giovedì 12 febbraio 2009

Giuseppe Berta: Fucina nord-ovest

da la stampa

12/2/2009

Fucina nord-ovest





GIUSEPPE BERTA

Ci sono episodi che, a posteriori, possono essere citati a riprova del carattere o, se si vuole, addirittura della predestinazione economica di un territorio. Prima che uno dei più straordinari e geniali avventurieri finanziari della storia, lo scozzese John Law, si recasse in Francia per una speculazione ardita e rovinosa destinata a precipitare il Paese in un baratro, passò nel 1711 da Torino per cercare di convincere il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, della bontà dei suoi piani. John Law voleva introdurre la circolazione cartacea della moneta in luogo di quella metallica allora in corso dovunque. Era convinto, come disse a un amico, di aver trovato la vera pietra filosofale, quella che permetteva di trasformare la carta in oro. Il duca ascoltò il suo progetto, ma lo liquidò con una battuta definitiva: «Non sono abbastanza ricco per rovinarmi con le mie mani». Così il Piemonte scartò dalle origini la possibilità di diventare teatro dell’innovazione e della speculazione finanziaria europea.

Fosse per prudenza subalpina o per calcolo accorto, il Piemonte scelse un’altra via per l’allargamento delle sue basi economiche. Una via che transitava per i circuiti della produzione materiale, di un orgoglioso saper fare costruito sui mestieri e sulle capacità della manifattura. È il modello industriale che si configura in tutta la sua pienezza negli anni del grande sviluppo dopo la seconda guerra mondiale e che fa da scenario alla fondazione dell’Ires nel 1958. Il nuovo istituto per la promozione della ricerca economica e sociale del Piemonte nasce prima dell’ente regionale, che seguirà parecchio dopo, ma già ne anticipa l’orientamento alla programmazione territoriale.

Era, quello, un periodo di attese ottimistiche. Il Piemonte, come l’Italia del Nord, girava a pieno regime, trainato dalla forza e dalla capacità di espansione delle sue imprese, che attiravano massicciamente risorse di lavoro, promettendo livelli crescenti di benessere.

Quella condizione positiva, sostanziata da una diffusa speranza collettiva, durò ancora per un decennio, fino alla fine degli Anni 60. Solo allora, entrando in un decennio di alta conflittualità sociale nell’industria, l’immagine di forza e capacità di progresso alimentato dal sistema delle imprese s’appannò. Per tutto il decennio successivo l’economia piemontese restò imperniata sulle sue imprese maggiori, ma con una crescente incertezza sulle loro strategie di sviluppo. Esse rimanevano al centro del sistema territoriale e ne raccoglievano le domande e le aspettative, ma stentavano a rintracciare un percorso di crescita, frenate da un dimensionamento troppo pesante e da assetti gerarchici troppo estesi.

La svolta si verificò negli Anni 80 quando il sistema industriale parve riacquistare lo smalto perduto. Nei caratteri di fondo l’economia piemontese era inalterata rispetto a un quarto di secolo prima. Del resto, chi avrebbe potuto confutare i successi della sua industria? La Fiat Uno era l’auto più venduta del mondo, il personal computer M24 Olivetti il più diffuso anche in Usa. A New York sulla Quinta Strada le vetrine esponevano gli abiti di Armani e Valentino prodotti da un’altra grande impresa torinese, il Gruppo Finanziario Tessile. Eppure, 25 anni dopo, quel periodo rischia di apparire un’occasione mancata: non si utilizzò la consistenza economica del territorio per farlo evolvere oltre le basi naturali. Permaneva un divario fra l’industria e il sistema dei servizi, mentre la dotazione infrastrutturale accumulava carenze e ritardi. Gli Anni 80 sono stati l’ultima grande stagione industriale del Paese quando ancora non s’erano affacciati i molti, nuovi concorrenti che la globalizzazione avrebbe portato alla ribalta.

Le difficoltà successive sono da imputare anche a un processo di diversificazione che ha tardato troppo a progredire. Oggi l’industria produce servizi non meno di manufatti; anzi, deve operare in misura efficiente gli uni e gli altri, in un contatto costante. Ciò ha diluito la purezza manifatturiera del «modello Piemonte» e ha allargato il numero e la varietà dei soggetti che lo compongono. Non possiamo ancora stimare la nuova configurazione che gli imprimerà la crisi attuale. Possiamo però prevedere che si porrà in un asse di continuità con quell’orientamento all’economia reale che l’ha sempre contraddistinto.

Dalla relazione che l’autore terrà oggi a Torino, al convegno internazionale «Modello Piemonte: sistemi ed economie territoriali a confronto», organizzato per i cinquant’anni dell’Ires.

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