sabato 24 gennaio 2009

vittorio lussana: Craxi

7 giorni di cattivi pensieri 02 / 09Condividi
lunedì 19 gennaio 2009 alle ore 14.50
(articolo tratto dall'omonima rubrica settimanale pubblicata sul sito web di informazione e cultura www.diario21.net)

In una nota stampa uscita in questi giorni, il figlio di Bettino Craxi, Bobo, ha espressamente dichiarato che la sinistra italiana “è stata trucidata”. In occasione del 9° anniversario della morte del grande leader socialista, mi è parso dunque opportuno riproporre una mia personale analisi su un tratto di Storia fondamentale della cultura progressista italiana, al fine di riuscire ad evidenziare due gravissime lacune a cui non sembra possibile porvi rimedio: a) la gravissima assenza storica di una solida formazione socialdemocratica, in grado di garantire all’Italia una più sana alternanza di Governo; b) la pericolosa deriva ‘moralistica’ che rischia di trascinare questo Paese nel più vuoto ed astratto avventurismo politico - culturale.

IL COMPROMESSO STORICO
Negli anni ’60 del secolo scorso, il Partito comunista italiano si era ritrovato nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Palmiro Togliatti (1964). Iniziò dunque ad emergere dall’apparato del partito la figura di Enrico Berlinguer, un leader sassarese che aveva studiato a fondo le caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e democristiano e che li riteneva assai poco dissimili. In effetti, gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati ed intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati. Mentre la Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Pertanto, secondo Berlinguer, Dc e Pci erano due partiti che, tutto sommato, condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base iniziò ad elaborare una propria teoria, esposta per la prima volta nell’opuscolo: “Riflessione dopo i fatti del Cile”, pubblicato nel 1973. Berlinguer rappresentava indubbiamente un uomo ‘nuovo’ nel Pci, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla leva comunista uscita dalla Resistenza e le sue origini culturali familiari erano di derivazione schiettamente laica e liberaldemocratica (il padre era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subito l’influsso di periodici cattolico – comunisti quali “Dibattito politico” di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi e la “Rivista trimestrale” di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. La tesi che egli proponeva era perciò la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non può essere governato con il 51% dei voti o, comunque, con maggioranze composite e ‘risicate’. Occorreva dunque una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il proprio comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – che sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni (ma non le loro identità…) addivenendo ad un ‘compromesso storico’, in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’, per il Pci significava l’archiviazione di molta ‘zavorra ideologica’: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini ed operai. Inoltre, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’ che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Nella sua relazione al Comitato centrale, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “…La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una formula nuova di governo, ma dall’altra vuole essere, già oggi, l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingono i partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa…”. L’ascendenza ‘rodaniana’ di queste considerazioni era più che trasparente: il disegno era quello di una società ‘organica’, in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro e la stessa ‘lotta di classe’.

DISSACRAZIONE DI UN OSSIMORO
Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente politico ha commesso un errore così grave come quello che il Pci fece allorquando adottò il compromesso storico come propria ‘linea’ politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, allorquando la Camera dei Deputati incoronò Giulio Andreotti Presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano, benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un Sottosegretario alle Poste e costretto, per propria scelta deliberata, tra le ‘spire immobiliste’ della Dc, il Pci tentò allora di dare la ‘stura’ ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto di un fare realistico, la benché minima idea di come quelle idee potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976 – 1979 fu a dir poco miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente accade quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Le misure economiche di austerità, ad esempio, non riuscirono ad andare oltre ad una riduzione delle festività civili e religiose, ad una parziale disincentivazione della scala mobile e ad un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Il tutto in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), un gravissimo indebitamento dello Stato e una inflazione in ‘caduta libera’ (nel 1980 si arrivò a sfiorare il 22%). Il che si traduceva in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non fu quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite hanno guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una ‘consonanza’ quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ dei principali partiti italiani componenti il cosiddetto ‘arco costituzionale’ e le domande ‘sociali’ che questi esprimevano, nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale, nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, i nostri partiti hanno sempre posseduto un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’ rispetto alla frugale ‘anima idealista’ che sostengono di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Affermando ciò, non intendo sostenere che i cosiddetti governi di ‘solidarietà nazionale’ furono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi ‘atavici’ di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la legge n. 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali. Tale norma, infatti, finì col venir disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ è stata brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il manicomio, microcosmo ‘orripilante’ che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali.

UN NUOVO LEADER ALL’ORIZZONTE
Insomma, nel giro di tre anni, il tentativo del Pci finì col naufragare tra un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento ed uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). E sembrava ormai annunciarsi all’orizzonte il solito destino ‘tutto italiano’ di governi deboli e infingardi. Ed invece accadde qualcosa destinato a dare discreti frutti: il Congresso nazionale del Psi, svoltosi all’Hotel Midas di Roma, nell’estate del 1976, decise di ‘defenestrare’, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino e, attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, venne trovato un compromesso sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo Segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni ed aveva ricoperto per molti anni la carica di Vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprese, in quel momento, che la sua carriera politica era stata piuttosto lenta perché egli apparteneva ad una sparuta minoranza interna del Psi, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare ad una propria ‘ferrea’ coerenza ideale.

LA STAGIONE DEL GAROFANO
Alla fine del 1978, il Pci dovette dunque constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. Berlinguer decise allora di passare alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi, un esponente che cominciava a dimostrare tutta la propria ragguardevole ‘statura’. Craxi, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista. E riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente avvenne durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla nostra vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva ed una assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer ebbe paura che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di cambi ‘semifissi’ avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi, perciò, si ritrovò nella fortunata coincidenza di poter approfittare immediatamente di un gravissimo errore di politica economica ed iniziò a ‘svincolarsi’ definitivamente dal Pci. Nel corso di una lunga crisi di governo, in cui Pertini aveva affidato ad Ugo La Malfa l’incarico di riguadagnare il sostegno parlamentare comunista superando l’aut aut di Berlinguer e Pajetta – “O al governo, o all’opposizione” – proprio tramite i ‘buoni uffici’ del Psi, Craxi rifiutò di entrare in un governo di centrosinistra ‘aperto’ al consenso di ‘Botteghe oscure’, rendendo ineludibile il ricorso alle urne. Il 3 giugno 1979 gli italiani si recarono perciò a votare, con i seguenti risultati: lieve flessione democristiana, impercettibile progresso del Psi e, soprattutto, sonora ‘batosta’ per il Pci, il quale perse, in una volta sola, 4 punti in percentuale (circa 1 milione e mezzo di voti in meno). Cos’era successo? Semplicemente, che i ceti medi italiani avevano all’improvviso cambiato ‘bandiera’ ed avevano giudicato ormai concluso un ‘ciclo’ politico ben preciso, avendo compreso la ‘suicida’ involuzione ideologica impressa dai comunisti alla loro linea politica generale.

IL PREAMBOLO
In seguito alla sconfitta comunista del ‘79, la prima dopo quasi due decenni di ‘impetuose avanzate’, la Dc si accinse allora ad ‘affilare i coltelli’ per saldare definitivamente i conti con la fase di solidarietà nazionale e con le accuse comuniste di aver fatto di tutto pur di non mutare nemmeno di una virgola gli equilibri politici del Paese. Dunque, durante il XIV Congresso dello ‘scudocrociato’, che elesse Flaminio Piccoli nuovo Segretario nazionale, Carlo Donat Cattin fece approvare un asciutto ‘preambolo’ che escludeva, per il presente e per il futuro, ogni genere di collaborazione politica con la formazione guidata da Berlinguer. Nel frattempo, Craxi decideva di ‘mandare in soffitta’ l’alternativa democratica ed iniziò a predisporre il progetto di un polo laico - socialista forte, in grado di trattare da pari a pari con la Dc, mentre il nuovo governo, presieduto da Arnaldo Forlani, cercò di arginare l’altissimo tasso di inflazione riducendo drasticamente il volume di circolazione monetaria ed elevando sensibilmente il costo del denaro: la recessione fu istantanea e i comunisti colsero immediatamente l’occasione per rilanciare una campagna di scioperi e di malcontento che non li obbligava a particolari sforzi di fantasia. Persino l’oculato Berlinguer arrivò a patrocinare un lungo sciopero dei dipendenti Fiat di Mirafiori della durata di 35 giorni, una protesta che si concluse in modo disastroso, senza alcuna assunzione di oneri da parte dell’azienda torinese e con una profonda spaccatura tra i lavoratori delle qualifiche più basse, molti dei quali finirono con l’accodarsi alla ‘marcia dei 40 mila’, organizzata dai ‘colletti bianchi’ di Luigi Arisio, che attraversò Torino chiedendo di rientrare in fabbrica.

IL PENTAPARTITO
Tuttavia, anche Forlani durò poco, poiché nel maggio del 1981 scivolò goffamente sullo scandalo ‘P2’, una lista di 935 ‘fratelli massoni’ scoperta a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che costrinse il governo alle dimissioni allorquando venne provato inoppugnabilmente di averla tenuta nascosta al fine di proteggere i nomi ‘scottanti’ che vi figuravano. Sembrava si fosse ormai giunti ad una vera e propria crisi di regime: ‘autosegregatisi’ i comunisti nella loro supponente ‘diversità’, moralmente annichilita la Dc come ‘partito – Stato’, ancora allo stadio dei ‘vagiti’ il polo laico - socialista, il sistema dei partiti italiani barcollò paurosamente. Invece, con un ‘colpo d’ala’ dei suoi, il nostro ‘caro vecchietto’ del Quirinale, Sandro Pertini, riuscì ad evitare il disastro affidando la formazione di un nuovo governo al laico Giovanni Spadolini, il quale, attraverso l’innesto dei liberali sul vecchio tronco del centrosinistra ‘organico’, riuscì a ‘mimetizzare’ un accordo tra le diverse forze politiche tra le ‘pieghe’ di un impegnativo ‘patto sociale’ per il rientro dell’inflazione ed il risanamento economico. Era nato il ‘Pentapartito’, che nel giro di un anno e mezzo riuscì a convogliare le principali energie dell’esecutivo sulla mediazione tra Confindustria e sindacati per il contenimento del costo del lavoro. Sull’onda di una discreta ripresa congiunturale internazionale, si registrò ben presto qualche primo buon effetto, anche se le trattative tra le parti sociali continuavano a ristagnare e, all’interno della nuova composita maggioranza di governo, cominciarono ad acuirsi i dissensi tra alcuni ministri. Infatti, tra i dicasteri delle Finanze e quello del Bilancio iniziarono a confrontarsi due linee ben distinte: quella del socialista Rino Formica, tesa ad adottare una politica economica più ‘espansiva’ al fine di approfittare della insperata situazione favorevole e riuscire ad ‘agganciare’ la ripresa in atto e quella, decisamente più prudente, del democristiano Beniamino Andreatta, il quale non intendeva allentare le briglie del rigore almeno fino a quando non fosse completato il riaggiustamento valutario e non fossero stati eliminati i vari differenziali negativi dell’Italia, in termini di produttività e di efficienza globale, rispetto agli altri Paesi della Cee. L’inconciliabilità tra le due visioni, alla fine, portò alla remissione dell’incarico dello stesso Spadolini.

IL ‘CICLONE’ CRAXI
Finalmente, era giunto il momento di Bettino Craxi: dotato di un fiuto straordinario, il Segretario del Psi si era ormai reso conto di poter sopperire all’inconsistenza del polo laico - socialista puntando su una più che probabile punizione elettorale della Dc, eventualità che lo avrebbe reso assolutamente arbitro della costituzione di qualsiasi governo, accrescendo di molto la ‘rendita di posizione’ ed il potere di ‘interdizione’ della propria formazione politica. Di conseguenza, decise di mandare rapidamente ‘a monte’ un gabinetto di ‘attesa’ del redivivo Fanfani e chiese fiducioso lo scioglimento delle Camere. Puntualmente, dopo qualche sondaggio infruttuoso, Pertini fu costretto a prendere atto della situazione. Ed il 26 giugno 1983, gli italiani tornarono nuovamente a votare. Le previsioni di Craxi si avverarono in pieno: mentre i comunisti, seppur lentamente, continuavano a ‘dissanguarsi’, la Dc perse quasi 6 punti percentuali, nonostante avesse cercato di limitare i danni della sconfitta chiamando alla Segreteria nazionale l’avellinese Ciriaco De Mita e licenziando le ‘pigri cariatidi preamboliste’. Ma con quel ‘bruciante’ 32,9% tra le mani, De Mita non poté far altro che attendere a piè fermo gli eventi. Pertanto, il 4 luglio 1983, Bettino Craxi divenne il primo socialista italiano ad assumere la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. L’uomo, mediamente, non piaceva: sembrava arrogante, cinico, iracondo, inutilmente gnomico nelle sue allocuzioni tutte pause e sentenze. Ma le cose non stavano affatto così. Craxi aveva in mente un ‘piano’ lucidissimo: restituire identità ed immagine al socialismo italiano strappandolo dall’alveo marxista e reinserendolo nella sua più autentica tradizione riformista, mutualista, laburista e umanitaria, avvilita per più di un secolo dalle ‘suggestioni ideologiche’ del socialismo cosiddetto ‘scientifico’. L’adozione del simbolo del garofano in luogo della vecchia falce e martello alludeva ad un revisionismo ideologico analogo a quello intrapreso in Francia da Francois Mitterrand sotto le insegne della ‘rosa’. Mentre il nuovo ‘Vangelo socialista’, un saggio su Proudhon pubblicato da ‘l’Espresso’ nell’estate del 1978, conteneva essenzialmente una polemica antiburocratica, anticollettivista ed antistatalista mirante a recidere ogni ‘cordone ombelicale’ con il comunismo e a chiudere un’epoca in cui i contrasti tra i due partiti operai sembrava dovessero essere solamente di natura pragmatica, topologica o meramente contingente. Progetti altrettanto precisi Craxi aveva in serbo per l’intero sistema politico italiano: unico tra i leader di partito a coltivare un profondo orgoglio nazionale – era un appassionato collezionista di cimeli garibaldini – egli ritenne che la prassi dei ‘veti incrociati’ avesse fatto ‘strame’ di quella governabilità senza la quale ogni società moderna è destinata a deperire. E governabilità, per lui, era sinonimo di ricorso a poteri ‘intrinsecamente sovrani’ rispetto agli ‘unanimismi preventivi’ che derivavano dalle ‘bizantine’ abitudini della nostra democrazia alle consultazioni e ai compromessi extra - istituzionali. Il governo, secondo Craxi, non doveva preoccuparsi di guadagnare consensi, perché di ciò dovevano occuparsene i singoli partiti, ma esercitare un’autorità che, per quanto delegata dal rapporto di fiducia parlamentare, non poteva non essere rigorosamente autonoma. La situazione complessiva di ‘bipartitismo imperfetto’ e la ‘conventio ad excludendum’ che pesava sui comunisti rendeva, inoltre, irrealistiche anche le ‘alternanze’ periodiche, non solo quelle di ‘sistema’. Dunque, l’unica possibilità per un reale affrancamento dell’Italia dall’inamovibilità dell’oligarchia democristiana era quello di sottrarre al partito di piazza del Gesù l’esclusiva del suo potere di coalizione, dando vita a meccanismi di avvicendamento interni al sistema politico nazionale delimitati dalla Costituzione ‘materiale’.

IL GOVERNO CRAXI: NUOVA REALTA’ POLITICA
Craxi rimase a Palazzo Chigi per quattro anni, imprimendo grande efficacia e speditezza all’azione di governo incurante delle accuse di ‘bonapartismo’ che gli piovvero addosso da tutte le parti. Già nell’ottobre del 1983, ignorando le querimonie dei pacifisti, inaugurò il proprio stile ‘decisionista’ dando il proprio assenso all’installazione dei missili ‘Pershing’ e ‘Cruise’ presso le basi militari italiane della Nato, collocazioni che erano già state concertate a Washington e a Bruxelles, al fine di fronteggiare la schiacciante superiorità degli SS 20 sovietici sullo scacchiere strategico continentale. Tuttavia, egli non fu affatto, come lo aveva accusato quel milione di manifestanti pacifisti mobilitati dal Pci in piazza della Repubblica a Roma, un “servo degli americani”. E lo dimostrò nell’ottobre del 1985 durante la cosiddetta ‘notte di Sigonella’, allorquando ordinò ai nostri reparti dell’Esercito di impedire che truppe scelte statunitensi, dopo aver costretto all’atterraggio un aereo che trasportava alcuni palestinesi sospettati di essere coinvolti nel dirottamento del transatlantico “Achille Lauro”, si impadronissero di quel gruppo di appartenenti al Fronte di liberazione della Palestina in pieno territorio italiano. Ma la vera prova del fuoco del decisionismo ‘craxiano’ è legata alle vicende della ‘notte di San Valentino’: nel 1975, Confindustria e sindacati avevano unificato il ‘punto’ dell’indennità integrativa speciale – la cosiddetta ‘scala mobile’ - ad un livello elevatissimo, che aveva determinato un cospicuo aumento del costo del lavoro. Negli anni successivi, ogni proposta di ‘raffreddamento’, ad onta delle ristrettezze economiche, era stata ostinatamente respinta dalle organizzazioni dei lavoratori, fino a che la Confindustria, nel 1982, si vide costretta a comunicare agli interessati l’immediata disdetta di quell’accordo. Dopo laboriosi ma inconcludenti negoziati tra le parti, il 14 febbraio 1984 Craxi decise di intervenire ‘per imperio’, emanando un decreto che tagliava tre punti di ‘contingenza’. Si trattò di un ‘gesto’ che non si era mai visto: il governo che decretava in materia di contratti! Solo la frazione comunista della Cgil si ribellò: Cisl, Uil e la minoranza socialista della Cgil approvarono e sottoscrissero. I sindacalisti comunisti, inferociti, decisero allora di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum, al fine di abrogare quel decreto. Ma sbagliarono completamente i loro calcoli e, l’anno successivo, quando scattò l’appuntamento referendario, finirono col raccogliere solamente un 45,7% di ‘Sì’ contro un 54,3% di ‘No’. Insomma, il raffreddamento della ‘scala mobile’, insieme alla nuova redditività delle imprese pubbliche, consegnate a manager di notoria esperienza come Romano Prodi e Franco Reviglio, divennero il fattore decisivo di una vera e propria ‘rinascita economica’ dell’Italia negli anni 1983 – 1990, allorquando l’inflazione venne letteralmente ‘abbattuta’ al 4,6%, il Pil iniziò a crescere del 2,5% medio annuo, la borsa di Milano aumentò la propria capitalizzazione di oltre quattro volte e le nostre industrie tessili e meccaniche cominciarono ad esportare a tutto ‘spiano’.

GLI ERRORI DI BETTINO
Gli italiani, insomma, erano tornati all’opulenza dei primi anni ’60. Ma le ‘tare di fondo’ del nostro tessuto economico non erano state eliminate. La principale di queste è sempre stata rappresentata dal nostro indebitamento pubblico, connesso a molti ‘sprechi clientelari’ e ad un forte eccesso di spesa pensionistica e sanitaria, il cui volume, nel 1989, ha finito col superare l’ammontare dell’intero nostro prodotto interno lordo. L’ascesa così vertiginosa del debito, a onor del vero, è dipesa soprattutto in seguito al divorzio avvenuto tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, cioè dall’indisponibilità del nostro istituto di emissione a finanziare il deficit dell’erario mediante l’immissione in circolazione di nuova carta moneta. Ma tale indisponibilità aveva intensificato la collocazione di titoli presso le banche e i risparmiatori privati, aveva concorso a tenere sotto controllo l’inflazione e, in un certo senso, era riuscita a stabilizzare il quadro politico. Insomma, quando, all’inizio degli anni ’90, Bettino Craxi fu costretto ad uscire di scena in seguito all’esplosione dello scandalo di Tangentopoli, il bilancio politico della sua azione era nettamente positivo. E gli errori più autentici da lui commessi si possono riassumere nelle seguenti ‘disattenzioni’: a) Craxi ha lasciato crescere troppe ‘male erbe’ all’interno del proprio partito, ha cioè ‘disossato’ il Psi soffocando ogni istanza di dibattito e di democrazia interna, al fine di trasformarlo in un congegno di puro rifrangimento della propria immagine; b) per pura sbadataggine ha stretto relazioni ‘pericolose’ e protetto personaggi inqualificabili; c) ha ostentato non curanza per la ‘questione morale’, ovvero per la diffusione a ritmo esponenziale di ruberie, malversazioni, truffe ed estorsioni in cui finirono col rimanere ‘impigliati’ molti suoi compagni di partito, ‘democristianizzati’ dalla facile imitazione di comportamenti illeciti anche per via dell’afflusso, sottoposto a scarsa sorveglianza, di arrampicatori e faccendieri all’interno di un partito divenuto, all’improvviso, vincente; d) ha favorito il fenomeno del ‘rampantismo’, ovvero dell’ambizione disgiunta rispetto ai meriti, scambiandolo per un risvolto fisiologico della modernizzazione italiana in atto. Questi – soprattutto questi – furono gli errori politici di Bettino Craxi. Ma da qui a farne il ‘capro espiatorio’ di un sistema illecito di finanziamento dei partiti ce ne passa, poiché egli si ritrovò semplicemente a gestire un Paese a fronte di una situazione di ‘sistema’ di per sé già avviata da lunghissimi decenni di ‘gestione democristiana’ del potere. Che è quanto egli continuò a sostenere durante gli ultimi anni di esilio in Tunisia, né più e né meno: il metodo di finanziamento illecito utilizzato dai partiti italiani, da tempo immemorabile è sempre stato quello. E ciò era fatto notorio da sempre.

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