lunedì 23 febbraio 2009

Giuliano Garavini: oltre il nichilismo riformista

da aprile on line

Oltre il nichilismo riformista
Giuliano Garavini*, 20 febbraio 2009, 11:29

Dibattito Il riformismo italiano ha condotto solo ad un partito ectoplasma e a una crescente demoralizzazione di chi annaspa nel presente. Un sindacato di lotta, e una sinistra che ricostruisca un orizzonte ideale, dovranno porsi quelle questioni che vanno al di là del problema del solo "capitalismo finanziario" in direzione di una nuova Bretton Woods più democratica



Il riformismo ha una debolezza strutturale, almeno di questi tempi. Il problema è che non avendo un obiettivo di lungo periodo, esso conduce inevitabilmente alla distruzione di chi se ne fa portavoce. E' esistito un riformismo credibile in passato. Esistevano i "socialisti riformisti". Per questo genere di riformisti l'obiettivo era quello di una società in cui i lavoratori divenissero proprietari dei mezzi di produzione e fossero, con ciò, liberati dal bisogno e dall'alienazione. Inquadrato chiaramente questo fine, i riformisti pensavano che per raggiungerlo il mezzo migliore fosse un percorso democratico graduale.
Non sempre hanno avuto ragione, e comunque mai completamente. Questo genere di riformismo aveva delle frecce al suo arco.

Nei passati 30 anni il riformismo ha assunto tutto un altro significato. L'obiettivo verso il quale tendere lo fissavano gli altri: massima libertà per i capitalisti, ridimensionamento del ruolo del pubblico nei servizi, flessibilità del lavoro,
meritocrazia, rilancio dell'identità occidentale e dello sforzo bellico. La destra si formava una sua ideologia aggressiva che ispirava gli obiettivi di lungo periodo. I riformisti cercavano semplicemente di costruire gli argini nei quali imbrigliare il fiume
in piena della destra liberista. A livello europeo ci ha provato Jacques Delors a imbrigliare il Mercato Unico e le pressioni competitive dell'euro con il "dialogo sociale" e i fondi strutturali. I successi sono stati magri.

In alcuni paesi europei lo Stato sociale ha parzialmente tenuto. In Italia si è sviluppata, prima sotterranea e poi sfrontata, una lotta di classe al contrario, nella quale i riformisti non hanno ben capito da che parte stare. Anche l'Ocse, in un documento che si consiglia di stampare(http://www.oecd.org/dataoecd/44/45/41524655.pdf), ha dovuto ammettere che a partire dalla metà degli Ottanta i redditi da lavoro e da capitale sono diventati in Italia il 33
per cento più diseguali, l'aumento più forte della disuguaglianza tra quello di tutti i paesi industrializzati. Nel 2006 i salari italiani erano del 22 per cento inferiori alla media Ocse, e decrescevano in termini reali rispetto all'anno precedente, mentre i redditi manageriali continuavano a crescere: nel 2007 il capo di Mediobanca si era dato 11.039.000 di euro di stipendio, mentre quello di Unicredit 9.440.000. E la guerra di classe continua ancora oggi con la riforma del modello contrattuale, il taglio a servizi come la scuola e l'università, l'espropriazione del Parlamento.

A tutto ciò ha condotto il riformismo italiano: a chiacchiere da salotto, un partito ectoplasma, una crescente demoralizzazione da parte di chi annaspa nel presente. Oggi tutti gli esperti della crisi mirano a rinforzare con i soldi pubblici la posizione delle
banche, delle grandi imprese dell'auto, magari esortandole a produrre un poco più ecologico. Anche qui l'obiettivo strategico è sempre quello della destra: salvare tutto perché tutto rimanga com'è, che lo Stato compri azioni per poi rivenderle subito, magari introducendo nuove norme fantoccio per la sorveglianza che nessuno sarà mai in grado di far applicare. L'Unicredit è in difficoltà perché il 25 per cento della sua attività è impiegata nel mercato dell'Europa dell'Est, sempre meno stabile dopo essere stato per un decennio la Mecca degli investitori che volevano vincere facile. A che serve intervenire
nelle banche con capitali pubblici, se non abbiamo alcuna idea del mondo nel quale esse fanno profitti, se non possiamo orientarne gli investimenti?

Un sindacato di lotta, e una sinistra che ricostruisca un orizzonte ideale, dovranno abbandonare un riformismo straccione e porsi questioni che contano. Il problema è più
vasto del solo "capitalismo finanziario" e riguarda: gli assetti di proprietà delle imprese, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e alla vita di imprese e servizi pubblici, il blocco di ogni processo di privatizzazione nel settore dei servizi, l'eguaglianza salariale fra precari e dipendenti a tempo indeterminato, l'integrazione degli immigrati, la riconversione ecologica, le regole dell'economia internazionale. A questo proposito, Prodi e Tremonti si sono trovati concordi sulla proposta di una Nuova Bretton Woods, se ne parla almeno dalla sua prima crisi nel 1971. E perché no?
A patto che la nuova Bretton Woods non sia uguale alla vecchia, più India, Cina e Brasile, ma una più democratica - che non lasci piccoli paesi periferici alla deriva - e con regole, non solo per spianare i mercati alla libera competizione, ma anche per salvaguardare le culture locali, l'occupazione e le condizioni di vita dei lavoratori, la stabilità dei prezzi delle materie prime.

*www.rete28aprile.it

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