e dell’assistenza il passaggio dal vecchio lavoro al nuovo, la riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali concretamente possibili – dobbiamo riconoscere onestamente che il livello dell’implementazione della riforma è ancora molto modesto, per un difetto di riorganizzazione effettiva dell’apparato ministeriale”. Insomma, anche Ichino riconosce lealmente che nessuno può dire sul serio che il Jobs Act abbia prodotto anche un solo posto di lavoro in più. Mi pare peraltro ovvio: gli imprenditori assumono se hanno bisogno di nuovi dipendenti, non perché si cambia a loro favore la regolamentazione del rapporto di lavoro. Orbene, poiché basta accendere la televisione per constatare che a reti unificate vengono messe a tacere tutte le critiche alla bontà delle “riforme” di Renzi perché “insomma, abbiamo prodotto un milione di posti di lavoro”, sarebbe ora di dirlo che questa è al momento la più diffusa tra le fake news. Sarebbe ora di seppellirli sotto le risate, perché sostenere che i posti di lavoro li produce il Jobs Act è esattamente come sostenere che i bambini li porta la cicogna.

venerdì 1 dicembre 2017

Globalisation, migration, rising inequality, populism...

Globalisation, migration, rising inequality, populism...

Lo strano caso della Città Metropolitana di Milano – MuMe

Lo strano caso della Città Metropolitana di Milano – MuMe

Franco Astengo: I dati del Censis

DATI DEL CENSIS : ALCUNE OSSERVAZIONI (a cura di Franco Astengo) Per chi avrà la pazienza di leggere tutto. Di seguito i punti pù significativi contenuti nel rapporto del CENSIS 2017. Di seguito dd ogni punto mi sono permesso alcune osservazioni di merito, senza sviluppare però un discorso complessivo di carattere generale che potrà essere eseguito soltanto con un maggior tempo di approfondimento a disposizione L'Italia si risolleva: corre la produzione industriale, con performance che superano anche quella tedesca. E così nel Rapporto Censis 2017 tornano finalmente i consumi, cresciuti del 4% negli ultimi tre anni, e soprattutto il piacere di consumare: si spende di nuovo in cultura, parrucchieri, prodotti cosmetici e trattamenti di bellezza, pacchetti vacanze (il 10,2% in più nel biennio 2014-2016. "Torna il primato del benessere soggettivo": una svolta positiva, ma non del tutto. Si accentua sempre di più tra chi ha compiuto finalmente il balzo in avanti, liberandosi dalle strettoie della crisi, e una maggioranza rabbiosa che è rimasta indietro. "L'Italia dei rancori", la chiama il Censis: "Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore". Osservazione: il termine “Italia dei rancori” appare assolutamente sbagliato. Si dovrebbe scrivere di “Italia dello sfruttamento” (se la produzione industriale cresce e l’occupazione ristagna in quale altra maniera si può definire il fenomeno?) e “l’Italia del consumismo individualistico” (consumo naturalmente, come negli anni’50 riservato soltanto a determinate categorie sociali), il veleno che fu inoculato al tempo del regno del Bengodi (anni ’80) e della svolta reaganian – tachteriana. Nel frattempo è crollato lo stato sociale e settori come la sanità, la scuola, i trasporti (delegati ai livelli regionali) hanno subito inopinati assalti dalla privatizzazione selvaggia Ascensore sociale sempre più fermo. Un dato preoccupante perché riguarda una parte enorme della popolazione italiana, che guarda con invidia un ascensore sociale irrimediabilmente rotto: l'87,3% degli appartenenti al cento popolare pensa che sia difficile risalire nella scala sociale, una posizione condivisa dall'87,3% del ceto medio e persino dal 71,4% del ceto benestante. Tutti invece pensano che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti. Osservazione: il dato più negativo che emerge da questo punto riguarda la crescita culturale di massa che aveva propiziato, a suo tempo, una maggiore mobilità sociale (oltre all’urbanizzazione dal Sud al Nord, al tempo delle grandi fabbriche). E’ scaduto il “valore dello studio” come fattore di crescita sociale ed anche individuale. Record di immigrati con basso titolo di studio. E in quest'Italia sempre meno coesa, che si guarda in cagnesco, bloccata dalla paura di perdere quel poco o quel molto che ha, cresce un'immigrazione che si candida ogni giorno di più alla marginalizzazione. Nel nostro Paese arrivano gli immigrati più poveri e meno qualificati: a fronte di un dato medio degli extracomunitari con istruzione terziaria in Europa pari al 28,5% (ma con punte del 50,6% nel Regno Unito e del 58,5% in Irlanda), da noi ci si ferma al 14,7%. Nel 2016 su 52.056 nuovi permessi rilasciati dalla Ue a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, appena 1.288 erano per l'Italia, a fronte di 11.675 per i Paesi bassi. Osservazione: questo dato è probabilmente il più negativo tra tutti quelli compresi nell’analisi del CENSIS, perché dimostra la scarsa capacità di attrazione da parte del nostro Paese rispetto alle professioni più qualificate. Del resto è logico essendo assenti possibilità di inserimento. La marginalità dell’Italia richiama specificatamente la marginalità della sua immigrazione. Inoltre da rimarcare la grandissima confusione nell’accoglienza, l’incapacità di riconoscere i vari tipi di migranti, l’accoglienza stessa lasciata a soggetti esclusivamente dediti a trarne profitto immediato, la “lagerizzazione” (da lager) dei migranti nei vari centri: migranti poi dati in pasto ai più diversi meccanismi di sfruttamento immediato. Lavoro, scompaiono le figure intermedie. E siccome il lavoro in Italia si va sempre più "polarizzando", rileva il Censis, tra professioni intellettuali e impieghi non qualificati, è sempre più difficile attrarre immigrati perché si assottigliano posizioni mediane come quelle di operai, artigiani e impiegati. In cinque anni operai e artigiani diminuiscono anzi dell'11%, a fronte di una crescita dell'11,4% delle professioni intellettuali ma anche dell'11,9% delle professioni non qualificate. Vince la gig economy: nell'ultimo anno l'incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci, più 11,4%. Mentre si assottigliano in maniera preoccupante i professionisti: 10 punti persi in meno di dieci anni per gli under 40. Osservazione: questo dato riguarda direttamente la crisi dell’industria e l’assoluta sottovalutazione del fenomeno da parte delle istituzioni impegnate completamente su altri fronti dopo la sbornia di privatizzazioni dei decenni precedenti (privatizzazioni sul cui esito sarebbe bene riflettere, anche dal punto di vista della “questione morale”). Professionisti e artigiani rappresentano figure storicamente legate in prevalenza all’indotto industriale. Certo gli artigiani non possono crescere soltanto nella direzione di fabbricare souvenir per i turisti e nemmeno possono essere considerati artigiani i centurioni fuori dal Colosseo. Questo punto ne richiama un altro assolutamente drammatico: il deficit di innovazione tecnologica nei settori strategici nei quali è stato accumulato un gravissimo ritardo (eufemismo). Deficit di innovazione tecnologica che ha sottratto una presenza significativa nei settori strategici. Crollo di iscritti ai sindacati confederali. La crisi del lavoro si traduce anche in una crisi dei sindacati tradizionali: tra il 2015 e il 2016 Cgil Cisl e Uil hanno subito una contrazione di 180 mila tessere. Su 11,8 milioni di iscritti alle tre sigle, 6,2 milioni sono costituiti da lavoratori attivi (+0,2%) e 5,2 milioni da pensionati (-3,9%). Secondo il Censis, si manifesta quindi "l'esigenza di una maggiore inclusione da parte dei soggetti di rappresentanza verso categorie e segmenti non tradizionalmente coperti dall'azione sindacale". Osservazione: Acclarato che la diminuzione del lavoro fisso e la crescita del precariato hanno portato ad una diminuzione fisiologica negli iscritti al sindacato esiste una ragione ancor più significativa: lo spazio concesso alla contrattazione individuale, la disparità nel trattamento fra i diversi livelli, l’assoluta deficienza nel difendere le condizioni materiali di lavoro, il mancato riconoscimento di determinate nuove categorie di sfruttamento appaiono concause determinanti del fenomeno che non può essere racchiuso soltanto nella diminuzione del numero degli iscritti ma in una ben più rilevante perdita di peso sociali e politico complessivo in un quadro generale di caduta di ruoli dei corpi intermedi. Pochi laureati, sempre più in fuga verso l'estero. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati, con il 26,2% della popolazione di 30-34 anni, una situazione aggravata dalla forte spinta verso l'estero, che assorbe una buona quota di giovani qualificati. Infatti nel 2016 i trasferimenti dei cittadini italiani sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010. Quasi il 50% dei laureati italiani si dice pronto a trasferirsi all'estero anche perché, calcola il Censis, la retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea si aggira intorno a 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali ma arriva a 2.200 euro all'estero. Osservazione: la condizione dell’università italiana è ormai ai minimi termini, la ricerca affidata quasi per intero ai giovani dottorandi non pagati. Sta tutta qui la chiave di questo stato di cose. Baronato, assenza di programmazione e di promozione dei quadri. E sempre meno giovani. Gli over 64 intanto hanno superato i 13,5 milioni, il 22,3% della popolazione, mentre le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. Si è ridotto anche l'apporto delle donne straniere, prezioso negli ultimi anni: nel 2010 il numero di nascite per le extracomunitarie era in media di 2,43, ma nel 2016 è sceso a 1,97, mentre per le italiane è di 1,26 figli per donna. Buona parte delle donne extracomunitarie in Italia per ragioni di lavoro svolge l’attività di badante, categoria per la quale adesso sono entrate in competizione anche disoccupate italiane costringendo le straniere a rientrare. Dal punto di vista della fecondità è evidente che l’acquisizione di usi e costumi del paese ospitante, nel quale emerge sempre più un fenomeno definibile di “secolarizzazione”, riveste una notevole importanza. Il Sud abbandonato. La polarizzazione non è solo tra chi gode dei benefici della ripresa, e chi è rimasto indietro, ma anche tra un Nord Italia e una capitale sempre più attrattivi e un Sud che offre sempre meno e che si sta letteralmente desertificando. Tra il 2012 e il 2017 nell'area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9% e quelli dell'hinterland del 7,2%. A Milano l'incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. Si spopolano invece le grandi città del Sud, a cominciare da Napoli, Palermo e Catania, dove affonda anche il Pil. Ma va male anche alle città intermedie come Torino, Genova e Bari. Fenomeno atavico, mai risolto, affrontato – appunto – con l’emigrazione fin dagli anni’40 e con le “cattedrali nel deserto” e l’assistenzialismo. Mai con un piano generale di industrializzazione del Paese da realizzarsi attraverso un serio e concreto intervento pubblico. Nel vuoto di aspirazioni resiste il mito del "posto fisso". Attento da sempre all'"immaginario collettivo", inteso come "l'insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuale e i percorsi esistenziali di ciascuno", punto di partenza indispensabile per "definire un'agenda sociale condivisa", il Censis trova che ormai i vecchi miti appaiano stinti, ma i nuovi siano privi di forza aggregatrice. Infatti per gli under 30 al primo posto ci sono i social network. Per la media degli italiani resiste invece un mito vecchissimo, davvero duro a morire nonostante i colpi bassi delle leggi Fornero e del Jobs Act: il posto fisso, al primo posto per il 38,5%. E a sopresa, il posto fisso si piazza al secondo posto anche per la fascia più giovani, anche se è quasi a pari merito con lo smartphone. Ci mancherebbe altro che in resistesse quel mito! Rispetto alle ubbie avventuriste seminate nel tempo da una propaganda stupida, della quale il “renzismo” (sogno, speranza) ha rappresentato il conclusivo epigono. In sostanza nel complesso occorre tornare dal privato al pubblico, dall’individuale al collettivo, ritrovando il senso dell’uguaglianza e della solidarietà sociale oltre al concetto di programmazione e di intervento pubblico in economia, nei settori strategici dell’industria e delle infrastrutture, oltre ad un grande sforzo di carattere culturale.

Andrea Ermano: Il bollino rosso

Dall'Avvenire dei lavoratori Il bollino rosso Nei prossimi mesi il bollino rosso che esorta gli esponenti della sinistra italiana ad allearsi ("Basta scemenze!") accompagnerà gli articoli dedicati alla situazione politica nel nostro paese. di Andrea Ermano Ognun sia libero di tifare per chi gli pare, per Corbyn o Macron, per Bersani o Renzi, per Camusso o Barbagallo, e noi pro­pendiamo per i primi che ho detto, ma il rosso Corbyn è rimasto nel Labour anche quando alla guida c'era un leader rosatello. Non ci si poteva attendere da Bersani la stessa britannica virtù? Può darsi di no, ma adesso perché regalare seggi a chi tifa per Trump, Putin o Le Pen? A destra si fregano le mani dalla contentezza nel constatare che la sinistra a sinistra del PD è disposta a tutto o quasi pur di rottamare il Rottamatore, che certo ha le sue gravi responsabilità (e noi, da queste colonne, certo non gliele abbiamo mandate a dire). Però, l'Italia non può entrare in un marasma di comiche populiste, di buone intenzioni, di approssimazioni e d'improvvisazioni. È troppo pericoloso. E il popolo italiano lo sa. Il M5S è stato saggiato in numerose elezioni comunali. Verrà sconfitto. E poi aperto come una scatola di tonno. Il problema, dunque, non sono nemmeno i grillini, ma la spaccatura a sinistra tra filo-grillini e anti-grillini. Se andiamo avanti così, a colpi di sociologismi bersanian-dalemiani, la gente riaccrediterà Forza Italia. Che nei sondaggi già supera la Lega. Dopodiché Berlusconi non potrà tornare alla guida di Palazzo Chigi. Glielo impedisce l'età, oltre che la situazione giudiziaria. Ma ancor di più glielo impediscono i mercati, perché nessun grande fondo d'investimento potrebbe accollarsi a cuor leggero le miliardate di bond italiani, necessarie a reggere il nostro debito pubblico, se alla guida del Paese tornasse il campione olimpionico di barzellette bunga bunga. cid:image006.jpg@01D369CA.A3EE9AB0 La spaccatura a sinistra tra filo-grillini e anti-grillini offre uno spettacolo di rara subalternità. E spalanca un'autostrada al Cav. Non può riconquistare la premiership, dicevamo, ma può riprendersi la maggioranza in Parlamento e stabilire il punto di equilibrio del prossimo governo. Le cancellerie europee non osteggeranno una coalizione di centro-destra in Italia se l'unica alternativa fosse il sansepolcrismo a cinque stelle. Noi preferiamo decisamente un punto di equilibrio tra Renzi e Bersani e Pisapia e Bonino e Grasso e Boldrini. O no? E sbaglia della grossa chi pensa che il popolo della sinistra non tornerà alle urne finché tutti i ponti non saranno distrutti. Magari fossero queste le ragioni del rigetto antipolitico. Basterebbe epurare il re buffo di turno, come in un rito carnascialesco. Ma non funziona così. I leader delle varie formazioni di centro-sinistra devono in fondo solo accordarsi sulle candidature uninominali, che comunque senza un'alleanza resterebbero per lo più fuori dalla loro portata. Per il resto formino pure ciascuno la propria lista con il proprio programma, se ne hanno uno. Il popolo di sinistra apprezzerà lo sforzo.

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